lunedì 24 gennaio 2011
IL LUPO DELLA STEPPA - Herman Hesse - Integrale
Hermann Hesse,
Il lupo della steppa.
Titolo dell'opera originale: Der Steppenwolf.
Traduzione di Ervino Pocar.
Con un'introduzione, una cronologia, una antologia critica e una bibliografia a
cura di Ervino Pocar
Il lupo della steppa (1927), l'opera più audace di Hesse, è un atto
di accusa contro il suo tempo, una critica della decadenza della
civiltà occidentale e svolge, come nota Mittner, "con un procedimento
quasi espressionistico il tema della lotta fra la bestialità e la
santità di un'anima d'eccezione", fra l'istinto e la ragione, la
sensualità e lo spirito. Hesse esemplifica questo contrasto nel
destino del protagonista, Harry Haller, un intellettuale sulla
cinquantina che riconosce nella sua individualità due modi di essere:
da un lato l'uomo, cioè un mondo di pensieri, di sentimenti, di
cultura, dall'altra il "lupo", cioè un mondo di istinti selvaggi. Ma
non è vero che sui due versanti opposti si collochi tutto il bene e
tutto il male, giacché le due anime racchiudono un'infinità di
varianti nelle quali l'uomo nasconde in sé anche la meschinità
piccolo-borghese e il lupo la forza autoliberatrice degli impulsi
primordiali. Il rifiuto di Hesse della civiltà industriale e la
riscoperta dei valori dello spirito hanno consacrato il rinnovato
successo fra i giovani del Lupo della steppa, riletto in una chiave
nuova più che mai attuale.
Introduzione
Il lupo della steppa
Dopo la crisi degli anni 1917-19 che aveva trovato sfogo nel
Demian, Hesse, attraversata la catastrofe della guerra, della quale
nel suo ideale intervento samaritano aveva sentito profondamente
tutto il dolore e lo strazio, si era staccato dal mondo precedente,
pur senza smentire l'atteggiamento scontroso e la sua linea
letteraria tradizionale. Egli stesso se ne rese conto, tant'è vero
che, quando il suo editore, desideroso di pubblicare un volume di
racconti scelti, lo pregò di indicargli quali opere narrative
reputava le più degne di esservi accolte, si limitò a scrivere la
prefazione al volume, per il quale con deliziosa ironia rifiutò di
fare la scelta. Raccontò che si era riletto i suoi precedenti libri
avendo di mira due criteri principali: vedere se nel loro genere le
novelle erano di una certa classe, e stabilire quali fossero meglio
riuscite per la forma e per l'espressione della propria personalità.
Quale fu il risultato di questo esame? Egli si accorse - scrisse -
anzitutto che i suoi lavori non potevano misurarsi con quelli dei
grandissimi maestri da lui venerati, come Cervantes, Dostoevskij,
Swift, Balzac, e nemmeno con grandi scrittori quali Dickens e Keller.
Le sue opere erano diverse, non avevano niente a che fare con quelle
dei maestri, i suoi romanzi non erano romanzi, le sue novelle non
erano novelle: erano lirica travestita, come in genere i romanzi
tedeschi di tutto l'Ottocento. Non era lirica l'Iperione di
Hölderlin, lo Zarathustra di Nietzsche? Nessuno dei suoi racconti era
dunque racconto puro, degno di entrare in una scelta narrativa. Tutti
però erano onesta espressione di un'anima, di un mondo interiore. Ma
anche lì col passare degli anni erano accolti concetti che solo in
seguito si sarebbero chiariti, perché la vita non è stasi, bensì
sviluppo, evoluzione. E quelle pagine non erano più tali da
soddisfare l'incontentabile autore, giacché nessun'opera resiste al
confronto con l'ideale esigenza di chi la scrive. Conclusione: la
scelta non si fece, non ne rimase altro che quella prefazione.
In quegli anni scrisse L'ultima estate di Klingsor, "l'opera
migliore (annotò Lavinia Mazzucchetti) sotto l'aspetto letterario, la
più conclusa ed organica, fra quanto Hesse scrisse dopo la sua
rinascita attraverso l'anonimo". Vi si descrivono le ultime settimane
di vita di un pittore, nelle quali si riflette la crisi dell'artista
moderno. "Siamo nella decadenza, tutti dobbiamo venire generati
un'altra volta... Da noi nella vecchia Europa tutto è morto quel che
era buono e nostro; la nostra bella ragione è divenuta follia, il
nostro denaro carta, le nostre macchine non sanno che sparare ed
esplodere, la nostra arte è suicidio, noi tramontiamo..." Ma da
questa depressione Hesse si sollevò alla beatitudine spirituale di
Siddharta, alla sapiente serenità, all'amore per tutte le cose. E
dopo questa professione di fede nei filosofici equilibri dello
spirito, ecco l'improvvisa e inattesa impennata del Lupo della
steppa.
Questo libro, la più audace opera che Hesse abbia scritto, è un
atto d'accusa contro il suo tempo, una critica della decadenza della
nostra civiltà occidentale, e "svolge (parole di Ladislao Mittner)
con un procedimento quasi espressionistico il tema della lotta fra la
bestialità e la santità di un'anima d'eccezione", fra l'istinto e la
ragione, fra la sensualità e lo spirito.
In una breve e incisiva prefazione il Curatore - che può essere lo
stesso Hesse - ci narra quando e come ebbe occasione di incontrare e
conoscere un tipo strano e originale. Fu un incontro fortuito: sua
zia aveva da affittare una camera e quel tipo venne un giorno a
vederla, gli piacque e la prese, conquistando subito, con le sue
maniere gentili, le simpatie della donna; ma non quelle del nipote,
guardingo e diffidente. Man mano però questi si avvicinò e strinse
amicizia col forestiero. Egli ce lo descrive minuziosamente: alto di
statura, sulla cinquantina (Hesse, nel 1927, era cinquantenne),
capelli un po' brizzolati, occhi fissi, sognanti, assenti, viso
spirituale, insolito, intelligente, più triste che ironico. Egli si
autodefinisce un "lupo della steppa", quello che noi diremmo "un
orso". Con un'occhiata era capace di trapassare "tutta la nostra
epoca, il nostro lavorio affaccendato, la smania di arrivare, la
vanità, il giuoco superficiale di una spiritualità terra terra e
piena di albagia...". Si chiama Harry Haller. Da notare che ha le
stesse iniziali di Hermann Hesse, il quale ricorre al medesimo giuoco
simbolico di Franz Kafka, allorché chiamò K' i protagonisti del
Processo e del Castello o mutando le consonanti diede il nome di
Samsa al principale personaggio della Metamorfosi o, nel manoscritto
del Processo, scrisse F' B' per Fräulein Bürstaer con le iniziali
della fidanzata Felice Bauer, e non per nulla, andando a morire,
Josef K' incontra proprio lei.
Ma prescindendo da queste esteriorità, Haller è veramente Hesse,
quando scrive la Dissertazione sul lupo della steppa che nel libro
figura come opuscolo stampato a parte e inserito fra le pagine del
volume.
L'inquilino infatti, chiaramente colpito da una malattia psichica
che giustifica il suo schivo isolamento, il suo carattere poco
socievole, selvatico, ombroso, irrequieto, un bel giorno
all'improvviso e senza prendere commiato, lascia la città e scompare.
Di lui non si hanno più notizie. Ha lasciato un manoscritto al quale
aveva lavorato durante il suo soggiorno. Dall'insieme risulta che la
sua malattia, più che un'ubbia personale, è il male del nostro tempo,
la nevrosi della nostra generazione. E le sue Memorie descrivono, per
così dire, un viaggio attraverso l'inferno, attraverso il caos d'un
mondo psichico ottenebrato. Il Curatore è convinto però che Haller
non si è ucciso, perché era risoluto a tener testa al caos e a
soffrire fino in fondo quella sofferenza che la vita umana procura
quando due epoche, due civiltà, due religioni s'intersecano.
Haller, dopo aver lucidamente esposto nella Dissertazione (non per
tutti, ma soltanto "per i pazzi") il suo modo di vedere il mondo,
racconta le tappe del suo itinerario spirituale, alla ricerca di
quella traccia divina che possiamo incontrare in una musica di Händel
o Mozart, in un pensiero di Cartesio o Pascal. Non è facile trovarla
in mezzo alla vita che facciamo, in questo tempo così borghese e
privo di spirito. Per forza si diventa lupi della steppa. Quale
piacere si può andare a cercare nei treni affollati e negli alberghi,
nei caffè zeppi dove si suonano musiche asfissianti, nei bar e nei
teatri di varietà ecc'? Ma non è da evitare del tutto nemmeno il
jazz! S'intende che, confrontata con Bach e Mozart, con la musica
vera, quella musica è una porcheria, ha però il pregio di essere
sincera, ha un po' del negro, un po' dell'americano, è antipatica, ma
preferibile all'odierna musica accademica, è puerilmente fresca e
ingenua.
Così a poco a poco Haller si converte ai piaceri della vita moderna
e ricupera, diremo così, tutto quanto ha trascurato e perduto negli
anni precedenti, quando mirava soltanto alle sublimi altezze dello
spirito. Alla sua conversione contribuisce, con seducente
femminilità, una donna che egli incontra in una trattoria dei
sobborghi dove va ad affogare nel vino le proprie malinconie: è una
donna incolta, ma non tanto, la cortigiana Erminia (Hermine, nome
simbolico anche questo, perché sarebbe il femminile di Hermann), la
quale fa ragionamenti da esperta e intelligente psicologa. Distraendo
Harry dalla sua solitudine, aiutandolo a vincere il dissidio fra il
desiderio e la paura, svegliandolo sulla soglia dell'inferno, essa si
prefigge di giocare con lui alla vita e alla morte. Si darà da fare
per insegnargli a ballare, a ridere, a vivere. E comincia col dargli
lezioni di fox-trot e boston (non di tango perché troppo difficile),
col portarlo ai balli, col mandargli a casa una bellissima ragazza,
espertissima nei giuochi d'amore. Gli fa conoscere Pablo, che nelle
orchestrine suona appassionatamente l'eccitante saxofono e, per gli
amici, ha sempre in riserva un po' di droga, sia cocaina da annusare,
sia oppio da fumare. Di vera musica non s'intende e non gliene
importa nulla. "Se ho in mente tutte le opere di Bach e Haydn e ne so
dire le cose più intelligenti, non ho fatto ancora nulla per nessuno.
Ma se piglio il mio saxofono e suono uno shimmy insinuante, lo shimmy
potrà essere buono o cattivo, ma certo piacerà alla gente, entrerà
loro nelle gambe e nel sangue. Questo conta."
Tra Erminia, grande artista di vita, rispettosa delle piccole cose
e dei piccoli godimenti, ma anche tormentata dalla sofferenza del
vivere, e Haller, raffinatissimo specialista di poesia, musica e
filosofia, si sviluppa un patto: "Voglio farti innamorare di me,"
dice Erminia "e quando sarai innamorato ti impartirò il mio ultimo
ordine, e tu obbedirai: mi ucciderai". Lo fa assistere a una grande
festa mascherata, alla cui conclusione Pablo invita Haller a visitare
il suo "teatro magico" (solo per pazzi). E' un teatrino con
un'infinità di porte, le porte dei palchi; ciascuna ha un cartello
che indica lo spettacolo al quale si assiste da quel palco. Prima
bisogna sbarazzarsi della propria personalità e abbandonare la stolta
realtà. Harry si guarda in un enorme specchio e vede centinaia di
suoi ritratti, a tutte le età, con le più diverse espressioni. Lo
specchio sparisce e Harry si avvia a leggere i vari cartelli. Entra
in un palco e partecipa alla caccia delle automobili, in un altro
rivede tutte le donne che ha amato e ne rivive gli amori, vede
addomesticare il lupo della steppa e, infine, trovando Erminia e
Pablo su un tappeto, nudi e addormentati, esegue l'ultimo ordine di
lei e la uccide con una pugnalata al cuore. Per questo delitto, per
aver pugnalato una fanciulla riflessa con un pugnale riflesso (non
aveva abbandonato la realtà?) è condannato alla pena della vita
eterna: e tutti intorno scoppiano in una fragorosa risata. Mozart gli
si siede accanto, gli dà dello stupido e lo esorta ancora a
comprendere l'umorismo della vita, ad imparare a ridere! Così si
conclude la beffarda satira del mondo contemporaneo.
La traduzione italiana di questo romanzo era progettata per gli
ultimi mesi del 1941, ma lo scoppio della seconda guerra mondiale ne
consigliò il rinvio. Il ministero "competente" non avrebbe certo
lasciato passare frasi come queste: "...ero stato contrario alla
guerra" dice Haller "e, dopo, avevo invitato più volte alla calma,
alla pazienza, al senso di umanità e di critica, difendendomi dalle
escandescenze nazionalistiche che diventavano ogni giorno più
selvagge...".
I giornali scrivevano che "il paese non si sarebbe mai ripreso
finché... la gioventù era educata a sentimentalismi umanitari anziché
alla vendetta armata contro il secolare nemico". Si sa, "loro sono
tutti innocenti: l'imperatore, i generali, i grandi industriali, gli
uomini politici, i giornali: nessuno ha nulla da rimproverarsi,
nessuno ha la minima colpa! Si direbbe che il mondo è un paradiso,
salvo che ci sono una dozzina di uccisi sotto terra...". Perciò il
libro uscì soltanto nel 1946, dopo la seconda guerra, che il poeta
aveva previsto già nel 1927. Infatti, davanti alla casa del
professore di mitologie orientali, Haller fa questa considerazione:
costui "crede nel valore del sapere come tale, dell'accumulare
nozioni, poiché ha fede nel progresso e nell'evoluzione... e non
s'avvede che intorno a lui si sta preparando la prossima guerra...".
E ancora: "Due terzi dei miei concittadini leggono questa razza di
giornali, vengono lavorati ogni giorno, esortati, aizzati, e la fine
di tutto ciò sarà di nuovo la guerra futura che sarà probabilmente
più orrenda di quella passata...".
Cronologia
1877-1903: Hermann Hesse nacque a Calw, nel Wüttemberg, il 2 luglio
1877 o, come dice in un suo schizzo autobiografico, "sul finire
dell'era moderna, poco prima che si iniziasse il ritorno del
medioevo". Il padre di Hesse, Johannes, cittadino russo, era nato in
Estonia; la madre, Marie Gundert, discendente da una famiglia della
regione di Neuchâtel, nell'India orientale, dove il padre, pioniere
di una missione pietista, faceva il predicatore. Nelle famiglie dei
nonni era viva la tradizione pietista che non fu senza influenza
sullo scrittore; il nonno materno (del quale Johannes Hesse scrisse
la biografia dopo esserne stato il collaboratore e aiutante) era un
buon indianista: oltre ad una decina di lingue europee aveva infatti
imparato molti dialetti indiani e scritto varie opere erudite. Hesse
fanciullo visse quindi in un ambiente in cui si coltivavano gli studi
filosofici, si leggeva la Bibbia, si parlava di missioni in India.
Destinato dai genitori allo studio della teologia, Hermann,
insofferente di ogni disciplina ("bastava che udissi il tu devi e
tutto mi si rivoltava dentro"), visse qualche anno a Basilea, da dove
però la famiglia ritornò presto a Calw. Egli frequentò poi la "scuola
di latino" a Göppingen e il seminario evangelico a Maulbronn, antico
convento dei cistercensi, ma dopo pochi mesi scappò. Trascorse una
notte d'inverno vagando per i boschi sotto la neve, e rischiando la
vita. Al mattino fu trovato e salvato.
Così descrisse in seguito le sue impressioni di scuola: "I nostri
maestri, in quella divertente materia che chiamavano storia
universale, ci insegnavano che il mondo è sempre stato governato,
guidato e modificato da uomini che si dettavano la legge da sé e
infrangevano i comandamenti tradizionali; e si affermava che costoro
erano degni di venerazione. Ma era menzogna, come lo era tutto
l'insegnamento, perché se uno di noi, con buona o malvagia
intenzione, si mostrava coraggioso e sia pure soltanto protestava
contro una stupida moda o consuetudine, non era venerato né
raccomandato come modello, ma punito, dileggiato e schiacciato dalla
vile prepotenza degli insegnanti". Da Maulbronn, dopo qualche
tentativo scolastico, Hesse ritornò a Calw e per un anno e mezzo fece
il meccanico in una fabbrica di orologi da campanile.
Diciottenne, si trasferì a Tübingen, non già per frequentare la
famosa Università sulle rive del Neckar, ma per impiegarsi come
commesso in una libreria. Egli odiava la scuola, ma amava la cultura.
Da qualche anno aveva cominciato le sue fatiche di autodidatta, e già
a Calw si era affezionato alla lettura. "Per mia fortuna e delizia"
raccontava "c'era nella casa paterna la grandiosa biblioteca del
nonno, una sala piena di vecchi libri, che tra l'altro conteneva
tutta la letteratura e la filosofia tedesca del secolo XVIII. Tra i
sedici e i vent'anni non solo consumai una grande quantità di carta
per i miei primi tentativi poetici, ma lessi anche metà della
letteratura universale..." Si dedicò allora particolarmente alla
storia dell'arte e allo studio delle lingue e della filosofia, e
lesse Gellert e Goethe, Hamann e il suo diletto Jean Paul.
Dopo aver soggiornato quattro anni a Tübingen, nel 1899 andò a fare
il libraio a Basilea. Intanto uscivano i suoi primi libri di poesie:
Canti romantici (1899) e Un'ora dopo mezzanotte (1899). Nel 1901,
mentre pubblicava gli Scritti postumi e poesie di Hermann Lauscher,
intraprese il suo primo viaggio in Italia che lo portò a Firenze,
Ravenna, Venezia. S'innamorò della Toscana e dell'Umbria al punto che
scrisse un libretto su San Francesco d'Assisi. Nel 1902 pubblicò un
altro libro di poesie, due anni dopo riportò col romanzo Peter
Camenzind il primo grande successo letterario che gli consentì di
abbandonare la professione di libraio. Camenzind ha la passione del
vagabondaggio per prati e rupi, è un genio in fatto di pigrizia, il
contatto con la terra, con le piante e gli animali gli impedisce di
acquisire attitudini sociali.
Sognare, fantasticare e godere la bellezza dell'universo: qui sta
in nuce il futuro Hesse, sognatore e romantico. Egli stesso dice a
proposito del suo personaggio: "Camenzind non vuol percorrere la via
dei molti, ma si ostina a fare la strada propria, non intende di
aggregarsi e adattarsi, ma vuol rispecchiare la vita e il mondo del
proprio cuore.
Non è fatto per la vita collettiva; è il re solitario di un regno
da lui stesso creato". Così il primo e più assillante problema dello
scrittore non fu mai lo Stato, la società, la Chiesa, ma l'uomo
singolo, la personalità, l'individuo autonomo.
1904-1919: Sposata nel 1904 Maria Bernoulli, discendente dalla nota
famiglia di scienziati basilesi, Hesse andò a stabilirsi nel
villaggio di Gaienhofen sul lago di Costanza. I coniugi abitarono tre
anni in una modesta casa di contadini, poi se ne costruirono una
propria con giardino e frutteto e con una magnifica vista sul lago e
sui monti. Hesse collaborava al "Simplicissimus", alla "Neue
Rundschau" e ad altre riviste, andava in giro a tener conferenze,
intraprese altri viaggi in Italia, scrisse e pubblicò racconti (Sotto
la ruota, 1906; Vicini, 1908; Gertrude, 1910) e poesie.
A Gaienhofen nacquero i suoi tre figli (Bruno, Heiner, Martin). Ma
era sempre agitato da una profonda inquietudine che, a 34 anni,
nell'estate 1911, lo spinse a partire per l'India. Nella casa dei
suoi aveva sentito parlare molto di quel paese, e ora voleva forse
conoscere i luoghi dove era nata la madre, o forse voleva risolvere i
suoi tormentosi problemi spirituali con i suggerimenti della sapienza
indiana. Trovò un'India diversa, inquieta, travagliata da conflitti
politici. Alla fine dell'anno, deluso per non aver veduto appagata
alcuna delle sue speranze, ritornò a Gaienhofen. Ma la moglie, buona
pianista (lui suonava il violino), stanca di quella vita, cominciò a
desiderare di vivere in una città dove i rapporti sociali fossero più
aperti. Vendettero allora la casa e si trasferirono (1912) alla
periferia di Berna.
Per quanto Berna fosse bella e confortevole, il soggiorno non fu
felice. Un bambino si ammala, appaiono i sintomi di una psicopatia
della moglie, nuvole scure si addensano all'orizzonte, siamo alla
vigilia della guerra mondiale. La moglie è ricoverata in casa di
cura, i bambini dati a pensione. Hesse rimane solo, la casa è
deserta. Nell'estate del 1914 scoppia la guerra. Incapace di
accendersi di fuoco patriottico e di credere in quell'epoca "eroica",
in quella grosse Zeit che molti intellettuali tedeschi andavano
sbandierando, Hesse nel 1915 si lasciò sfuggire un giorno in pubblico
un'osservazione di rammarico contro coloro che predicavano l'odio ed
esaltavano la grande sciagura. Lanciò poi un appello diretto agli
intellettuali, intitolato "Oh, amici, non questi suoni!" (le prime
parole con le quali Beethoven nella Nona Sinfonia introduce l'Inno
alla gioia di Schiller). Il meno che gli potesse capitare fu di
essere considerato traditore e nemico della patria. Ma, se da una
parte i giornali germanici lo attaccarono e numerosi amici gli
voltarono le spalle, dall'altra questa presa di posizione gli valse
l'amicizia di Romain Rolland, il quale ebbe a dire che Hesse era il
solo poeta tedesco che avesse assunto un atteggiamento veramente
goethiano.
Ecco le sue parole: "Mais de tous les poètes allemand, celui qui a
écrit les paroles les plus sereines, les plus hautes, le seul qui ait
conservé dans cette guerre démoniaque une attitude vraiment
goethéenne, est celui que la Suisse s'honore d'avoir pour hôte et
presque pour fils adoptif: Hermann Hesse. Continuant de vivre à
Berne, a l'abri de la contagion morale, il s'est tenu délibérément à
l'ecart du combat. On se souvient du bel article de la "Neue Zürcher
Zeitung" (3 novembre), reproduit par le "Journal de Genève" (16
nov'): "O Freunde, nicht diese Töne!" où il adjurait les artistes et
les penseurs d'Europe de sauver le peu de paix qui pouvait encore
être sauvé et de ne pas saccager, eux aussi, avec leur plume,
l'avenir européen. Il a écrit, depuis, quelques belles poésies, dont
une, invocation à la Paix (Friede), dans sa simplicité classique, est
un Lied émouvant qui trouvera le chemin de bien des cöurs
oppressés...".
(In "Coenobium", 1915)
Venuto in conflitto con quel mondo che era stato il suo, il poeta,
presso la Legazione germanica di Berna, dedicò le sue cure ai
prigionieri di guerra e redasse un settimanale per i prigionieri
tedeschi in Francia. "Per quasi dieci anni - scrisse - la protesta
contro la guerra, la protesta contro la villana e sanguinaria
stupidità degli uomini, la protesta contro gli intellettuali, specie
quelli che predicavano la guerra, fu per me un dovere, un'amara
necessità."
Nel 1915 scrisse Tre storie della vita di Knulp. E', questi, un
vagabondo che, sfortunato in amore, insegue il volo delle farfalle e
la scia luminosa dei razzi, conscio che tutte le cose belle, oltre a
far piacere, contengono sempre anche qualche tristezza o qualche
angoscia; sdegnando ogni aiuto, si avvia, malato, nel turbinare della
neve e, dopo un'invocazione a Dio, muore assiderato.
Durante la guerra Hesse, per una grave crisi di nervi, fu costretto
a passare qualche tempo nel sanatorio "Sonmatt" presso Lucerna.
Affidato alle cure di un medico analista, si appassionò alla
psicanalisi. Sono di quegli anni Demian (1919) e numerose altre opere
fra cui L'ultima estate di Klingsor; Klein e Wagner. In seguito si
trasferiva definitivamente nel Canton Ticino, nel villaggio di
Montagnola.
1920-1943: Hesse abitò otto anni nella Casa Camuzzi di Montagnola,
finché un amico e ammiratore zurighese, Hans Bodmer, gliene costruì
un'altra, secondo i suoi desideri, e gliela mise a disposizione per
tutta la vita. Nel 1923 acquistò la cittadinanza svizzera. L'anno
dopo sposò la seconda moglie Ruth Wenger, ma fu un matrimonio di
breve durata. Dopo Demian la sua ispirazione si volse a quel mondo
orientale che gli era familiare fin dall'infanzia. Il romanzo
Siddharta (1922), frutto di profondi studi sull'India e sul buddismo,
anticipa quella fusione fra Oriente e Occidente che ritroveremo,
approfondita, nel Giuoco delle perle.
Non è la prima volta, negli annali delle lettere tedesche, che si
riscontra questo accostamento al mondo orientale. L'esempio più
insigne della romantica Sehnsucht dell'Oriente fu Goethe che
dall'Europa irrequieta, agitata dalle rivoluzioni e dalle guerre, si
rifugiava nella lirica persiana e ne traeva ispirazione per il Divano
orientale-occidentale.
Nord und West und Süd zersplittern,Throne bersten, Reiche
zittern,Flüchte du, im reinen OstenPatriarchenluft zu kosten...
"Settentrione e Occidente e Mezzogiorno si sgretolano, troni
crollano, regni tremano: e tu, fuggi a respirare aria di patriarchi
nel puro Oriente!..."
Dopo la guerra mondiale, in un periodo di tensioni, molti spiriti
si rivolgono all'India antica per trovare in quella civiltà nuove
fonti di ispirazione. Hesse aspira a compiere una sintesi culturale e
umana fra Occidente e Oriente. "Io non credo in nessuna cosa così
profondamente, nessuna idea mi è sacra come quella dell'unità, come
l'idea che la totalità del mondo è un'unità divina e che tutto il
dolore, tutto il male consiste in ciò: che noi singoli non ci
sentiamo parte inscindibile del tutto." Queste parole di Hesse
trovano riscontro nella storia di Siddharta, il quale lascia la casa
paterna per apprendere il senso e l'essenza di quel grande mistero
che è l'io; e trova che l'io non è il corpo né il giuoco dei sensi,
ma non è nemmeno il pensiero e la saggezza acquisita: è l'una cosa e
l'altra. E' un'unità, come unità è il fiume "che si trova dovunque in
ogni istante, alle sorgenti e alla foce, alla cascata, al traghetto,
alle rapide, nel mare e in montagna". In che consiste la saggezza?
Qual è la meta della ricerca? Nient'altro che l'arte segreta di
percepire in qualsiasi istante il pensiero dell'unità, il fiume del
divenire, la musica della vita. Così meditando Siddharta tocca la
serenità. A ciò contribuisce anche la conoscenza che di ogni verità è
vero anche il contrario e che soltanto a scopo didattico Gotama
divideva il mondo in sansàra e nirvàna, in illusione e verità, in
sofferenza e liberazione, mentre il mondo è totale e uno, senza
discontinuità fra il dolore e la felicità, fra il bene e il male.
A Montagnola nacque, nel caos di un mondo annebbiato, uno dei libri
più tormentati di Hesse, Il lupo della steppa (pubblicato nel 1927).
Protagonista è, come al solito, lo scrittore, ma questa volta amaro e
più che mai rivelatore.
Nella primavera dello stesso anno cominciò a scrivere Narciso e
Boccadoro (pubblicato nel 1930), il romanzo di un'amicizia, di due
uomini diversi che non si combattono, ma si affrontano, tesi a
realizzare se stessi col superamento del contrasto tra la vita dello
spirito e la vita dei sensi. Nel 1931, mentre si accingeva a occupare
la Casa rossa offertagli da Bodmer, sposò (il terzo matrimonio) Ninon
Dolbin, nata Ausländer, che gli fu devota compagna per tre decenni,
fino alla morte. Archeologa austriaca, specializzata in storia
dell'arte, conosceva a perfezione il greco antico, era stata molte
volte in Grecia e si era dedicata in particolare allo studio della
civiltà minoica. Curò l'edizione degli scritti postumi del marito e
donò manoscritti, lettere, documenti e la biblioteca del poeta al
Museo nazionale Schiller di Marbach. (Morì a 71 anni il 22 settembre
1966.)
Nella nuova casa Hesse scrisse Il pellegrinaggio in Oriente (1932),
un delizioso racconto che descrive un viaggio in Oriente, ma in
luoghi e tempi simbolici. Si tratta di un gruppo di nostalgici
illuminati i quali vanno in pellegrinaggio in un luogo che "non è
soltanto un paese o un'entità geografica, ma la patria e giovinezza
dell'anima, il Dappertutto e l'In-nessun-luogo, l'unificazione di
tutti i tempi. Come le vicende di Boccadoro si svolgono in una non
ben definita Germania cinquecentesca, che però potrebbe essere fuori
del tempo, così qui siamo al di sopra del tempo e dello spazio, in
una realtà spirituale, della quale sono partecipi gli uomini che
nello spirito superano se stessi e costituiscono l'unità del mondo".
Hesse scrisse inoltre l'idillio Ore nell'orto (1936), nuove poesie,
considerazioni sugli eventi politici dopo il 1914, Guerra e pace
(1946), Memorie (1937), pubblicò prose varie (1951), una raccolta di
lettere, scelte tra migliaia (1951 e 1959), saggi, fogli di diario,
e, dopo dieci anni di lavoro, l'opera con la quale toccò il vertice
della sua opera narrativa: Il giuoco delle perle di vetro.
L'equilibrio fra i due poli contrari, dei quali si è parlato in
Narciso e Boccadoro, raggiunge qui la perfezione. Lo scrittore riesce
a conciliare il cuore e la mente, la luce e le tenebre. Vi
contribuiscono il suono e il numero, Mozart e Pitagora, la musica e
la matematica, il buio abisso del sentimento e la vetta luminosa del
pensiero. Imperniata sulla musica, come il Doctor Faustus di Thomas
Mann, l'opera ironizza sulla civiltà contemporanea; ma mentre il
sarcasmo manniano è doloroso e rovente, l'utopia di Hesse è
bonariamente ironica e pacata. E' la biografia di Josef Knecht, servo
dello Spirito, funzionario di un mondo di eruditi e asceti della
cultura, il quale passa di grado in grado fino alla carica suprema
della corporazione "castalia". Di questa fanno parte (tutto ciò è
immaginato in un secolo futuro, intorno al 2400) gruppi di
privilegiati che hanno il compito di tramandare i beni spirituali
creati dalle passate generazioni: la loro attività di studiosi della
matematica e della musica, della filologia e della fisica, si chiama
giuoco delle perle di vetro. L'invenzione di questo giuoco è
attribuita a un teorico della musica, un cittadino di Calw, che a
Colonia costruisce una specie di telaio con alcune dozzine di fili
tesi, sui quali si possono allineare perle di vetro di grandezza,
forma e colore diversi. I fili corrispondono al rigo musicale, le
perle alle note; e così via. Con queste perle si compongono frasi o
temi musicali, che poi si possono trasporre, sviluppare, modulare... E'
un giochetto pratico per gli studenti di musica. Quando questi lo
lasciano andare in disuso, viene adottato dai matematici, i quali lo
portano a un alto grado di evoluzione rendendolo atto a esprimere
fatti matematici con segni e abbreviazioni particolari. Da linguaggio
prima universale, poi matematico, diviene il linguaggio della
filologia e di tutte le altre scienze e delle loro reciproche
relazioni e analogie, finché, valicati i limiti tra le singole
discipline, nella ricerca dell'universale, è, per così dire, il
linguaggio grafico internazionale, capace di fissare e scambiare tra
gli eruditi di tutto il mondo le esperienze intellettuali. Così
perfezionato, il giuoco delle perle di vetro è la somma di tutte le
scoperte spirituali e artistiche, l'unione mistica di tutti i membri
della Universitas Litterarum; è arte, scienza, filosofia speculativa,
favorite dalla contemplazione e dalla meditazione, è una simbolica
forma di ricerca della perfezione, un accostamento allo spirito in sé
concorde, cioè a Dio.
Nelle scuole "castalie" si coltiva soprattutto la tendenza
all'universalismo, alla fusione di scienza e arte. Fuori della
"castalia" però esiste il mondo così detto reale, dove la gente
comune, dove sono i non privilegiati, i quali mantengono a loro spese
l'élite dei giocatori di perle. I due mondi sono in conflitto tra
loro, come sempre accade fra la cultura e la mediocrità, e a un certo
punto lo stesso Knecht, supremo magister del giuoco, s'accorgerà di
non essere solamente "castalio", ma anche uomo comune, capirà che il
mondo intero lo riguarda e ha diritto di chiedergli che partecipi
alla sua vita; noterà che rinchiudersi nella "castalia", come gli
asceti cristiani si isolavano dal mondo, è superbia intellettuale.
Josef deporrà quindi la carica appena ottenuta e, nell'intento di
gettare un ponte fra la "castalia" e il mondo profano, si trasferirà
in quest'ultimo per "servire", come vuole il suo simbolico cognome:
Knecht, (in tedesco, significa "servo"). Egli ha bisogno di agire,
sia pure a costo di dolori e privazioni. Il giuoco delle perle, che
pur gli ha dato la serenità, non gli basta più. Il pensiero astratto
e i viaggi di scoperta nelle superiori regioni dello spirito
finirebbero per essere fine a se stessi: soltanto al caldo respiro
dell'umanità le sue aspirazioni possono attuarsi. Anche lui, come
Faust, vuol recare agli uomini la serena felicità: questa è la
conclusione ultima della saggezza. Un grande dramma si svolge
pertanto fra l'alta cultura dello spirito e la vita naturale. La
battaglia fra i due principî apparentemente inconciliabili diventa
però un concerto che è precisamente il compito dei giocatori di
perle: scoprire le antitesi in quanto "poli di un'unità". Tutti gli
sforzi spirituali dell'uomo tendono infatti a quell'idea
dell'universalità che la "castalia" deve appunto custodire.
A questa intuizione Knecht è arrivato grado grado col progressivo
"risveglio". Ora, egli è deciso a servire, e il suo servire sarà
sereno. Educherà un allievo, ma in maniera che tutti e due siano
sempre al servizio dello spirito. Se non che, ritornando nel mondo
per iniziare la sua nuova missione di insegnante, mentre nuota in un
lago alpino insieme al suo discepolo, muore e scompare nell'acqua
gelida.
Questa è in breve la vicenda del libro che costituisce la
rivalutazione della civiltà, alla quale tutti gli intellettuali
dovrebbero collaborare in qualche modo. Essi devono convincersi
anzitutto che non è impossibile annullare i contrari, trasformare il
male in bene, la notte in giorno, il nero in bianco. L'atman, dicono
gli indiani; il tao, dicono i cinesi; la grazia, dicono i cristiani.
Disciplina spirituale, dunque, per la schiera di privilegiati che
custodiscono i beni "castalici".
A riprova dell'importanza dell'opera basterà leggere le parole di
ammirazione di Thomas Mann: "Dopo molti anni di lavoro l'amico aveva
terminato la sua bella e difficile opera tarda della quale conoscevo
soltanto l'ampia introduzione, stampata in anticipo nella "Neue
Rundschau". Più volte avevo detto che quella prosa mi era vicina come
fosse roba mia. Vedendo ora l'intero rimasi sbalordito notando
l'affinità con ciò che mi teneva tanto occupato. Trovai la stessa
idea nella finzione biografica... con le punte di parodia che questa
forma comporta. La stessa unione con la musica. Anche la critica
della civiltà e dell'epoca, sia pure più utopia e sognante filosofia
della civiltà che sfogo critico del dolore e riconoscimento della
nostra tragedia. Di somiglianza ne rimaneva parecchia, paurosamente
molta, e l'appunto del mio diario esprime senza ambagi questa parte
dei miei sentimenti: "E' sempre spiacevole sentirsi ricordare che non
si è soli al mondo. E', in forma diversa, la domanda di Goethe nel
Divano: Si vive forse, se altri vivono?"... Ma posso definirmi buon
collega che non distrae paurosamente lo sguardo di ciò che avviene di
buono e di grande accanto a sé... Forse non si era presentata mai una
migliore occasione di caldi e rispettosi sentimenti camerateschi, di
ammirazione per un maestro che certo non senza gravi, segreti e
angosciati sforzi aveva saputo mantenere con arte e umorismo la sua
vecchia spiritualità nel campo del giuoco e della costruzione
personale. Con ciò si accorda benissimo il confronto di se stessi col
valore riconosciuto".
1944-1962: Nel 1946 Hesse fu insignito del premio Goethe e, nello
stesso anno, del premio Nobel. Nel 1955 ebbe il premio della pace
assegnato dall'associazione dei librai tedeschi. Non si recò né in
Svezia né a Francoforte. A ritirare il premio della pace andò la
moglie che, alla presenza del presidente Heuss, lesse nella
Paulskirche di Francoforte un messaggio del poeta. Se i due premi del
1946 gli spettavano per la sua stupenda attività letteraria, il terzo
non poteva essere assegnato a uno scrittore più degno di lui. I suoi
scritti erano stati una costante invocazione alla pace e alla
fratellanza tra gli uomini. "Se guerra ci sarà per molto tempo
ancora, forse per sempre, il superamento della guerra rimarrà il
nostro fine più nobile e l'ultima conseguenza della civiltà
cristiano-occidentale." E in un momento pericoloso della storia
recente scriveva: "Io credo che le guerre mondiali si possono
evitare, ma non con gli armamenti e accumulando mezzi di distruzione,
bensì mediante la ragione e la tolleranza".
Il giuoco delle perle di vetro fu l'ultima opera di Hesse. Continuò
a scrivere, ma in maniera frammentaria, a raccogliere in volume
lettere e prose, a curare edizioni delle sue opere. E quando lo
scrivere lo affaticava, si limitava a far stampare opuscoli e fogli
isolati che mandava ad amici e conoscenti in cambio o in risposta a
messaggi e auguri che gli arrivavano da tutte le parti del mondo.
Hermann Hesse morì a Montagnola il 9 agosto 1962, a 85 anni.
Antologia di giudizi
Le opinioni e i personaggi nei suoi racconti, l'atmosfera del
paesaggio, l'espressione del sentimento nelle sue poesie e
considerazioni, tutto questo è una diretta continuazione del
patrimonio spirituale e letterario tedesco. Tutto ciò si inserisce in
modo organico nella schiera dei nostri grandi narratori, sorti dopo
la fine del secolo XVIII. Mentre negli ultimi decenni la letteratura
tedesca, anche nei più celebri rappresentanti, si è andata sempre più
intellettualizzando, Hesse ha le radici nella tradizione poetica
dell'anima tedesca. Questa è, nonostante gli intimi dissidi e il suo
scetticismo, l'origine schietta e naturale delle sue creazioni. Il
cuore, non l'intelletto, è il motore, è la forza della sua
produzione.(Hermann Kasack, "Rhein-Neckar-Zeitung", 28, VI, 1947)
Hermann Hesse ha servito lo spirito in quanto, da quel narratore
che è, ha parlato del contrasto tra lo spirito e la vita e del
conflitto tra lo spirito e se stesso. Ma appunto con ciò ha reso più
percettibile la via, piena di ostacoli, che può condurre a una nuova
totalità e unità. E da quell'uomo che è, da quell'homo humanus che è,
ha reso l'uguale servizio propugnando, in tutte le buone occasioni,
la totalità e l'unità della natura umana.(Martin Buber, "Neue
deutsche Hefte", agosto 1957)
Quello che si cercò di definire come il suo "pensiero", si
esaurisce in una irresolubile problematica del corpo e dell'anima, o
più esattamente di un dolce e forte istinto naturale e di un puro
spirito introspettivo solipsistico per più d'un verso molto
orgoglioso, orgoglioso se non altro della propria purezza. Robusto e
sano, avrebbe voluto essere contadino, come lo sono o ridiventano
Peter Camenzind ed altri eroi dei suoi primi romanzi; negli anni
della maturità e della vecchiaia si votò sempre più decisamente alle
opere della terra; intanto però una rigida educazione religiosa gli
imponeva fin dall'infanzia un culto ascetico dello spirito che lo
metteva in contrasto col suo intimo naturale e con una non
sradicabile venerazione delle forze della natura.
Assai difficile gli fu il distacco dal suolo tedesco; il legame con
la terra, sentita sempre come madre di ogni vita e fonte unica di
sanità, non fu da lui mai ripudiato. Pittore di delicati paesaggi
specialmente della Svizzera italiana e buon esecutore di musica,
Hesse risolse i suoi tormentosi problemi nella dolce e spontanea
armonia di una prosa meditabonda, in cui il paesaggio si fa ariosa
musicalità. In questo paesaggio egli avverte concretissimamente
l'identità, predicata dal Budda, del fluire e della stasi, tanto che
nell'ultimo romanzo postulerà addirittura una filosofia della storia
fondata sull'alternarsi dei periodi prevalentemente sensuali e
prevalentemente ascetici.
Ladislao Mittner,
Storia della
letteratura tedesca,
Tomo II, Torino 1971
Si potrebbe essere propensi a vedere nel Lupo della steppa una
delle opere più elaborate e ad un tempo più incommensurabili di
Hermann Hesse e in ogni caso avrebbe torto chi lo leggesse soltanto
come storia disperata di un nevrotico malato, perché rappresenta
piuttosto il passaggio dai conflitti della vita moderna a una libera
serenità dello spirito, e vuol essere inteso come scuola di buon
umore. La narrazione rinuncia largamente ad ogni dichiarazione
diretta e si svolge invece in svariati riflessi tra il racconto del
narratore e gli scritti di quel Harry Haller che, nella sua interiore
solitudine, minaccia di uscire bruscamente dall'ordinamento borghese
e come un lupo della steppa si vede escluso dalla vita quotidiana di
un gregge. Guardando da fuori si nota soltanto il comportamento d'un
misantropo lontano dal mondo, interiormente inquieto e senza patria;
visto dall'interno ci troviamo di fronte ad una lotta appassionata
con le antitesi della vita, non solo tra un mondo inferiore
psichicamente determinato e una vita sociale esteriorizzata, ma anche
con la "propria doppiezza e discordia". Questo contegno intimamente
contestato si vede sempre nel pericolo della distruzione di sé e si
abbandona pertanto agli estremi delle sue possibilità per
riacquistare il fondamento dell'esistenza. Così il racconto diventa
un tentativo di espressione che rappresenta in veste di eventi
visibili, avvenimenti psichici profondamente vissuti.(Da: Paul
Böckmann, Il mondo dello spirito nelle opere di H' Hesse)
Costruito ingegnosamente ad incastro come il resoconto di un
curatore che immagina di pubblicare le memorie del protagonista, le
quali a loro volta contengono una "dissertazione" che racchiude in
nuce tutto il romanzo, Il lupo della steppa narra la storia di Harry
Haller, l'intellettuale isolato e dissociato, che si sente metà uomo
e metà lupo, dilaniato fra la coscienza morale e l'istinto feroce,
disgregato fra i due impulsi che si elidono e lo bloccano in
un'impotente infelicità. Da questa straziante inquietudine sempre
prossima al suicidio, Harry uscirà solo quando avrà imparato la
saggezza della vita superficiale; quando avrà appreso dalla bella e
ambigua Erminia le gioie della semplicità, del fox-trot, della droga
e dell'amore di gruppo; quando avrà scoperto d'essere non solo una
duplicità, ma, come ogni fittizio Io, una molteplicità infinita. Come
il Siddharta del racconto omonimo (forse il più celebre di Hesse),
anche Harry capisce che l'individualità è un'astrazione, destinata a
dissolversi nel flusso del divenire. Nonostante certi apparenti
aspetti psichedelici - la droga come strumento di elevazione
spirituale, la liberatrice gratuità del giuoco, il teatro magico nel
quale ognuno vede e insieme recita la parte del proprio destino -
Hesse propone una soluzione classica, conservatrice, goethiana.
Harry, che pure incarna le incertezze della Germania di Weimar (il
libro è del '27), trova la verità eterna, s'ispira a Mozart e a
Goethe e impara da quest'ultimo che anche le rigide convenzioni
sociali vanno rispettate e possono essere vissute come un libero
gioco.
Non a caso nella parte iniziale - e più bella - del romanzo, che
tratteggia la figura del lupo della steppa prima della sua
illuminazione, Hesse coglie magistralmente il nesso fra nichilismo e
borghesia, fra negazione metafisica e amore per il lindo idillio
filisteo. Con la sua amorale brama di vita e la sua tensione
all'autoannullamento il lupo della steppa, demolitore d'ogni etica, è
complementare all'ordine borghese, il quale viene teorizzato - nella
splendida "dissertazione" centrale - come categoria ontologica della
mediazione. Meno convincente appare invece la seconda parte nella
quale Hesse non riesce né ad analizzare a fondo la coralità
mistico-erotica dei suoi personaggi né a far palpitare, nelle
convulse ricerche di liberazione, una nostalgia di comunione,
l'anelito all'"omnes laetare in unum" di cui parla la Scrittura. Non
pago di rappresentare, Hesse vuol additare nel disordine moderno la
presenza redentrice dell'antico; incapace - ad esempio - di sentire
la poesia del jazz, Hesse la nobilita con benevola condiscendenza
quale riverbero del sacro e del passato accessibile agli spiriti
ridotti e superficiali, ancorché sinceri dell'età moderna. E il suo
romanzo, avvincente cronaca d'una nevrosi e suggestivo viaggio
nell'irrazionale, viene appesantito da un intento pedagogico e
sentenzioso, da una scoperta volontà di restaurazione.(Da: Claudio
Magris, Uomini e lupi, in: "Corriere della Sera", Milano, 13, VI,
1971)
Bibliografia essenziale
Opere di Hermann Hesse
Poesie (raccolte principali)Romantische Lieder, Dresden
1899Gedichte, Berlin 1902Unterwegs, München 1911Musik des Einsamen,
Heilbronn 1915Ausgewählte Gedichte, Berlin 1921Krisis, Berlin
1928Trost der Nacht, Berlin 1929Jahreszeiten, Zürich 1931Vom Baum des
Lebens, Leipzig 1934Stunden im Garten, Wien 1936Neue Gedichte, Berlin
1937Die Gedichte, Zürich 1942Der Blütenzweig, Zürich 1945Stufen,
Frankfurt/M' 1961Die späten Gedichte, Frankfurt/M' 1963Die Gedichte
1892-1962, Frankfurt/M' 1977
Romanzi, racconti, fiabeEine Stunde hinter Mitternacht, Leipzig
1899Hinterlassene Schriften und Gedichte von Hermann Lauscher, Basel
1901Peter Camenzind, Berlin 1904Unterm Rad, Berlin 1906Diesseits,
Berlin 1907Nachbarn, Berlin 1908Gertrud, München 1910Umwege, Berlin
1912Aus Indien, Berlin 1913Rosshalde, Berlin 1914Knulp, Berlin 1915Am
Weg, Konstanz 1915Schön ist die Jugend, Berlin 1915Demian. Die
Geschichte einer Jugend von Emil Sinclair, Berlin 1919Märchen, Berlin
1919Klingsors letzter Sommer, Berlin 1920Siddhartha, Berlin
1922Kurgast, Berlin 1925Bilderbuch, Berlin 1926 (prosa varia,
ricordi)Der Steppenwolf, Berlin 1927Die Nürnberger Reise, Berlin 1927
(prosa varia, ricordi)Narziss und Goldmund, Berlin 1930Weg nach
Innen, Berlin 1931Die Morgenlandfahrt, Berlin 1932Fabulierbuch,
Berlin 1935Stunden im Garten. Eine Idylle, Wien 1936Gedenkblätter,
Berlin 1937 (racconti e ricordi)Der Novalis, Olten 1940Das
Glasperlenspiel, Zürich 1943Berthold. Ein Romanfragment, Zürich
1945Traumfährte, Zürich 1945Späte Prosa, Berlin 1951Piktors
Verwandlungen, Berlin/Frankfurt/M' 1954Beschwörungen, Berlin
1955Geheimnisse, Frankfurt/M' 1964Prosa aus dem Nachlass,
Frankfurt/M' 1965Erwin, Olten 1965Die Kunst des Müssiggangs,
Frankfurt/M' 1973Die Romane und die grossen Erzählungen
(Jubiläumsausgabe). Frankfurt/M' 1977 (8 voll')Gesammelte
Erzählungen, Frankfurt/M' 1977 (4 voll')
Principali articoli,
saggi e testi autobiograficiBoccaccio, Berlin 1904Franz von
Assisi, Berlin 1904Zarathustras Wiederkehr. Ein Wort an die deutsche
Jugend, Bern 1919Blick ins Chaos, Bern 1920Betrachtungen, Berlin
1928Eine Bibliothek der Weltliteratur, Leipzig 1929Kleine
Betrachtungen, Bern 1941Dank an Goethe, Zürich 1946Der Europäer,
Berlin 1946Krieg und Frieden, Zürich 1946Musikalische Notizen, Zürich
1948Erinnerung an André Gide, St' Gallen 1951An einen Musiker, Olten
1960Lektüre für Minuten, Frankfurt/M' 1971 (antologia a cura di V'
Michels)Mein Glaube, Frankfurt/M' 1971 (antologia a cura di S'
Unseld)Eigensinn, Frankfurt/M' 1972 (raccolta di scritti
autobiografici)Schriften zur Literatur, Frankfurt/M' 1972 (2
voll')Politik des Gewissens. Die politischen Schriften, Frankfurt/M'
1977 (2 voll')
Epistolari (raccolte principali)H' Hesse, Briefe, Berlin u'
Frankfurt/M' 1951H' Hesse - R' Rolland, Briefe, Zürich 1954E' Ball -
Hennings, Briefe an H' Hesse, Frankfurt/M' 1956H' Ball, Briefe
1911-1927, Zürich 1957E' Morgenthaler, Briefe an H' Hesse. In:
Morgenthaler, Ein Mahler erzählt. Zürich 1957 (pp' 147-187)Kindheit
und Jugend vor Neunzehnhundert. H' Hesse in Briefen u'
Lebenszeugnissen. 1877-1895, Frankfurt/M' 1966H' Hesse - T' Mann,
Briefwechsel, Frankfurt/M' 1968 (n' ed' 1975)H' Hesse - P' Suhrkamp,
Briefwechsel 1945-1959, Frankfurt/M' 1969H' Hesse - Helene Voigt
Diederichs, Zwei Autorenportaits in Briefen, Frankfurt/M' 1971H'
Hesse - K' Kerény, Briefwechsel aus der Nähe, München/Wien 1973Briefe
1912-1958, Frankfurt/M', Wien, Zürich 1976Briefe an Freunde,
Rundbriefe 1946-1962, Frankfurt/M' 1977Gesammelte Briefe,
Frankfurt/M' 1973 (segue) in 3 voll'H' Hesse - Rudolf J' Humm,
Briefwechsel, Frankfurt/M' 1977H' Hesse: Briefwechsel mit H' Wiegand.
1924-1934, Berlin, Weimar 1978
Edizioni delle opereGesammelte Dichtungen, Frankfurt/M' 1952 (6
voll')Gesammelte Schriften, Frankfurt/M' 1957 (7 voll')Gesammelte
Werke in zwölf Bänden, Frankfurt/M' 1970 (12 voll')
Studi su Hermann Hesse
BiografieH' Ball, H' H'. Sein Leben und sein Werk,
Berlin/Frankfurt/M' 1956F' Baumer, H' H', Berlin 1959B' Zeller, H' H'
in Selbstzeugnissen u' Bilddokumenten, Reinbek b' Hamburg 1963B'
Zeller (curatore), H' H' 1877-1977, Marbach a' Neckar 1977J' Mileck,
H' H'. Biography and Bibliography, Berkeley, Los Angeles, London 1977
(2 voll')R' Freedman, H' H'. Autor der Krisis. Eine Biographie,
Frankfurt/M' 1981
Studi critici
più importanti recentiTh' Ziolkowski, The Novels of H' H', New
York/London 1966P' Chiarini, Esperienza poetica e autobiografia in H'
H', in: Miscellanea di studi in onore di B' Tecchi, Roma 1969 (2o
vol', pp' 626-639)G' Hafner, H' H', Werk im Leben, Nürnberg 1970H'J'
Lüthi, H' H'. Natur und Geist, Stuttgart/Berlin/Köln 1970S' Unseld,
H' H'. Eine Werkgeschichte, Frankfurt/M' 1973S' Giovone,
Fenomenologia dell'attività artistica in H' H', in: S'G' Hybris e
melancolia, Milano 1974, pp' 47-85R' Koester, H' H', Stuttgart 1975M'
Serrano, Il cerchio ermetico. C'G' Jung e H' H', Roma 1976R'
Andreassi Ruggieri, H' H' sull'esperienza dell'io e della storia,
L'Aquila 1976C'W' Field, H' H'. Kommentar zu seinen sämtlichen
Werken, Frankfurt/M' 1976A' Putino, Trompe l'öil. Il mito di Narciso
in H' H', Napoli 1977Aa'Vv', H' H', in: Text+Kritik, 10ì11
(1977)Aa'Vv', über H' H', 2 voll', Frankfurt/M' 1976-77 (antologia
della critica 1904-1962; 1963-1977)Aa'Vv', H' Hesses weltweite
Wirkung, Frankfurt/M' 1977C' Magris, Il sorriso dell'unità, ovvero H'
H' tra la Vita e la vita, in: H' H', Romanzi, Milano 1977, pp'
XI-XXXIIIT' Ziolkowski, Der Schriftsteller H' H', Frankfurt/M'
1979Aa'Vv', H' H' heute, Bonn 1980 (antologia di studi a cura di A'
Hsia)M' Ponzi, H' H', Firenze 1980F' Masini, H' H' e l'utopia del non
possesso, in: F' M', Gli schiavi di Efesto, Milano 1981, pp'
231-311F' Masini, La "magìa del corporeo" e il sentiero della
conoscenza in H' H', in: H' H', Altri romanzi e poesie, Milano 1981,
pp' XI-XLAa'Vv', H' H' e i suoi lettori (atti del convegno "H' H':
opera e impronta"), Parma 1982K' v' Seckendorff, H' Hesses
propagandistische Prosa, Bonn 1982
Principali studi su
Il lupo della steppaL' Flaxman Seymour, Der Steppenwolf. Hesses
Portrait of the Intellectual, in: "Modern Language Quarterly", 15,
1954T' Ziolkowski, H' Hesses "Steppenwolf". A sonata in prose, in:
"Modern Language Quarterly", 19, 1958E' Schwarz, Zur Entwicklung von
H' Hesses "Der Steppenwolf", in: "Monatshefte für den deutschen
Unterricht", 53, 1961V' Michels (curatore), Materialien zu H' Hesses
"Der Steppenwolf", Frankfurt/M' 1972 (con un'ampia antologia di
critica).J'D' Simons, H' Hesses "Steppenwolf": a critical Commentary,
New York 1972H' Hinterhäuser, Il lupo della steppa, in: Aa'Vv', Il
romanzo tedesco del Novecento, Torino 1973, pp' 185-199H' Mayer, Il
lupo della steppa in H' H', in: H' M', Saggi sulla letteratura
tedesca contemporanea, Milano 1973, pp' 31-42
Principali traduzioni italiane
Opere scelte e raccolteOpere scelte, 5 voll' cura di L'
Mazzucchetti, Milano 1961Opere scelte, a cura di E' Pocar, Milano
1965Romanzi, tr' M'P' Crisnaz Palin, Milano 1977Le opere, trad'
varie, Torino 1979Altri romanzi e poesie, a cura di F' Masini, Milano
1981Leggende e fiabe, tr' F' Saba Sardi, Milano 1981Racconti
1919-1955, tr' M' Bistolfi, Milano 1982
Opere singole
non comprese in raccoltePeter Camenzind, tr' L' Magliano, Milano
1962Sotto la ruota, tr' L' Magliano, Milano 1964Poesie, tr' E' Pocar,
Milano 1965Viaggio in India, tr' F' Barda, Milano 1973La cura, tr'
I'A' Chiusano, Milano 1978Poesie, a cura di M' Specchio, Milano
1978Amicizia, tr' E' Banchelli, Milano 1978Hermann Lauscher, tr' E'
Banchelli, Milano 1979Una biblioteca della letteratura universale,
tr' E' Castellani, I'A' Chiusano, Milano 1979Pellegrinaggio
d'autunno, tr' E' Banchelli, Milano 1979L'azzurra lontananza, tr' L'
Coeta, Milano 1980Francesco d'Assisi, tr' C' Cocconi Poli, E'
Banchelli, Milano 1980Il mio credo, tr' M'T' Giannelli, Milano
1980Gertrud, tr' M'T' Mandalari, Milano 1980Il miglioratore del
mondo, tr' M' Ulivieri, Roma 1980Rosshalde, tr' V' Finzi Vita, Roma
1980Ticino, tr' I' Magliano, Giubasco 1980Poesie, a cura di B' Dal
Lago, Roma 1980False vocazioni, tr' E' Banchelli, Milano
1981Vagabondaggio, tr' M' Specchio, Roma 1981Favola d'amore. Le
metamorfosi di Pictor, tr' K' Tenenbaum, Roma 1981Bella è la
gioventù, tr' M' Ulivieri, Roma 1982Poesie, a cura di R' Fertonani,
Milano 1983
(a cura di Eva Banchelli)
Il lupo della steppa
Prefazione del curatore
Questo libro contiene le memorie lasciate da quell'uomo che, con
una espressione usata sovente da lui stesso, chiamavamo il "lupo
della steppa". Non stiamo a discutere se il suo manoscritto abbia
bisogno di una prefazione introduttiva; io in ogni caso sento il
bisogno di aggiungere ai fogli del Lupo della steppa alcune pagine
dove tenterò di segnare i ricordi che ho di lui. E' poca cosa quello
che so, e specialmente il suo passato e la sua origine mi sono
ignoti. Tuttavia ho avuto della sua persona un'impressione forte e,
devo dire, nonostante tutto simpatica.
Il lupo della steppa era un uomo di circa cinquant'anni che un
giorno, alcuni anni sono, si presentò in casa di mia zia a chiedere
una camera ammobiliata. Prese la mansarda lassù sotto il tetto e la
cameretta attigua, ritornò dopo qualche giorno con due valigie e una
grande cassa di libri e abitò in casa nostra per nove o dieci mesi.
Conduceva una vita molto quieta e appartata e, se la vicinanza delle
nostre camere non avesse offerto l'occasione di qualche incontro
sulle scale o nel corridoio, probabilmente non lo avremmo neanche
conosciuto, poiché socievole non era di certo; era anzi così poco
socievole come non avevo mai visto altre persone, era realmente, come
diceva talvolta, un lupo della steppa, un essere estraneo, selvatico
e anche ombroso, anzi molto ombroso, quasi fosse di un mondo diverso
dal mio. Quanto si fosse immerso nella solitudine per indole e per
volontà della sorte, e quanto fosse consapevole di quel suo destino
solitario, seppi soltanto dagli scritti che lasciò; ma già prima
l'avevo un po' conosciuto incontrandolo e scambiando qualche parola,
e notai che il ritratto risultante dai suoi scritti concordava in
fondo con quello certamente più scialbo e lacunoso che mi ero fatto
attraverso la nostra conoscenza personale.
Per caso ero presente al momento in cui il lupo della steppa mise
piede per la prima volta in casa nostra e prese alloggio da mia zia.
Venne a mezzogiorno, i piatti erano ancora sulla tavola e io avevo
ancora una mezz'oretta di tempo prima di andare in ufficio. Non ho
dimenticato l'impressione strana e contraddittoria che ne ebbi al
primo incontro. Entrò dopo aver sonato il campanello e mia zia, nel
corridoio semibuio, gli domandò che cosa desiderasse. Egli intanto,
il lupo della steppa, aveva alzato la testa coi capelli corti e
annusando l'aria con fare nervoso, prima di rispondere o di
presentarsi, aveva esclamato: "Oh, c'è buon odore qui". Sorrise e
anche la mia buona zia sorrise, ma a me quel saluto parve piuttosto
comico e antipatico.
"Già", fece "vengo per via della camera che lei ha da affittare."
Lo potei osservare meglio solo quando tutti e tre salimmo
all'ultimo piano. Non era molto alto, ma aveva l'andatura e il
portamento del capo caratteristici degli uomini di alta statura;
portava un cappotto moderno e comodo, era vestito decentemente ma
senza ricercatezza, tutto raso, e aveva i capelli molto corti, qua e
là leggermente brizzolati. Da principio quel suo modo di camminare
non mi piacque, aveva un che di faticoso e di irresoluto che non
s'adattava al profilo tagliente e neanche al tono e alla vivacità
della parola. Solo più tardi mi accorsi e venni a sapere che era
ammalato e che faceva fatica a camminare. Con un singolare sorriso,
che mi fece allora un'impressione sgradevole, andava osservando la
scala, i muri, le finestre e gli alti armadi collocati sul
pianerottolo: tutto ciò sembrava gli andasse a genio e gli paresse
tuttavia un po' ridicolo. In genere l'uomo pareva venisse da un mondo
lontano, non so, da paesi d'oltremare, e che tutto gli apparisse
grazioso ma un tantino buffo. Era, devo dire, cortese, anzi gentile,
si dichiarò subito contento della casa, della camera, del prezzo per
alloggio e colazione, di ogni cosa senza nulla obiettare, eppure era
circondato da un'atmosfera estranea e, così sembrava, non buona o
forse ostile. Prese la stanza con la cameretta, chiese chiarimenti
sul riscaldamento, l'acqua potabile, il servizio, le usanze della
casa, ascoltò tutto con attenzione cortese, si disse d'accordo con
tutto, offrendo anche subito un anticipo sull'affitto, eppure pareva
un pochino assente, quasi trovasse il suo modo di agire alquanto
ridicolo e poco serio, e fosse per lui cosa nuova e curiosa prendere
a pigione una camera e parlare con la gente, mentre in fondo stava
pensando a tutt'altro. Questa fu all'incirca la mia impressione, e
non sarebbe stata un'impressione buona se molti piccoli tratti non
l'avessero confutata e corretta. La faccia soprattutto dell'uomo mi
piacque fin dal primo momento; mi piacque nonostante quell'aria
straniera; era una faccia forse un po' singolare e anche triste, ma
vigile, piena di pensiero e di tormento spirituale. A rendermi più
conciliante s'aggiunse anche il tono di cordialità che pareva
costargli qualche fatica, ma era del tutto privo d'albagia: al
contrario, v'era qualche cosa di commovente, d'implorante, che seppi
spiegarmi solo più tardi, ma destò subito nel mio cuore un moto di
simpatia.
Prima che fossero finite la visita dei due locali e le altre
trattative, il mio tempo libero era trascorso e io dovetti recarmi al
lavoro. Salutai e lasciai quell'uomo con mia zia. La sera, quando
ritornai a casa, ella mi comunicò che il forestiero aveva fissato
l'alloggio e sarebbe venuto a giorni; aveva pregato soltanto di non
notificare il suo arrivo dicendo che, malazzato com'era, le formalità
e le soste negli uffici della polizia ecc' gli riuscivano
insopportabili. Ricordo benissimo che rimasi perplesso e avvertii mia
zia di non accettare quella condizione. Il timore della polizia mi
pareva troppo intonato all'aria strana e insolita dell'uomo per non
essere sospetto. Spiegai alla zia che trattandosi di un ignoto non
doveva assolutamente accogliere quella pretesa piuttosto singolare
che per lei poteva avere conseguenze assai spiacevoli. Se non che lei
aveva già accettato il desiderio e pareva anzi presa e affascinata da
quell'estraneo; tant'è vero che non ha mai accettato pensionanti coi
quali non potesse avere qualche rapporto umano, familiare o anzi
materno, circostanza che era stata infatti abbondantemente sfruttata
da alcuni pensionanti precedenti. E nelle prime settimane continuai a
trovar parecchio da ridire sul nuovo inquilino, mentre mia zia ne
prendeva sempre le difese con molto calore.
Siccome quella faccenda della mancata denuncia non mi garbava,
volli per lo meno essere informato di quel che mia zia sapeva del
forestiero, della sua origine e delle sue intenzioni. Ed ecco che
ella sapeva già qualche cosa benché, dopo la mia uscita a
mezzogiorno, egli fosse rimasto in casa pochissimo. Le aveva detto
che intendeva di rimanere alcuni mesi nella nostra città, di
frequentarne le biblioteche e di ammirare le antichità. In verità a
mia zia non piaceva che egli volesse rimanere così poco tempo, ma era
chiaro che se ne era già cattivato le simpatie nonostante il modo
strano di presentarsi. Fatto sta che le stanze erano affittate e le
mie obiezioni arrivavano troppo tardi.
"Perché mai avrà detto che qui c'è un buon odore?" domandai.
E mia zia che molte volte ha intuito i felici rispose:
"Io lo so. Qui da noi c'è un odore di pulizia e di ordine, un odore
di vita serena e perbene, e questo gli è piaciuto. Ha l'aria di non
esserci più avvezzo e di sentirne la mancanza."
"Sarà" pensai, "può darsi." "Ma" dissi "se non è avvezzo a una vita
ordinata e ammodo, dove andremo a finire? Che cosa farai se è poco
pulito, se insudicierà ogni cosa o verrà a casa di notte a qualunque
ora, ubriaco?"
"Questo si vedrà" fece lei ridendo, e io mi strinsi nelle spalle.
Difatti i miei timori erano ingiustificati. L'inquilino, pur non
facendo vita ordinata e ragionevole, non ci diede mai noia, non recò
alcun danno e anche oggi lo ricordiamo volentieri. Ma di dentro,
nell'anima, ci diede noia e disturbo, a me e a mia zia, e per dir il
vero non potrei affermare di essermene ancora liberato. Di notte lo
sogno qualche volta e mi sento profondamente inquieto e oppresso da
lui, dalla sua sola esistenza, benché avessi preso quasi a volergli
bene.
Due giorni dopo un corriere portò la roba del forestiero che si
chiamava Harry Haller. Una bellissima valigia di cuoio mi fece buona
impressione e un grande baule piatto, di quelli da cabina, pareva
indizio di lunghi viaggi fatti in precedenza: in ogni caso vi erano
appiccicate le etichette ingiallite di alberghi e società di
trasporto di vari paesi, anche d'oltremare.
Poi arrivò anche lui e da quel giorno imparai a conoscerlo a poco a
poco, quell'originale. Da principio non mossi un dito. Benché fin dal
primo minuto mi interessassi a Haller, in quelle settimane non feci
alcun passo per incontrarlo o attaccar discorso con lui. Invece, lo
confesso, fin dal principio mi diedi ad osservarlo, entrando persino
nella sua stanza quando egli non c'era e praticando un po' di
spionaggio per curiosità.
Del suo aspetto ho già dato qualche cenno. Alla prima occhiata
faceva l'impressione d'un uomo interessante, insolito e intelligente
oltre il comune, aveva un viso spirituale, e il gioco
straordinariamente delicato e mobile dei lineamenti rispecchiava una
vita interiore interessante, molto movimentata, insolitamente fine e
sensibile. Quando si parlava con lui ed egli, ma non sempre, passava
i limiti convenzionali e uscendo dal suo mondo singolare diceva
qualche parola sua, qualche parola personale, sentivamo di essere
inferiori a lui poiché si capiva che aveva pensato più degli altri, e
nel mondo intellettuale possedeva quell'oggettività quasi fredda,
quella sicurezza di pensiero e di sapere che hanno soltanto gli
uomini veramente dotati di spirito, i quali sono senza ambizione e
non desiderano mai di brillare o di persuadere gli altri o di aver
ragione ad ogni costo.
Ricordo, dagli ultimi tempi del suo soggiorno, un giudizio che
diede, non già a parole, ma soltanto con uno sguardo. Un celebre
filosofo e studioso della storia e della civiltà, uno scienziato di
fama europea aveva annunciato una conferenza nell'aula magna
dell'Università e io ero riuscito a convincere il lupo della steppa
ad assistervi, mentre non ne aveva alcuna voglia. Andammo insieme e
ci sedemmo nell'aula. L'oratore salì in cattedra e incominciò a
parlare ma deluse parecchi dei presenti i quali si erano aspettati di
vedere una specie di profeta e vedevano invece un uomo azzimato un
po' fatuo e vanitoso. Quando prese a parlare facendo alcuni
complimenti all'uditorio e ringraziando del numeroso intervento, il
lupo della steppa mi lanciò una brevissima occhiata, un'occhiata che
era una condanna di quelle parole e di tutto l'aspetto dell'oratore:
oh, un'occhiata terribile e indimenticabile sulla quale si potrebbe
scrivere un libro! Con la sua ironia stringente benché dolce
l'occhiata non solo criticava l'oratore e demoliva l'uomo celebre;
questo era il meno. Lo sguardo era anzi più triste che ironico, era
addirittura profondamente e disperatamente triste; conteneva una
disperazione soffocata, ma in certo qual modo sicura e diventata
quasi consuetudine e forma. Con la sua luce disperata illuminava non
solo la persona del frivolo oratore, ironizzava e liquidava la
situazione del momento, l'attesa e l'umore del pubblico, il titolo un
po' presuntuoso della conferenza annunciata... l'occhiata del lupo
della steppa trapassava tutta la nostra epoca, tutto questo lavorio
affaccendato, tutta la smania di arrivare, la vanità, il giuoco
superficiale di una spiritualità terra terra e piena di albagia... e
purtroppo quello sguardo andava ancora più in fondo, oltre le magagne
e le disperate miserie del nostro tempo, della nostra vita
spirituale, della nostra cultura. Penetrava fin nel cuore
dell'umanità, esprimeva in un attimo eloquente tutti i dubbi di un
pensatore, forse di un sapiente, sulla dignità e sullo stesso
significato della vita umana. Quello sguardo diceva: "Vedi come siamo
scimmiotti! Ecco come è fatto l'uomo!", e la celebrità,
l'intelligenza, le conquiste dello spirito, gli slanci verso ciò che
vi è di grande, di sublime, di eterno nell'umanità crollavano e
diventavano un giuoco scimmiesco!
Ho precorso gli eventi e, contrariamente al mio proposito e alla
mia volontà, ho già detto le cose più importanti sul conto di Haller
mentre in origine avevo intenzione di delineare il suo ritratto a
mano a mano, raccontando le tappe dei miei contatti con lui.
Ma avendo ormai anticipato il racconto mi sembra superfluo
discorrere della sua enigmatica stranezza e riferire nei particolari
come riuscii a intuire e a vedere i motivi e i significati di
quell'aria estranea, di quello straordinario e pauroso isolamento.
Del resto è meglio così, perché vorrei lasciare possibilmente
nell'ombra la mia persona. Non sono qui per fare le mie confessioni o
raccontar novelle o fare della psicologia, ma soltanto per
contribuire da testimonio oculare al ritratto dell'uomo singolare che
ci ha lasciato questo manoscritto.
Fin dal primo istante, fin da quando entrò in casa di mia zia e
allungando il collo come un uccello elogiò il buon odore della casa,
avevo notato qualche cosa di singolare in quell'uomo e la mia prima
ingenua reazione era stata di disgusto. Sentii subito (e mia zia, che
al contrario di me non è affatto un'intellettuale, sentì all'incirca
la stessa cosa), avvertii che doveva essere ammalato, malato di
qualche malattia dello spirito o dell'anima o del carattere, e con
l'istinto della persona sana mi misi sulle difese. Con l'andar del
tempo questo atteggiamento di difesa fu sostituito dalla simpatia,
frutto di una grande pietà per il sofferente del quale potevo
osservare l'isolamento e la lenta morte interiore. In quel periodo mi
resi conto sempre più che la malattia non era dovuta a difetti della
sua natura, ma viceversa alla ricchezza di capacità e di energie non
armonizzate tra loro. Compresi che Haller era un genio della
sofferenza e aveva coltivato, nel senso di certe frasi nietzscheane,
una capacità di soffrire illimitata, geniale, spaventevole. Compresi
pure che il suo pessimismo non era fondato sul disprezzo del mondo,
ma sul disprezzo di sé, poiché, pur parlando senza riguardi e
spietatamente di istituzioni o persone, non escludeva mai se stesso,
anzi era sempre il primo bersaglio delle proprie frecciate, era
sempre il primo contro il quale rivolgeva il suo odio e la sua
negazione...
A questo punto devo inserire una nota psicologica. Per quanto
sappia poco della vita di Haller, ho motivo di supporre che sia stato
allevato da genitori e maestri amorevoli ma rigidi e molto religiosi,
secondo quella pedagogia che segue il principio "di spezzare la
volontà". In questo allievo però non erano riusciti a spezzare la
volontà e a distruggere la personalità: era troppo forte e duro,
troppo orgoglioso e intelligente. Invece di annullare la sua
personalità avevano potuto soltanto insegnargli a odiare se stesso.
Contro di sé, contro questo soggetto nobile e innocente egli volse
per tutta la vita la genialità della fantasia, la potenza del
pensiero. Era infatti pur sempre profondamente cristiano e martire,
poiché lanciava anzitutto contro se stesso tutto l'acume, la critica,
la malignità e l'odio di cui era capace. In quanto al prossimo egli
faceva di continuo i più seri ed eroici tentativi di amarlo, di
essere giusto, di non fargli del male poiché il precetto "ama il tuo
prossimo" era radicato nel suo cuore quanto l'odio della propria
persona; sicché per tutta la vita dimostrò con l'esempio che senza
amare se stessi non è possibile neanche amare il prossimo, che l'odio
di sé è identico al gretto egoismo e produce infine il medesimo
orribile isolamento, la medesima disperazione.
Ma è ora di mettere da parte i pensieri miei e di venire al
concreto. La prima cosa dunque che venni a sapere intorno a Haller,
sia col mio spionaggio sia con le osservazioni di mia zia, fu il suo
modo di vivere. Non era difficile scoprire che era un uomo di
pensiero e di libri e non esercitava alcuna professione pratica.
Rimaneva a letto fin tardi, si alzava spesso soltanto a mezzogiorno e
passava in veste da camera nella stanza di soggiorno. Questa, una
mansarda grande e accogliente, con due finestre, assunse già dopo
pochi giorni un aspetto diverso da quando l'avevano abitata altri
inquilini. Andò riempiendosi e col tempo fu sempre più piena. Alle
pareti furono appesi dei quadri, attaccati dei disegni, talvolta
ritagliati da riviste, i quali mutavano spesso. Vi erano un paesaggio
meridionale, fotografie di una cittadina tedesca di provincia,
certamente il luogo natale di Haller, e qua e là acquarelli luminosi,
dei quali si seppe più tardi che erano dipinti da lui stesso. C'era
la fotografia di una bella signora giovane o ragazza che fosse. Per
qualche tempo rimase appeso alla parete un Buddha siamese, sostituito
poi da una riproduzione della Notte di Michelangelo e poi da un
ritratto del mahatma Gandhi. I libri non empivano soltanto la grande
libreria ma ce n'era dappertutto, sulle tavole, sulla bella scrivania
antica, sul divano, sulle sedie, per terra: libri con segnapagine che
mutavano continuamente. Il numero dei libri aumentava sempre, poiché
non solo egli ne portava dei pacchi dalle biblioteche ma ne riceveva
spesso per posta. L'inquilino di quella stanza poteva essere uno
scienziato. Vi si intonavano anche il fumo di sigaro che avvolgeva
ogni cosa e i mozziconi e i portacenere sparsi dappertutto. Ma una
gran parte di quei volumi non erano libri di scienza, per lo più
erano opere di poesia di tutti i tempi e di tutti i popoli. Sul
divano, dove egli rimaneva coricato per giornate intere, stettero per
qualche tempo i sei grossi tomi di un'opera intitolata Viaggio di
Sofia da Memel alla Sassonia, della fine del secolo XVIII. Molto
usata era anche un'edizione completa di Goethe e una di Jean Paul, e
così pure Novalis, ma anche Lessing, Jacobi e Lichtenberg. Alcuni
volumi di Dostojevski erano pieni di biglietti di appunti. Sulla
tavola più grande fra mucchi di libri e riviste c'era spesso un mazzo
di fiori e vicino a questo la cassetta dei colori, ma sempre coperta
di polvere, e i portacenere e, per dire anche questo, non poche
bottiglie. Un fiasco rivestito di paglia era per lo più pieno d'un
vino rosso italiano che egli andava a prendere in un'osteria vicina;
qualche volta si vedeva anche una bottiglia di Borgogna o di Malaga,
e una volta vidi quasi vuotarsi in breve tempo una grossa bottiglia
di spirito di ciliege e scomparire poi in un angolo della stanza dove
si coprì di polvere senza che il contenuto diminuisse più. Non
intendo giustificarmi del mio spionaggio e voglio anzi confessare che
nei primi tempi quelle testimonianze d'una vita piena d'interessi
spirituali, ma disordinata e traviata, mi incutevano disgusto e
diffidenza. Io sono un buon borghese e faccio vita regolata, una vita
di lavoro con un dato orario, non solo, ma sono anche astemio e non
fumo: quei fiaschi e quelle bottiglie nella stanza di Haller mi
piacevano quindi anche meno che il suo pittoresco disordine.
Come era sregolato e capriccioso nel dormire e lavorare, così lo
era anche nel mangiare e bere. Certi giorni non usciva affatto e non
prendeva niente altro che il caffè alla mattina, qualche volta mia
zia trovava unico residuo del suo pasto una buccia di banana, ma
altre volte mangiava nei ristoranti eleganti e signorili oppure anche
in piccole trattorie del suburbio. In quanto a salute pareva non
stesse bene; oltre ad avere le gambe malferme, per cui saliva le
scale con molta fatica, pareva tormentato anche da altri disturbi e
una volta ebbe a dire che da anni non aveva digerito bene né dormito
tranquillamente. Io attribuivo quei disturbi al troppo bere. Più
tardi, quando l'accompagnavo qualche volta nelle trattorie, lo vidi
tracannare il vino rapidamente e nervosamente, ma né io né altri
l'abbiamo mai visto ubriaco.
Non dimenticherò mai il nostro primo familiare incontro. Ci
conoscevamo soltanto come si conoscono i vicini in una casa dove si
affittano appartamenti. Una sera ritornando dall'ufficio trovai con
mio stupore Haller seduto sulla scala fra il primo e il secondo
piano. Si era seduto sull'ultimo gradino e si spostò per lasciarmi
passare. Gli domandai se si sentisse male e mi offersi di
accompagnarlo fin sopra.
Haller mi guardò e mi parve di averlo quasi destato da un sogno.
Cominciò a sorridere, di quel suo sorriso grazioso e doloroso che
spesso mi ha stretto il cuore, e m'invitò a sedermi accanto a lui. Lo
ringraziai e dissi che non avevo l'abitudine di mettermi a sedere
sulle scale davanti agli appartamenti altrui.
"Già già", disse sorridendo ancora "ha ragione. Ma aspetti un
momento, devo pur farle vedere perché non ho potuto fare a meno di
sedermi qui."
E così dicendo indicava il pianerottolo del primo piano dove
abitava una vedova. Sul pianerottolo di legno fra la scala, la
finestra e la porta d'entrata era appoggiato alla parete un armadio
di mogano con, sopra, vecchie stoviglie di stagno, e per terra
davanti all'armadio, su due sgabellini, c'erano due vasi con
un'azalea e un'araucaria. Erano piante molto belle e tenute sempre
pulitissime, tant'è vero che lo avevo notato anch'io con piacere.
"Ecco, vede", continuò Haller "questo pianerottolo con l'araucaria
ha un odore delizioso, non riesco mai a passare senza fermarmi un
momento. Anche da sua zia regna il buon odore, c'è ordine e pulizia
massima; ma questo posticino con l'araucaria è così pulito, così
spolverato e lavato e lustrato, così immacolato che sembra luminoso.
Non posso fare a meno di aspirare quest'aria a pieni polmoni... non
lo sente anche lei? L'odore della cera e un lontano sentore di
trementina insieme con il mogano, con le piante lavate e tutto questo
profumo formano un superlativo di candore borghese, di precisione e
accuratezza, di fedeltà e dovere compiuto. Non so chi ci abiti, ma
dietro questa porta ci dev'essere un paradiso di pulizia e di
borghesia spolverata, di ordine e di meticolosa e commovente
dedizione a piccole abitudini, a piccoli doveri."
E poiché tacevo, soggiunse: "Non creda, per carità, che io faccia
dell'ironia! Caro signore, nessun pensiero è lontano da me quanto
l'intenzione di deridere quest'ordine borghese. Io sì, è vero, vivo
in un altro mondo, non in questo, e forse non sarei capace di
resistere neppur un giorno in una casa con queste araucarie. Ma pur
essendo un vecchio e un po' sordido lupo della steppa, sono anch'io
figlio di mamma, e anche mia madre era una buona borghese e coltivava
i fiori e badava alle stanze e alle scale, ai mobili e alle tendine,
e si sforzava di dare alla casa e alla vita la massima pulizia e
accuratezza, il massimo ordine. Questo mi rammenta il sentore di
trementina, questo mi rammenta l'araucaria, e perciò mi metto qui a
sedere e a guardare la piccola silenziosa oasi di ordine e sono
felice che tali cose esistano ancora".
Fece per alzarsi, ma con fatica, e accettò volentieri il mio aiuto.
Io continuai a tacere ma, com'era capitato prima a mia zia, fui preso
da non so quale fascino che lo strano individuo esercitava. Salimmo
insieme lentamente e davanti la porta, tenendo già in mano la chiave,
egli mi guardò negli occhi con molta affabilità e disse: "Lei ritorna
dal lavoro? Già, sono cose che io non capisco, io vivo un po' in
disparte, vivo, capisce? un po' in margine. Ma credo che anche lei
s'interessi ai libri e a cose simili; sua zia mi ha detto che ha
fatto il ginnasio ed era bravo in greco. Vede, questa mattina ho
trovato un pensiero di Novalis: lo vuol sentire? Farà piacere anche a
lei".
Mi fece entrare nella stanza piena di odor di fumo, prese un libro
da uno dei mucchi, sfogliò, cercò...
"Anche questa è buona, molto buona" disse. "Ascolti un po':
"Bisognerebbe essere orgogliosi del dolore: ogni dolore ci rammenta
il nostro alto livello". Benissimo. Ottant'anni prima di Nietzsche!
Ma non è questo il pensiero che cercavo... aspetti... eccolo qua.
Dunque: "La maggior parte degli uomini non vuol nuotare prima di
saper nuotare". Spiritosa, vero? Certo che non vogliono nuotare. Sono
nati per la terra, non per l'acqua. E naturalmente non vogliono
pensare: infatti sono nati per la vita, non per il pensiero. Già, e
chi pensa, chi concentra la vita nel pensiero può andare molto
avanti, è vero, ma ha scambiato la terra con l'acqua e a un certo
momento affogherà."
Ormai mi aveva conquiso e interessato, e perciò rimasi un pò con
lui, e dopo di allora accadeva spesso che incontrandoci sulle scale o
per la strada ci fermassimo a scambiare qualche parola. Da principio,
come mi era capitato presso l'araucaria, avevo sempre un pochino
l'impressione che mi prendesse in giro. Ma non era così. Di me, come
dell'araucaria, aveva molta stima, era talmente convinto di essere
isolato, di nuotare nell'acqua, di aver perduto le radici, che si
entusiasmava effettivamente e senza ombra d'ironia alla vista di un
atto borghese comunissimo, alla puntualità, per esempio, con cui
andavo in ufficio o alle parole d'una persona di servizio o di un
tranviere. Dapprima la cosa mi parve ridicola ed esagerata, mi parve
un capriccio da vagabondo, un sentimentalismo poco serio. Ma sempre
più dovetti convincermi che ammirava e amava veramente il nostro
mondo piccolo-borghese; appunto perché viveva in un'aria rarefatta ed
estranea, da vero lupo della steppa, amava questo mondo solido e
sicuro che gli era lontano e irraggiungibile e gli appariva come una
patria di pace senza vie d'accesso. Davanti alla nostra domestica,
una brava donna, si levava sempre il cappello con vero rispetto, e
quando mia zia discorreva un po' con lui o gli faceva notare la
necessità di un rammendo nella biancheria o un bottone penzolante al
soprabito, stava a sentire con molta attenzione e tutto concentrato
quasi facesse uno sforzo indicibile per penetrare da qualche
spiraglio in quel piccolo mondo pacifico e sentirvisi a casa propria,
sia pure per brevi istanti.
Già in quel primo colloquio presso l'araucaria si definì "lupo
della steppa", e anche questo mi stupì e mi turbò. Che razza di
espressione! Ed accettai quel nome non solo per abitudine, ma arrivai
persino a chiamarlo così quando pensavo a lui, a chiamarlo sempre il
lupo della steppa, e nemmeno ora saprei trovargli un nome più adatto.
Un lupo della steppa smarritosi fra noi nelle città, nella nostra
vita di mandre: non vi poteva essere immagine più azzeccata per
definire quel suo schivo isolamento, la sua aria selvatica e
irrequieta, la sua nostalgia senza patria.
Una volta potei osservarlo per tutta una sera a un concerto
sinfonico dove lo trovai con molta sorpresa, seduto poco distante da
me senza che egli mi scorgesse. Il concerto incominciò con un pezzo
di Händel, una musica bella e nobile, ma il lupo della steppa rimase
assorto, senza collegamento né con la musica né con l'ambiente. Stava
là solitario, estraneo, a capo chino con un'espressione fredda e
preoccupata. Seguì una breve sinfonia di Friedemann Bach e allora mi
meravigliai di vederlo sorridere dopo poche battute e abbandonarsi
totalmente alla musica, e per buoni dieci minuti mi parve felice e
perduto in un sogno talmente che badavo più a lui che alla musica.
Terminato il pezzo si destò, si raddrizzò sulla sedia, fece l'atto di
alzarsi come per andarsene ma restò seduto e stette a sentire anche
l'ultimo pezzo: variazioni di Reger, una musica che a molti parve
troppo lunga e faticosa. Anche il lupo della steppa che da principio
aveva ascoltato attentamente e volentieri ridivenne estraneo, mise le
mani in tasca e rimase assorto, ma questa volta non dentro un sogno
felice bensì in una tristezza cattiva che lo fece sembrare, col viso
grigio, opaco, vecchio e malato e scontento.
Dopo il concerto lo rividi per la strada e gli andai dietro.
Stretto nel cappotto camminava stanco e svogliato in direzione del
nostro quartiere, ma davanti a una vecchia trattoria si fermò
indeciso, guardò l'orologio ed entrò. Lì per lì mi venne la voglia di
seguirlo e anch'io entrai. Lo trovai seduto a un tavolino modesto, la
padrona e la cameriera lo salutavano come si saluta un cliente
familiare e anch'io salutai e andai a sedermi vicino a lui. Rimanemmo
là un'ora e mentre io bevevo due bicchieri di acqua minerale, lui si
fece portare mezzo litro di vino rosso e poi ancora un quarto. Gli
dissi che ero stato al concerto, ma non abboccò. Lesse l'etichetta
della mia bottiglia d'acqua minerale e m'invitò a prendere un
bicchiere di vino. Quando apprese che non bevo mai, rimase perplesso
e osservò: "Già, ha ragione lei. Anch'io sono vissuto astemio per
molti anni e ho anche digiunato, ma in questo momento vivo sotto il
segno dell'Acquario, segno tenebroso e umido".
Scherzando su quest'allusione dissi che mi pareva inverosimile che
proprio lui credesse nell'astrologia, ed egli riprendendo quel tono
troppo gentile che talvolta mi offendeva replicò: "Giustissimo: anche
in cotesta scienza non posso credere purtroppo".
Lo lasciai là ed egli ritornò a casa solo molto tardi, ma aveva il
solito passo e come sempre non andò subito a letto (avendo la camera
vicina udivo tutto perfettamente), ma si trattenne ancora un'oretta
nello studio con la luce accesa.
Anche un'altra sera mi è rimasta impressa nella mente. Ero solo in
casa, la zia era uscita, e udii suonare il campanello. Andai ad
aprire e mi trovai davanti a una donna giovane e bellissima la quale
mi chiese del signor Haller: allora la riconobbi: era l'originale
della fotografia appesa nella stanza di lui. Le indicai la porta e mi
ritirai. Lei rimase là per poco e poi li udii scendere insieme e
uscire conversando animatamente e scherzando. Rimasi molto stupito
che l'eremita avesse un'amante e per giunta così giovane, elegante e
bella, e tutte le mie ipotesi su lui e la sua vita ne furono
sconvolte. Ma dopo meno di un'ora ritornò a casa, solo, con quel suo
passo pesante e triste, salì faticosamente e passeggiò per ore e ore
nella sua stanza in silenzio, proprio come un lupo in gabbia, e per
tutta la notte fin quasi al mattino tenne la luce accesa.
Della sua relazione non so niente e dirò soltanto che lo vidi
un'unica volta ancora con quella donna in una via della città.
Andavano a braccetto e lui pareva felice; e notai con stupore quanta
grazia infantile potesse avere quel suo viso solitario e tormentato,
e capii la donna, capii anche la simpatia che mia zia provava per
lui. Ma anche quella sera ritornò a casa triste e addolorato; lo
incontrai sulla soglia di casa; come altre volte, aveva sotto il
cappotto il fiasco che gli tenne compagnia per mezza nottata lassù
nella sua tana. Mi fece pena: che vita era mai la sua, così
sconfortata, sperduta e senza difese!
Basta, abbiamo chiacchierato abbastanza. Non c'è bisogno di altre
parole o descrizioni per far intendere che il lupo della steppa
faceva la vita del suicida. Tuttavia non credo che si sia tolto la
vita quando un bel giorno all'improvviso e senza prendere commiato,
ma dopo aver pagato tutto quanto doveva, lasciò la città e scomparve.
Non abbiamo avuto mai più sue notizie e conserviamo ancora alcune
lettere che arrivarono per lui dopo la sua partenza. Non lasciò altro
che il manoscritto al quale si era dedicato durante il suo soggiorno
e che aveva offerto a me con poche righe dicendo che potevo farne
quel che volevo.
Non mi fu possibile controllare la realtà dei fatti narrati nel
manoscritto di Haller. Non dubito che siano in gran parte opera di
poesia, non già invenzione arbitraria ma tentativo di esprimere fatti
spirituali profondamente vissuti, rappresentandoli sotto la veste di
avvenimenti concreti. I fatti in parte fantastici nel racconto di
Haller riguardano probabilmente l'ultimo periodo del suo soggiorno
nella nostra città e non dubito che ci sia anche una parte di realtà,
di cose avvenute. In quel periodo il nostro ospite aveva mutato
aspetto e contegno, stava molto fuori di casa, talvolta notti intere,
e non toccava più i libri. Le poche volte che ebbi occasione
d'incontrarlo pareva più vivace e ringiovanito, talora persino
allegro. Ma poco dopo per una nuova e grave depressione rimaneva a
letto intere giornate senza chieder da mangiare, e in quell'epoca ci
fu anche una lite violenta, anzi brutale con la sua amante riapparsa,
lite che mise in subbuglio tutta la casa, e Haller il giorno dopo si
scusò con mia zia.
Certo, io sono convinto che non si è tolto la vita. E' ancora vivo,
e in qualche luogo va trascinando le gambe stanche su e giù per le
scale di case estranee, guarda i pavimenti lucidati e le araucarie
ben curate, passa la giornata nelle biblioteche e le notti nelle
osterie e se ne sta coricato su un sofà d'affitto, ad ascoltare il
mondo e gli uomini che vivono al di là delle sue finestre, sapendo di
esserne escluso, ma non si uccide poiché un resto di fede gli dice
che deve assaporare sino alla fine la sofferenza, l'atroce sofferenza
che ha nel cuore, e che di questa sofferenza dovrà morire. Penso
spesso a lui, all'uomo che non mi ha reso più facile la vita poiché
non aveva il dono di sorreggere e aumentare quel tanto che c'è in me
di energia e di letizia. Al contrario! Ma io non sono lui, non faccio
la vita sua ma la mia, una vita piccola e borghese ma sicura e ligia
al dovere. Perciò possiamo pensare a lui con tranquillità e amicizia,
tanto io quanto mia zia, la quale saprebbe dire di lui più di quanto
non ne sappia io, ma sono cose che lei tiene nascoste nel cuore
caritatevole.
Per quanto riguarda le memorie di Haller, fantasie strane in parte
morbose in parte belle e piene di pensiero, devo dire che se mi
fossero capitate tra le mani per caso e non avessi conosciuto
l'autore, le avrei buttate via indignato. Ma avendo conosciuto Haller
mi fu dato di comprenderle almeno in parte e anzi di approvarle. Mi
farei scrupolo di comunicarle ad altri se vi scorgessi soltanto le
fantasie patologiche di un singolo e povero malato di mente. Vi
scorgo invece qualche cosa di più, un documento del tempo, poiché la
malattia psichica di Haller (oggi lo so) non è l'ubbia di un
individuo, bensì il male del nostro tempo, la nevrosi della
generazione alla quale Haller appartiene e dalla quale non sembrano
colpiti soltanto gl'individui deboli e minorati, ma proprio i forti e
i più intelligenti.
Queste memorie, non importa quanto o quanto poco vi possa essere di
vero e reale, sono un tentativo di vincere la malattia dell'epoca non
aggirandola o mascherandola, bensì facendo di essa argomento di
descrizione. Esse sono, alla lettera, un viaggio attraverso
l'inferno, un viaggio ora angoscioso ora coraggioso attraverso il
caos d'un mondo psichico ottenebrato, un viaggio intrapreso con la
volontà di attraversare l'inferno, di tener testa al caos, di
soffrire il male sino in fondo.
Alcune parole di Haller mi hanno pòrto la chiave di questa
comprensione. Egli mi disse una volta, dopo che si era parlato delle
così dette crudeltà nel medio evo: "In realtà queste non sono
crudeltà. Un uomo del medio evo avrebbe orrore dello stile di tutta
la nostra vita moderna e lo chiamerebbe, peggio che crudele,
spaventevole e barbaro. Ogni epoca e civiltà, ogni costume e
tradizione hanno il loro stile, hanno le tenerezze e le durezze, le
bellezze e le crudeltà che loro si confanno, considerano ovvie certe
sofferenze, accettano con pazienza certi mali. Sofferenza vera,
inferno diventa la vita umana solo quando due epoche, due civiltà,
due religioni s'intersecano. Un uomo dell'antichità che avesse dovuto
vivere nel medio evo vi sarebbe miseramente soffocato, allo stesso
modo che dovrebbe soffocare un selvaggio in mezzo alla civiltà
nostra. Ora, ci sono tempi nei quali un'intera generazione viene a
trovarsi fra due epoche, fra due stili di vita in modo da perdere
ogni naturalezza e costume e riparo e innocenza. S'intende che non
tutti lo sentono ugualmente. Una natura come quella di Nietzsche ha
dovuto soffrire in anticipo la miseria di oggi, in anticipo di più
che una generazione: ciò che egli dovette assaporare solitario e
incompreso, oggi lo soffrono migliaia e migliaia di uomini".
Leggendo il manoscritto mi venne fatto di pensare più volte a
queste parole. Haller è uno di quelli che vengono a trovarsi fra due
epoche, che hanno perduto ogni protezione e innocenza, uno di quelli
che il destino costringe a vivere tutte le ambiguità della vita umana
come sofferenza e inferno personale.
Questo mi sembra il significato che le sue Memorie possono avere
per noi, e per questo mi sono deciso a pubblicarle. Del resto, non
voglio né farne l'apologia né condannarle: pensi il lettore a
giudicarle secondo coscienza!
Memorie di Harry Haller Soltanto per pazzi.
Il giorno era trascorso come appunto trascorrono i giorni; lo avevo
passato, lo avevo delicatamente ammazzato con la mia timida e
primitiva arte di vivere; avevo lavorato alcune ore, sfogliato vecchi
libri, avevo avuto per due ore un dolore come capita alle persone
anziane, avevo preso una polverina godendomela al pensiero che si può
vincere il dolore con l'astuzia, avevo fatto un bagno caldo
sorbendomi il delizioso calore, ricevuto tre volte la posta e scorso
quelle inutili lettere e stampe, avevo fatto i miei esercizi di
respirazione ma omesso per comodità gli esercizi di pensiero, ero
andato a passeggiare un'oretta e avevo trovato disegnati nel cielo
certi modelli di nuvolette delicate e preziose. Tutto era molto
bello, tanto la lettura dei vecchi libri quanto l'immersione
nell'acqua calda, ma tutto sommato non era stata una giornata di
felicità entusiasmante né di gioia raggiante, bensì una di quelle
giornate che da parecchio tempo dovrebbero essere per me normali e
comuni: giornate moderatamente piacevoli, abbastanza sopportabili,
giornate tepide e passabili d'un uomo non più giovane e malcontento,
giornate senza dolori particolari, senza particolari preoccupazioni,
senza crucci veri e propri, senza disperazione, giornate nelle quali
si esamina pacatamente, senza agitazioni o timori, la questione se
non sia ora di seguire l'esempio di Adalberto Stifter e di esser
vittime di una disgrazia facendosi la barba.
Chi ha assaggiato le altre giornate, quelle cattive, quelle con gli
attacchi di gotta e col mal di testa appostato dietro i bulbi degli
occhi, che trasforma, con diabolica stregoneria, ogni gioiosa
attività dell'occhio e degli orecchi in una tortura, o quelle
giornate di lenta morte spirituale, le maligne giornate di vuoto
interiore e di disperazione nelle quali, in mezzo alla terra
distrutta e svuotata dalle società per azioni, gli uomini e la così
detta civiltà col suo orpello di latta mentito e volgare ti ghignano
incontro ad ogni passo come un emetico concentrato e portato nel
proprio io malato all'apice dell'insofferenza: chi ha assaporato
quelle giornate infernali si dice ben soddisfatto dei giorni normali
e così così, dei giorni come questo, e si siede riconoscente presso
la stufa calda, nota riconoscente, alla lettura del giornale, che
nemmeno oggi è scoppiata una guerra, che non è sorta un'altra
dittatura, non si è scoperta alcuna grossa porcheria nella politica e
nell'economia, e con gratitudine accorda la sua lira arrugginita per
intonarvi un salmo di grazie moderato, passabilmente lieto, quasi
allegro, con cui annoiare il suo Dio della contentezza, un Dio così
così, silenzioso, soave, un po' intontito dal bromuro, sicché
nell'aria grassa e tepida di questa noia soddisfatta, della benvenuta
assenza di dolore quei due, il Dio così così, triste e appisolato, e
l'uomo così così, leggermente brizzolato e intento a cantare
sommessamente il salmo, si assomigliano come due gemelli.
Sono una bella cosa la contentezza, l'assenza di dolore, le
giornate tollerabili e accucciate nelle quali né il dolore né il
piacere osano alzar la voce, ma tutto bisbiglia e cammina in punta di
piedi. Se non che io sono purtroppo fatto così, non sopporto questa
contentezza, che dopo un po' mi diventa odiosa e insopportabile e
ributtante, e devo rifugiarmi disperato in altre atmosfere,
possibilmente passando per le vie del piacere ma, in caso di bisogno,
anche per le vie del dolore. Quando sono stato per un po' senza
piaceri e senza dolori e ho respirato l'insipida sopportabilità delle
così dette buone giornate, la mia anima infantile è talmente agitata
dal vento della miseria che prendo la lira arrugginita della
gratitudine e la scaglio in faccia al sonnacchioso e soddisfatto Dio
della contentezza e preferisco sentirmi ardere da un dolore diabolico
piuttosto che vivere in questa temperatura sana. Allora avvampa
dentro di me un desiderio selvaggio di sentimenti forti,
spettacolari, una rabbia contro questa vita piatta, sfumata, normale
e sterilizzata, e una voglia folle di fracassare qualche cosa, non
so, un magazzino o una cattedrale o me stesso, di commettere pazzie
temerarie, di strappare la parrucca a un paio di idoli venerati, di
fornire a qualche scolaro ribelle il desiderato biglietto ferroviario
per Amburgo, di sedurre una ragazzina o di torcere il collo a qualche
rappresentante dell'ordine borghese nel mondo. Questo infatti ho più
che mai odiato, aborrito e maledetto: questa soddisfazione, la salute
pacifica, il grasso ottimismo del borghese; la prospera disciplina
dell'uomo mediocre, normale, dozzinale.
In questo stato d'animo conchiusi sul far della notte quella
passabile giornata dozzinale. La conchiusi non già in un modo normale
e proficuo per un uomo piuttosto sofferente, lasciandomi imprigionare
dal letto pronto e dall'esca dello scaldino con l'acqua calda, ma
infilandomi invece le scarpe, insoddisfatto e schifato del po' di
lavoro eseguito durante la giornata, mettendomi il cappotto sulle
spalle e andando in città in mezzo alla nebbia tenebrosa per bere
nella locanda dell'Elmo d'acciaio, quello che secondo un'antica
convenzione i bevitori chiamano un "dito di vino".
Scesi dunque dalla mia mansarda giù per quelle scale faticose in
terra straniera, scale perfettamente borghesi, ripulite, spazzolate,
di una casa molto per bene dove abitano tre famiglie e sotto il cui
tetto ho il mio rifugio. Non so come mai, ma io, lupo della steppa
senza patria e solitario odiatore del mondo piccolo-borghese, abito
sempre in vere case borghesi: è un mio vecchio sentimentalismo. Non
abito palazzi né stamberghe proletarie, ma proprio quei nidi di
piccoli borghesi sommamente ammodo, sommamente noiosi, tenuti alla
perfezione, dove c'è un sentore di trementina e di sapone e dove si
rimane costernati quando si sbatte per caso la porta o si entra con
le scarpe sporche. Questa atmosfera mi è certamente cara fin da
quando ero bambino e la nostalgia segreta di qualche cosa che sappia
di patria, mi guida senza speranza, sempre per queste stupide vecchie
vie. Proprio così, e mi piace anche il contrasto fra la mia vita
solitaria, affannata, senz'amore e così sregolata e questo ambiente
familiare e borghese. Mi piace respirare per le scale questo odore di
pace, di ordine, di pulizia, di decenza, di vita domestica che ha
sempre qualche cosa di commovente nonostante il mio odio per la vita
borghese, e mi piace oltrepassare la soglia della mia stanza dove
tutto ciò finisce, dove tra i mucchi di libri sono sparsi i mozziconi
di sigaro e le bottiglie di vino, dove tutto è disordinato,
trascurato, estraneo e dove ogni cosa, libri manoscritti pensieri, è
segnata e imbevuta della miseria di questo solitario, della
problematicità dell'esistenza umana, del desiderio di dare un nuovo
significato alla vita ormai insensata.
Poi passai davanti all'araucaria. Al primo piano, infatti, di
questa casa, la scala porta al pianerottolo di un'abitazione,
certamente più pulita, più irreprensibile, più lucidata delle altre,
poiché brilla di attenzioni sovrumane, è un luminoso tempietto
dell'ordine. Sui parchetti, sopra i quali si ha riguardo di passare,
ci sono due graziosi sgabelli e su ogni sgabello un gran vaso:
nell'uno cresce un'azalea, nell'altro un'araucaria piuttosto vistosa,
un alberello sano, ritto e perfettissimo, e fin l'ultimo ago
sull'ultimo ramo luccica di freschezza e pulizia. Qualche volta,
quando so di non essere osservato, faccio di quell'anticamera un
tempio, mi siedo su un gradino un po' più in alto dell'araucaria e
riposo a mani giunte guardando religiosamente quel piccolo giardino
dell'ordine, la cui manutenzione commovente e la ridicola solitudine
mi conquidono in qualche modo. Al di là di quel pianerottolo,
all'ombra sacra, per così dire, dell'araucaria suppongo un'abitazione
coi mobili di mogano lucido e una vita piena di buone maniere e di
salute, dove ci si alza per tempo, si adempiono i propri doveri, si
celebrano feste di famiglia moderatamente serene, si va in chiesa la
domenica e ci si corica presto.
Con finta gaiezza trotterellai sull'asfalto umido delle strade, la
luce dei fanali attraversava lacrimosa e velata l'umidità torbida e
fredda e succhiava dal suolo bagnato pigre immagini riflesse. Mi
passarono per la mente gli anni dimenticati di quand'ero giovane:
come amavo allora le sere buie e opache del tardo autunno e
dell'inverno, come assorbivo avidamente e inebriato le impressioni di
solitudine e malinconia quando stretto nel cappotto correvo per mezze
nottate sotto la pioggia e la bufera nella natura nemica e senza
foglie, solitario anche allora, ma pieno di godimenti profondi e di
versi che poi scrivevo alla luce della candela nella mia cameretta,
seduto sulla sponda del letto! Tutte cose passate. Quel calice era
vuotato e nessuno me lo riempiva più. Era un peccato che fosse così?
No, non era un peccato. Quel che è passato è passato. Mi faceva pena
invece il presente, l'oggi, tutte le ore infinite e i giorni che
perdevo, che soffrivo senza che mi portassero doni o commozioni. Ma,
grazie a Dio, c'erano anche eccezioni, c'erano talvolta, di rado,
anche ore diverse, che recavano commozioni, che recavano doni,
abbattevano muri e riportavano me sperduto verso il cuore vivente del
mondo. Triste, eppure intimamente agitato, cercai di ricordare
l'ultimo fatto di questo genere. Era stato a un concerto dove si dava
una magnifica musica antica: ed ecco, fra due battute d'un pianissimo
suonato dai legni mi si riaprì improvvisamente la porta dell'al di
là; attraversai a volo i cieli e vidi Iddio al lavoro, soffersi pene
deliziose e non cercai più di difendermi da alcuna cosa al mondo, non
ebbi più paura di nulla, accettai tutto e mi vi abbandonai col cuore.
Non era durato a lungo, forse un quarto d'ora, ma tutto ciò era
ritornato nel sogno di quella notte e da allora aveva ripreso a
brillare ogni tanto nelle giornate deserte, e per alcuni minuti
vedevo chiaramente una divina traccia d'oro che attraversava la mia
vita, quasi sempre coperta di polvere e fango, e la vedevo risorgere
in auree faville e pareva non la dovessi perdere mai più, e tuttavia
la riperdevo subito. Una notte mentre ero a letto sveglio recitai a
un tratto alcuni versi, troppo belli e troppo strani perché avessi
potuto pensare a metterli sulla carta, versi che al mattino non
ricordavo più, eppure erano chiusi nel mio cuore come la noce grave
in un vecchio guscio fragile. Altre volte quella scia luminosa mi
appariva alla lettura di un poeta o quando ripensavo un pensiero di
Cartesio, di Pascal, e quando ero assieme alla mia diletta mi portava
nei cieli per tramiti dorati. Oh, è difficile trovare la traccia
divina in mezzo alla vita che facciamo, in questo tempo così
soddisfatto, così borghese, così privo di spirito, alla vista di
queste architetture, di questi negozi, di questa politica, di questi
uomini! Come potrei non essere un lupo della steppa, un sordido
anacoreta in un mondo del quale non condivido alcuna mèta, delle cui
gioie non vi è alcuna che mi arrida? Non resisto a lungo né in un
teatro né in un cinema, non riesco quasi a leggere il giornale, leggo
raramente un libro moderno, non capisco quale piacere vadano a
cercare gli uomini nelle ferrovie affollate e negli alberghi, nei
caffè zeppi dove si suonano musiche asfissianti e invadenti, nei bar
e nei teatri di varietà delle eleganti città di lusso, nelle
esposizioni mondiali, alle conferenze pei desiderosi di cultura, nei
grandi campi sportivi: non posso condividere, non posso comprendere
queste gioie che potrei avere a portata di mano e che mille altri si
sforzano di raggiungere. Ciò che invece mi accade nelle rare ore di
gioia, ciò che per me è delizia, estasi ed elevazione, il mondo lo
conosce e cerca e ama tutt'al più nella poesia: nella vita gli
sembrano pazzie. Infatti se il mondo ha ragione, se hanno ragione le
musiche nei caffè, i divertimenti in massa, la gente americana che si
contenta di così poco, vuol dire che ho torto io, che sono io il
pazzo, il vero lupo della steppa, come mi chiamai più volte,
l'animale sperduto in un mondo a lui estraneo e incomprensibile, che
non trova più la patria, l'aria, il nutrimento.
Con questi usati pensieri proseguii per le strade bagnate
attraverso uno dei più silenziosi e più vecchi rioni della città. Ed
ecco al di là della strada, nel buio il vecchio muro grigio che
osservavo sempre con piacere: era sempre lì, antico e impassibile,
fra una chiesetta e un antico ospedale, e di giorno posavo volentieri
il mio sguardo su quella superficie ruvida; c'erano poche superfici
così buone e silenziose nel centro della città dove su ogni mezzo
metro quadrato un negozio, un avvocato, un inventore, un medico, un
parrucchiere o un callista ti gridava in faccia il proprio nome.
Anche ora rividi il vecchio muro tranquillo e pacifico, eppure c'era
qualche cosa di mutato: nel mezzo del muro notai un piccolo portale
elegante, a sesto acuto, e rimasi sconcertato poiché non capivo se il
portale c'era sempre stato o se era una cosa nuova. Antico era
d'aspetto, non c'è dubbio, antichissimo; probabilmente l'ingresso,
chiuso dalla porta di legno scuro, aveva dato già da secoli nel
cortile di qualche convento addormentato e vi dava anche ora, anche
se il convento non c'era più, e la porta l'avevo vista forse mille
volte ma senza farci caso; forse era verniciata di fresco e perciò mi
diede nell'occhio. Comunque fosse, mi fermai e stetti ad osservare ma
senza attraversare la strada che era fangosa e molle; restai sul
marciapiede a guardare di là; era sull'imbrunire e mi parve che
intorno all'architrave ci fosse come una ghirlanda o qualche cosa di
colorato. E mentre mi sforzavo di veder meglio scorsi là sopra una
insegna illuminata sulla quale, così mi parve, c'era una scritta.
Tesi la vista, ma infine mi decisi ad attraversare nonostante il
fango e le pozze. Vidi allora sopra la porta, sull'antico grigiore
verdastro del muro, una macchia debolmente rischiarata sulla quale
correvano lettere mobili e colorate che tosto scomparivano, poi
ritornavano e svanivano. "To'", pensai "sta a vedere che hanno
sciupato questo buon vecchio muro con una reclame luminosa!" Intanto
però decifrai alcune di quelle parole fuggenti; era difficile leggere
e bisognava indovinare; le lettere arrivavano ad intervalli
irregolari, pallide e caduche, e si spegnevano subito. Colui che in
tal modo pretendeva di far quattrini, non era certo una persona
capace, era un lupo della steppa, un povero diavolo; perché faceva
danzare le sue lettere proprio su questo muro nella straducola più
buia della città vecchia, a quell'ora, con la pioggia, quando non ci
passava nessuno, e perché erano così fuggevoli, quelle lettere, così
soffiate, capricciose e illeggibili? Però, ecco, mi riuscì di
afferrare alcune parole in fila. Diceva:
Teatro magico
Ingresso libero non a tutti
...non a tutti.
Tentai di aprire la porta, ma la vecchia pesante maniglia non
cedette alla pressione. La danza delle lettere era terminata, cessata
improvvisamente, triste, conscia finalmente della sua inutilità. Mi
ritrassi di qualche passo, scesi nel fango, non vidi più altre
lettere, la danza era spenta e a lungo stetti ad aspettare nella
fanghiglia, invano.
Ma mentre rinunciavo ed ero risalito sul marciapiede, ecco
sgocciolare davanti a me, sull'asfalto specchiante, alcune lettere
luminose a colori.
Lessi:
Soltanto... per... pazzi!
Avevo i piedi bagnati e provavo un gran freddo, ma rimasi ad
aspettare ancora a lungo. Niente. Mentre stavo pensando allo
spettacolo grazioso di quelle lettere erranti, luminose e delicate,
che avevano sfiaccolato sul muro umido e sul lucido asfalto nero, mi
passò improvvisamente per il capo un frammento dei miei pensieri
precedenti: la similitudine della traccia d'oro luminosa che ad un
tratto si allontana e diventa introvabile.
Avevo freddo e mi avviai seguendo in sogno quella traccia,
desideroso della porta di quel teatro magico, solo per pazzi. Intanto
ero arrivato nella zona della piazza principale dove non mancavano
divertimenti notturni; a ogni passo c'era un manifesto o un cartello
invitante: Orchestrina di dame, Varietà, Cinema, Danze; ma non era
roba per me, era roba per "ognuno", per gente normale che infatti
vedevo accalcarsi agl'ingressi. Eppure la mia tristezza si era un po'
rischiarata, avevo pur avuto il saluto di un altro mondo, alcune
lettere colorate avevano danzato e toccato nel mio spirito accordi
sepolti, un barlume della traccia d'oro era riapparso visibilmente.
Cercai l'antica osteria dove non è avvenuto alcun mutamento dal mio
primo soggiorno in questa città, saranno venticinque anni, e anche la
padrona è quella di allora, e parecchi clienti di un tempo venivano a
sedersi agli stessi posti, davanti agli stessi bicchieri. Entrai
nella modesta osteria: almeno era un rifugio. Certo, per me era un
rifugio come all'incirca quello sul pianerottolo presso l'araucaria;
non era casa mia né una cerchia di conoscenti, ma soltanto un posto
silenzioso di spettatore, davanti a una scena sulla quale estranei
recitavano commedie lontane, ma quel posticino silenzioso valeva già
qualche cosa: niente folla, niente grida, niente musica, soltanto
alcuni cittadini tranquilli davanti a tavole di legno senza tovaglia
(niente marmo, niente ferro smaltato, niente velluto, niente ottone!)
e davanti a ciascuno il quartuccio della sera, un bicchiere di vino
buono e sincero. Può darsi che quei pochi clienti che conoscevo di
vista fossero piccoli borghesi e avessero a casa loro, nei loro
prosaici appartamenti, qualche deserto altare domestico davanti a
stupidi idoli della soddisfazione, o forse erano gente solitaria e
deragliata come me, silenziosi e pensierosi bevitori sopra ideali
falliti, lupi della steppa e poveri diavoli anche loro: non lo
sapevo. Ognuno era venuto lì portato da una nostalgia, da una
delusione, da un bisogno di surrogati: l'ammogliato vi cercava
l'atmosfera di quando era scapolo, il vecchio impiegato l'eco dei
suoi anni di studente, tutti erano piuttosto taciturni, tutti
bevitori, e come me stavano più volentieri davanti a un mezzo litro
di vino che davanti a un'orchestrina di dame. Lì buttai l'àncora, lì
si poteva resistere un'ora e anche due. Appena bevuto il primo sorso
di vino mi accorsi che non avevo mangiato nulla in tutta la giornata
dopo la colazione del mattino.
Strano quante cose l'uomo sappia ingoiare! Per circa dieci minuti
lessi un giornale, assorbii con gli occhi lo spirito di uno di quegli
individui irresponsabili che masticano e insalivano le parole altrui
rimettendole poi senza digerirle. Roba di tal genere mandai giù, una
colonna intera. Poi divorai un bel pezzo di fegato, fegato che
avevano strappato dal corpo di un vitello ucciso. Strano, la cosa
migliore era il vino. A me non piace pasteggiare con vini violenti e
furiosi, che si gloriano di forti attrattive e hanno famosi sapori
speciali. A me piacciono soprattutto i vini paesani puri, leggeri,
modesti, senza nomi particolari: se ne può bere molto e hanno un
sapore buono e amichevole di campagna, di terra, di cielo e di
piante. Un buon bicchiere e un pezzo di pane, ecco il migliore dei
pasti. Ora però avevo già in corpo una porzione di fegato, cibo
insolito per me che mangio carne raramente, e avevo empito il secondo
bicchiere. Ed era curioso pensare che certa brava gente sana in
qualche vallata verdeggiante coltivasse le viti e pigiasse l'uva
affinché qua e là per il mondo, molto lontano da loro, alcuni
cittadini delusi e trincanti o lupi della steppa sbandati potessero
succhiare dai calici un po' di coraggio e di buon umore.
Ma sì, fosse pure curioso! In ogni caso era un bene, un aiuto, e il
buon umore si fece strada. Su quel cibreo parolaio dell'articolista
mi feci in seguito una bella risata di sollievo e di punto in bianco
riebbi in testa la dimenticata melodia di quel pianissimo degli
strumenti a fiato: la sentii montare come una bolla di sapone
lustrante, luccicare, rispecchiare il mondo intero, piccola e
multicolore, e scoppiare dolcemente. Se era possibile che quella
piccola melodia divina mettesse radici segrete nel mio cuore e
facesse risbocciare un giorno il suo fiore soave e luminoso, potevo
forse essere perduto del tutto? Se anche ero un animale spaesato,
incapace di comprendere l'ambiente che avevo intorno, la mia stolta
vita aveva pure qualche significato, c'era in me qualche cosa che
rispondeva, che accoglieva i richiami di mondi lontani e sublimi, nel
mio cervello erano pure accatastate migliaia di immagini!
Erano schiere di angeli giotteschi su una piccola volta azzurra in
una chiesa di Padova, e accanto a loro Amleto e Ofelia inghirlandata,
belle similitudini di tutta la tristezza e di tutti i malintesi del
mondo; e nel pallone incendiato c'era l'aviatore Gianozzo e suonava
il corno; Attila Schmelzle teneva in mano il cappello nuovo; il
Borobudur inalzava al cielo la sua montagna di sculture. E ammesso
che tutte queste belle immagini vivessero in migliaia di altri cuori,
ce n'erano però altre decine di migliaia, visioni e suoni ignorati,
la cui patria, il cui occhio veggente, le cui orecchie vivevano
unicamente nel mio cuore. Il muro del vecchio ospedale con quelle
macchie di grigio e di verde, nelle cui crepe sfaldate si potevano
intuire migliaia di affreschi, chi gli dava risposta, chi lo
accoglieva nel proprio spirito, chi lo amava, chi sentiva il fascino
di quei colori dolcemente morenti? I vecchi libri dei monaci con le
delicate miniature luminose, i libri dei poeti tedeschi di duecento,
di cento anni or sono, dimenticati dal loro popolo, quei volumi
strapazzati e bisunti, le stampe e i manoscritti dei vecchi
musicisti, i fogli di note spessi e giallognoli coi loro sogni sonori
irrigiditi, chi ne ascoltava le voci spirituali, ora birichine e ora
nostalgiche, chi aveva il cuore pieno del loro spirito e della loro
attrattiva in un'epoca diversa e straniata da essi? Chi ricordava
ancora quel cipressetto tenace lassù sul monte sopra Gubbio, che,
scavezzato e spaccato da una frana, ciò nonostante era rimasto vivo e
aveva buttato una nuova magra vetta di ripiego? Chi rendeva giustizia
alla diligente padrona del primo piano e alla sua lustra araucaria?
Chi leggeva di notte al di sopra del Reno la scrittura delle nuvole e
delle nebbie migranti? Il lupo della steppa. E chi cercava al di
sopra delle macerie della vita il senso sfarfallante, soffriva le
cose apparentemente insensate, viveva le apparenti pazzie e, nel caos
sconvolto, sperava segretamente la rivelazione e la vicinanza di Dio?
Ritirai il bicchiere che la padrona mi voleva riempire ancora e mi
alzai. Non avevo più bisogno di vino. La traccia d'oro aveva mandato
un baleno, mi aveva ricordato l'Eterno e Mozart e le stelle. Potevo
respirare per un'ora, potevo vivere, mi era lecito esistere, non
occorreva che soffrissi, che avessi timore, che mi vergognassi.
La pioggerella sottile scarduffata dal vento gelido frustava i
fanali e luceva di bagliori vitrei allorché uscii nella strada
deserta. Dove andare? Se in quel momento avessi potuto disporre di
una bacchetta magica, mi sarei fatto portare in un grazioso
salottino, stile Luigi XVI, dove un paio di buoni musicanti mi
avrebbero sonato due o tre brani di Händel e di Mozart. Sarei stato
in vena e avrei sorbito la musica fresca e nobile come gli dei
sorbiscono il nettare. Oh, avessi avuto un amico, un amico in una
soffitta, intento a meditare al lume di candela con accanto un
violino! Come lo avrei sorpreso nel silenzio notturno arrampicandomi
senza far rumore su per le scale angolose! e avremmo passato tra
musica e discorsi un paio di ore sovrumane. Avevo avuto spesso quella
fortuna, a suo tempo, negli anni passati, ma anche questa si era
allontanata con l'andar del tempo, anch'essa mi era andata perduta e
frammezzo erano passati anni ormai sfioriti.
Un po' incerto mi mossi verso casa, tirai su il bavero e camminai
battendo il bastone sul lastrico bagnato. Potevo percorrere quel
tratto molto adagio, ma fin troppo presto mi sarei ritrovato nella
mia mansarda, in quella parvenza di casa mia, che non amavo, ma della
quale non potevo fare a meno, poiché erano passati i tempi in cui ero
in grado di camminare all'aperto una notte intera d'inverno con la
pioggia. Però non volevo guastarmi il buon umore della serata, né con
la pioggia né con la gotta né con l'araucaria, e se non era possibile
avere un'orchestra da camera o un amico solitario col violino, la
dolce melodia squillava tuttavia nel mio cuore e io potevo sonarla da
me, per accenni, sussurrandola fra le labbra e ritmando il respiro.
Camminavo immerso nei miei pensieri. Sì, era possibile vivere anche
senza la musica da camera, anche senza l'amico, ed era ridicolo
sfinirsi in un'impotente nostalgia di tepore. La solitudine è
indipendenza: l'avevo desiderata e me l'ero conquistata in tanti
anni. Era fredda, questo sì, ma era anche silenziosa,
meravigliosamente silenziosa e grande come lo spazio freddo e silente
nel quale girano gli astri.
Mentre passavo davanti a un locale di danze, fui investito da una
violenta musica di jazz, rozza e calda come un vapore di carne messa
a bollire. Mi fermai un istante: quella specie di musica, per quanto
mi fosse abominevole, aveva sempre per me una segreta attrattiva. Il
jazz mi era antipatico, ma lo preferivo di molto all'odierna musica
accademica, e con la sua gaia rusticità colpiva anche i miei istinti,
alitando un'ingenua e sincera sensualità.
Stetti un istante annusando quella musica sbraitante e sanguinosa,
fiutando l'atmosfera cattiva e libidinosa di quelle sale. Metà di
quella musica, la metà lirica, era burrosa, troppo zuccherata e
grondante di sentimentalità, l'altra metà era selvaggia, capricciosa
e robusta, eppure le due parti si accordavano ingenuamente e
pacificamente formando un intero. Era musica di decadenza: nella Roma
degli ultimi imperatori si deve aver suonato musica simile. S'intende
che, confrontata con Bach e Mozart e con la musica vera, era una
porcheria: ma porcheria è tutta la nostra arte, tutto il nostro
pensiero, tutta la nostra cultura apparente, non appena la si
confronti con la cultura vera. E quella musica aveva il pregio di una
grande sincerità, il pregio di essere un'amabile e non mentita musica
di negri, un capriccio lieto e infantile. Aveva un po' del negro e un
po' dell'americano che a noi europei sembra così puerilmente fresco e
ingenuo nella sua forza. Diventerà così anche l'Europa? Lo sta già
diventando? Noi vecchi studiosi e ammiratori dell'Europa di una
volta, della vera musica di una volta, della poesia vera di un tempo,
siamo forse soltanto una piccola stupida minoranza di nevropatici
complicati che domani saranno dimenticati e derisi? Quello che
chiamiamo "cultura", che chiamiamo spirito, anima, che diciamo bello,
sacro, è forse soltanto un fantasma morto da gran tempo e considerato
autentico e vivo soltanto da quel paio di pazzi che siamo noi? O non
è stato forse mai una cosa autentica e viva? Quello che noi cerchiamo
di raggiungere nella nostra pazzia è forse stato sempre un fantasma?
Arrivai al quartiere vecchio della città e vidi la piccola chiesa
svanita e irreale nel grigiore. E mi sovvenne della misteriosa porta
a sesto acuto, con quell'insegna enigmatica, con le lettere luminose
beffarde e danzanti. Che cosa dicevano? "Ingresso libero non per
tutti." E: "Soltanto per pazzi". Riguardai il vecchio muro
augurandomi che la magìa ricominciasse, che la scritta invitasse me
pazzo, che la porticina mi accogliesse. Chissà, forse là dentro era
quello che cercavo, forse là dentro si suonava la mia musica.
La buia parete di pietra mi guardava tranquilla, avvolta nelle
tenebre, chiusa e sprofondata nel suo sogno. E niente porta, niente
arco a sesto acuto: soltanto il muro nero e silenzioso, senza
apertura. Passai oltre sorridendo e facendo un cenno amichevole verso
la muraglia. "Dormi bene, muro, io non ti sveglio. Verrà il giorno in
cui ti abbatteranno o ti impiastreranno di avide insegne commerciali,
ma per ora sei costì, sei bello e silenzioso, e io ti voglio bene."
Vomitato dalla nera gola d'una via a pochi passi da me, un uomo mi
spaventò: era un individuo attardato che camminava con passo stanco,
vestito di una giubba turchina, il berretto in testa, e portava
appoggiata a una spalla una pertica con un manifesto; sul ventre
aveva una cassetta aperta attaccata a una cinghia, come usano i
venditori alla fiera. Passò oltre adagio senza guardarmi: altrimenti
lo avrei salutato e gli avrei regalato un sigaro. Alla luce del
prossimo fanale tentai di leggere il manifesto rosso appeso alla
pertica ma poiché ondeggiava, non potei decifrarlo. Allora chiamai
l'uomo e lo pregai di mostrarmi l'avviso. Egli si fermò, raddrizzò la
pertica e io potei leggere a lettere danzanti:
Serata anarchica!
Teatro magico!
Ingresso libero
non per tutti!
"Ecco, cercavo proprio voi!" esclamai con gioia. "Che serata è
codesta? Dove? A che ora?"
Ma quello si era già avviato.
"Non per tutti" disse indifferente, con voce assonnata e passò via.
Aveva fretta di arrivare a casa.
"Ferma!" esclamai rincorrendolo. "Che cosa avete nella cassetta?
Vorrei comprare qualche cosa."
Senza fermarsi l'uomo mise la mano nella cassetta, macchinalmente
ne trasse un librettino e me lo porse. Lo presi rapidamente e me lo
misi in tasca. Mentre mi sbottonavo il soprabito cercando il denaro,
quello infilò un portone, lo chiuse e scomparve. Udii i suoi passi
pesanti nel cortile, prima sopra un lastrico, poi su una scala di
legno, poi più nulla. E anch'io mi sentii molto stanco ed ebbi
l'impressione che fosse molto tardi e ormai ora di ritornare a casa.
Affrettai il passo e, attraversando il suburbio addormentato, arrivai
presto nella nostra zona dove impiegati e piccoli proprietari abitano
nelle casette linde al di là di qualche palmo di terreno erboso o
coperto di edera. Passando davanti all'edera, all'erba, a un piccolo
abete, raggiunsi la porta di casa, trovai la toppa, l'interruttore
della luce, salii riguardando le porte d'entrata, l'armadio lucido e
le piante nei vasi, e aprii la mia stanza, la mia casa fittizia dove
mi aspettavano un seggiolone e una stufa, il calamaio e la scatola
dei colori, e Novalis e Dostojevski, come gli altri, gli uomini veri,
quando ritornano a casa sono attesi dalla madre e dalla moglie, dai
figli, dai domestici, dai cani, dai gatti.
Quando mi tolsi il soprabito bagnato, mi ritrovai in mano il
libretto. Lo guardai: era un opuscolo sottile stampato male, su
pessima carta, come quei fascicoli che vendono alle fiere, L'uomo
nato in gennaio oppure Come ringiovanire di vent'anni in otto giorni.
Ma quando mi appollaiai nel seggiolone e inforcai gli occhiali,
lessi con stupore e con l'improvvisa intuizione di qualche cosa di
fatale, questo titolo sulla copertina del fascicolo: Il lupo della
steppa - Dissertazione - Soltanto per pazzi.
Ed ecco il contenuto dell'opuscolo che lessi d'un fiato con
attenzione sempre più viva:
"Il lupo della steppa"
Dissertazione
C'era una volta un tale di nome Harry, detto il "lupo della
steppa". Camminava con due gambe, portava abiti ed era un uomo, ma, a
rigore, era un lupo. Aveva imparato parecchio di quel che possono
imparare gli uomini dotati d'intelligenza, ed era uomo piuttosto
savio. Ma una cosa non aveva imparato: a essere contento di sé e
della sua vita. Non ci riusciva, era un uomo scontento. Ciò dipendeva
probabilmente dal fatto che in fondo al cuore sapeva (o credeva di
sapere) di non essere veramente un uomo, ma un lupo venuto dalla
steppa. I saggi potranno discutere se sia stato veramente un lupo e
una volta, forse prima della nascita, sia stato tramutato per
incantesimo da lupo in uomo, oppure sia nato uomo ma con un'anima di
lupo, o se magari questa persuasione, di essere veramente un lupo,
sia stata una sua fissazione o malattia. Potrebbe darsi, per esempio,
che costui sia stato nella fanciullezza stregato e indomabile e
disordinato, e che i suoi educatori abbiano cercato di ammazzare la
bestia che aveva dentro e proprio in questo modo abbiano suscitato in
lui la fantasia e la credenza di essere effettivamente una bestia,
con sopra soltanto una leggera crosta di educazione e di umanità. Su
questo argomento si potrebbe discorrere a lungo e in modo divertente
e scrivere magari dei libri; ma poco servirebbe al lupo della steppa,
poiché per lui era indifferente che il lupo fosse entrato in lui per
magìa o fosse soltanto una fantasia della mente. Quello che ne
potevano pensare gli altri o anche lui stesso non aveva per lui alcun
valore, non bastava a cavargli di dentro il lupo.
Il lupo della steppa dunque aveva due nature, una umana e una
lupina: questa era la sua sorte e può ben darsi che questa sorte non
sia poi né speciale né rara. Si son già visti, dicono, uomini che
avevano molto del cane o della volpe, del pesce o del serpente, senza
che per questo incontrassero particolari difficoltà nella vita. Vuol
dire che in costoro l'uomo e la volpe, l'uomo e il pesce vivevano
insieme, e nessuno faceva del male all'altro, anzi l'uno aiutava
l'altro, e in certi uomini che hanno fatto strada e sono invidiati
era stata la volpe o la scimmia piuttosto che l'uomo a fare la loro
fortuna. Sono cose che tutti sanno. Per Harry invece le cose stavano
diversamente: in lui l'uomo e il lupo non erano appaiati e meno
ancora si aiutavano a vicenda; al contrario, vivevano in continua
inimicizia mortale, e l'uno viveva a dispetto dell'altro, e quando in
un sangue e in un'anima ci sono due nemici mortali, la vita è un
guaio. Certo, ciascuno ha il suo destino e nessuno ha la vita facile.
Ora, nel nostro lupo della steppa avveniva questo: che nel suo
sentimento faceva ora la vita del lupo, ora quella dell'uomo, come
accade in tutti gli esseri misti, ma quando era lupo, l'uomo in lui
stava a guardare, sempre in agguato per giudicare e condannare... e
quando era uomo, il lupo faceva altrettanto. Per esempio, quando
Harry uomo concepiva un bel pensiero, provava un sentimento nobile e
fine o faceva una così detta buona azione, il lupo che aveva dentro
digrignava i denti e sghignazzava, e gli mostrava con sanguinoso
sarcasmo quanto era ridicola quella nobile teatralità sul muso d'un
animale della steppa, di un lupo che sapeva benissimo quali fossero i
suoi piaceri, trottare cioè solitario attraverso le steppe, empirsi
ogni tanto di sangue o dar la caccia a una lupa... e, considerata dal
punto di vista del lupo, ogni azione umana diventava orribilmente
buffa e imbarazzante, sciocca e vana. Ma succedeva lo stesso quando
Harry si sentiva lupo e si comportava come tale, quando mostrava i
denti e provava odio e inimicizia mortale contro tutti gli uomini e
le loro costumanze false e degenerate. Allora infatti la parte umana
stava in agguato, teneva d'occhio il lupo, lo insultava chiamandolo
bestia e belva e gli amareggiava tutta la gioia della sua semplice,
sana e selvatica natura lupina.
Così era fatto il lupo della steppa e si può ben immaginare che
Harry non faceva una vita assai piacevole e beata. Non si vuol dire
però che fosse particolarmente infelice (benché a lui paresse così,
come del resto ogni uomo crede che le sue sofferenze siano le più
grandi). Di nessuno lo si dovrebbe affermare. Anche chi non ha il
lupo dentro di sé, non per questo dev'essere felice. E d'altro canto
anche la vita più infelice ha le sue ore di sole e i suoi fiorellini
fortunati in mezzo alla sabbia e alle petraie. Così era anche il lupo
della steppa. Per lo più era molto infelice, non diciamo di no, e
rendeva anche infelici gli altri, quando cioè li amava ed essi
amavano lui. Tutti infatti coloro che prendevano a volergli bene
vedevano soltanto uno dei suoi lati. Certuni lo amavano come uomo
gentile, savio e singolare e rimanevano atterriti e delusi quando
scoprivano in lui improvvisamente il lupo. E non potevano fare a meno
di scoprirlo, perché Harry, come tutti gli esseri, voleva essere
amato tutto intero e non poteva quindi nascondere o negare il lupo di
fronte a coloro al cui affetto teneva particolarmente. Ma ce n'erano
altri che amavano in lui precisamente il lupo, quella sua libertà
selvatica e indomita, il pericolo e la forza, e costoro erano poi a
loro volta assai delusi e dolenti quando il lupo cattivo rivelava a
un tratto anche l'uomo, quando si struggeva dalla nostalgia di bontà
e tenerezza e voleva ascoltare Mozart, leggere poesie e nutrire
ideali di umanità. Questi specialmente erano delusi e indignati
sicché il lupo della steppa comunicava la sua duplice natura e i suoi
dissidi anche a coloro coi quali veniva a contatto.
Ma chi credesse di conoscere ora il lupo della steppa e di poter
immaginare la sua vita misera e straziata sarebbe in errore: egli non
sa ancora tutto, neanche lontanamente. Non sa che (come non c'è
regola senza eccezione, e come in date circostanze il buon Dio
preferisce un unico peccatore a novantanove giusti), non sa che a
Harry capitavano anche eccezioni e casi fortunati, che egli sentiva
talvolta il lupo, tal'altra l'uomo respirare e pensare dentro di sé
indisturbato e puro, che entrambi, qualche rara volta, facevano
persino la pace e vivevano l'uno per l'altro, di modo che l'uno
dormiva mentre l'altro vegliava, non solo, ma diventavano più forti
tutti e due sicché l'uno raddoppiava l'altro. Anche nella vita di
quest'uomo, come dovunque nel mondo, pareva talvolta che le cose
comuni, quotidiane e regolari avessero puramente lo scopo di fare
ogni tanto una sosta di secondi, di accogliere il miracolo e la
grazia. Se queste brevi e rare ore di felicità pareggiassero e
mitigassero la triste sorte del lupo della steppa in modo da formare
un equilibrio tra felicità e dolore, o se addirittura la felicità
breve ma intensa di quei pochi momenti assorbisse tutto il dolore e
risultasse positiva, questa è un'altra questione sulla quale possono
ponzare a piacimento coloro che non hanno niente da fare. Anche il
lupo ci pensava spesso, e quelle erano le sue giornate oziose e
inutili.
A questo punto dobbiamo aggiungere anche un'altra cosa. Esistono
non pochi uomini simili a Harry; specialmente molti artisti
appartengono a questa categoria. Costoro hanno in sé due anime, due
nature, hanno un lato divino e un lato diabolico, il sangue materno e
il sangue paterno, e le loro capacità di godere e di soffrire sono
così intrecciate, ostili e confuse tra loro come in Harry il lupo e
l'uomo. E questi uomini la cui vita è molto irrequieta hanno talvolta
nei rari momenti di felicità sentimenti così profondi e
indicibilmente belli, la schiuma della beatitudine momentanea spruzza
così alta e abbagliante sopra il mare del loro dolore, che quel breve
baleno di felicità s'irradia anche su altri e li affascina. Così
nascono, preziosa e fugace schiuma di felicità sopra il mare della
sofferenza, tutte le opere d'arte nelle quali un uomo che soffre si
inalza per un momento tanto al di sopra del proprio destino che la
sua felicità brilla come un astro e appare a chi la vede come una
cosa eterna, come il suo proprio sogno di felicità. Tutti questi
uomini, qualunque siano le loro gesta e le loro opere, non hanno
veramente alcuna vita, vale a dire la loro vita non è un'esistenza,
non ha una forma, essi non sono eroi o artisti o pensatori come altri
possono essere giudici, medici, calzolai o maestri, ma la loro vita è
un moto eterno, una mareggiata penosa, è disgraziatamente e
dolorosamente straziata, paurosa o insensata, quando non si voglia
trovarne il significato proprio in quei rari avvenimenti e fatti,
pensieri e opere che balzano luminosi sopra il caos di una simile
vita. Tra gli uomini di questa specie è nato il pensiero pericoloso e
terribile che forse tutta la vita umana è un grave errore, un aborto
della Madre primigenia, un tentativo della Natura orribilmente
fallito. Tra loro, però, è nato anche quell'altro pensiero, che cioè
l'uomo non è forse soltanto un animale relativamente ragionevole ma
un figlio degli dei destinato all'immortalità.
Ogni natura umana ha i suoi lineamenti caratteristici, il suo
marchio, le virtù e i vizi, il suo peccato mortale. Uno dei caratteri
del lupo della steppa era quello di essere un uomo serale. Per lui il
mattino era la parte cattiva della giornata che egli temeva e non gli
portò mai alcun bene. Egli non fu mai lieto in nessuna mattinata
della vita, non ha mai fatto nulla di bene prima di mezzogiorno, mai
avuto buone idee, mai fatto cosa grata a sé o agli altri. Solo
durante il pomeriggio si scaldava lentamente e diventava vivo,
soltanto verso sera, nelle giornate buone, diventava fecondo, attivo
e persino ardente e lieto. Per questo aveva tanto bisogno di
solitudine e d'indipendenza. Nessuno ha mai avuto un bisogno più
profondo e più appassionato di essere indipendente. Da giovane,
quando era ancora povero e faceva fatica a guadagnarsi il pane,
preferiva soffrir la fame e andar intorno stracciato pur di salvare
un brano della sua indipendenza. Non si è mai venduto per denaro o
benessere, non si è mai dato alle donne o ai potenti, e mille volte
ha buttato via e rifiutato quello che secondo tutti sarebbe stato il
suo bene e il suo vantaggio, pur di conservare in compenso la
libertà. Nessun'idea gli era più odiosa e ripugnante che quella di
avere un impiego, osservare un orario, obbedire agli altri. Odiava
gli uffici e le cancellerie come la morte, e la cosa più orrenda che
gli potesse capitare in sogno era la prigionia in una caserma. A
tutte queste sciagure seppe sottrarsi, spesso anche con grandi
sacrifici. In ciò consistevano la sua forza e la sua virtù, qui era
inflessibile e incorruttibile e il suo carattere era saldo e
rettilineo. Ma con questa virtù erano anche strettamente collegate le
sue sofferenze e la sua sorte. Capitò a lui ciò che capita a tutti:
quel che cercava con ostinazione per l'intimo bisogno della sua
natura egli lo raggiunse, ma più di quanto sia bene per l'uomo. Ciò
che da principio fu il suo sogno di felicità, divenne in seguito il
suo amaro destino. L'uomo avido di potere incontra la sua rovina nel
potere, l'uomo bramoso di denaro nel denaro, il sottomesso nella
servitù, il gaudente nel piacere. E così il lupo della steppa si
rovinò con l'indipendenza. La meta egli la raggiunse e divenne sempre
più indipendente, nessuno gli comandava, non era costretto a seguire
nessuno e decideva liberamente delle sue azioni e omissioni. Ogni
uomo forte infatti raggiunge immancabilmente ciò che il suo vero
istinto gli ordina di volere. Ma raggiunta la libertà Harry s'accorse
a un tratto che la sua libertà era morte, che era solo, che il mondo
lo lasciava paurosamente in pace, che gli uomini non lo riguardavano
più né lui riguardava se stesso, che soffocava lentamente in un'aria
sempre più rarefatta senza relazioni e senza compagnia. Infatti era
arrivato al punto che la solitudine e l'indipendenza non erano più
un'aspirazione, una meta, bensì la sua sorte, la sua condanna; e una
volta pronunciata la formula magica senza poterla più ritirare, a
nulla gli serviva tendere le braccia con desiderio e buona volontà ed
essere disposto a cercar legami e comunioni: tutti lo lasciavano
solo. Non che fosse odioso o antipatico alla gente. Al contrario,
aveva moltissimi amici. Molti gli volevano bene. Ma quella che
incontrava era soltanto simpatia amichevole; lo invitavano, gli
facevano regali, gli scrivevano lettere garbate, ma nessuno gli si
accostava, nessuno si legava a lui, nessuno aveva la voglia o la
capacità di condividere la sua vita. Adesso era circondato dall'aria
dei solitari, da un'atmosfera tranquilla, dall'incapacità di rapporti
col mondo che gli scivolava via, e contro questo stato di cose nulla
potevano la volontà e la nostalgia. Questo era uno dei tratti più
caratteristici della sua vita.
Ce n'era anche un altro: egli faceva parte della categoria dei
suicidi. A questo punto dobbiamo osservare che è errato definire
suicidi solamente coloro che si uccidono davvero. Tra questi ci sono
anzi molti che diventano suicidi quasi per caso e il suicidio non fa
necessariamente parte della loro natura. Tra gli uomini senza
personalità, senza un'impronta marcata, senza un forte destino, tra
gli uomini da dozzina e da branco ce ne sono parecchi che commettono
suicidio senza per questo appartenere per carattere al tipo dei
suicidi, mentre viceversa moltissimi di coloro che vanno annoverati
per natura fra i suicidi, anche forse la maggior parte,
effettivamente non attentano alla propria vita. Il "suicida" (Harry
era uno di questi) non occorre che abbia uno stretto rapporto con la
morte: lo si può avere anche senza essere suicidi. Ma il suicida ha
questo di caratteristico: egli sente il suo io, indifferente se a
ragione o a torto, come un germe della natura particolarmente
pericoloso, ambiguo e minacciato, si reputa sempre molto esposto e in
pericolo, come stesse sopra una punta di roccia sottilissima dove
basta una piccola spinta esterna o una minima debolezza interna per
farlo precipitare nel vuoto. Di questa sorta di uomini si può dire
che il suicidio è per loro la qualità di morte più probabile, per lo
meno nella loro immaginazione. La premessa di questo stato d'animo
che appare tale fin dalla giovinezza e accompagna costoro per tutta
la vita, non è già una deficienza di energie vitali, ma, al
contrario, fra i "suicidi" si incontrano nature straordinariamente
tenaci, bramose e persino ardite. Ma come esistono complessioni che
nelle più lievi malattie tendono alla febbre, così coloro che
chiamiamo "suicidi" e sono sempre molto sensibili, hanno la tendenza,
alla minima scossa, a darsi intensamente all'idea del suicidio. Se
possedessimo una scienza coraggiosa, con la responsabilità di
occuparsi dell'uomo invece che del meccanismo dei fenomeni vitali, se
avessimo, diciamo, un'antropologia, una psicologia, questi fatti
sarebbero noti a tutti.
Ciò che abbiamo detto dei suicidi riguarda beninteso soltanto la
superficie, è psicologia, vale a dire un settore della fisica. Dal
punto di vista metafisico la faccenda è diversa e assai più limpida
perché qui i "suicidi" sono affetti dalla colpa dell'individuazione,
sono quelle anime che non considerano scopo della vita il
perfezionamento e lo sviluppo di se stesse, bensì il dissolvimento,
il ritorno alla Madre, il ritorno a Dio, il ritorno al Tutto. Tra
costoro moltissimi sono assolutamente incapaci di commettere
realmente il suicidio, perché lo considerano peccato. Ma per noi sono
pur sempre suicidi perché vedono la redenzione nella morte invece che
nella vita e sono pronti a buttarsi via, ad abbandonarsi, a spegnersi
e a ritornare all'inizio.
Come ogni forza può (in certe circostanze deve) diventare una
debolezza, così viceversa il suicida tipico può fare della sua
debolezza apparente molte volte una forza e un sostegno, anzi lo fa
molto spesso. Uno di questi casi era quello di Harry, il lupo della
steppa. Come migliaia di suoi pari egli faceva dell'idea che la via
della morte gli era sempre aperta davanti a sé non solo un giuoco di
fantasia giovanile e malinconico, ma precisamente un conforto e un
appoggio. E' vero che, come in tutti gli uomini di questo genere,
ogni commozione, ogni dolore, ogni penosa situazione della vita
suscitava in lui il desiderio di sottrarvisi con la morte. Ma a poco
a poco questa inclinazione gli si tramutò in una filosofia favorevole
alla vita. L'assiduo pensiero che quell'uscita di soccorso era
continuamente aperta gli dava forza, lo rendeva curioso di assaporare
dolori e malanni, e quando stava proprio male gli capitava di pensare
con gioia rabbiosa, come si trattasse di un male altrui: "Son curioso
di vedere fin dove arriva la sopportazione umana! Una volta raggiunto
il limite del tollerabile mi basta aprire la porta e sono salvo". Ci
sono moltissimi suicidi ai quali questo pensiero conferisce energie
insolite.
D'altro canto tutti i suicidi conoscono anche la lotta contro la
tentazione del suicidio. In qualche angolino della mente ognuno ha la
convinzione che il suicidio è bensì una via d'uscita ma, in fondo,
un'uscita di soccorso piuttosto volgare e illegittima, e che è più
nobile, più bello lasciarsi vincere e abbattere dalla vita che dalle
proprie mani. Questa consapevolezza, questa cattiva coscienza induce
la maggior parte dei "suicidi" a una lotta diuturna contro la
tentazione. Essi combattono come il cleptomane combatte contro il
proprio vizio. Anche il lupo della steppa conosceva questa lotta,
l'aveva combattuta con armi diverse. Infine, all'età di circa
quarantasette anni gli venne un'idea felice, non priva di umorismo,
che più volte ebbe a fargli piacere. Fissò al suo cinquantesimo
compleanno il giorno in cui si sarebbe concesso il suicidio. In quel
giorno, così convenne con se stesso, avrebbe avuto la libertà di
servirsi o non servirsi dell'uscita di soccorso secondo il capriccio
della giornata. Qualunque cosa gli capitasse, una malattia, la
povertà, un dolore, un'amarezza: tutto aveva un termine segnato,
tutto poteva durare al massimo quei pochi anni, mesi e giorni, il cui
numero diventava sempre più esiguo. Difatti incominciò a sopportare
più facilmente certi guai che prima l'avrebbero torturato più
profondamente e più a lungo o forse scosso fin dalle radici. Quando
stava particolarmente male per qualsiasi ragione, quando al suo
isolamento e alla vita deserta si aggiungevano perdite o dolori
particolari, egli si rivolgeva a quei dolori dicendo: "Aspettate,
ancora due anni e avrò ragione di voi!". Poi si sprofondava con amore
nell'idea di quel cinquantesimo compleanno e immaginava la mattina in
cui sarebbero arrivate le lettere di augurio, mentre lui, sicuro del
proprio rasoio, prendeva commiato da tutti i dolori e chiudeva la
porta dietro di sé. Allora addio artrite nelle ossa, addio
malinconie, emicranie e dolori di ventre!
Ci rimane ancora da spiegare il fenomeno singolare del lupo della
steppa e particolarmente i suoi singolari rapporti con la borghesia
facendo risalire questi fenomeni alle loro leggi fondamentali.
Prendiamo dunque le mosse da quel suo rapporto con la vita
"borghese"!
Secondo le sue convinzioni il lupo della steppa era al di fuori del
mondo borghese poiché non aveva né una famiglia né ambizioni sociali.
Si sentiva isolato, si considerava un originale, un eremita malato,
talvolta anche un individuo oltre il normale, di attitudini
genialoidi, superiore alle piccole norme della vita comune. Aveva in
dispregio i borghesi ed era orgoglioso di non essere uno di loro.
Tuttavia faceva una vita assai borghese, possedeva denaro depositato
alle banche, soccorreva i parenti poveri, si vestiva senza
ricercatezza ma decentemente e cercava di vivere in buona armonia con
la polizia, con l'esattore delle tasse e simili autorità. Oltre a ciò
una segreta nostalgia lo spingeva continuamente verso il piccolo
mondo borghese, verso le case tranquille e decenti coi giardinetti
ben curati, con le scale pulite e la loro modesta atmosfera di ordine
e di vita ammodo. Teneva ad avere i suoi vizietti e le sue
stravaganze, a sentirsi originale o geniale al di là della borghesia,
ma abitava e viveva, per così dire, soltanto in quelle provincie
della vita dove ci fosse uno spirito borghese. Non si trovava a suo
agio nell'atmosfera degli uomini violenti, delle persone d'eccezione
né in quella dei delinquenti e dei fuori legge, ma rimaneva sempre
nella provincia dei borghesi con le cui norme e consuetudini aveva
sempre qualche rapporto, sia pure quello dell'antitesi e della
rivolta. Oltre a ciò era cresciuto in un ambiente piccolo-borghese e
ne aveva conservato una gran quantità di concetti e di schemi. In
teoria non aveva niente da ridire contro la prostituzione, ma non
sarebbe stato assolutamente capace di prendere sul serio una
prostituta e di considerarla realmente come prossimo. Era capace di
amare come fratelli i delinquenti politici, i rivoluzionari o quei
seduttori intellettuali che lo stato e la società mettono al bando,
ma di fronte a un ladro o a un assassino non avrebbe saputo altro che
compiangerli alla maniera borghese.
In questo modo riconosceva sempre, con una metà della sua natura,
ciò che con l'altra combatteva e negava. Allevato in una casa civile,
in forme e costumanze consolidate, era rimasto attaccato con una
parte dell'anima agli ordinamenti di quel mondo anche quando si era
da gran tempo individualizzato oltre le misure possibili nella
borghesia e liberato dai contenuti dell'ideale e della fede borghese.
Ora la "borghesia", condizione immanente nell'umanità, non è altro
che un tentativo di equilibrio, l'aspirazione a una via di mezzo tra
gl'innumerevoli estremi e poli contrapposti della vita umana.
Prendiamo per esempio un paio di questi poli antitetici, poniamo
quello del santo e del gaudente, e comprenderemo facilmente la
similitudine. L'uomo ha la possibilità di darsi tutto allo spirito,
al tentativo di avvicinarsi alla divinità, all'ideale della santità.
Viceversa può anche darsi tutto alla vita istintiva, al desiderio dei
sensi, e rivolgere tutte le sue aspirazioni all'acquisto di piaceri
fugaci. Una di queste vie porta alla santità, al martirio dello
spirito, all'annullamento in Dio. L'altra porta al godimento, al
martirio dell'istinto, all'annullamento nella putredine. Il borghese
cerca di vivere nel mezzo fra l'una e l'altra. Egli non rinuncerà mai
a se stesso, non si abbandonerà né all'ebbrezza né all'ascesi, non
sarà mai un martire, non acconsentirà mai al proprio annullamento: al
contrario, il suo ideale non è la dedizione, bensì la conservazione
dell'io, la sua tendenza non mira né alla santità né al contrario,
l'assoluto gli è intollerabile, egli vuol servire Iddio ma anche
l'ebbrezza, vuol essere virtuoso ma anche passarsela bene e
comodamente su questa terra. Tenta insomma di insediarsi nel mezzo
tra gli estremi, in una zona temperata e sana, senza burrasche e
temporali, e ci riesce, ma rinunciando a quell'intensità di vita e di
sentimento che offre una vita rivolta all'assoluto e all'estremo.
Vivere intensamente si può soltanto a scapito dell'io. Il borghese
però non stima nulla quanto l'io (certo un io di sviluppo soltanto
rudimentale). A spese dell'intensità egli ottiene dunque
conservazione e sicurezza, invece che ossessione divina raccoglie
tranquillità di spirito, invece che piacere agio, invece che libertà
comodità, invece che ardenza mortale una temperatura gradevole. Per
sua natura dunque il borghese è una creatura di debole slancio
vitale, paurosa, desiderosa di evitare rinunce, facile da governare.
Perciò ha sostituito al potere la maggioranza, alla violenza la
legge, alla responsabilità la votazione.
E' evidente che quest'essere debole e timido, anche se esistesse in
numero stragrande, non può reggersi e che per le sue qualità non
potrebbe avere nel mondo altra parte che quella d'un gregge di
agnelli in mezzo ai lupi in libertà. Tuttavia vediamo che in epoche
di regimi molto forti il borghese si trova bensì il piede sul collo,
ma non perisce mai, anzi talvolta sembra che domini il mondo. Com'è
possibile? Né il gran numero del suo gregge né la virtù né il buon
senso né l'organizzazione avrebbero forze sufficienti per salvarlo
dalla rovina. Chi è indebolito inizialmente nell'intensità di vivere,
nessuna medicina al mondo può tenerlo vivo. Eppure la borghesia vive,
è forte e prospera. Perché?
Ecco la risposta: per via dei lupi della steppa. Difatti la forza
vitale della borghesia non si fonda sulle qualità dei suoi membri
normali, bensì su quelle degli outsider straordinariamente numerosi
che essa per l'elasticità e la nebulosità dei propri ideali è in
grado di abbracciare. Nella borghesia c'è sempre anche un gran numero
di caratteri forti e selvaggi. Harry, il nostro lupo della steppa, ne
è un esempio caratteristico. Pur essendo sviluppato a individuo oltre
le possibilità del borghese, pur conoscendo la voluttà della
meditazione come anche le tetre gioie dell'odio e del disprezzo di se
stesso, pur tenendo a vile la legge, la virtù e il buon senso, egli è
un forzato della borghesia e non può sfuggirle. Così intorno al
nucleo della borghesia genuina si depositano larghi strati di
umanità, migliaia di vite e d'intelligenze, ognuna delle quali
avrebbe già superato la borghesia e sarebbe chiamata a vivere
nell'assoluto ma, attaccata alla borghesia con sentimenti infantili e
contagiata nella sua debole intensità di vita, permane in qualche
modo nella borghesia e continua ad esserle soggetta, obbligata e
asservita. Per la borghesia infatti vale il contrario di quanto vale
per i grandi: chi non è contro di me, è per me!
Se esaminiamo con questo criterio l'anima del lupo della steppa,
vedremo che è un uomo il cui alto grado di individuazione lo
destinerebbe a non essere borghese: poiché ogni individuazione
intensa si svolge contro l'io e tende a distruggerlo. Noi vediamo che
ha forti tendenze sia alla santità sia al godimento, ma per qualche
debolezza o pigrizia non poté prendere lo slancio verso i liberi
spazi del mondo e rimase legato al pesante astro materno della
borghesia. Questa è la sua posizione nello spazio universale, questo
il suo legame. La maggior parte degl'intellettuali, la maggioranza
degli artisti appartiene allo stesso tipo. Solo i più forti tra loro
attraversano l'atmosfera della terra borghese e arrivano al cosmo,
tutti gli altri si rassegnano o stipulano compromessi, disprezzano la
borghesia e continuano a farne parte, a rafforzarla, ad esaltarla,
poiché in fondo devono pur essere d'accordo con lei se vogliono
vivere. Per queste innumerevoli esistenze essa non è tragedia, ma una
cattiva stella, una mala sorte nel cui inferno il loro talento è
cucinato e reso fecondo. I pochi che riescono a divincolarsi trovano
la via dell'assoluto e periscono in modo ammirevole: sono i casi
tragici e il loro numero è esiguo. Agli altri invece, a quelli che
rimangono legati, al cui ingegno la borghesia tributa spesso grandi
onori, a loro rimane aperto un terzo regno, un mondo immaginario ma
sovrano: l'umorismo. I lupi della steppa che sono senza pace, che
soffrono continuamente e terribilmente, che non hanno lo slancio
necessario per arrivare alla tragedia, per penetrare nello spazio
astrale, che sentono la vocazione dell'assoluto eppure non vi possono
vivere: quando il loro spirito si è fatto abbastanza forte ed
elastico nella sofferenza, trovano la confortante via d'uscita
dell'umorismo. Questo rimane sempre, in qualche modo, borghese
quantunque il borghese autentico sia incapace di comprenderlo. Nella
sua sfera immaginaria si realizza il complicato e multiforme ideale
di tutti i lupi della steppa: qui è possibile non solo riconoscere la
santità e il godimento, avvicinare per forza i due poli, ma includere
in questo riconoscimento anche la borghesia. Chi è posseduto da Dio
può benissimo accettare il delinquente e viceversa, ma a tutti e due,
come a tutti gli assoluti, è impossibile accettare ancora quel tepore
medio e neutro che è la borghesia. Soltanto l'umorismo, la stupenda
invenzione di chi si vede troncata la vocazione alle cose più grandi,
l'invenzione dei tipi quasi tragici, degl'infelici dotati di massima
intelligenza, soltanto l'umorismo (la trovata forse più singolare e
più geniale dell'umanità) compie l'impossibile, illumina e unisce
tutte le zone della natura umana alle irradiazioni dei suoi prismi.
Vivere nel mondo come non fosse il mondo, rispettare la legge e stare
tuttavia al di sopra della legge, possedere come se non si
possedesse, rinunciare come se non fosse rinuncia: tutte queste
esigenze d'un'alta saggezza di vita si possono realizzare unicamente
con l'umorismo.
E se il lupo della steppa cui non mancano le doti e le attitudini
dovesse riuscire nella greve giungla del suo inferno a distillare
questa magica bevanda, sarebbe salvo. Ma gli manca ancora molto per
arrivarci. Esiste però la possibilità, la speranza. Chi gli vuol
bene, chi s'interessa a lui certo gli augura questa salvezza. Egli
rimarrebbe per sempre nel mondo borghese ma i suoi dolori sarebbero
sopportabili, diverrebbero fecondi. I suoi rapporti con la borghesia,
nell'amore e nell'odio, non sarebbero più sentimentali e i suoi
legami con quel mondo cesserebbero di essere per lui una continua
vergogna e una tortura.
Per arrivare a questo scopo o poter addirittura tentare il balzo
nell'universo, questo lupo della steppa dovrebbe trovarsi una volta
di fronte a se stesso, dovrebbe vedere il caos nella propria anima e
arrivare finalmente a una perfetta coscienza di sé. Gli si
rivelerebbe allora la sua esistenza problematica in tutta la sua
immutabilità e non gli sarebbe più possibile rifugiarsi continuamente
dall'inferno degl'istinti nelle consolazioni sentimentali e
filosofiche e da queste ancora nella cieca ebbrezza della sua natura
lupina. Uomo e lupo sarebbero costretti a riconoscersi a vicenda
senza false maschere sentimentali, a guardarsi apertamente negli
occhi. Allora o esploderebbero e si staccherebbero per sempre, sicché
non ci sarebbe più il lupo della steppa, o concluderebbero alla luce
dell'umorismo nascente un connubio di convenienza.
Può darsi che Harry giunga un giorno a questa estrema possibilità.
Può darsi che un giorno impari a conoscersi, sia prendendo in mano
uno dei nostri specchietti sia incontrando gl'immortali o trovando
forse in uno dei nostri teatri magici quel che gli occorre per
liberare la sua anima trasandata. Mille di queste possibilità lo
attendono, il suo destino le attrae irresistibilmente, tutti questi
outsid-er della borghesia vivono nell'atmosfera di queste magiche
possibilità. Basta un nulla perché la folgore colpisca.
Tutte queste cose il lupo della steppa le sa benissimo, anche se
questo abbozzo della sua biografia intima non dovesse capitargli mai
tra le mani. Egli intuisce la sua posizione nell'universo, intuisce e
conosce gl'immortali, ha il presentimento e il timore di un possibile
incontro con se stesso, sa che esiste quello specchio nel quale egli
avrebbe tanto bisogno di guardare, ma del quale ha tanta paura.
Alla fine di questo nostro studio ci rimane da spiegare ancora
un'ultima finzione, un'illusione fondamentale. Tutte le
"spiegazioni", tutta la psicologia, tutti i tentativi di comprensione
hanno bisogno di aiuti, di teorie, di mitologie, di menzogne; e lo
scrittore onesto non dovrebbe far a meno di risolvere alla fine di
ogni suo scritto queste menzogne per quanto sia possibile. Se dico
"sopra" e "sotto" faccio un'affermazione che esige una spiegazione,
poiché sopra e sotto esistono soltanto nel pensiero, soltanto
nell'astrazione. Il mondo non ha né sopra né sotto.
E così, per farla breve, anche il "lupo della steppa" è una
finzione. Se Harry si considera uomo-lupo e opina di essere composto
di due nature ostili e antitetiche, non fa che della mitologia
semplificatrice. Harry non è affatto un uomo-lupo e se abbiamo
accettato apparentemente senza controllo la menzogna da lui inventata
e creduta, se abbiamo effettivamente cercato di considerarlo e
interpretarlo come essere duplice, come lupo della steppa, abbiamo
approfittato, sperando di essere meglio compresi, di un inganno che
ora cercheremo di giustificare.
La bipartizione in lupo e uomo, in istinto e spirito, con la quale
Harry cerca di spiegarsi la sua sorte è una semplificazione assai
grossolana, una violazione della realtà per ottenere una plausibile
ma errata spiegazione delle contraddizioni che costui trova in se
stesso e che gli sembrano la fonte delle sue non poche sofferenze.
Harry trova dentro di sé un "uomo", cioè un mondo di pensieri, di
sentimenti, di cultura, di natura addomesticata e sublimata, e trova
in sé anche un "lupo", cioè un mondo buio di istinti selvaggi, di
crudeltà, di natura rozza e non sublimata. Nonostante questa
suddivisione, apparentemente ovvia, della sua natura in due emisferi
ostili fra loro, egli ha visto però di continuo che il lupo e l'uomo
si sopportano a vicenda nei momenti felici. Se in ogni istante della
vita, in ogni azione, in ogni sensazione Harry volesse rilevare quale
parte vi abbia l'uomo e quale il lupo, si troverebbe tosto con le
spalle al muro e tutta la sua elegante teoria lupina andrebbe a
rotoli. Nessun uomo infatti, neanche il negro primitivo, neanche
l'idiota è così simpaticamente semplice che si possa spiegarne la
natura come una somma di soltanto due o tre elementi principali;
spiegare poi un uomo così complicato come Harry con l'ingenua
suddivisione in lupo e uomo è impresa disperata e puerile. Harry non
consta di due esseri ma di cento, di mille. La sua vita (come quella
di tutti gli uomini) non oscilla soltanto fra due poli, diciamo
quelli dell'istinto e dello spirito, o quelli del santo e del
gaudente, ma fra migliaia, fra innumerevoli paia di poli.
Non deve però stupirci che un uomo così istruito e intelligente
come Harry possa credersi un "lupo della steppa" e pensare che si
possano accogliere le forme ricche e complicate della sua vita entro
una formula così semplice, così brutale, così primitiva. L'uomo non
possiede un'alta facoltà di pensiero e, per quanto sia intelligente e
colto, vede continuamente il mondo e se stesso, specie se stesso,
attraverso le lenti di formule molto ingenue, semplificanti e
traditrici. Infatti, a quanto pare, tutti gli uomini hanno un bisogno
innato e impellente di immaginare il proprio io come unità. Per
quanto venga scossa anche gravemente, questa illusione rimargina ogni
volta. Il giudice che siede di fronte all'assassino e lo guarda negli
occhi e lo sente parlare per un istante con la voce propria (del
giudice) e trova anche nel proprio cuore i medesimi istinti, le
stesse attitudini, le stesse possibilità, dopo un solo istante
ridiventa lui, è di nuovo giudice, ritorna nel guscio del proprio io
vanitoso, fa il suo dovere e condanna a morte l'assassino. E quando
in certe anime particolarmente intelligenti e delicatamente
organizzate balena l'intuizione della loro molteplicità, quando, come
fa ogni genio, esse infrangono l'illusione dell'unità personale e
sentono di essere pluriformi, di essere un fascio di molti ii, basta
che lo dicano e tosto la maggioranza le imprigiona, ricorre all'aiuto
della scienza, fa costatare la loro schizofrenia e protegge l'umanità
perché non debba ascoltare dalle labbra di questi infelici un
richiamo alla verità. Ma che bisogno c'è di sprecar parole, di dire
cose che chiunque pensi trova naturali, che però non sta bene
manifestare?
Quando dunque un uomo arriva già a sdoppiare la pretesa unità
dell'io è già quasi un genio, in ogni caso però un'eccezione rara e
interessante. In realtà nessun io, nemmeno il più ingenuo è un'unità,
bensì un mondo molto vario, un piccolo cielo stellato, un caos di
forme, di gradi e situazioni, di eredità e possibilità. Che ciascuno
tenda a prendere questo caos per un'unità e parli del suo io come
fosse un fenomeno semplice, ben fissato e delimitato: questa
illusione ovvia ad ogni uomo (anche al più elevato) sembra una
necessità, un'esigenza di vita come il respiro e il nutrimento.
Questa illusione è frutto di una semplice trasposizione. Come corpo
ogni uomo è uno, come anima mai. Anche nella poesia, persino nella
più raffinata, si introducono per tradizione personaggi
apparentemente interi, apparentemente unitari. Nella poesia del
passato i competenti, i conoscitori, apprezzano soprattutto il
dramma, ed è giusto, poiché esso offre (o dovrebbe offrire) la
miglior possibilità di rappresentare l'io come molteplicità... se a
ciò non contraddicesse l'evidenza, la quale ci illude mostrandoci
ogni singolo personaggio del dramma come un'unità, dato che è
racchiusa innegabilmente in un corpo singolo e unitario. L'estetica
ingenua ha infatti la massima stima del così detto dramma di
caratteri nel quale ogni personaggio è riconoscibile e si presenta
come unità a sé. Solo da lontano e a poco a poco si fa strada in
alcuni l'intuizione che cotesta è forse un'estetica facilona e
superficiale, e che siamo in errore quando applichiamo ai nostri
grandi drammaturghi i concetti di bellezza dell'antichità, concetti
stupendi ma non innati, bensì istillati nel nostro spirito, mentre
l'antichità partendo sempre dal corpo completo ha inventato la
finzione dell'io, della persona. Nei poemi dell'India antica questo
concetto è assolutamente ignoto, gli eroi dell'epopea indiana non
sono persone, ma conglomerati di persone, serie d'incarnazioni. E nel
nostro mondo moderno ci sono poemi nei quali, dietro il velame del
giuoco di persone e di caratteri, si tenta di rappresentare, quasi
senza che l'autore se ne renda conto, una molteplicità psichica.
Volendo capire questo fatto bisogna decidersi a non considerare i
personaggi d'una simile opera di poesia come singole creature, ma
come parti, lati, aspetti diversi di una superiore unità (sia pure
dell'anima del poeta). Chi consideri il Faust in questo modo, vedrà
che Faust, Mefistofele, Wagner e tutti gli altri sono un'unità, una
superpersona, e soltanto con questa unità superiore, non coi
personaggi singoli, si accenna alla vera essenza dell'anima. Quando
Faust pronuncia le parole, celebri fra i maestri di scuola, ammirate
con un brivido dai borghesucci: "Due anime, ahimè, son nel mio
petto!" egli dimentica Mefistofele e una folla di altre anime che
sono anch'esse nel suo petto. Anche il nostro lupo crede di aver in
petto due anime (lupo e uomo) e già gli pare di avere il petto molto
angusto. Il petto, il corpo è infatti sempre uno, le anime invece che
vi albergano non sono due o cinque, ma infinite; l'uomo è una cipolla
formata di cento bucce, un tessuto di cento fili. I vecchi asiatici
lo sapevano bene e lo Yoga dei buddhisti ha inventato una tecnica
precisa per smascherare l'illusione della personalità. Divertente e
molteplice è il giuoco dell'umanità: l'illusione, per smascherare la
quale l'India si è affaticata per un millennio, è quella stessa che
l'Occidente ha durato uguale fatica a sostenere e a rafforzare.
Se consideriamo il lupo della steppa con questo criterio, capiremo
perché soffra tanto della sua ridicola duplicità. Egli crede, come
Faust, che due anime siano troppe per un solo petto e pensa che lo
debbano dilaniare. Sono invece troppo poche e Harry fa violenza alla
sua povera anima quando cerca di comprenderla in un'immagine così
primitiva. Benché sia persona così colta, Harry si comporta come un
selvaggio che non sappia contare più in là di due. Una parte di sé la
chiama uomo, l'altra parte lupo, e con ciò crede di aver finito e di
aver esaurito il suo compito. Nell'"uomo" egli caccia tutto quello
che ha in sé di spirituale, di sublimato o per lo meno di culturale,
e nel "lupo" tutto ciò che ha di istintivo, di selvatico e di
caotico. Ma la vita non è semplice come il nostro pensiero,
grossolana come il nostro povero linguaggio di idioti, e Harry mente
due volte a se stesso quando usa questo metodo lupino da negri.
Temiamo che egli attribuisca già all'uomo intere provincie del suo
spirito le quali non sono ancora umane neanche lontanamente, e ponga
nel lupo parti della sua natura che hanno già di gran lunga
sorpassato la zona lupina.
Come tutti, anche Harry crede di sapere che cosa sia l'uomo, mentre
non lo sa affatto benché molte volte ne abbia l'intuizione nei sogni
e in altri stati d'animo difficilmente controllabili. Auguriamoci che
non dimentichi queste intuizioni e le faccia possibilmente sue!
L'uomo non è una forma fissa e permanente (questo fu, nonostante le
intuizioni contrarie dei suoi sapienti, l'ideale dell'antichità), ma
è invece un tentativo, una transizione, un ponte stretto e pericoloso
fra la natura e lo spirito. Verso lo spirito, verso Dio lo spinge il
suo intimo destino; a ritroso, verso la Natura, verso la Madre lo
trae la sua intima nostalgia: tra l'una e l'altra di queste forze
oscilla la sua vita angosciata e tremante. Quello che di volta in
volta gli uomini intendono col concetto di "uomo" è sempre una
convenzione borghese transitoria. Certi istinti rudimentali vengono
respinti e condannati da questa convenzione la quale chiede un po' di
coscienza, di civiltà, di sbestiamento; e un pochino di spirito è non
solo permesso ma persino richiesto. L'"uomo" di questa convenzione è,
come ogni ideale borghese, un compromesso, un tentativo timido e
ingenuamente astuto di gabbare sia la natura, cattiva madre
originaria, sia lo spirito, molesto padre originario, nelle loro
pretese violente e di trovare nel giusto mezzo un tiepido domicilio.
Per questo il borghese permette e tollera quella che chiama
"personalità" ma la consegna nello stesso tempo al mostro chiamato
"stato" e li pone l'una contro l'altro. Perciò il borghese brucia
oggi per eretico e impicca per delinquente quello stesso al quale
posdomani erigerà monumenti.
Che l'uomo non sia una cosa già creata ma un postulato dello
spirito, una possibilità lontana altrettanto invocata quanto temuta e
che la via per arrivarci sia sempre percorsa per un breve tratto, fra
tormenti ed estasi inenarrabili, da quei rari individui ai quali oggi
tocca il patibolo, domani il monumento: questo sospetto è vivo anche
nel lupo della steppa. Ma quello che in antitesi al suo "lupo" egli
chiama "uomo" è in gran parte null'altro che quell'"uomo" mediocre
della convenzionalità borghese. La via per giungere all'uomo vero,
agl'immortali, Harry può benissimo intuirla, la percorre anche per
qualche brevissimo tratto, con esitazione, e paga questo percorso con
gravi dolori, con penoso isolamento. Ma di quel postulato supremo che
impone di aspirare a diventare uomo secondo lo spirito, di percorrere
l'unica stretta via dell'immortalità, egli ha paura in fondo
all'anima. Capisce che arriverebbe a dolori ancor maggiori, alla
proscrizione, all'ultima rinuncia, forse al patibolo... e quantunque
in fondo a questa via appaia la lusinga dell'immortalità, tuttavia
egli non ha voglia di patire tutte queste pene, di morire tutte
queste morti. Benché la necessità di diventare uomo gli sia più
palese che ai borghesi, chiude gli occhi e non vuol rendersi conto
che quel disperato attaccamento all'io, quel disperato rifiuto di
morire è la via più sicura per arrivare alla morte eterna, mentre il
saper morire, il saper spogliarsi e abbandonare l'io alle metamorfosi
conduce all'immortalità. Quando egli adora i suoi beniamini fra
gl'immortali, per esempio Mozart, lo vede ancora con occhi borghesi e
sarebbe disposto a spiegare la perfezione di Mozart, proprio come
fanno i maestri di scuola, con la sua intelligenza di specialista,
anziché spiegarla con la grandezza della sua dedizione e della
disposizione a soffrire, con la sua indifferenza verso gl'ideali
borghesi e con la sopportazione di quell'estremo isolamento che
rarefà intorno ai sofferenti, a coloro che diventano uomini, ogni
atmosfera borghese trasformandola in un glaciale etere dell'universo,
nella solitudine nell'orto di Getsemani.
Vero è che il nostro lupo della steppa ha scoperto in sé almeno la
duplicità faustiana, ha trovato che l'unità del suo corpo non
contiene un'unità di spirito e nel migliore dei casi è avviato al
lungo pellegrinaggio che porta all'ideale di questa armonia. Egli
vorrebbe o vincere il lupo che ha dentro e diventare uomo oppure
rinunciare all'uomo e vivere per lo meno da lupo una vita unitaria e
intera. Probabilmente non ha mai osservato un lupo vero. In tal caso
avrebbe forse visto che anche le bestie non hanno un'anima sola, che
le belle forme del loro corpo nascondono una pluralità di aspirazioni
e di stati d'animo, che anche il lupo contiene abissi, anche il lupo
soffre. Seguendo il "ritorno alla natura" l'uomo si incammina sempre
per una via sbagliata piena di dolori e priva di speranze. Harry non
potrà mai ridiventare interamente lupo e, se potesse, vedrebbe che
anche il lupo non è né semplice né primordiale ma già qualche cosa di
complicato e molteplice. Anche il lupo ha in petto due e più che due
anime, e chi desidera essere lupo commette la stessa dimenticanza di
quell'uomo che canta: "Quale gioia essere ancor fanciullo!". L'uomo
simpatico ma sentimentale che canta la canzone del fanciullo beato
vorrebbe ritornare anche lui alla natura, all'innocenza, all'inizio,
ma ha dimenticato che i fanciulli non sono per nulla beati, che
anch'essi hanno i loro conflitti, i loro dissidi, le loro sofferenze.
Non vi è strada che porti indietro, né al lupo né al fanciullo. In
principio non vi è innocenza né semplicità; tutto ciò che è creato,
anche le cose apparentemente più semplici, sono già colpevoli, sono
già molteplici, buttate nel sudicio fiume del divenire e non possono
mai più, mai più risalire la corrente. La via verso l'innocenza,
verso l'increato, verso Dio non è un ritorno, ma un proseguire, non
porta verso il lupo o verso il fanciullo ma sempre avanti nella
colpa, sempre più addentro nel divenire dell'uomo. Nemmeno il
suicidio ti servirà seriamente, povero lupo della steppa, percorrerai
la via più lunga, più difficile, più faticosa del divenir uomo,
dovrai moltiplicare ancora più volte la tua duplicità, complicare
ancor più la tua natura complicata. Invece di restringere il tuo
mondo, di semplificare la tua anima, dovrai accogliere più mondo e
infine il mondo intero nella tua anima dolorosamente ampliata per
poter giungere forse un giorno alla fine, al riposo. Questa via fu
percorsa dal Buddha, da ogni uomo grande, da questo consapevolmente,
dall'altro inconsciamente, secondo che gli riusciva l'ardita impresa.
Ogni nascita è separazione dal tutto, è limitazione, distacco da Dio,
nuovo doloroso divenire. Il ritorno al tutto, l'annullamento della
dolorosa individuazione, il divenir Dio significa aver allargato
talmente la propria anima da poter riabbracciare l'universo.
Qui non si discorre dell'uomo di cui parlano la scuola, l'economia
politica, la statistica, non si discorre degli uomini che vanno in
giro a milioni per le strade e valgono quanto la rena in riva al mare
o gli spruzzi della risacca: un paio di milioni più o meno non
contano, sono materiale, nient'altro. Qui discorriamo invece
dell'uomo in senso elevato, della meta della lunga via del divenir
uomini, parliamo dell'uomo regale, degl'immortali. Il genio non è
raro come sembra, ma neanche tanto frequente come pretendono le
storie letterarie e politiche o magari i giornali. Il lupo della
steppa Harry sarebbe, ci sembra, abbastanza genio per osare il
tentativo di farsi uomo invece di scusarsi ad ogni difficoltà con
quel suo stupido lupo.
Che uomini dotati di tale possibilità ricorrano a lupi della steppa
e al "due anime, ahimè!" è strano e rattristante come il fatto che
nutrano spesso un amore così codardo per la borghesia. Un uomo che è
in grado di capire il Buddha, un uomo che intuisce i cieli e gli
abissi dell'umanità non dovrebbe vivere in un mondo dove regnano il
buon senso, la democrazia e la civiltà borghese. Egli ci vive
soltanto per vigliaccheria e quando le sue dimensioni lo opprimono,
quando la stanzetta borghese gli diventa troppo stretta, ne dà la
colpa al "lupo" e non ne vuol sapere di ammettere che in certi
momenti il lupo è la sua parte migliore. Tutto ciò che vi è di
selvatico in lui lo chiama lupo e lo considera come qualche cosa di
cattivo e di pericoloso, come uno spauracchio borghese... però, pur
credendosi artista e dotato di sensi delicati, non è capace di vedere
che in lui vivono anche altre cose oltre il lupo, che non tutto è
lupo quel che morde, che vi sono in lui anche la volpe, il drago, la
tigre, la scimmia e l'uccello del paradiso; e non vede che tutto
questo mondo, questo paradiso terrestre è soggiogato da figure soavi
e terribili, grandi e piccole, forti e tenere ed è tenuto prigioniero
dalla fiaba del lupo allo stesso modo che l'uomo vero dentro di lui è
soggiogato e incatenato dall'uomo apparente, dal borghese.
Si immagini un giardino con cento specie di alberi, con mille
specie di fiori, con cento specie di frutta e di erbe. Se il
giardiniere di questo giardino non sa fare altra distinzione botanica
che quella tra "mangereccio" e "zizzania", non saprà che farsene dei
nove decimi del giardino, strapperà i fiori più affascinanti,
abbatterà gli alberi più nobili o almeno li odierà e li guarderà
bieco. Così fa il lupo della steppa coi mille fiori che ha
nell'anima. Quel che non entra nelle rubriche "uomo" o "lupo" egli
non lo vede nemmeno. E quante cose mette nella categoria "uomo"!
Tutti gli atti vili, scimmieschi, sciocchi e meschini, se proprio non
sono lupini, vanno nell'"uomo" e così tutti gli atti forti e nobili
nel "lupo", soltanto perché non è riuscito a padroneggiarli.
Ora prendiamo commiato da Harry e lo lasciamo andare per la sua
strada. Se fosse già presso gl'immortali, dove dovrebbe portarlo il
suo difficile cammino, come assisterebbe meravigliato a questo
andirivieni, allo zig zag irresoluto e folle della sua strada, come
sorriderebbe divertito e pietoso, con aria di rimprovero e
d'incoraggiamento, al lupo della steppa!
Quando ebbi finito di leggere mi venne in mente che una notte,
alcune settimane prima, avevo scritto una strana poesia dove si
trattava precisamente del lupo della steppa. La cercai nel turbine di
carte che copriva la scrivania, la trovai e lessi:
Io lupo della steppa trotto solosolo, nel mondo ormai di neve
bianco...Dalla betulla scende un corvo stanco,ma non vedo una lepre,
un capriolo!Oh come voglio bene ai caprioli!Poterne trovar uno, oh
bella cosa!Vi affonderei la bocca mia bramosa:non v'è nulla che tanto
mi consoli.E con amor, con affezion sincera,delle tenere carni farei
strazio,finché di sangue veramente sazioa urlare andrei dentro la
notte nera.Anche una lepre basterebbe, via!Dolce ha la carne pel mio
gusto bruto...Possibile che tutto abbia perdutoquel che abbelliva un
dì la vita mia?E' grigio ormai della mia coda il pelo,e già la vista
mi s'annebbia e oscura,sono anni che mia moglie è in sepoltura,ed una
lepre, un capriolo anelo.Vado a caccia di lepri, trotto e
sognoall'invernale sibilo del vento,e ingozzo neve, neve, finché ho
spentola mia sete, e do l'anima al demonio.
Avevo dunque tra le mani due miei ritratti, l'uno un autoritratto
in endecasillabi, triste e angoscioso come me stesso, l'altro freddo
e disegnato con apparente oggettività, da un estraneo, visto
dall'alto e dal di fuori, scritto da uno che ne sapeva più eppure
meno di me. E i due ritratti, il balbettìo malinconico della mia
poesia e l'intelligente bozzetto di mano ignota, mi fecero male tutti
e due, entrambi avevano ragione, delineavano senza veli la mia
esistenza sconfortata, rivelavano chiaramente che la mia situazione
era insopportabile e insostenibile. Quel lupo della steppa doveva
morire, doveva por fine di sua mano a un'esistenza noiosa... oppure,
sciolto nel fuoco morale di un rinnovato esame di se stesso, doveva
mutarsi, strapparsi la maschera e diventare un nuovo io. Ahimè,
questo processo non mi era nuovo e ignoto, lo conoscevo bene, l'avevo
già vissuto più volte, sempre nei momenti di estrema disperazione.
Ogni volta quell'avvenimento sconvolgente aveva mandato in frantumi
il mio io, potenze abissali l'avevano scosso e distrutto, un pezzo
particolarmente curato e amato della mia vita si era sciolto da me ed
era andato perduto. Una volta ci avevo rimesso la mia reputazione
borghese insieme col patrimonio e avevo dovuto imparare a rinunciare
al rispetto di coloro che fino allora mi avevano fatto tanto di
cappello. Un'altra volta avevo visto crollare da un momento all'altro
la mia vita familiare: mia moglie, impazzita, mi aveva scacciato di
casa, l'amore e la fiducia si erano tramutati improvvisamente in odio
e lotta mortale, i vicini mi seguivano con occhiate di pietà e di
disprezzo. Allora era incominciato il mio isolamento. E alcuni anni
dopo, anni difficili e amari, quando in rigorosa solitudine e
faticosa ascesa mi ero rifatto una vita nuova, un nuovo ideale, e
avevo raggiunto un certo silenzio e una certa altezza, abbandonandomi
ad esercizi di pensiero astratto e a meditazioni severamente
disciplinate, anche quella nuova forma di vita era precipitata e
aveva perduto a un tratto il suo nobile e alto significato; viaggi
insensati e penosi mi trascinarono ancora per il mondo, nuove
sofferenze si accumularono e nuove colpe. E ogni volta prima di
strapparmi la maschera, prima di veder crollare un ideale avevo
sentito il vuoto pauroso e il silenzio, la mortale soffocazione e
solitudine e mancanza di relazioni, questo inferno deserto e vuoto,
senza affetto, che anche ora ero costretto ad attraversare disperato.
A ogni scossa della vita avevo finito, non nego, col guadagnare
qualche cosa, un po' di libertà, di spirito, di profondità ma anche
di solitudine, di incomprensione, di freddezza. Vista dal lato
borghese, la mia vita era da una scossa all'altra una costante
discesa, un continuo allontanarmi dal normale, dal lecito, da ciò che
è sano. Con l'andar degli anni avevo perduto la professione, la
famiglia, la patria, ero fuori da ogni raggruppamento sociale, ero
solo, non amato da nessuno, da molti sospettato, in continuo amaro
conflitto con la pubblica opinione e con la morale, e quantunque
vivessi ancora nell'ambiente borghese ero tuttavia un estraneo con il
mio modo di sentire e di pensare. La religione, la patria, la
famiglia, lo stato avevano perduto ogni valore e non mi riguardavano
più, la presuntuosità della scienza, delle corporazioni, delle arti
mi nauseava; le mie vedute, il mio gusto, tutto il mio pensiero che
una volta mi avevano circondato con l'aureola della persona
intelligente erano ormai trascurati, inselvatichiti e divenuti
sospetti al prossimo. Se in tutte quelle metamorfosi così dolorose
avevo acquistato qualche cosa d'invisibile e imponderabile, avevo
dovuto però pagarlo caro, e di volta in volta la mia vita si era
fatta più dura, più difficile, più solitaria, più esposta ai
pericoli. In verità non avevo alcun motivo per augurarmi di
proseguire per la via che mi portava in atmosfere sempre più
rarefatte, come quel tal fumo nella Canzone d'autunno di Federico
Nietzsche.
Oh certo, li conoscevo quegli eventi, quelle trasformazioni che il
destino ha assegnato ai suoi beniamini, alle sue creature più
vezzeggiate, fin troppo li conoscevo. Li conoscevo come il cacciatore
ambizioso ma sfortunato conosce le tappe di una partita di caccia,
come un vecchio giocatore in borsa può conoscere le tappe della
speculazione, del guadagno, dell'incertezza, del dubbio, del
fallimento. E ora avrei dovuto davvero rivivere tutto un'altra volta?
Tutti i tormenti, le folli miserie, le intuizioni della bassezza e
vacuità del proprio io, tutta la tremenda paura di essere vinto, di
morire? Non era più saggio e più semplice evitare la ripetizione di
tanti dolori e squagliarsi? Certo che era più semplice e più savio.
Fosse vero o falso ciò che il libretto Il lupo della steppa affermava
sul conto dei "suicidi", nessuno mi poteva negare il piacere di
risparmiarmi, con l'acido carbonico, col rasoio o con la pistola, la
ripetizione di uno svolgimento del quale avevo dovuto assaporare
abbastanza spesso e fin troppo profondamente la dolorosa amarezza.
No, per tutti i diavoli, non c'era potere al mondo che potesse
esigere da me di fare un altro incontro con me stesso, un'altra
metamorfosi, una nuova incarnazione la cui meta non recava pace e
tranquillità, ma sempre nuove distruzioni, nuovi rifacimenti di me
stesso! Fosse pure il suicidio una cosa sciocca, vile e volgare,
fosse pure un'uscita di soccorso ingloriosa e vergognosa: ogni uscita
da questo torchio di dolori, anche la più ignominiosa, era
desiderabile; qui non c'era più il teatro dell'eroismo e della
magnanimità: qui mi trovavo a dover scegliere semplicemente fra un
dolore piccolo e fugace e una sofferenza infinita e indicibilmente
bruciante. Troppe volte nella mia vita così difficile e pazza avevo
fatto il nobile Don Chisciotte, avevo preferito l'onore alla comodità
e l'eroismo alla ragionevolezza. Ora bastava: era ora di finirla!
Il mattino sbadigliava già dalle vetrate, il mattino plumbeo e
maledetto d'una giornata di pioggia invernale, quando finalmente
andai a letto. Presi con me la mia decisione. Ma all'ultimo momento,
al limite estremo della coscienza, mentre stavo addormentandomi, mi
balenò per un attimo quello strano passo dell'opuscolo Il lupo della
steppa dove si parla degl'"immortali", e in un guizzo mi rammentai
che parecchie volte e anche poco tempo prima mi ero sentito
abbastanza vicino agl'immortali per gustare, in un ritmo di musiche
antiche, tutta la loro fresca, limpida, dura, sorridente saggezza.
Questo ricordo sorse, brillò, si spense, e il sonno mi si posò sulla
fronte, grave come una montagna.
Destatomi verso mezzogiorno ritrovai subito in me la situazione
chiarita: il libretto era sul comodino insieme con la mia poesia e
dal groviglio della mia vita recente mi guardava fredda e cortese la
mia decisione che nel sonno si era precisata e rinsaldata. Non c'era
alcuna fretta, la mia decisione di morire non era il capriccio di un
istante, era un frutto maturo e durevole, cresciuto adagio, cullato
lievemente dal vento del destino il cui prossimo urto l'avrebbe fatto
cadere.
Nella mia farmacia portatile avevo un ottimo rimedio per calmare il
dolore, un sonnifero molto forte che prendevo assai raramente,
rinunciandovi spesso per mesi e mesi; prendevo il grave narcotico
solo quando i dolori fisici mi straziavano in modo insopportabile.
Purtroppo non era adatto al suicidio; ne avevo fatto la prova alcuni
anni addietro. In un periodo in cui ero alla disperazione ne avevo
ingerito una discreta quantità, quanto bastava per ammazzare sei
persone, eppure non mi aveva ammazzato. Mi addormentai bensì e stetti
alcune ore in piena incoscienza ma poi mi svegliai con mia grande
delusione per certe violente contrazioni dello stomaco, rigettai
tutto il veleno senza riprendere completamente i sensi e mi
addormentai per svegliarmi definitivamente a mezzo del giorno
seguente col cervello vuoto e arso e quasi privo di memoria. Oltre a
un periodo d'insonnia e di noiosi dolori di stomaco il veleno non mi
lasciò altre conseguenze.
Quel rimedio dunque era da scartare. Ma io formulai la mia
decisione in quest'altro modo: appena fossi arrivato al punto da
dover ricorrere al sonnifero, dovevo prendere invece del breve
sollievo quello grande, cioè la morte, una morte sicura e fidata con
una pallottola o col rasoio. Così la situazione era chiara: aspettare
fino al cinquantesimo compleanno secondo lo spiritoso suggerimento
del libretto mi pareva un po' troppo, ci volevano ancora due anni. Ma
fosse entro un anno o entro un mese o magari all'indomani: la porta
era aperta.
Non dirò che la "decisione" abbia modificato di molto la mia vita.
Mi rese un po' più indifferente ai disagi, un po' più libero nell'uso
dell'oppio e del vino, un po' più curioso circa il limite della
sopportazione. Ecco tutto. Maggiore effetto ebbero per me gli altri
eventi di quella sera. Rilessi alcune volte la dissertazione Il lupo
della steppa, ora con abbandono e gratitudine come pensando che un
mago invisibile guidasse saggiamente il mio destino, ora con ironia e
disprezzo contro la freddezza del trattato che mi pareva non avesse
capito la specifica atmosfera e tensione della mia vita. Ciò che
diceva dei lupi e dei suicidi poteva essere più che bello e buono,
valeva per la specie, per il tipo, era un'astrazione spiritosa; la
mia persona invece, la mia anima vera, il mio destino individuale e
particolare mi pareva non si potessero prendere con una rete così
grossolana.
Più di tutto però mi dava da pensare quella visione o allucinazione
sul muro della chiesa, il lusinghiero annuncio a lettere danzanti che
concordava con le allusioni della dissertazione. Grandi cose mi erano
state promesse, enormemente avevano stimolato la mia curiosità le
voci da quel mondo estraneo e spesso ci ripensavo intensamente per
ore e ore. Sempre meglio riudivo il monito di quelle iscrizioni: "Non
per tutti!" e "Soltanto per pazzi!" Pazzo dunque dovevo essere e ben
lontano da "tutti" se volevo che quelle voci mi raggiungessero, che
quei mondi mi parlassero il loro linguaggio. Dio mio, non ero forse
abbastanza lontano dalla vita di tutti, dall'esistenza e dal pensiero
degli esseri normali, non ero da gran tempo abbondantemente separato
e pazzo? Eppure comprendevo benissimo quell'invito a esser pazzo, a
spogliarmi della ragione, del ritegno, della mentalità borghese, ad
abbandonarmi al mondo fluttuante e senza leggi dell'anima e della
fantasia.
Un giorno, dopo aver cercato invano per le strade e per le piazze
l'uomo della pertica con il manifesto e dopo esser passato più volte
spiando lungo il muro dalla porta invisibile, incontrai nel sobborgo
di San Martino un corteo funebre. Osservando le facce dei dolenti che
trottavano dietro il carro funebre pensavo: In questa città, in
questo mondo dove sarà l'uomo la cui morte sarebbe una perdita per
me? E dove la creatura per la quale la mia morte avrebbe qualche
importanza? C'era E'rica, la mia amante, è vero; ma da molto tempo, i
nostri rapporti erano allentati, ci vedevamo di rado senza litigare,
e in quel momento non sapevo nemmeno dove fosse. Veniva talvolta da
me o io viaggiavo per raggiungerla, e poiché tutti e due siamo
creature solitarie e difficili, affini in qualche modo per spirito e
morbosità psichica, nonostante tutto un certo legame si mantenne tra
noi. Ma se avesse avuto notizia della mia morte, non avrebbe forse
respirato di sollievo? Non lo sapevo, come non sapevo quanto i miei
stessi sentimenti fossero fidati. Per poter sapere qualche cosa in
queste faccende bisognava vivere nella vita normale e pacifica.
Intanto, così per capriccio, mi accodai al corteo e seguii i
dolenti fino al cimitero, un cimitero brevettato, moderno, in
cemento, con tanto di crematorio e con tutte le diavolerie. Ma il
nostro morto non fu cremato, bensì scaricato davanti a una fossa, e
io stetti a guardare il sacerdote e gli altri avvoltoi, addetti a
un'impresa di pompe funebri, mentre sbrigavano le loro faccende alle
quali cercavano di conferire un tono di grande solennità e tristezza,
di modo che a furia di finzione e imbarazzo e falsità cadevano
nell'esagerazione e nel comico; osservai la nera divisa professionale
e gli sforzi che facevano per creare l'atmosfera giusta intorno
agl'intervenuti e costringerli a piegare le ginocchia davanti alla
maestà della morte. Ma erano sforzi vani: nessuno piangeva, pareva
che di quel morto si potesse fare a meno. E nessuno fu portato a
pensieri devoti: quando il prete rivolse la parola ai presenti
chiamandoli "miei fedeli", tutte quelle facce silenziose di bottegai
e panettieri con le rispettive mogli tenevano gli occhi bassi con una
forzata serietà, confusi e falsi e animati soltanto dal desiderio che
la molesta cerimonia finisse presto. Finì infatti e i due primi tra i
cari fedeli strinsero la mano all'oratore e, contro il margine erboso
più vicino, si nettarono le scarpe dall'argilla umida, in fondo alla
quale avevano deposto il loro morto; intanto riprendevano
l'espressione comune e umana, ed ecco, uno di loro mi parve di
conoscerlo: doveva essere l'uomo che aveva portato il manifesto e mi
aveva dato il libriccino.
Nell'istante in cui mi parve di ravvisarlo egli si volse, si chinò,
si occupò dei calzoni neri che ripiegò accuratamente sopra le scarpe
allontanandosi poi rapidamente con un ombrello stretto sotto il
braccio. Gli corsi dietro, lo raggiunsi, gli feci un cenno, ma quello
non mi riconobbe.
"Niente riunione questa sera?" gli domandai cercando di ammiccare
come fanno coloro che hanno in comune un segreto. Ma era passato
troppo tempo da quando sapevo fare quegli esercizi di mimica, tant'è
vero che in quella mia vita avevo quasi disimparato di parlare; e
sentii che facevo soltanto una smorfia.
"Riunione?" brontolò e mi guardò perplesso. "Vada all'Aquila Nera
piuttosto, se ha bisogno di qualche cosa."
In realtà non ero sicuro che fosse lui. Proseguii deluso, senza
meta, poiché non avevo alcuno scopo, alcuna aspirazione, alcun
dovere. La vita aveva un sapore orrendamente amaro e la mia nausea,
crescendo ormai da tempo, aveva raggiunto il colmo mentre la vita mi
respingeva e mi buttava via. Furibondo attraversai la città grigia e
tutto mi pareva odorasse di terra umida e di sepolcro. No, no, sulla
mia tomba non doveva esservi nessuno di quegli uccellacci di
malaugurio in divisa nera col loro bisbiglio sentimentale ai cari
fedeli! Ma dovunque guardassi, dovunque rivolgessi i miei pensieri,
nessuna gioia appariva, nessun richiamo, nessun invito; dappertutto
un fetore di marcia consuetudine, di soddisfazione così così, tutto
era vecchio, grigio, appassito, fiacco, esaurito. Dio mio, come era
possibile? Come avevo potuto arrivare a tal punto, io giovinetto
alato, poeta, amico delle Muse, esploratore del mondo, ardente
idealista? Come avevano potuto investirmi lentamente e perfidamente
quel torpore, quell'odio contro me stesso e contro tutti, la mancanza
di sentimenti, il disgusto profondo, l'inferno schifoso del cuore
arido e disperato?
Mentre passavo davanti alla biblioteca, incontrai un giovane
professore col quale a suo tempo avevo parlato più volte; durante il
mio ultimo soggiorno in città, alcuni anni prima, ero andato persino
a trovarlo in casa per discutere di mitologie orientali delle quali
mi occupavo allora intensamente. Lo scienziato mi venne incontro
rigido e un po' miope e mi riconobbe soltanto nel momento in cui
stavo per passar oltre. Mi si avvicinò con la massima cordialità
mentre io col mio pessimo umore gliene fui grato così così. Egli si
disse ben lieto e ricordò vivacemente certi particolari delle nostre
antiche conversazioni, mi assicurò che doveva molto alla mia
collaborazione e aveva pensato spesso a me; dopo di allora aveva
avuto raramente discussioni così interessanti e fruttuose con altri
colleghi. Mi domandò quando ero arrivato (mentii: da pochi giorni) e
perché non ero andato a trovarlo. Guardavo il brav'uomo, il suo viso
onesto di persona erudita, e la scena mi pareva alquanto ridicola, ma
assaporavo come un cane affamato quel boccone di calore, quel sorso
di affetto, quel brano di riconoscimento. Harry, il lupo della
steppa, sogghignava commosso, la bava gli empiva le fauci aride, la
sentimentalità gli piegava la schiena suo malgrado. Incominciai
dunque a mentire dicendo che ero di passaggio per ragioni di studio e
che del resto ero indisposto, altrimenti sarei andato certamente a
trovarlo. E quando mi invitò cordialmente a passare quella sera con
lui, accettai con animo grato, lo pregai di salutare la signora e per
il fervore del discorso e dei sorrisi già sentivo che mi facevano
male le guance non più avvezze a quello sforzo. E mentre io, Harry
Haller, ero lì in mezzo alla strada sopraffatto e lusingato, cortese
e premuroso, e sorridevo a quel viso gentile e miope, l'altro Harry
stava al mio fianco e ghignava e pensava che ero proprio un bel tipo
falso e bugiardo, che due minuti prima avevo digrignato i denti
rabbiosamente contro il mondo maledetto ed ecco, al primo richiamo,
al primo saluto innocente d'una brava persona ero commosso e disposto
ad accettare tutto, avvoltolandomi come un maiale nel godimento di un
tantino di benevolenza, di rispetto e di cortesia. Così i due Harry,
figure assai poco simpatiche, stavano di fronte al garbato
professore, si insultavano a vicenda, si osservavano, si sputavano in
faccia e come sempre in simili situazioni si rivolgevano la domanda
se quella fosse semplicemente debolezza e stupidità umana, comune a
tutti gli uomini, o se quell'egoismo sentimentale, la mancanza di
carattere e di pulizia, la doppiezza di sentimenti fosse invece una
specialità personale, da lupi. Se la porcheria era universalmente
umana, ebbene il mio disprezzo del mondo si poteva scatenare con
rinnovata violenza; se era invece soltanto debolezza mia personale,
dava motivo a un'orgia di disprezzo contro la mia persona.
Il conflitto fra i due Harry mi fece quasi dimenticare il
professore. Ora mi era molesto e cercai di liberarmene subito. A
lungo lo seguii con lo sguardo mentre si allontanava per il viale
spoglio, con quell'andatura bonacciona e un po' buia dell'idealista,
del credente. La battaglia infuriava nel mio cuore e mentre piegavo e
allungavo macchinalmente le dita rigide combattendo contro l'artrite
che le rodeva, dovetti ammettere che mi ero lasciato infinocchiare,
che mi ero accollato un invito a cena per le sette e mezzo, con tutti
gli obblighi di dir cose gentili, di chiacchierare di scienza e di
assistere alla felicità familiare altrui. Adirato andai a casa, mi
versai un po' d'acqua e cognac, mandai giù pillole contro l'artrite,
mi buttai sul divano e tentai di leggere. Quando finalmente mi riuscì
di leggere un po' del Viaggio di Sofia da Memel alla Sassonia, un
delizioso mattone del Settecento, mi rammentai improvvisamente
dell'invito e pensai che dovevo farmi la barba e vestirmi. Perché
diavolo mi ero fatto quel torto? Dunque, Harry, alzati, metti via il
libro, insaponati, grattati il mento a sangue, vestiti e goditi gli
uomini! E mentre m'insaponavo, pensavo a quella fossa fangosa nel
cimitero dove avevano calato quello sconosciuto e alle facce compunte
dei cari fedeli annoiati, e non potei neanche riderne. Laggiù finiva,
così mi parve, in quella buca d'argilla, con le parole sciocche e
perplesse del predicatore, coi visi sciocchi e perplessi dei dolenti,
alla vista sconsolata di tutte quelle croci e delle iscrizioni su
latta e su marmo, tra fiori finti di fil di ferro e di vetro, laggiù
finiva non solo lo sconosciuto, là sarei andato a finire anch'io
domani o posdomani, interrato nel fango tra l'imbarazzo e la falsità
degl'intervenuti, là andava a finire tutto, le nostre aspirazioni, la
nostra civiltà, la fede, la gioia e il piacere di vivere così malati
e così prossimi ad essere interrati laggiù. Il nostro mondo civile
non è che un cimitero, Gesù Cristo e Socrate, Mozart e Haydn, Dante e
Goethe non vi sono che nomi sbiaditi su cartelli di latta
arrugginita, circondati di dolenti falsi e confusi i quali darebbero
chi sa che cosa per poter credere ancora ai cartelli di latta che un
giorno ebbero sacri, darebbero chi sa che cosa per poter dire almeno
una parola seria e onesta di cordoglio e di disperazione per quel
mondo tramontato, mentre non rimane loro altro che la sosta
impacciata e ghignante intorno a una tomba. Con furore mi grattai il
mento riaprendo la solita ferita e cercai di fermare il sangue, ma
dovetti cambiare ciò nonostante il colletto pulito appena messo, e
non capivo assolutamente perché lo facessi, dato che non avevo la
minima voglia di andare a quella cena. Ma una parte di Harry riprese
a fare il commediante, a dire che il professore era un tipo
simpatico, ad augurarsi un po' di complimenti e di chiacchiere in
compagnia, e ricordò la bella moglie del professore, considerò assai
incoraggiante l'idea di passar la sera con ospiti così gentili e mi
aiutò ad appiccicare un cerotto sul mento, a vestirmi, ad annodare
una cravatta decente, e con dolcezza mi distolse dal pensiero di
assecondare il mio desiderio e di rimanere a casa. Nello stesso tempo
pensavo: "Ecco, come io mi vesto ed esco e vado a trovare il
professore e scambio con lui cortesie più o meno finte, in fondo
senza volerlo, così fanno e vivono e agiscono per lo più gli uomini
ogni giorno e ogni ora, per forza e senza volere, e fanno visite,
tengono conversazioni, siedono negli uffici, sempre per forza,
macchinalmente, contro la loro volontà, e tutto ciò lo potrebbero
fare altrettante macchine o si potrebbe benissimo farne a meno; e
tale meccanismo eternamente in moto è quello che impedisce a loro,
come a me, di far la critica della propria vita, di riconoscere e
sentire la propria stoltezza e superficialità, la propria orrida
ambiguità, la propria tristezza e solitudine senza speranza. Oh,
hanno ragione, gli uomini, di vivere così, di fare i loro giochetti e
di correr dietro ai loro fatti importanti invece di opporsi al triste
meccanismo e di guardare disperatamente nel vuoto come faccio io che
sono fuor di strada. Se in questi fogli esprimo talvolta il mio
disprezzo e le mie beffe contro gli uomini, non bisogna credere che
voglia addossarne loro la colpa, che voglia accusarli o rendere
responsabili gli altri della mia miseria personale! Ma io che ho
fatto già tanta strada e sono arrivato al margine della vita donde
essa precipita nelle tenebre senza fondo, io ho torto e dico il falso
quando cerco di illudere me stesso e gli altri, come se il meccanismo
fosse in moto anche per me, come se anch'io appartenessi ancora a
quel dolce mondo infantile, a quel gioco perpetuo!".
La serata fu realmente singolare. Davanti alla casa del mio
conoscente mi fermai un momento a guardar le finestre. Qui dentro
abita costui, pensavo, e continua il suo lavoro da anni, legge e
commenta i testi, cerca rapporti fra le mitologie dell'Asia
occidentale e le mitologie indiane ed è contento del lavoro, poiché
crede nel valore di esso, crede nella scienza della quale è
servitore, crede nel valore del sapere come tale, dell'accumulare
nozioni, poiché ha fede nel progresso e nell'evoluzione. Non c'è
stata la guerra per lui, non si è accorto che Einstein ha scosso le
basi tradizionali del pensiero (ciò, crede, riguarda soltanto i
matematici), non s'avvede che intorno a lui si sta preparando la
prossima guerra, gli sembra che ebrei e comunisti vadano odiati, è un
fanciullone buono e spensierato, soddisfatto e compreso della propria
importanza, è certamente un uomo invidiabile. Mi scrollai ed entrai
in casa; fui ricevuto da una cameriera in grembiule bianco e per non
so quale presentimento osservai dove deponeva il mio cappello e il
pastrano, fui introdotto in una stanza calda e illuminata e pregato
di aspettare. Invece di recitare una preghiera o di sonnecchiare mi
trastullai istintivamente prendendo in mano il primo oggetto che mi
si offerse. Era un piccolo ritratto incorniciato, posato sopra un
tavolinetto rotondo e costretto in posizione obliqua da un sostegno
di cartone. Era un'acquaforte e rappresentava il poeta Goethe, un
vegliardo serio dalla pettinatura di artista, dal viso ben modellato
dove non mancava né il celebre occhio di fuoco né quel tratto di
tragica solitudine, mascherata leggermente di cortigianeria, sulla
quale il disegnatore aveva concentrato i suoi sforzi. Ed era riuscito
a dare al vecchio geniale, nonostante la sua profondità, un tratto
alquanto professorale o magari teatrale di padronanza e bontà e a
farne, tutto sommato, un vecchio signore veramente bello che poteva
stare in qualunque casa borghese. Probabilmente quel ritratto non era
più stupido di tutti gli altri ritratti di questo genere, di tutti i
soavi Redentori e apostoli ed eroi e regnanti disegnati da artigiani
diligenti; forse m'infastidiva soltanto per un certo virtuosismo
presuntuoso; comunque fosse, già seccato e montato com'ero, quella
rappresentazione vanitosa e vuota del vecchio Goethe mi accolse
subito come una stonatura fastidiosa e mi fece capire che quello non
era un posto per me. Quella era una casa da vecchi maestri stilizzati
e da celebrità nazionali, non da lupi della steppa.
Se in quel momento fosse entrato il padrone di casa, sarei forse
riuscito a batter in ritirata con scuse plausibili. Venne invece sua
moglie e io dovetti arrendermi alla sorte pur prevedendo malanni. Ci
salutammo e dopo la prima stonatura ne vennero parecchie altre. La
signora si felicitò del mio florido aspetto, mentre io sapevo
benissimo quanto fossi invecchiato in quegli anni dopo il nostro
ultimo incontro; già la sua stretta di mano me l'aveva rammentato
facendomi dolere le dita artritiche. Poi mi domandò come stava la mia
cara signora e io dovetti risponderle che mi aveva abbandonato e
c'eravamo separati. Fummo lieti tutti e due quando entrò il
professore. Anche lui mi salutò cordialmente e il lato stonato e
buffo della situazione si rivelò subito magnificamente. Teneva in
mano un giornale, il giornale al quale era abbonato, l'organo del
partito militarista e guerrafondaio, e dopo avermi stretto la mano
disse indicando il foglio che vi si parlava di un mio omonimo, un
certo Haller pubblicista, il quale doveva essere certamente un poco
di buono, un senza patria, poiché si era fatto beffe dell'imperatore
esprimendo il parere che il suo paese non aveva meno colpa nello
scoppio della guerra di quanta non ne avessero i paesi nemici. Doveva
essere un bel tipo costui! Ma quel bel tomo riceveva il fatto suo, la
redazione gliele cantava chiare e metteva il malvagio alla berlina.
Vedendo però che l'argomento non m'interessava si passò ad altro, e
nessuno dei due pensava neanche lontanamente che quel mostro potesse
essere davanti a loro, eppure era proprio così: quel mostro ero io.
Ma perché far chiasso e spaventare la gente? Risi tra me, ma
abbandonai la speranza di trovare in quella sera un momento
piacevole. Ricordo esattamente quell'istante: mentre cioè il
professore parlava del traditore Haller, sentii condensarsi quel
senso di depressione e di disperazione che si era andato accumulando
dentro di me fin dalla scena del funerale, e lo sentii rafforzarsi in
una pressione terribile, come un disagio fisico (nel ventre), un
sentimento angoscioso e fatale che mi stringesse la gola. C'era
qualche cosa in agguato, lo sentivo, come un pericolo che mi
minacciasse alle spalle.
Per fortuna vennero ad annunciare che era in tavola. Passammo nella
sala da pranzo e mentre mi sforzavo di dire o di chiedere cose
indifferenti, mangiai più dell'usato e mi sentii sempre più male.
Santo cielo, pensavo, perché facciamo tutte queste fatiche? Avevo la
sensazione precisa che anche i miei ospiti si sentissero a disagio e
durassero fatica a mostrarsi di buon umore sia sotto la mia
impressione paralizzante sia per qualche altra causa di malumore. Mi
chiedevano continuamente cose alle quali non potevo rispondere con
sincerità, finché mi trovai impegolato nelle menzogne e costretto a
lottare con la nausea ad ogni parola. Infine per deviare il discorso
presi a parlare del funerale al quale avevo assistito. Ma non trovai
il tono giusto, i miei tentativi di far dello spirito ebbero effetti
deprimenti sicché ci trovammo sempre più discordi: il lupo dentro di
me rideva mostrando i denti, e quando arrivammo alle frutta tutti e
tre eravamo senza parola.
Ritornammo nella stanza di prima per prendere il caffè e la grappa
che forse ci avrebbero tirati su. Ma il mio sguardo si posò sul
grande poeta, benché fosse stato spostato sopra un altro mobile. Non
riuscivo a distogliere gli occhi e, senza dar retta alle voci che mi
ammonivano dentro, ripresi in mano il ritratto e incominciai a
esporre la mia opinione. Ero ossessionato dal pensiero che quella
situazione era intollerabile, che dovevo riuscire o a riscaldare i
miei ospiti, a trascinarli e ad intonarli al mio spirito, o a
provocare un'esplosione.
"Speriamo" dissi "che in realtà Goethe non sia stato così! La
vanità, la nobile posa, questa dignità che fa l'occhietto ai
rispettabili presenti e, sotto la superficie virile, un mondo così
dolce e sentimentale! Si può essere contro di lui, e io lo sono
spesso per quelle sue arie di importanza, ma rappresentarlo così, no,
ecco, questa mi par troppo grossa."
La padrona di casa terminò di versare il caffè con un volto assai
sofferente, poi si allontanò in fretta e il marito un po' imbarazzato
e in tono di rimprovero mi spiegò che quel ritratto apparteneva a sua
moglie alla quale era particolarmente caro. "E anche se avesse
ragione sul piano oggettivo, cosa che io contesto, lei non doveva
esprimersi in modo così crudo."
"Ha ragione" ammisi. "Purtroppo è una mia abitudine, un mio vizio,
quello di scegliere sempre le espressioni più rudi, cosa che del
resto anche Goethe faceva nei momenti buoni. Si sa, questo Goethe da
salotto, dolciastro e borghese, non avrebbe mai usato una parola
cruda, schietta e spontanea. Domando scusa a lei e alla signora: le
dica per favore che sono schizofrenico. E le chieda per me il
permesso di andarmene."
Il brav'uomo rimase perplesso, fece qualche protesta, ricordò
ancora quanto erano state belle e interessanti le nostre
conversazioni di una volta, disse persino che le mie ipotesi su
Mithra e Krishna gli avevano fatto molta impressione allora e aveva
sperato che oggi... e così via. Lo ringraziai dicendo che le sue
parole erano molto gentili, ma che non avevo purtroppo alcun
interesse a Krishna e nessuna voglia di discorrere di scienza, che
quel giorno stesso avevo mentito più volte, così per esempio non era
vero che ero in città da alcuni giorni ma da parecchi mesi, che però
vivevo solo e non ero più adatto a presentarmi in case perbene,
poiché prima di tutto ero sempre di pessimo umore e sofferente di
artrite e in secondo luogo per lo più ubriaco. Infine per togliere
ogni malinteso e non allontanarmi da mentitore, dissi che dovevo
dichiarare come egli stesso mi avesse profondamente offeso: aveva
fatto suo l'atteggiamento di un giornale reazionario di fronte alle
opinioni di Haller, atteggiamento degno di un ufficiale sciocco,
testardo e disoccupato, non già di uno scienziato. Quell'individuo
senza patria, quel Haller ero io, e tutto sarebbe andato meglio nel
nostro paese e nel mondo se almeno le poche persone capaci di pensare
avessero seguito la ragione e l'amore della pace anziché tendere
ciecamente e follemente verso una nuova guerra. Ecco fatto: e buona
notte.
Mi alzai, mi accomiatai da Goethe e dal professore, presi nel
corridoio il pastrano e il cappello e scappai di corsa. Nel mio cuore
il lupo urlava di gioia e fra i due Harry si svolse una grande
commedia. Infatti compresi subito che quella serata disgustosa aveva
molto maggiore importanza per me che per il professore indignato; per
lui non era che una delusione e una piccola seccatura, per me invece
rappresentava il fallimento e la fuga; era il distacco dal mondo
borghese, morale, erudito; era la vittoria completa del lupo della
steppa. E prendevo commiato da fuggiasco e vinto, era una piena
dichiarazione di fallimento, una partenza senza conforto, senza
superiorità, senza umorismo. Dal mio mondo d'una volta, dalla mia
patria borghese, dalle costumanze e dall'erudizione mi ero congedato
come chi con un'ulcera allo stomaco si congeda dall'arrosto di
maiale. Furibondo mi diedi a correre alla luce dei fanali, rabbioso e
mortalmente triste. Che giornata cattiva e sconsolata dalla mattina
alla sera, dal cimitero alla scena col professore! A che scopo?
Perché? Metteva conto di caricarsi sulle spalle altre giornate
simili, di ingoiare altre minestre di tal genere? No, no. Perciò
quella notte stessa avrei posto fine alla commedia. "Va' a casa,
Harry, e tagliati la gola! Abbastanza hai aspettato."
Correvo su e giù per le strade inseguito dalla mia miseria. Certo
ero stato uno stupido a sputare sui ninnoli di quella brava gente, mi
ero comportato da sciocco e sgarbato ma non potevo proprio fare
diversamente, non potevo più tollerare quella vita mansueta,
bugiarda, cortese. E poiché, a quanto pareva, non potevo più
sopportare neanche la solitudine, poiché anche la compagnia di me
stesso mi era diventata infinitamente odiosa e nauseante, poiché mi
dibattevo soffocando nell'aria rarefatta del mio inferno, che vie
d'uscita c'erano ancora? Nessuna. O babbo e mamma, o fuochi sacri e
lontani della mia gioventù, o gioie, fatiche e mete della mia vita!
Niente di tutto ciò mi era rimasto, nemmeno il pentimento, soltanto
nausea e dolore. Il dovere di vivere non mi aveva mai fatto tanto
male come in quei momenti.
In una squallida bettola della periferia mi fermai a riposarmi un
istante, presi un bicchier d'acqua e cognac, mi rimisi a correre
inseguito dal demonio su e giù per le stradette ripide e tortuose
della città vecchia, per i viali fino alla piazza della stazione.
Partire! pensai. Entrai nella stazione, guardai gli orari alle
pareti, bevvi un po' di vino, tentai di raccapezzarmi. Sempre più
vicino, sempre più distinto mi pareva di vedere il fantasma che mi
atterriva: era il ritorno a casa, il ritorno nella mia stanza,
l'arresto obbligatorio! Non era possibile sfuggirgli per quanto
andassi in giro ore e ore, impossibile non ritornare nella mia
stanza, a quella scrivania coperta di libri, al divano con sopra il
ritratto della mia amante, impossibile evitare il momento in cui
dovevo prendere il rasoio e segarmi la gola. Sempre più distinta mi
si presentava quella scena e col cuore in tumulto sentivo sempre più
palese il terrore di tutti i terrori: la paura della morte! Certo,
avevo della morte una paura orribile. Benché non vedessi altra via di
scampo, benché intorno a me sorgessero montagne di nausea, di dolore
e di disperazione, benché nulla potesse più allietarmi o darmi gioia
o speranza, tuttavia avevo un orrore indicibile del supplizio,
dell'ultimo istante, del taglio freddo nella mia carne.
Non vedevo alcun modo di sfuggire alla morte temuta. Se nel
conflitto fra la disperazione e la vigliaccheria quest'ultima avesse
vinto ancora una volta, l'indomani e in tutti i giorni seguenti la
disperazione si sarebbe riaffacciata, resa peggiore dal disprezzo di
me stesso. Avrei preso in mano e deposto di nuovo l'arma fintanto che
una volta avrei pur compiuto l'atto. Allora meglio subito!
M'incoraggiavo ad essere ragionevole, parlavo a me stesso come a un
bimbo intimorito, ma il bimbo non ascoltava, scappava via, voleva
vivere. E ancora mi trascinai per le vie della città girando in largo
intorno alla mia abitazione, pensando sempre al ritorno, sempre
ritardandolo. Ogni tanto m'infilavo in un'osteria, il tempo di bere
un bicchiere, due bicchieri, e riprendevo la corsa girando intorno
alla tentazione del rasoio, intorno alla morte. Stanco da morire mi
sedevo su una panchina, sull'orlo di una fontana, su un paracarro,
ascoltavo il battito del cuore, mi asciugavo il sudore della fronte,
riprendevo la corsa con angoscia mortale, con un lingueggiante
desiderio di vivere.
E così a tarda notte andai a finire in un sobborgo lontano che
conoscevo poco, in una trattoria dalle cui finestre uscivano violente
musiche da ballo. All'atto di entrare vidi una vecchia insegna sopra
la porta: "All'Aquila Nera". C'era una festa da ballo, una gran folla
di gente rumorosa e fumo e odor di vino e grida, nella sala in fondo
si ballava e di là veniva quella musica impetuosa. Rimasi nella prima
saletta dove c'erano soltanto persone modeste, in parte vestite
poveramente, mentre nella sala da ballo si scorgevano anche figure
eleganti. Spinto dalla calca mi trovai vicino al banco, vicino a una
bella ragazza pallida seduta presso la parete, vestita di un abitino
da ballo leggero e molto scollato, un fiore appassito nei capelli. La
fanciulla vedendomi arrivare mi guardò attentamente e affabilmente e
spostandosi un po' mi fece posto sul sedile.
"Permesso?" domandai sedendomi accanto a lei.
"Certo" disse. "Chi sei?"
"Grazie", risposi "non posso assolutamente andare a casa, proprio
non posso, rimarrò qui con lei, se permette. No, no, a casa non ci
posso andare."
Ella chinò la fronte come se avesse compreso, e in quella osservai
la ciocca di capelli che dalla tempia le scendeva davanti
all'orecchia e vidi che quel fiore avvizzito era una camelia. Di
laggiù squillava la musica, al banco le cameriere affaccendate
gridavano le ordinazioni.
"Resta pur qui" mi disse con un tono che mi fece bene. "Perché non
puoi ritornare a casa?"
"Non posso. A casa mi aspetta una cosa... no, no, non posso, è
troppo spaventevole."
"E allora falla aspettare e resta qui. Su, dammi gli occhiali che
te li pulisco. Così non puoi neanche vedere. Bravo, dammi il
fazzoletto. Che cosa beviamo? Borgogna?"
Mi forbì gli occhiali e soltanto allora la vidi distintamente, vidi
il viso pallido con le labbra dipinte di rosso sangue, i chiari occhi
grigi, la fronte fresca e liscia, la ciocca cadente davanti
all'orecchia. Con benevolenza un pochino ironica incominciò a
occuparsi di me, ordinò il vino, toccò il mio bicchiere e mi guardò
le scarpe.
"Dio mio, da dove vieni? Si direbbe che sei venuto a piedi da
Parigi. Non è la maniera di venire a un ballo."
Non dissi né sì né no, sorrisi e la lasciai parlare. Mi piaceva e
ne ero meravigliato, poiché fin allora avevo evitato quelle ragazze e
le avevo guardate con una certa diffidenza. Ma lei mi trattava
esattamente come mi occorreva in quel momento... e così è rimasta per
me anche dopo di allora. Mi trattava con quel tanto di riguardo di
cui avevo bisogno e con quel tanto d'ironia che mi occorreva. Ordinò
un panino imbottito e m'impose di mangiarlo. Mi versò da bere e mi
comandò di prendere un sorso ma non troppo in fretta. Poi lodò la mia
obbedienza.
"Vedo che sei bravo" disse in tono incoraggiante. "Non rendi la
vita difficile agli altri. Scommetto che è passato molto tempo da
quando hai dovuto obbedire l'ultima volta a qualcuno!"
"Sì, ha vinto la scommessa. Come fa a saperlo?"
"Bella forza! Obbedire è come mangiare e bere: dopo averne fatto a
meno per molto tempo non vi è nulla che piaccia tanto. Vero che mi
obbedisci volentieri?"
"Molto volentieri. Lei sa tutto."
"Non sei un uomo difficile. Forse, amico mio, potrei anche dirti
che cos'è quel che ti aspetta a casa e che ti fa tanta paura. Ma lo
sai anche tu ed è inutile parlarne, vero? Sciocchezze. O uno
s'impicca, e va bene, vuol dire che s'impicca, avrà le sue ragioni.
Oppure vive ancora, e allora non ha che da pensare alla vita. Niente
di più semplice."
"Oh", esclamai "se fosse così semplice! Dio sa che della vita mi
sono occupato abbastanza, eppure non mi è servito a nulla. Impiccarsi
forse è difficile, non lo so. Ma vivere è molto, molto più difficile!
Dio solo sa quanto è difficile."
"Vedrai invece che è facilissimo. L'inizio è fatto, hai gli
occhiali puliti, hai mangiato, hai bevuto. Ora andiamo un po' a
spazzolare i calzoni e le scarpe. E poi vieni con me a ballare uno
shimmy."
"Ecco, vede", esclamai "vede che avevo ragione! Non vi è nessuna
cosa che mi rincresca quanto non poter obbedire a un suo comando.
Questa volta però non posso farlo. Io non so ballare lo shimmy, e
nemmeno il valzer o la polca e gli altri balli che non so come si
chiamino. In vita mia non ho mai imparato a danzare. Vede dunque che
non è così semplice come lei crede?"
La bella ragazza sorrise con le labbra sanguigne e scosse la testa
pettinata da maschietto. Guardandola mi parve che assomigliasse a
Rosa Kreis-ler, la prima fanciulla della quale mi ero innamorato da
ragazzo, ma quella era di pelle scura e aveva i capelli neri.
Insomma, non ricordavo a chi somigliasse questa fanciulla, sapevo
soltanto che era un ricordo della mia prima giovinezza.
"Adagio", disse lei "adagio! Dunque non sai ballare! Proprio niente
niente? Nemmeno un onestep? E mi vieni a dire di esserti occupato
della vita? Mi racconti fandonie, ragazzo mio. Non sta bene alla tua
età. Come puoi dire di esserti sforzato a vivere se non vuoi neanche
ballare?"
"Ma se non sono capace? Non ho mai imparato."
Rise. "Ma a leggere e a scrivere hai imparato, vero? E
probabilmente anche l'aritmetica e il latino e il francese e altre
belle cose. Scommetto che sei andato a scuola dieci o dodici anni e
magari hai continuato gli studi e ti sei laureato e sai il cinese o
lo spagnolo. Non è così? O dunque: ma quel po' di tempo e di denaro
che ci voleva per qualche lezione di ballo non l'hai trovato?"
"Sono stati i miei genitori" cercai di giustificarmi "che mi hanno
fatto imparare il latino e il greco e tutta questa roba. Ma non mi
hanno fatto mai danzare, non usava da noi, i miei genitori stessi non
hanno mai ballato."
Mi guardò con freddo disprezzo e di nuovo vidi nel suo volto
qualcosa che mi rammentò la prima giovinezza.
"Ah sì? La colpa sarebbe dunque dei tuoi genitori! Questa sera hai
chiesto loro il permesso di venire all'Aquila Nera? Non l'hai
chiesto? Dici che sono morti da molto tempo? Or dunque: se per pura
obbedienza non hai voluto imparare a ballare quando eri ragazzo...
sia pure! per quanto non creda che tu sia stato allora un ragazzo
modello. Ma dopo... che cosa hai fatto mai dopo, in tanti anni?"
"Oh", confessai "non lo so più neanch'io. Ho studiato, ho fatto
della musica, ho letto libri, scritto libri, viaggiato..."
"Strani concetti che hai della vita! Hai fatto sempre cose così
difficili e complicate e non hai imparato quelle semplici. Non avevi
tempo? Non avevi voglia? Ammettiamo pure. Grazie a Dio, non sono tua
madre. Ma venirmi poi a dire di aver provato la vita e di non averci
trovato niente, no, vedi, questo non sta bene!"
"Non mi faccia rimproveri" implorai. "So bene che sono pazzo."
"Andiamo, non contare storie! Non sei affatto pazzo, egregio
professore, per me sei anzi troppo poco pazzo. Sei saggio, mi pare,
in un modo piuttosto balordo, da vero professore. Andiamo, mangia un
altro panino. Poi mi racconterai il resto."
Mi procurò un altro panino, vi versò un po' di sale, vi spalmò un
po' di senape, ne tagliò un pezzetto per sé e mi ordinò di mangiare.
Mangiai, poiché avrei eseguito tutti i suoi ordini tranne quello di
ballare. Provavo un gran bene a poter obbedire, a star seduto accanto
a una persona che m'interrogava, che mi dava ordini e rimbrotti. Se
il professore e sua moglie lo avessero fatto qualche ora prima, molte
cose mi sarebbero state risparmiate. Eppure no: meglio così, molte
cose mi sarebbero anche sfuggite.
"Come ti chiami?" mi domandò a un tratto.
"Harry."
"Harry? Bel nome di ragazzo. Un ragazzo sei infatti, Harry,
nonostante le zone grigie dei capelli. Sei un ragazzo e dovresti
avere qualcuno che si curi di te. Non parliamo di danzare. Ma come
sei pettinato! Non hai una moglie, un'amante?"
"La moglie non l'ho più. Abbiamo fatto divorzio. Un'amante ce l'ho,
ma non abita qui, la vedo assai di rado e non andiamo molto
d'accordo."
Ella fischiettò tra i denti. "Devi essere piuttosto difficile se
nessuna rimane con te. Ma dimmi un po': che cosa è successo questa
sera per farti correre così stralunato in giro per il mondo?
Litigato? Perduto al giuoco?"
Non era facile rispondere. "Vede", incominciai "a rigore è stata
un'inezia. Ero invitato da un professore (io non lo sono) e a rigore
avrei dovuto non andarci; non ci sono più avvezzo, ho disimparato a
stare fra la gente e a conversare. Infatti sono entrato in quella
casa già con il presentimento che sarebbe andata a finir male: quando
appesi il cappello, mi balenò il pensiero che l'avrei ripreso molto
presto. Dunque, in casa di quel professore c'era sopra un tavolino un
ritratto, un ritratto insulso che mi diede fastidio..."
"Che ritratto? Perché fastidio?" m'interruppe lei.
"Un ritratto che rappresentava Goethe... sa, il poeta. Ma non era
disegnato come è stato in realtà... veramente non lo si sa con
precisione, è morto da un secolo. Ma non so che pittore moderno aveva
acconciato Goethe come se lo era immaginato lui, e quel ritratto mi
diede fastidio e mi urtò... non so se mi capisce..."
"Capisco benissimo, stai tranquillo. Avanti."
"Già prima mi ero trovato in disaccordo con il professore; è un
gran patriota come quasi tutti i professori e durante la guerra ha
contribuito per la sua parte a ingannare il popolo... ben inteso in
buona fede. Io invece sono contrario alla guerra. Ma lasciamo stare.
Andiamo avanti. Potevo fare a meno di guardare quel ritratto..."
"Certo che potevi."
"Ma prima di tutto mi dispiaceva per Goethe, poiché devi sapere che
gli voglio bene, molto bene. E poi pensavo... ecco, pensavo o sentivo
all'incirca così: "Sono qui con persone che considero pari a me;
immaginavo che anch'essi dovessero amare Goethe come lo amo io e
farsene all'incirca la stessa idea, ed ecco invece che tengono qui
questo ritratto dolciastro, falsato, insulso, e lo considerano
bellissimo e non si accorgono che lo spirito di questo ritratto è
esattamente il contrario dello spirito di Goethe. Secondo loro il
ritratto è meraviglioso, e io posso anche ammetterlo... ma per me
cade allora la fiducia in costoro, la mia amicizia e la mia simpatia
per loro sono bell'e tramontate". D'altro canto non posso dire che
quella mia amicizia fosse grande. Dunque, montai in collera, mi
rattristai e vidi che ero solo e nessuno mi capiva. Lei mi
comprende?"
"Non è difficile, Harry. E poi? Hai preso il ritratto e glielo hai
buttato sulla testa?"
"No, ho imprecato e sono scappato via. Volevo andare a casa, ma..."
"Ma non ci sarebbe stata la mamma per consolare o rimproverare il
ragazzino sciocco. Ecco, Harry, quasi quasi mi fai pena. Sei proprio
un ragazzone."
Certo non aveva torto. Mi porse un bicchiere di vino ed era con me
proprio come una mamma. Intanto però vidi quanto era bella e giovane.
"Dunque", riprese a dire "dunque Goethe è morto cent'anni fa e
Harry gli vuol bene, se ne fa un'idea meravigliosa, e ha tutto il
diritto di farlo, non è vero? Il pittore invece, che è pure
entusiasta di Goethe e se ne fa un'immagine, non ne ha il diritto, e
così non ne ha il professore e non lo ha nessuno, perché a Harry non
comoda, egli non lo tollera ed è costretto a imprecare e ad
andarsene. Se fosse saggio, riderebbe del pittore e del professore.
Se fosse matto, prenderebbe il Goethe e glielo butterebbe in faccia.
Ma siccome è soltanto un ragazzino, vuol correre a casa a impiccarsi...
Ho capito benissimo la tua storia, Harry. E' una storia buffa, da
ridere. Adagio non bere così in fretta! Il Borgogna lo si deve bere
lentamente, altrimenti scalda la testa. A te bisogna proprio dir
tutto, come ai ragazzi."
Aveva lo sguardo severo e imperioso come quello d'una governante
sessantenne.
"Sì, sì", dissi contento "mi dica pur tutto."
"Che cosa ti devo dire?"
"Tutto quel che vuole."
"Bene, ti dirò una cosa. Da un'ora senti che ti do del tu e tu
continui a darmi del lei. Sempre il latino o il greco, sempre le cose
complicate! Se una ragazza ti dà del tu e non ti è antipatica, fai
anche tu altrettanto. Ecco, adesso hai imparato una cosa nuova. E
poi: da mezz'ora so che ti chiami Harry. Lo so perché te l'ho
chiesto. Tu invece non vuoi sapere come mi chiamo io."
"Altro che vorrei saperlo!"
"Troppo tardi, piccolo mio! Quando ci ritroveremo, potrai chiederlo
di nuovo. Per oggi non te lo dico. Basta, adesso vado a ballare."
Poiché accennava ad alzarsi, mi sentii a un tratto molto depresso
temendo che se ne andasse lasciandomi solo e che tutto fosse di nuovo
come prima. Come il mal di denti che passato fugacemente ritorna
all'improvviso e brucia come fuoco, riprovai l'angoscia e il terrore
di prima. Come avevo potuto dimenticare ciò che mi aspettava? C'era
qualche cosa di mutato?
"Un momento!" implorai "Non vada... non andar via! Certo puoi
ballare quanto vuoi, ma non allontanarti per troppo, ritorna, ritorna
ancora!"
Ella si alzò ridendo. Me l'ero figurata più alta, invece era snella
ma non alta. E di nuovo mi rammentò qualcuno. Chi? non riuscivo a
trovare.
"Ritornerai?"
"Ritornerò, ma può durare parecchio, mezz'ora o anche un'ora
intera. Fai una bella cosa: chiudi gli occhi e dormi un pochino. E'
quello che ti occorre."
La feci passare ed ella si allontanò. Il suo vestito mi sfiorò le
ginocchia e allontanandosi ella si guardò in uno specchietto rotondo,
sollevò le sopracciglia, si passò un piumino sul mento e scomparve
nella sala da ballo. Mi guardai intorno: tutte facce estranee, uomini
che fumavano, birra versata sui tavolini di marmo, strilli e grida
dappertutto e musica da ballo. Mi aveva suggerito di dormire. Oh,
cara figliola, come te lo immagini il mio sonno che è più pavido di
una donnola? Dormire in questa fiera, seduto a un tavolino fra il
tintinnare dei boccali di birra! Sorseggiai il vino, cavai di tasca
un sigaro, cercai un fiammifero, ma veramente non avevo nessuna
voglia di fumare: perciò deposi il sigaro sulla tavola. "Chiudi gli
occhi" mi aveva detto. Chi sa da dove le veniva quella voce, quella
voce buona, un po' bassa, materna. Era bello obbedire a quella voce,
lo avevo già provato. Obbediente chiusi gli occhi, appoggiai la testa
alla parete, mi sentii intorno cento rumori confusi, sorrisi all'idea
di poter dormire in quel posto, decisi di alzarmi e di andar a dare
un'occhiata nella sala da ballo (dovevo pur veder ballare la mia
ragazza), mossi i piedi sotto la sedia, mi accorsi che ero
stanchissimo dopo aver girovagato tante ore e rimasi seduto. E mi
addormentai senz'altro, fedele all'ordine materno, e dormii
avidamente con animo riconoscente e sognai, sognai un sogno più caro
e più bello di quanti non ne avessi sognati da molto tempo.
Sognai:
Aspettavo seduto in un'anticamera antica. Sapevo di essere
annunciato a un'Eccellenza, poi mi ricordai che dovevo essere
ricevuto dal signor von Goethe. Purtroppo non era una visita privata,
ma ero venuto come corrispondente di un giornale: ciò mi dava
fastidio e non capivo chi diavolo mi avesse cacciato in quella
situazione. Oltre a ciò m'inquietava uno scorpione che avevo visto
fino a poco prima e aveva tentato di arrampicarmisi su per una gamba.
Mi ero opposto a quella bestiola nera e mi ero scosso, ma ora non
capivo dove si fosse rintanata e non osavo toccarmi.
D'altro canto pensavo che per errore, potevano avermi annunciato
non a Goethe, ma a Matthisson che però nel sogno confondevo con
Bürger poiché gli attribuivo le poesie a Molly. Del resto un incontro
con Molly mi sarebbe piaciuto moltissimo, me la figuravo
meravigliosa, tenera, musicale e crepuscolare. Almeno non fossi
venuto per incarico di quella dannata redazione. La mia contrarietà
aumentò sempre più e coinvolse anche Goethe, sul conto del quale mi
sorsero improvvisamente un'infinità di dubbi. Mi si preparava una
bella udienza! Ma lo scorpione che, sia pure pericoloso e forse
nascosto nelle mie vicinanze, forse non era da temere, poteva anche
significare qualcosa di piacevole, mi pareva che potesse essere in
qualche rapporto con Molly, una specie di suo messaggero o l'emblema
del suo stemma, un emblema bello e pericoloso di femminilità e di
peccato. O non poteva forse chiamarsi Vulpius? Ma in quella un
servitore aprì la porta e mi fece entrare.
Là dentro c'era il vecchio Goethe, piccolo e impettito, e aveva sul
petto classico una grossa decorazione a stella. Pareva fosse ancora
al governo, ricevesse ancora udienze, controllasse ancora il mondo
dal museo di Weimar. Infatti, appena mi vide, mosse la testa di
scatto come un vecchio corvo e disse in tono solenne: "Ebbene,
giovanotti, sento che non siete molto d'accordo con noi e con i
nostri sforzi".
"Esatto" dissi, raffreddato dal suo sguardo ministeriale. "Noi
giovani non siamo infatti d'accordo con lei, vecchio signore. Lei è
troppo solenne per noi, Eccellenza, troppo pieno di sé, si dà troppe
arie ed è troppo poco sincero. Ecco, questo dovrebbe essere il punto:
la troppo poca sincerità."
Il piccolo vegliardo sporse un po' la testa severa e mentre sulle
sue labbra dure e ufficiali sbocciava un breve sorriso facendole
vivere deliziosamente, il mio cuore prese a battere con violenza
poiché mi venne in mente la poesia Il crepuscolo scendeva e pensai
che quelle erano le labbra dalle quali erano uscite le parole di
quella poesia. In quel momento ero già disarmato e sopraffatto e
avevo una gran voglia di mettermi in ginocchio. Ma mi tenni ritto e
dalle labbra sorridenti udii queste parole: "Ah, di poca sincerità mi
accusa? Che parole? Vuol darmi qualche spiegazione?".
Certo che gliela volevo dare, molto volentieri. "Come tutti i
grandi spiriti lei, signor Goethe, ha visto e sentito esattamente
quanto sia problematica e disperata la vita umana: ha visto la
magnificenza dell'istante e il suo misero appassire, l'impossibilità
di pagare l'altezza del sentimento altrimenti che con la prigionia
della vita quotidiana, la quale è in lotta perpetua e mortale col
sacro amore per la smarrita innocenza della natura, questa terribile
sospensione nel vuoto e nell'incerto, la condanna a subire ogni cosa
come transitoria, sempre priva di valore universale, sempre tentativo
da dilettanti: insomma tutta la bruciante disperazione,
l'esaltazione, la mancanza di prospettive dell'esistenza umana. Lei
ha visto tutto ciò, lo ha sempre ammesso, eppure in tutta la vita ha
predicato il contrario, ha espresso la fede e l'ottimismo, ha dato a
se stesso e agli altri un senso illusorio di tutti i nostri sforzi
intellettuali. Lei ha respinto e represso gli apostoli dell'abisso,
le voci della verità disperata, tanto in se stesso quanto in Kleist e
Beethoven. Per decenni lei è vissuto come se accumulare nozioni, fare
collezioni, scrivere e raccogliere lettere, come se tutta la sua
esistenza a Weimar fosse effettivamente un mezzo per eternare
l'istante che lei poteva soltanto mummificare, per spiritualizzare la
natura che invece lei poteva soltanto stilizzare in una maschera.
Questa è la mancanza di sincerità che le rinfacciamo."
Il vecchio ministro, la bocca sempre sorridente, mi guardò negli
occhi pensieroso. Poi domandò con mia grande sorpresa: "Allora il
Flauto magico di Mozart le deve essere molto antipatico, vero?".
E prima che io potessi protestare soggiunse: "Il Flauto magico
rappresenta la vita come un canto delizioso, esalta i nostri
sentimenti che pur sono passeggeri come qualche cosa di eterno e di
divino, non si accorda né col signor Kleist né col signor Beethoven,
ma predica l'ottimismo e la fede".
"Lo so, lo so!" esclamai infuriato. "Chi sa perché le è venuto in
mente proprio il Flauto magico che è quanto di più caro io abbia al
mondo? Ma Mozart non è arrivato a ottantadue anni e non ha avuto
nella vita personale le pretese di durata, di ordine, di rigida
dignità che ha lei! Lui non si dava tante arie d'importanza. Ha
cantato le sue melodie divine e fu povero e morì presto, in povertà,
senza riconoscimenti..."
Mi sentii mancare il fiato. Avrei dovuto dire mille cose in dieci
parole e la mia fronte incominciava a imperlarsi di sudore.
Goethe intanto disse molto gentilmente: "Che io abbia raggiunto gli
ottantadue anni può essere forse imperdonabile. La gioia che ne ho
avuta è stata però minore di quanto lei non creda. Ha ragione: ho
sempre avuto un grande desiderio di sopravvivere, ho sempre temuto e
combattuto la morte. Sono convinto che la lotta contro la morte, la
volontà assoluta e ostinata di vivere è lo stimolo che ha fatto agire
e vivere tutti gli uomini eminenti. E che infine si debba morire ho
dimostrato, mio giovane amico, a ottantadue anni con lo stesso rigore
che se fossi morto quando andavo a scuola. Se può valere a
giustificarmi, vorrei aggiungere che la mia natura conteneva molti
lati infantili, molta curiosità e voglia di giocare, un gran
desiderio di sprecare il tempo. E allora ci ho messo parecchio per
capire che a un certo momento il giuoco doveva cessare".
Mentre parlava così, sorrideva d'un sorriso astuto, quasi da
monello. La sua figura si era fatta più grande, l'atteggiamento
rigido e freddamente dignitoso era scomparso. E l'aria intorno a me
era piena di melodie, di canti goethiani, e c'era la Violetta di
Mozart e versi musicati da Schubert. Il viso di Goethe era roseo e
giovane e rideva e assomigliava ora a Mozart ora a Schubert, come
fossero fratelli, e la stella sul petto era tutta composta di fiori
di prato e nel mezzo sbocciava gaia e soda una primula gialla.
Non mi garbava molto che il vecchio volesse sottrarsi così
scherzosamente alle mie domande e accuse, e perciò lo guardai con
aria di rimprovero. Egli si chinò, avvicinò le labbra, labbra ormai
infantili, alla mia orecchia e vi sussurrò sommessamente: "Ragazzo
mio, tu prendi troppo sul serio il vecchio Goethe. Non bisogna
prendere sul serio i vecchi già defunti: altrimenti gli si fa torto.
A noi immortali non piace esser presi sul serio, ci piace scherzare.
La serietà, caro mio, è una nota del tempo: nasce, te lo voglio
confidare, dal sopravvalutare il tempo. Anch'io una volta stimavo
troppo il tempo e desideravo perciò di arrivare a cent'anni. Ma
nell'eternità, vedi, il tempo non esiste; l'eternità è solo un
attimo, quanto basta per uno scherzo".
Non era più possibile parlare seriamente con quell'uomo che
ballonzolava su e giù, agile e contento, e ora faceva spiccare come
un razzo la primula che aveva sul petto, ora la faceva diventare
piccina e scomparire. Mentre eseguiva brillantemente passi e figure
di danza, mi venne fatto di pensare che lui almeno non aveva
trascurato l'arte di ballare. Ballava magnificamente. In quella mi
venne in mente lo scorpione o meglio Molly e dissi a Goethe: "Dica un
po', Molly non è qui?".
Goethe si mise a ridere. Si avvicinò alla scrivania, aprì un
cassetto, ne tolse un astuccio prezioso di cuoio o velluto, lo aprì e
me lo tenne sotto il naso. Sul velluto scuro c'era una minuscola
gamba di donna, perfetta e luminosa, una gamba deliziosa, un po'
piegata al ginocchio, il piede steso all'ingiù e terminante con dita
graziosissime.
Io allungai la mano per prendere quella piccola gamba che
m'innamorava ma, sul punto di toccarla, la gamba parve si movesse con
una piccola scossa ed ecco, mi balenò il sospetto che quello potesse
essere lo scorpione. Goethe se ne accorse, anzi pareva avesse voluto
proprio questo, provocare quell'imbarazzo, quel lancinante dissidio
fra desiderio e paura. Egli tenne quasi sul viso lo scorpioncino
allettante, vide che lo desideravo e nello stesso tempo mi ritraevo e
pareva ci si divertisse un mondo. E mentre mi prendeva in giro con
quella delizia pericolosa, ridiventò vecchio, vecchissimo,
millenario, coi capelli candidi, e il suo viso sfiorito di vegliardo
rideva in silenzio, rideva tra sé di una profonda allegria di persona
anziana.
Quando mi svegliai il sogno era svanito. Solo più tardi me ne
ricordai. Avevo dormito forse un'ora nonostante la musica e la
confusione: non l'avrei mai creduto possibile. La cara ragazza stava
davanti a me e mi teneva una mano sulla spalla.
"Senti, dammi un paio di marchi" disse "devo pagare una
consumazione."
Le porsi il borsellino ed ella si allontanò ritornando poco dopo.
"Adesso rimango ancora un pochino con te, poi bisognerà che vada
perché ho un appuntamento."
Io rimasi stordito. "Con chi?" domandai subito.
"Con un uomo, piccolo Harry. Mi ha invitato al bar dell'Odeon."
"Oh, credevo che non mi avresti abbandonato."
"Allora dovevi invitarmi tu. Quell'altro ti ha prevenuto. Però
risparmi un bel po' di quattrini. Conosci l'Odeon? Dopo la mezzanotte
si serve soltanto champagne. Poltrone, orchestrina di negri, molto
chic."
A tutto ciò non avevo pensato. "Senti" pregai "lascia che ti inviti
io! Mi pareva ormai ovvio, dato che siamo diventati amici. Lasciati
invitare dove vuoi tu, fammi questo piacere."
"Sei molto gentile. Ma vedi, la parola data va mantenuta: ho
accettato e devo andar là. Non stare in pensiero. Bevi ancora un
sorso, nella bottiglia c'è ancora vino. Vuotala per bene e poi
vattene a casa a dormire. Me lo prometti?"
"No, guarda, a casa non posso andare."
"Vai, con le tue storie! Non hai finito di pensare al tuo Goethe?
(In quell'istante mi venne in mente il sogno che avevo fatto.) Ma se
proprio non puoi andare a casa, rimani qui: ci sono camere
disponibili. Vuoi che te ne prenda una?"
Accettai e le domandai dove potevo rivederla. Dove abitava? Ma non
me lo disse. Bastava cercassi e l'avrei certamente ritrovata.
"Non posso invitarti?"
"Dove?"
"Dove vuoi tu e quando vuoi."
"Bene. Allora martedì, a cena dal Vecchio Francescano, al primo
piano. Arrivederci!" Mi porse la mano e soltanto allora notai che
quella mano era perfettamente intonata alla sua voce, bella e
pienotta, saggia e benevola. Rise ironicamente, quando gliela baciai.
All'ultimo momento si volse ancora e disse:
"Ti dirò ancora una cosa a proposito di Goethe. Vedi, come è
capitato a te con Goethe, di non aver potuto sopportare quel
ritratto, così capita qualche volta a me coi santi".
"I santi? Sei così religiosa?"
"No, non sono religiosa purtroppo, ma lo sono stata una volta e un
giorno lo sarò di nuovo. Ora non ne ho il tempo."
"Tempo? Che, ci vuol tempo?"
"Certo per essere religiosi ci vuol tempo, ci vuole anche di più:
l'indipendenza dal tempo. Non puoi essere seriamente religioso e
vivere contemporaneamente nella realtà magari prendendola sul serio:
il tempo, il denaro, il bar dell'Odeon e così via."
"Capisco. Ma che volevi dire dei santi?"
"Ecco, ci sono certi santi che mi piacciono in modo particolare:
santo Stefano, san Francesco e altri. Di questi vedo talvolta
l'immagine, e anche quella del Redentore e della Madonna, immagini
false, bugiarde, stupide, e non le posso soffrire, come tu non hai
potuto soffrire quel ritratto di Goethe. Quando vedo uno di quei
Redentori dolcemente sciocchi o un san Francesco e noto che agli
altri paiono belli e edificanti, provo come un'offesa per il vero
Gesù e penso: a che scopo è vissuto e ha sofferto così tremendamente,
se questa gente si accontenta di una sua immagine così stupida?
Tuttavia so che anche il mio ritratto di Gesù o di Francesco è
soltanto un ritratto umano e non raggiunge l'originale, che a Gesù
stesso l'immagine che io ho di lui apparirebbe altrettanto sciocca e
insufficiente come quell'imitazione al latte e miele. Non lo dico per
giustificare il tuo malumore e la tua collera contro quel ritratto di
Goethe: sei sempre dalla parte del torto. Lo dico soltanto per farti
vedere che so comprenderti. Voi scienziati e artisti avete sempre
tante cose stravaganti per la testa, ma siete uomini come gli altri,
e anche noi abbiamo in testa i nostri sogni e i nostri giuochi. Ho
notato infatti che eri un tantino imbarazzato prima di raccontarmi
quel tuo aneddoto con Goethe... dovevi fare uno sforzo per rendere
comprensibili le tue storie ideali a una ragazza semplice come me.
Perciò vorrei mostrarti che non c'è bisogno di tanti sforzi. Ti
capisco benissimo. E ora basta. Adesso vai a letto."
E se ne andò mentre un vecchio cameriere mi faceva salire le scale;
anzi prima s'informò del mio bagaglio e, saputo che non ne avevo, mi
fece pagare la camera in anticipo. Poi mi guidò su per certe scale
buie in una camera e mi lasciò solo. C'era un lettuccio di legno
molto corto e duro e alla parete erano appesi una sciabola e un
ritratto a colori di Garibaldi e anche una corona appassita, residuo
di qualche festa sociale. Non so quanto avrei dato per una camicia da
notte. Ma per lo meno c'era l'acqua e un piccolo asciugamano sicché
potei lavarmi; poi mi buttai vestito sul letto, lasciai la luce
accesa e mi abbandonai ai miei pensieri. Dunque, con Goethe eravamo a
posto. Che bella cosa se fosse venuto a trovarmi in sogno! E quella
strana fanciulla... ne avessi almeno saputo il nome! Una creatura
umana che a un tratto infrangeva la grigia campana di vetro della mia
vita spenta e mi porgeva la mano, una mano buona, bella, calda! Ed
ecco finalmente cose che mi riguardavano, alle quali potevo pensare
con gioia, con apprensione, con aspettazione! Finalmente una porta
aperta dalla quale entrava la vita! Forse potevo ricominciare a
vivere, ridiventare un uomo. La mia anima addormentata e quasi
intirizzita nel gelo respirava di nuovo e riprendeva a battere le
alucce assonnate. Goethe era venuto a trovarmi. Una fanciulla mi
aveva ordinato di mangiare, di bere, di dormire, mi aveva usato
gentilezze, mi aveva deriso, mi aveva dato del ragazzino tonto. E mi
aveva parlato anche, quella strana amica, dei santi dimostrandomi che
persino nelle mie stravaganze non ero più solo, incompreso, non ero
un'eccezione morbosa, avevo una sorella capace di comprendermi.
L'avrei riveduta? Certamente. Era una persona fidata. "La parola data
va mantenuta."
Mi addormentai e dormii quattro o cinque ore. Erano passate le
dieci quando mi destai tutto pesto e stanco, col vestito stazzonato,
col ricordo del giorno precedente orribile e odioso, ma pieno di vita
e di speranza, pieno di buoni pensieri. Ritornando alla mia
abitazione non provai più l'orrore che quel ritorno mi avrebbe
suscitato il giorno prima.
Sulla scala, passata l'araucaria, incontrai la "zia", la mia
padrona di casa che vedevo di rado, ma mi piaceva per quel suo fare
gentile. L'incontro mi dispiacque perché ero alquanto trascurato dopo
quella nottata, non mi ero pettinato né fatto la barba. Salutai e
feci per passar oltre. Di solito lei rispettava il mio desiderio di
solitudine, ma in quel momento pareva che fra me e il mondo esteriore
si fosse realmente squarciato il velo, fosse caduta una barriera:
rise e si fermò.
"Ha fatto il vagabondo, signor Haller! Questa notte non è nemmeno
andato a letto. Sarà certamente molto stanco."
"Sì", dissi ridendo anch'io "questa notte abbiamo fatto un po' di
baldoria e siccome non volevo turbare lo stile della sua casa, ho
dormito all'albergo. Ho molto rispetto per la pace di questa casa
onorata e qualche volta mi pare proprio di essere un corpo estraneo."
"Non prenda in giro, signor Haller!"
"Oh, prendo in giro soltanto me stesso."
"E' proprio quello che non dovrebbe fare. In casa mia non dovrebbe
sentirsi un corpo estraneo. Lei deve vivere come più le aggrada e
fare quel che le piace. Ho avuto già parecchi inquilini molto
rispettabili, veri gioielli di brave persone, ma nessuno è stato così
tranquillo e ci ha dato meno disturbo di lei. E ora... desidera un
tè?"
Non rifiutai. Nel suo salotto, coi bei ritratti dei nonni e i
mobili aviti, mi fu servito il tè e si fecero quattro chiacchiere: la
brava donna venne a sapere, quasi senza chiedere, alcuni particolari
della mia vita e dei miei pensieri e mi ascoltò con quel misto di
rispetto e di maternità che non prende del tutto sul serio il
prossimo, quel senso materno che le donne intelligenti hanno per i
grilli dell'uomo. Parlò anche di suo nipote e in una stanza attigua
mi fece vedere il suo ultimo lavoro delle ore libere: un apparecchio
radio. Il giovane vi passava assiduo le serate e metteva insieme
quella macchina entusiasmato dall'idea della mancanza di fili,
adorando in ginocchio il Dio della tecnica, il quale è riuscito a
scoprire dopo millenni e a concretare molto imperfettamente ciò che
ogni pensatore ha sempre saputo e saggiamente usato. Parlando di
questo argomento, poiché la zia ha inclinazioni piuttosto religiose e
non le dispiace discorrere di religione, le dissi che gli antichi
Indiani conoscevano benissimo l'onnipresenza di tutte le forze e
azioni e che la tecnica ha portato soltanto una piccola parte di
questi fatti nella coscienza del pubblico costruendo per le onde
sonore un apparecchio ricevente e trasmittente, per il momento
tutt'altro che perfetto. Il fulcro di quell'antica intuizione,
l'irrealtà del tempo, dissi, non era ancora stato notato dalla
tecnica ma indubbiamente un giorno lo si sarebbe "scoperto" e sarebbe
capitato tra le mani dei laboriosi ingegneri; forse prestissimo si
sarebbe scoperto che non solo le visioni e gli avvenimenti attuali,
del momento, ondeggiano continuamente intorno a noi, come ci si
consente di udire la musica di Parigi o Berlino a Francoforte o
Zurigo, ma che tutto quanto è mai accaduto è registrato allo stesso
modo che esiste, e che probabilmente un giorno con o senza fili, con
o senza rumori di disturbo, udiremo parlare il re Salomone e Walter
von der Vogelweide; e che tutto ciò, come gli odierni inizi della
radio, servirà agli uomini soltanto per fuggire lontano da se stessi
e dalla loro meta e per circondarsi con una rete sempre più fitta di
distrazioni e di occupazioni inutili. Dissi però tutte queste cose,
ovvie per me, non col solito tono di amarezza e di sarcasmo contro i
tempi e contro la tecnica, bensì in tono scherzoso, sicché la zia
sorrideva e si stette così insieme un'oretta a prendere il tè
contenti e soddisfatti.
Avevo invitato la bella e strana ragazza dell'Aquila Nera per
martedì, e ora trovavo non poca difficoltà ad ammazzare il tempo fino
a quel momento. E quando giunse finalmente il martedì, vidi con
paurosa chiarezza l'importanza della mia relazione con quella
fanciulla sconosciuta. Non pensavo che a lei, aspettavo tutto da lei,
ero disposto a sacrificarle e a deporre ai suoi piedi ogni cosa pur
non essendone affatto innamorato. Mi bastava figurarmi che potesse
dimenticare l'appuntamento e non tenerne conto e capivo a qual punto
ero arrivato: il mondo sarebbe stato vuoto un'altra volta, le
giornate tutte grigie e senza valore, intorno a me si sarebbe rifatto
il silenzio e il deserto pauroso e non avrei trovato da quel tacito
inferno altra via d'uscita che il rasoio. Non che questo rasoio mi
fosse diventato più amico in quel paio di giorni: non aveva perduto
nulla del suo orrore. Questo era il peggio: avevo un terrore profondo
e angoscioso del taglio nella gola, avevo paura della morte e vi
reagivo con energia tenace e selvaggia come fossi stato l'uomo più
sano del mondo e la mia vita un paradiso. Vedevo il mio stato d'animo
con perfetta precisione e senza riguardi, capivo che era
l'insopportabile tensione fra il non poter vivere e il non poter
morire a dare tanto peso a quella sconosciuta, la piccola graziosa
ballerina dell'Aquila Nera. Essa era la finestrella, l'unico
spiraglio luminoso nella cupa caverna del mio terrore. Era la
redenzione, la via all'aperto. Era lei che doveva insegnarmi a vivere
o morire, lei che doveva toccare con la mano gentile il mio cuore
irrigidito, affinché a quel tocco di vita fiorisse o cadesse in
cenere. Donde prendesse quelle energie, donde le venisse la sua
magìa, da quali abissi misteriosi sorgesse il suo profondo
significato non riuscivo a pensare ed era del resto indifferente; non
m'importava più, ne ero fin troppo imbottito, e il mio più greve
tormento, la mia più vergognosa ironia consisteva appunto nell'essere
così profondamente cosciente della mia situazione. Vedevo davanti a
me quell'individuo, quella bestia di un lupo della steppa come una
mosca nella ragnatela e vedevo come il destino lo spingesse verso una
decisione, mentre si dibatteva indifeso nella rete e il ragno era
pronto a mordere, ma altrettanto vicina era una mano pronta a
salvarlo. Sulle cause della mia sofferenza, del mio morbo psichico,
del mio stregamento e della mia nevrosi avrei saputo dire le cose più
sagge e intelligenti: il meccanismo era perspicuo. Ma io non avevo
bisogno di sapere e di comprendere, non era questa la mia aspirazione
disperata, bensì quella dell'esperienza, della decisione, della
spinta e del balzo.
Benché in quei giorni di attesa non avessi mai il dubbio che
l'amica non mantenesse la parola, l'ultimo giorno mi trovai però
molto agitato e incerto; in vita mia non ho mai aspettato una sera
con tanta impazienza. E mentre la tensione e l'impazienza mi
diventavano quasi insopportabili, d'altro canto mi facevano un gran
bene: per me che da tanto tempo non avevo aspettato nulla, che col
cuore raffreddato non avevo atteso nessuna gioia, era una cosa
indicibilmente bella e nuova correre qua e là per tutta quella
giornata con inquietudine, con ansia, con ardore, e pregustare
l'incontro, i discorsi, i risultati di quella sera e farmi la barba e
vestirmi (con cura particolare, camicia nuova, cravatta nuova,
stringhe nuove). Chiunque fosse quella fanciulla saggia e misteriosa,
comunque fosse venuta a tiro, per me era indifferente; c'era, e si
era avverato il miracolo che io dovessi trovare ancora una volta una
creatura umana e un interessamento alla vita. Importante era che la
cosa continuasse, che io mi abbandonassi a quell'attrattiva, seguissi
quella stella.
Oh, il momento indimenticabile di quando la rividi! Ero seduto a un
tavolino del vecchio ristorante che mi ero fatto riservare per
telefono, benché non fosse necessario, studiavo la lista delle
vivande e avevo davanti a me, in un bicchiere, due belle orchidee che
avevo acquistate per l'amica. La quale si fece attendere, ma ero
sicuro che sarebbe venuta e non ero più agitato. E venne infatti, si
trattenne alla guardaroba e mi salutò soltanto con un'occhiata,
attenta e indagatrice, degli occhi grigi e chiari. Di sottecchi
osservavo come il cameriere si comportasse con lei. Niente
confidenza, grazie a Dio, una certa distanza e la più perfetta
cortesia. Eppure si conoscevano, lei lo chiamava Emilio.
Quando le porsi le orchidee, fu molto lieta e rise. "Sei molto
gentile, Harry. Volevi farmi un regalo, vero? E non sapevi che cosa
scegliere, non sapevi fino a qual punto eri autorizzato a farmi un
dono temendo che potessi offendermi, e allora hai comprato le
orchidee che sono soltanto fiori ma discretamente costosi. Mille
grazie, dunque. Del resto ti dirò subito che non voglio doni da te.
Io vivo a conto degli uomini, ma non voglio vivere sulle tue spalle.
Ma come ti sei mutato! Non ti si riconosce più. Ultimamente pareva ti
avessero appena staccato dalla corda e ora sei quasi un uomo. E
un'altra cosa: hai obbedito ai miei ordini?"
"Quali ordini?"
"Come? hai già dimenticato? Voglio dire, sai ballare adesso il
foxtrott? Mi dicevi che non desideravi di meglio che ricevere ordini
da me, che nulla ti piaceva quanto obbedirmi. Ti ricordi?"
"Certo, e voglio che sia così. Dicevo sul serio."
"E non hai ancora imparato a ballare?"
"Ma si può imparare così presto? Solo in un paio di giorni?"
"S'intende. Il fox lo puoi imparare in un'ora, il boston in due.
Per il tango ci vuol di più, ma non è necessario che tu lo sappia."
"Adesso però voglio sapere finalmente il tuo nome."
Mi guardò per un po' in silenzio.
"Forse sei capace di indovinarlo. Mi farebbe molto piacere se tu lo
indovinassi. Stai attento e guardami bene! Non ti sei ancora accorto
che qualche volta ho un viso da ragazzo? Adesso per esempio."
Osservandola attentamente dovetti proprio convenire che aveva un
volto da ragazzo. E prendendomi un minuto di tempo quel volto,
fattosi eloquente, mi rammentò la mia infanzia e un amico di allora
che si chiamava Ermanno. Per qualche istante ella parve tramutarsi in
quell'Ermanno.
"Se tu fossi un ragazzo", dissi con stupore "dovresti chiamarti
Ermanno."
"Chi sa, forse lo sono, forse sono travestita" disse scherzando.
"Dimmi, ti chiami Erminia?"
Ella confermò raggiante, contenta che avessi colto nel segno. In
quella fu portata la minestra e incominciammo a mangiare. Ella si
divertiva come una bimba. La cosa che più mi piaceva in lei e più mi
affascinava era quel passaggio improvviso dalla serietà più profonda
all'allegria sfrenata e viceversa, senza che perciò si mutasse o
perdesse la sua linea: era proprio una creatura intelligente. Ora fu
allegra, mi prese in giro col foxtrott, mi toccò persino col piede,
lodò le vivande, osservò che mi ero vestito con molta cura, ma trovò
ancora parecchio da ridire in proposito.
A un certo punto le domandai: "Come hai fatto a sembrare un ragazzo
di modo che potessi indovinare il tuo nome?".
"Sei stato tu a farlo. Non lo capisci, signor scienziato? Non
capisci che ti piaccio e conto qualcosa per te, perché sono una
specie di specchio tuo, perché dentro di me c'è qualche cosa che ti
risponde e ti comprende? Veramente tutti gli uomini dovrebbero essere
specchi l'uno per l'altro, e dovrebbero rispondersi a vicenda, ma i
tipi come te sono stravaganti e vanno a finire facilmente in una
malìa, sicché non possono più vedere o leggere alcunché negli occhi
altrui e di questi non si curano affatto. E quando un tipo simile
trova finalmente un viso che lo guarda realmente e sul quale trova
una risposta e un'affinità, allora, si sa, ne ha piacere."
"Ma tu sai tutto, Erminia!" esclamai stupito. "E' esattamente come
dici tu. Eppure sei così diversa da me. Sei il contrario di me; hai
tutto quello che a me manca."
"Così ti sembra" disse laconicamente. "Ed è un bene."
E in quel momento le si stese sul volto, che mi parve
effettivamente uno specchio magico, una nuvola greve di serietà e
tutto il suo viso fu soltanto serio e tragico, senza fondo come le
occhiaie vuote di una maschera. Lentamente, pronunciando quasi a
malincuore parola per parola, soggiunse:
"Ti raccomando, non dimenticare quello che m'hai detto! Mi hai
detto di comandarti e che avresti avuto gioia di obbedire a tutti i
miei ordini. Non dimenticarlo! Devi sapere, piccolo Harry, che quel
che capita a te, che cioè il mio viso ti risponde, che c'è in me
qualcosa che ti viene incontro e ti ispira fiducia... la stessa cosa
accade anche a me. Ultimamente, quando ti vidi entrare all'Aquila
Nera così stanco e assente e quasi fuori di questo mondo, ebbi subito
l'impressione che mi avresti obbedito, che avevi un gran desiderio di
ricevere i miei ordini. Perciò ti ho rivolto la parola, perciò siamo
diventati amici."
Parlava con tanta gravità, sotto una tale pressione dello spirito
che non riuscivo a tenere il suo passo e cercavo di calmarla e
sviarla. Lei rifiutò con un battere di palpebre, mi guardò fisso e
continuò con voce fredda: "Devi mantenere la tua parola, piccolo mio,
altrimenti ti pentirai. Riceverai molti ordini da me e li eseguirai:
saranno ordini grati e piacevoli e sarai lieto di obbedire. Infine,
Harry, eseguirai anche il mio ultimo comando".
"Lo farò" risposi quasi involontariamente. "E quale sarà il tuo
ultimo comando?" Ma già lo intuivo, Dio sa perché.
Si scosse come per un brivido di febbre e parve destarsi lentamente
dal suo sopore. I suoi sguardi erano fissi su di me. E a un tratto si
fece ancora più cupa.
"Sarebbe saggio non dirtelo. Ma io non voglio essere saggia, Harry,
almeno questa volta. Voglio un'altra cosa. Stai attento e ascolta!
Udirai, dimenticherai, ne riderai, ne piangerai. Stai attento! Voglio
giocare con te alla vita e alla morte, e prima d'incominciare la
partita voglio mostrarti le carte apertamente."
Come era bella mentre diceva queste cose! Il suo viso pareva
sovrumano. Negli occhi chiari e freddi si librava una tristezza
cosciente, e pareva che avessero sofferto e accettato tutte le pene
immaginabili. Le sue labbra parlavano con difficoltà, all'incirca
come si parla quando un gran gelo irrigidisce la faccia; ma fra le
labbra, agli angoli della bocca, nel giuoco della lingua che
raramente mostrava la punta, in contraddizione con lo sguardo e la
voce, vibrava una dolce sensualità, un intimo desiderio di piacere.
Sulla fronte liscia le ricadeva una breve ciocca e da quel punto
della fronte emanava di quando in quando, come un respiro vivente,
un'ondata di somiglianza maschile, di magìa ermafrodita. Con ansia la
stavo a sentire ma ero quasi stordito, mezzo assente.
"Tu mi vuoi bene" continuò "per la ragione che ti ho già detto: io
ho infranto la tua solitudine, ti ho raccolto e risvegliato sulla
soglia dell'inferno. Ma da te esigo molto, molto di più. Voglio farti
innamorare di me. No, non ribattere, lasciami parlare! Tu mi vuoi
molto bene, lo sento, e me ne sei grato, ma non sei innamorato di me.
Io farò in modo che tu lo sia, è la mia professione: io vivo di
questo, facendo che gli uomini s'innamorino di me. Ma ricordati bene
che non lo faccio perché proprio tu mi sembri così affascinante. Io
non sono innamorata di te, Harry, come tu non lo sei di me. Ma ho
bisogno di te come tu hai bisogno di me. Tu hai bisogno di me in
questo momento perché sei disperato e ti occorre una spinta che ti
butti nell'acqua e ti richiami alla vita. Hai bisogno di me per
imparare a ballare, a ridere, a vivere. Io invece avrò bisogno di te,
non oggi, più tardi, per una cosa molto bella e importante. Quando
sarai innamorato di me, ti impartirò il mio ultimo ordine e tu
obbedirai e così sarà bene per te e per me."
Sollevò dal bicchiere una delle orchidee brune e violacee venate di
verde, vi chinò un istante la faccia e fissò il fiore.
"Non sarà facile per te, ma lo farai. Tu eseguirai il mio ordine e
mi ucciderai. Ecco tutto. Non fare altre domande!"
Tacque, con l'occhio ancora fisso sull'orchidea, il suo viso si
stirò svolgendosi come la gemma di un fiore che si apra, e sulle sue
labbra apparve un sorriso delizioso mentre gli occhi le rimanevano
ancora un istante fissi e legati. Poi scosse il capo col riccioletto
da ragazzo, prese un sorso d'acqua, s'accorse che stavamo mangiando e
si dedicò alle vivande con giocondo appetito.
Avevo ascoltato il suo pauroso discorso parola per parola, avevo
persino indovinato l'ultimo ordine prima che lo pronunciasse e non
ero rimasto atterrito alle parole "tu mi ucciderai". Tutto quanto
diceva mi pareva persuasivo e fatale, lo accettavo senza reagire,
eppure tutto quanto aveva detto, nonostante la tragica serietà, non
era per me piena e seria realtà. Una parte del mio spirito assorbiva
le sue parole e ci credeva, un'altra invitava alla calma e prendeva
nota che, dunque, anche quella brava e sana Erminia così sicura di sé
aveva le sue fantasie e i suoi stati crepuscolari. Appena ebbe
pronunciato la sua ultima parola, un velo di inefficace irrealtà si
stese su tutta la scena.
Tuttavia non potei fare con la stessa leggerezza funambolesca di
Erminia il balzo di ritorno verso la realtà e la verosimiglianza.
"Dunque un giorno ti ucciderò?" domandai come in sogno, mentre ella
aveva già ripreso a ridere e scalcava con zelo il volatile che aveva
nel piatto.
"Naturalmente", confermò in tono superficiale "ma ora basta, ora
dobbiamo mangiare. Senti, Harry, sii gentile e ordinami ancora un po'
d'insalata verde! Non hai appetito? Mi pare che dovrai imparare tutto
quello che negli altri uomini viene da sé; persino la gioia di
mangiare. Vedi dunque, questa qui è una coscia di anitra ed è una
festa staccare dall'osso questa bella carne chiara, e facendo così
bisogna aver nel cuore lo stesso appetito, la stessa grata attesa che
ha l'innamorato quando per la prima volta aiuta la sua ragazza a
togliersi la giacca. Hai capito? No? Sei uno scemo. Stai attento: ti
do un pezzo di questa bella coscetta d'anitra e vedrai. Su, apri la
bocca! Sei proprio un mostro. Che bisogno c'è di guardare la gente
per sapere se ti vede prendere un boccone dalla mia forchetta! Stai
tranquillo, figliol prodigo, non ti farò svergognare. Ma se per la
tua gioia hai bisogno del permesso degli altri, sei proprio un povero
sciocco."
Sempre più irreale diventava la scena precedente, sempre più pareva
incredibile che pochi minuti prima quegli occhi avessero avuto
sguardi così tristi e preoccupati. In questo Erminia era come la
vita: sempre attimo, mai calcolabile in anticipo. Ora mangiava, e la
coscia d'anitra e l'insalata, la torta e i liquori erano presi sul
serio e diventavano oggetto di gioia e di giudizio, di conversazione
e fantasia. A ogni nuova portata incominciava un altro capitolo.
Quella donna che aveva visto così profondamente nel mio cuore, che
pareva conoscesse la vita più di tutti i sapienti, eseguiva il giuoco
della vita infantile con un'arte che mi fece diventare senz'altro un
suo discepolo. Fosse profonda saggezza o schietta ingenuità, chi
sapeva vivere così nell'attimo fuggevole, chi abbracciava così il
presente e sapeva apprezzare con amore fraterno ogni piccolo fiore
sul margine della via, ogni piccolo valore dell'istante che fugge,
doveva certo dominare la vita. E quella gaia fanciulla con l'appetito
sano di buongustaia sarebbe stata nello stesso tempo una sognatrice
isterica che si augurava la morte o una vigile calcolatrice che
voleva freddamente farmi innamorare e diventare suo schiavo? No, non
poteva essere. Ella si abbandonava talmente all'istante che sapeva
accogliere, come ogni idea allegra, anche ogni brivido cupo dalle
lontane profondità dell'anima, e lo lasciava svilupparsi.
Quell'Erminia che vedevo per la seconda volta sapeva tutto di me,
mi pareva impossibile avere un segreto per lei. Poteva darsi che non
comprendesse chiaramente la mia vita spirituale, che forse non fosse
in grado di seguirmi nei miei rapporti con la musica, con Goethe, con
Novalis o Baudelaire... ma anche questo non era sicuro, forse non le
sarebbe costato molta fatica. E quand'anche fosse stato vero: che
cosa era rimasto ancora della mia "vita spirituale"? Non era ormai
tutto in frantumi e senza significato? Ma tutti gli altri miei
problemi, i miei problemi più personali, ella li avrebbe capiti
tutti, non ne dubitavo. Tra non molto avrei certo potuto discorrere
con lei del lupo della steppa, della Dissertazione, di tutto ciò che
fino allora era esistito soltanto per me, di cui non avevo mai detto
nulla ad alcuno. E non potendo resistere cominciai subito.
"Erminia", dissi "ultimamente ho avuto una strana avventura. Uno
sconosciuto mi diede un librettino stampato, sai, come quegli
opuscoli che vendono alle fiere, e vi trovai descritta esattamente
tutta la mia storia e tutto ciò che mi riguarda. Non ti sembra una
cosa strana?"
"Come è intitolato il libretto?" domandò.
"Il lupo della steppa - Dissertazione."
"Lupo della steppa? Straordinario! E il lupo della steppa saresti
tu?"
"Sì, sono io. Sono mezzo uomo e mezzo lupo, o almeno mi figuro di
esserlo."
Non rispose. Mi guardò attentamente, guardò le mie mani e per un
istante il suo sguardo e il suo viso ripresero la profonda serietà di
prima e quella tetraggine appassionata. Mi parve di leggerle nel
pensiero la domanda se ero abbastanza lupo per poter adempiere al suo
ultimo comandamento.
"Naturalmente è una tua fantasia" disse rifacendosi serena "o, se
preferisci, una poesia. Ma qualche cosa di vero c'è. Oggi non sei
lupo, ma l'altra volta quando sei entrato nella sala e parevi caduto
dal cielo, allora sì che eri un pezzo di belva: ed è quello che mi è
piaciuto." S'interruppe come a un'idea improvvisa e disse: "Come è
sciocco dire belva o bestia feroce! Non si dovrebbe parlare così
delle bestie. Spesso sono terribili ma sono molto più a posto che gli
uomini".
"A posto? Come sarebbe?"
"Guarda un animale, un gatto, un cane, un uccello o magari una
delle bestie grandi nel giardino zoologico, un puma o una giraffa! E
vedrai che tutti sono a posto, che nessun animale è imbarazzato o non
sa quel che debba fare e come debba comportarsi. Non vogliono
adularti né vogliono farti impressione. Niente commedie. Sono come
sono, come sassi e fiori e come stelle in cielo. Mi comprendi?"
Comprendevo.
"Per lo più le bestie sono tristi" soggiunse lei. "E quando un uomo
è molto triste, non perché abbia il mal di denti o abbia perduto
denaro ma perché sente a un certo momento come sono le cose, come è
la vita, ed è triste per questo, allora assomiglia sempre un pochino
a una bestia; ha l'aspetto triste ma è più bello, più a posto del
solito. Così sembravi tu, lupo della steppa, quando ti vidi la prima
volta."
"Bene, Erminia, e che ne pensi di quel libro nel quale sono
descritto?"
"Oh senti, non ho voglia di pensare sempre. Ne riparleremo un'altra
volta. Potrai anche farmelo leggere oppure, se un giorno dovessi aver
voglia di leggere, dammi piuttosto uno di quei libri che hai scritto
tu."
Chiese il caffè e per un po' parve disattenta e distratta. Ma a un
tratto apparve raggiante come fosse giunta a concludere un suo
pensiero.
"Evviva", esclamò con gioia "adesso ci sono!"
"Che c'è?"
"Ho trovato la soluzione per il foxtrott al quale pensavo tutto
questo tempo. Dimmi dunque: hai una stanza dove noi due si possa
ballare ogni tanto un'oretta? Non importa che sia grande, basta che
non ci sia nessuno di sotto che venga a protestare se il soffitto gli
scricchiola sulla testa. Benissimo, dunque potrai imparar a ballare a
casa tua."
"Già", dissi timidamente "meglio così. Ma credo che ci voglia anche
la musica."
"Certo che ci vuole. Fai così: compri la musica che ti costerà al
massimo quanto un corso di lezioni da una maestra. E risparmi la
maestra perché ti insegno io. Musica ne abbiamo poi quando vogliamo e
per di più ti rimane il grammofono."
"Il grammofono?"
"Si capisce. Acquisti un piccolo apparecchio e un paio di dischi
con ballabili..."
"Benissimo", esclamai "e se ti riesce veramente di insegnarmi a
ballare, ti do per compenso il grammofono. Siamo d'accordo?"
Lo dissi con molta franchezza, ma non mi veniva proprio dal cuore.
Non riuscivo a immaginare nel mio studio con tutti quei libri un
apparecchio simile tutt'altro che simpatico, e anche contro il ballo
avevo le mie obiezioni. Sì, pensavo, all'occasione si poteva anche
far qualche prova, benché fossi convinto di essere troppo vecchio e
rigido e di non poter più imparare. Ma quelle proposte, così una
sull'altra erano troppo rapide e cercavo di opporre resistenza con
tutte le obiezioni di vecchio e viziato conoscitore di musica contro
i grammofoni, i jazz e le moderne musiche da ballo. Che nella mia
stanza accanto a Novalis e Jean Paul, nel rifugio dei miei pensieri
dovessero risonare ora i ballabili americani in voga e io ci dovessi
ballare, era più di quanto una creatura umana potesse pretendere da
me. Ma chi pretendeva non era una "creatura umana", era Erminia la
quale non aveva che da comandare. Io obbedii. Sicuro che obbedii.
Il pomeriggio seguente c'incontrammo al caffè. Quando arrivai,
Erminia c'era già e prendeva il tè; con un sorriso mi mostrò un
giornale nel quale aveva scoperto il mio nome. Era uno dei fogli
reazionari del mio paese dove si pubblicavano di quando in quando
articoli violenti contro di me. Durante la guerra ero stato contrario
alla guerra e dopo avevo invitato più volte alla calma, alla
pazienza, al senso di umanità e di critica, difendendomi dalle
escandescenze nazionalistiche che diventavano ogni giorno più aspre,
più stolte e più selvagge. E lì nel giornale c'era uno di quegli
attacchi, scritto male, compilato un po' dalla redazione stessa e un
po' rubacchiato da articoli simili della stampa consenziente. Infatti
nessuno scrive così male come i difensori delle ideologie che
invecchiano, nessuno fa il suo mestiere con meno pulizia e meno
sforzi. Erminia aveva letto l'articolo ed era venuta a sapere che
Harry Haller era un individuo pericoloso e senza patria e che il
paese non si sarebbe mai ripreso finché si tolleravano uomini simili
e simili idee e finché la gioventù era educata a sentimentalismi
umanitari anziché alla vendetta armata contro il secolare nemico.
"Questo sei tu?" domandò Erminia indicando il mio nome. "Mi pare
che non ti manchino i nemici, Harry. Ti dà fastidio?"
Lessi alcune righe: era la solita storia, tutti quegli insulti
stereotipati mi erano noti da anni fino alla nausea.
"No, non mi dà fastidio", risposi "ci sono avvezzo. Alcune volte ho
detto la mia opinione che ogni popolo e anzi ogni uomo, invece di
lasciarsi ninnare da false questioni politiche circa la colpevolezza,
deve fare l'esame di coscienza e vedere se i suoi errori, le
omissioni o le cattive abitudini non siano fino a un certo punto
responsabili della guerra e di tutta la miseria che vi è nel mondo:
unica via per evitare forse la prossima guerra. E questo non mi
vogliono perdonare, poiché naturalmente loro sono tutti innocenti:
l'imperatore, i generali, i grandi industriali, gli uomini politici,
i giornali: nessuno ha nulla da rimproverarsi, nessuno ha la minima
colpa! Si direbbe che il mondo è un paradiso, salvo che ci sono una
dozzina di milioni di uccisi sottoterra. Vedi, Erminia, questi
attacchi non mi dànno più fastidio, ma qualche volta mi mettono
addosso una grande tristezza. Due terzi dei miei concittadini leggono
questa razza di giornali, leggono mattina e sera queste parole,
vengono lavorati ogni giorno, esortati, aizzati, resi cattivi e
malcontenti, e la fine di tutto ciò sarà di nuovo la guerra, la
guerra futura che sarà probabilmente più orrenda di quella passata.
Tutto ciò è semplice, limpido, tutti potrebbero capire e arrivare in
un'ora di riflessione al medesimo risultato. Ma nessuno vuol
riflettere, nessuno vuol evitare la prossima guerra, nessuno vuol
risparmiare a sé e ai propri figli il prossimo macello di milioni
d'individui. Rifletterci un'ora, chiedersi un momento fino a qual
punto ognuno è partecipe e colpevole del disordine e della cattiveria
del mondo: vedi, nessuno vuol farlo. E così si andrà avanti e la
prossima guerra è preparata giorno per giorno con ardore da molte
migliaia di uomini. Da quando lo so mi son sentito tagliare le gambe
e mi sono disperato e non ho più "patria", non ho più ideali perché
tutto questo non è che uno scenario per quei signori che preparano la
prossima carneficina. Non ha scopo pensare pensieri umani e dirli e
scriverli, non ha scopo rimuginare in testa pensieri di bontà: per
due o tre persone che lo fanno ci sono in compenso ogni giorno
migliaia di giornali e di riviste e discorsi e sedute pubbliche e
segrete che vogliono il contrario e lo ottengono."
Erminia mi aveva ascoltato con attenzione.
"Già", disse ora "hai ragione tu. Si capisce che avremo di nuovo la
guerra, non occorre leggere i giornali per saperlo. Certo, si può
esserne rattristati, ma è una cosa senza valore. Sarebbe come
rattristarsi perché, nonostante tutto quanto si possa fare contro, un
giorno bisognerà per forza morire. La lotta contro la morte, caro
Harry, è sempre una cosa bella, nobile e onorevole, dunque anche la
lotta contro la guerra. Ma è anche sempre un gesto da Don Chisciotte,
un gesto senza speranza."
"Forse è vero", esclamai con forza "ma con simili verità, come
quella che bisogna pur morire tutti e che ogni cosa è quindi
indifferente, non si fa che rendere la vita insulsa e superficiale.
Dobbiamo dunque buttar via tutto, rinunciare allo spirito, alle
aspirazioni, all'umanità, lasciare che continuino a dominare
l'ambizione e il denaro e aspettare davanti a un bicchiere di birra
la prossima mobilitazione?"
Strano fu lo sguardo che Erminia mi lanciò, uno sguardo birichino e
ironico, ma pieno di comprensione amichevole e di grave serietà e
sapienza.
"No che non devi" disse maternamente. "E non è detto che la tua
vita diventi insulsa e superficiale quando sai che la tua battaglia
sarà vana. E' molto più superficiale, Harry, se combatti per un
ideale e credi di doverlo anche raggiungere. Gli ideali esistono
forse per essere raggiunti? Viviamo forse noi uomini per abolire la
morte? No, viviamo per temerla e poi amarla e appunto per amor suo
questo nostro po' di vita arde talvolta di luce così bella per
qualche istante. Tu, Harry, sei un bambino. E ora fai il bravo e
vieni con me. Abbiamo tante cose da fare. Per conto mio oggi non
voglio occuparmi di guerra e di giornali. Va bene?"
Anch'io ero d'accordo.
Andammo insieme (era la nostra prima passeggiata comune in città)
in un negozio di musica e ci facemmo mostrare dei grammofoni. Li
aprimmo, li sentimmo suonare e quando ne trovammo uno molto bello,
adatto e a buon mercato, feci per comperarlo, ma Erminia non aveva
ancora finito. Mi trattenne e dovetti andare con lei in un altro
negozio e vedere e sentire anche là tutte le marche e tutte le
grandezze, dal più caro al meno caro, e soltanto allora Erminia si
dichiarò disposta a ritornare nel primo negozio per acquistare il
grammofono che avevamo scelto.
"Vedi?" dissi "avremmo potuto prenderlo prima senza tanta fatica."
"Credi? E domani avremmo forse visto lo stesso grammofono in
un'altra vetrina a venti franchi di meno. Oltre a ciò è divertente
far compere e alle cose divertenti non si deve rinunciare. Hai ancora
da imparare parecchio"
Un fattorino portò a casa mia il nuovo acquisto.
Erminia esaminò la stanza, lodò la stufa e il divano, provò le
sedie, prese in mano i libri, rimase a lungo davanti al ritratto
della mia amante. Avevamo messo il grammofono su un canterano fra due
mucchi di libri. Incominciammo la lezione. Ella fece girare il disco
del foxtrott, mi indicò i primi passi, mi prese per mano e mi guidò.
Io trottavo obbediente, urtavo contro le sedie, ascoltavo i suoi
ordini, non capivo, le pestavo i piedi ed ero altrettanto maldestro
quanto ligio al dovere. Dopo il secondo giro lei si buttò sul divano
ridendo come una bambina.
"Dio mio, come sei duro! Ma cammina semplicemente come quando vai a
spasso! Non c'è bisogno di fare sforzi. Sarai già tutto sudato! Via,
riposiamo cinque minuti! Vedi, ballare quando si sa è altrettanto
semplice quanto pensare, ed è molto più facile impararlo. Adesso
t'impazientirai meno se gli uomini non vogliono abituarsi a pensare e
preferiscono chiamar traditore il signor Haller e lasciare
tranquillamente che venga un'altra guerra."
Dopo un'ora se ne andò assicurandomi che la prossima volta avrei
fatto meglio. Io ero di opinione diversa e molto deluso della mia
stupidità e goffaggine, mi pareva di non aver imparato nulla e non
ero punto persuaso di far meglio un'altra volta. Per ballare ci
vogliono qualità che io non avevo assolutamente: allegria, ingenuità,
leggerezza, slancio. Lo sapevo da un pezzo.
Se non che la volta seguente feci meglio davvero e incominciai
persino a divertirmi e alla fine della lezione Erminia assicurò che
ormai sapevo il foxtrott. Ma quando ne trasse la conseguenza che
l'indomani dovevo andare a ballare con lei in un ristorante, rimasi
atterrito e mi opposi con insistenza. Ma lei mi rammentò freddamente
il mio voto di obbedienza e m'invitò a prendere il tè l'indomani
all'Hôtel Balances.
Quella sera rimasi in casa col desiderio di leggere ma non ci
riuscii. Pensavo con terrore all'indomani; mi spaventava il pensiero
che io, vecchio eccentrico e timido, non solo dovessi frequentare uno
di quei locali da tè e da ballo moderni con tanto di jazz, ma persino
presentarmi tra gente estranea come ballerino senza essere capace di
ballare. Confesso che risi di me stesso e mi vergognai quando caricai
il grammofono nel silenzio del mio studio e in calze cominciai piano
piano a ripetere i passi del fox.
Il giorno dopo all'Hôtel Balances c'era un'orchestrina e si
servivano tè e whisky. Cercai di corrompere Erminia, le offersi le
paste, tentai di invitarla a bere una bottiglia di buon vino, ma fu
inesorabile.
"Oggi non sei qui per divertirti. Si fa lezione di ballo."
Dovetti ballare con lei due o tre volte e fra un ballo e l'altro mi
presentò il sonatore di saxofono, un giovane bello e bruno di origine
spagnola o sudamericana, che a sentir lei suonava tutti gli strumenti
e parlava tutte le lingue del mondo. Il señor pareva fosse un buon
conoscente di Erminia e un buon amico suo, aveva davanti a sé due
saxofoni di diversa grandezza e suonava ora l'uno ora l'altro, mentre
i suoi occhi neri e lustri studiavano attenti e soddisfatti i
ballerini nella sala. Con mia sorpresa provai contro quel musicante
bello e innocuo quasi una punta di gelosia, non gelosia d'amore,
perché di amore non si poteva discorrere fra me ed Erminia, ma
piuttosto una gelosia di amicizia intellettuale poiché non mi pareva
fosse proprio degno dell'interessamento e quasi della devozione che
gli dimostrava.
"Che strane conoscenze mi tocca fare!" pensavo indispettito.
Poi Erminia fu invitata alla danza e io rimasi solo a prendere il
tè ascoltando la musica, una specie di musica che fino a quel momento
non avevo mai potuto soffrire. "Dio mio", pensavo, "ora dovrò essere
introdotto in questo mondo così estraneo e antipatico, che ho sempre
evitato e disprezzato profondamente, in questo ambiente di vagabondi
e di gaudenti, stereotipato, di tavolini di marmo, di musica di jazz,
di donnine allegre, di viaggiatori di commercio!" Rattristato sorbivo
il tè e guardavo la folla quasi elegante. Due belle ragazze
attirarono i miei sguardi, entrambe buone ballerine nelle quali
ammiravo con invidia la bella elasticità e la gaia sicurezza con cui
ballavano.
Quando Erminia ritornò da me si mostrò insoddisfatta. Mi
rimproverò, disse che non ero venuto per fare quella faccia e star
seduto al tavolino, che dovevo tirarmi su e ballare. Come, non
conoscevo nessuno? Superfluo. O non c'erano ragazze che mi
piacessero?
Le indicai una delle due, la più bella, che era proprio accanto a
noi e con quella graziosa gonnella di velluto, coi capelli biondi e
corti e le belle braccia pienotte aveva un aspetto delizioso. Erminia
insistette perché andassi subito a invitarla. Io mi dibattevo
disperato.
"Ma se non posso", dissi con dolore. "Fossi almeno un bel
giovanotto! Ma vecchio e rigido come sono, senza neanche saper
ballare... riderebbe di me!"
Erminia mi guardò con disprezzo.
"E se rido io di te, naturalmente non importa. Come sei vigliacco!
Chiunque si avvicini a una ragazza rischia di essere deriso: questa è
la posta. Su, Harry, rischia dunque e alla peggio lasciati deridere...
altrimenti non credo più alla tua obbedienza."
Non mollava. Mi alzai costernato e mi avvicinai alla bella
fanciulla nel momento in cui la musica riprendeva a suonare.
"Veramente non sono libera", disse guardandomi con curiosità "ma il
mio cavaliere pare sia rimasto laggiù appiccicato al bar. Su, venga
pure!"
La strinsi alla vita e feci i primi passi, sbalordito che non mi
avesse mandato via, ma intanto lei si era già accorta delle mie
condizioni e incominciò a guidarmi. Ballava meravigliosamente e io ne
ero trascinato dimenticando tutte le regole e i miei doveri di
cavaliere, mi lasciavo andare nella corrente, sentivo i fianchi sodi,
le ginocchia rapide e flessuose della ballerina, la guardavo
raggiante e le confessai che era la prima volta che ballavo in vita
mia. Ella sorrise incoraggiandomi e alle mie occhiate entusiaste e
alle mie parole lusinghiere rispondeva molto abilmente non a parole,
ma a piccoli movimenti deliziosi che ci avvicinavano sempre più. Le
stringevo la vita con la destra, seguivo felice e beato il movimento
delle sue gambe, delle braccia, delle spalle, non le pestai i piedi
nemmeno una volta con mio grande stupore, e quando la musica cessò ci
fermammo tutt'e due a battere le mani finché la danza fu ripetuta e
io potei compiere il rito un'altra volta con zelo innamorato e con
devozione.
Finito il ballo, troppo, troppo presto, la bella fanciulla di
velluto si ritirò e mi trovai in faccia ad Erminia che era stata a
guardarmi.
"Hai sentito?" disse ridendo e approvando. "Ti sei accorto che le
gambe delle donne non sono gambe di tavolino? Bravo! Grazie a Dio, il
fox lo sai oramai, domani passiamo al bos-ton, e fra tre settimane
c'è il ballo in maschera nelle Sale Globus."
Era l'intervallo e ci eravamo seduti. Ora venne anche il bel
giovane del saxofono, il signor Pablo, e con un breve inchino si
sedette accanto a Erminia. Dovevano essere buoni amici. A me invece,
lo confesso, il signore non piacque affatto in quel primo incontro.
Bello era, non si poteva negare, bello di statura e bello di viso, ma
non ci vedevo nessun altro pregio. Anche le sue capacità poliglotte
non erano una gran cosa: infatti non parlava, diceva soltanto parole
come prego, grazie, sì, certamente e simili e le sapeva dire in molte
lingue. Ma in complesso non parlava, il signor Pablo, e pareva anche
non pensasse molto, il bel caballero. Badava a suonare il saxofono in
orchestra e a questa occupazione si dedicava certamente con amore e
passione, talvolta batteva le mani mentre suonava e si permetteva
altri sfoghi di entusiasmo cantando per esempio suoni come: "o o o, a
a a, olà!". Del resto pareva fosse a questo mondo soltanto per esser
bello, per piacere alle donne, per portare colletti e cravatte
all'ultima moda e molti anelli alle dita. La sua conversazione
consisteva nello star seduto vicino a noi, sorriderci e guardare ogni
tanto l'orologio al polso e arrotolare sigarette con molta abilità. I
suoi occhi scuri di creolo, le sue ciocche nere non celavano alcun
romanticismo, alcun problema, alcun pensiero: visto da vicino il bel
semidio esotico era un giovane soddisfatto, un po' viziato, di belle
maniere e nient'altro. Gli parlai del suo strumento, delle
colorazioni di suoni nella musica jazz per fargli capire che aveva a
che fare con un amatore e conoscitore di cose musicali. Ma egli non
accolse l'argomento e mentre io, per cortesia verso di lui o meglio
verso Erminia, intraprendevo quasi un'apologia teorica del jazz, non
faceva che sorridere di me e dei miei sforzi e probabilmente non
sapeva neanche che prima e oltre il jazz c'era stata altra musica.
Gentile era, gentile e garbato, e aveva sempre un bel sorriso nei
grandi occhi vuoti, ma tra lui e me pareva non ci fosse niente di
comune: nulla di ciò che per lui era sacro e importante poteva
esserlo anche per me, venivamo da continenti opposti, le nostre
lingue non avevano alcuna espressione comune. (Ma più tardi Erminia
mi riferì una cosa strana. Mi disse che dopo quel colloquio Pablo le
aveva raccomandato di trattarmi con molto tatto e con affezione
perché dovevo essere molto infelice. E avendo ella chiesto da che
cosa lo argomentasse, aveva risposto: "Poveretto! Guardalo negli
occhi! Non sa ridere".)
Quando dunque il giovane dagli occhi neri si fu allontanato e la
musica ebbe ripreso a suonare, Erminia si alzò: "Adesso potresti fare
un giro con me, Harry. O non ne hai più voglia?".
Anche con lei ballai ora più leggero, più libero, più contento,
anche se non così lieve e dimentico di me stesso come con
quell'altra. Erminia si faceva guidare da me e si adattava tenera e
flessuosa come un petalo e anche in lei trovavo e sentivo tutte
quelle bellezze ora avanzanti ora fuggenti, anche lei aveva un
profumo di donna e di amore, anche la sua danza cantava con tenerezza
la soave allettante canzone del sesso... e tuttavia non sapevo
rispondere con perfetta libertà e serenità, non ero capace di
dimenticarmi interamente e di abbandonarmi. Erminia mi era troppo
vicina, era la mia compagna, la mia sorella, una mia pari,
assomigliava a me stesso e ad Ermanno, il mio amico d'infanzia, il
sognatore, il poeta, l'ardente compagno delle mie esercitazioni
spirituali e delle mie stravaganze.
"Lo so", mi disse quando gliene parlai "lo so benissimo. Per il
momento non potrò farti innamorare di me, ma non c'è fretta. Per ora
siamo camerati, siamo persone che sperano di diventare amiche perché
si sono conosciute a vicenda. Ora vogliamo imparare l'uno dall'altro
e giocare insieme. Io ti mostro il mio piccolo teatro, t'insegno a
danzare e ad essere un po' contento e sciocco, e tu mi mostri i tuoi
pensieri e un pochino del tuo sapere."
"Oh, Erminia, non c'è molto da mostrare: tu ne sai molto più di me.
Che strana creatura sei! Sempre mi comprendi e sei un passo più
avanti di me. Conto forse qualcosa per te? Non ti annoio?"
Ella abbassò lo sguardo abbuiato. "Non mi piace sentirti parlare
così. Pensa alla sera in cui, rotto e disperato, sei uscito dal tuo
tormento solitario attraversando la mia strada e sei diventato il mio
compagno. Perché credi che allora abbia potuto riconoscerti e
comprenderti?"
"Perché, Erminia? Dimmelo!"
"Perché sono come te. Perché sono così sola come sei tu e non so
amare e prendere sul serio la vita e gli uomini e me stessa: proprio
come fai tu. Ci sono sempre persone che chiedono il massimo alla vita
e difficilmente si conciliano con la sua rozza stupidità."
"Erminia!" esclamai profondamente meravigliato. "Come ti comprendo,
mia compagna! Nessuno ti capisce come ti capisco io. Eppure sei un
enigma. Tu riesci a vivere come se la vita fosse un giuoco, hai
cotesto meraviglioso rispetto delle piccole cose e dei piccoli
godimenti, sei una grande artista della vita. Com'è possibile che la
vita ti faccia soffrire? Che tu possa disperarti?"
"Io non mi dispero, Harry. Ma in quanto a soffrire della vita... in
questo, sì, sono molto esperta. Tu ti stupisci che non sia felice
perché so pur danzare e conosco così bene la superficie della vita. A
mia volta, caro amico, mi stupisco io che tu sia così deluso della
vita, dato che sei così addentro nelle cose più belle e più profonde,
nello spirito, nell'arte e nel pensiero. Per questo ci siamo sentiti
attratti l'uno verso l'altro, per questo siamo fratello e sorella.
T'insegnerò a ballare e a giocare, a sorridere e non essere tuttavia
contento. E da te imparerò a pensare e a sapere e a non essere
tuttavia contenta. Lo sai che tutti e due siamo figli del demonio?".
"Sì, è proprio vero. Il demonio è lo spirito e noi siamo i suoi
figli disgraziati. Ci siamo distaccati dalla natura e stiamo sospesi
nel vuoto. Ma ora mi viene in mente: nella Dissertazione sul lupo
della steppa, della quale ti ho parlato, si dice che è soltanto una
fantasia di Harry quella di credere che in lui ci siano una o due
anime, una o due personalità. Ogni uomo, dice, è composto di dieci,
di cento, di mille anime."
"Molto bello" esclamò Erminia. "In te per esempio il lato
intellettuale è molto evoluto, ma in compenso sei molto indietro
nelle piccole arti della vita. Il pensatore Harry ha cent'anni, il
ballerino Harry è nato da poche ore. Adesso si tratta di farlo
crescere insieme con tutti i fratellini che sono altrettanto piccoli
e sciocchini come lui."
Mi guardò sorridendo e mutando voce domandò sommessamente: "E Maria
ti è piaciuta?".
"Maria? E chi è?"
"E' quella bella ragazza con la quale hai ballato. Una fanciulla
bellissima. Da quanto ho visto ne eri un po' innamorato."
"La conosci?"
"Sì, ci conosciamo molto bene. Ti interessa?"
"Mi è piaciuta ed ero lieto di vederla così indulgente col mio modo
di ballare."
"Se non è che questo! Senti, Harry, dovresti farle un po' la corte.
E' molto carina, balla bene e sei già innamorato di lei. Credo che
avrai successo."
"Oh, non è questa la mia ambizione."
"Adesso menti un pochino. So bene che hai un'amante in qualche
parte del mondo e la vedi una volta ogni sei mesi per litigare. E'
una bella cosa che tu voglia rimaner fedele a codesta strana amica,
ma permettimi di non prendere la cosa tanto sul serio! In genere ho
il sospetto che tu prenda l'amore maledettamente sul serio. Fallo
pure, ama pure alla tua maniera ideale fin che vuoi: è affar tuo, io
non c'entro, ma io devo provvedere per parte mia a che tu impari un
po' meglio le piccole arti leggere e i giuochi della vita: in questo
campo ti faccio io da maestra e sarò una maestra migliore della tua
amante ideale, sta pur sicuro. Tu hai molto bisogno, caro lupo della
steppa, di dormire insieme con una bella ragazza."
"Erminia", dissi un po' tormentato "guardami, non sono più un
giovanotto!"
"Un ragazzino sei. E come eri troppo pigro per imparar a ballare
fin che fu quasi troppo tardi, così eri anche troppo pigro per
imparar ad amare. L'amore ideale e tragico, amico mio, quello lo sai
benissimo, non ne dubito. Tanto di cappello! Ma ora imparerai anche
ad amare umanamente e alla maniera comune. L'inizio è fatto, si può
già mandarti a un ballo. Certo devi imparare ancora il boston:
s'incomincia domani. Verrò alle tre. E del resto, questa musica qui
ti è piaciuta?"
"Moltissimo."
"Vedi? Anche cotesto è un progresso. Hai imparato qualche cosa di
nuovo. Finora non potevi soffrire questa musica da ballo, ti pareva
troppo poco seria e profonda e ora hai visto che non è il caso di
prenderla sul serio, ma hai capito che può essere molto carina e
deliziosa. D'altro canto, senza Pablo l'orchestra non varrebbe
niente. E' lui che la guida e la riscalda."
Come il grammofono nel mio studio guastava il tono di spiritualità
ascetica, come le danze americane irrompevano a disturbare, anzi a
distruggere il mio bel mondo musicale, così arrivava da ogni parte
qualche cosa di nuovo, di temuto, di struggente nella mia vita, fino
allora così chiaramente definitiva e severamente chiusa. La
Dissertazione sul lupo della steppa ed Erminia avevano ragione con la
loro teoria delle mille anime e infatti ogni giorno apparivano in me,
accanto alle vecchie, alcune anime nuove avanzando pretese, facendo
fracasso, e davanti a me come in un quadro vedevo la vanità della mia
persona d'un tempo. Avevo ammesso soltanto le poche facoltà e perizie
nelle quali per caso ero forte e avevo delineato l'immagine di un
Harry e vissuto la vita di un Harry che a rigore non era se non un
raffinatissimo specialista di poesia, musica e filosofia... mentre
tutto il resto della mia persona, il rimanente caos di facoltà e
istinti e aspirazioni mi era stato molesto ed era diventato
attribuzione del lupo della steppa.
Ma la mia conversione, il dissolvimento della mia personalità non
era stato affatto un'avventura piacevole e divertente; al contrario,
mi aveva procurato amarezze dolorose e talvolta quasi insopportabili.
Il grammofono aveva spesso un suono diabolico in quell'ambiente dove
tutto era così diversamente intonato. E talvolta, quando ballavo i
miei onestep in qualche ristorante alla moda, tra vitaioli eleganti e
cavalieri d'industria, mi pareva di essere un traditore di tutto ciò
che mi era stato sacro e venerabile nella vita. Se Erminia mi avesse
lasciato solo otto giorni, sarei tosto sfuggito a quei faticosi e
ridicoli tentativi di fare l'uomo di mondo. Ma Erminia mi stava
vicina; benché non la vedessi ogni giorno, ero sempre sorvegliato,
guidato, frugato da lei: sorridendo mi leggeva in faccia anche i miei
furibondi pensieri di ribellione e di fuga.
Con la progressiva distruzione di quella che prima avevo chiamato
la mia personalità, incominciai anche a comprendere perché nonostante
la disperazione avevo temuto così orribilmente la morte, e a sentire
che anche quella brutta e vergognosa paura faceva parte della mia
vecchia, borghese e falsa esistenza. Quel signor Haller, scrittore
intelligente, conoscitore di Mozart e Goethe, autore di interessanti
considerazioni sulla metafisica dell'arte, sul genio e la tragedia,
sullo spirito di umanità, quel malinconico anacoreta nella sua cella
zeppa di libri veniva passato tratto per tratto al vaglio della
propria critica e non riusciva mai a reggersi. L'interessante e
intelligente signor Haller aveva bensì predicato la ragionevolezza e
il senso di umanità, aveva protestato contro le malvagità della
guerra ma non si era fatto mettere al muro e fucilare come sarebbe
stata logica conseguenza del suo pensiero: aveva trovato invece un
adattamento qualsiasi, molto corretto e nobile s'intende, ma pur
sempre un compromesso. Era avverso al potere e allo sfruttamento, ma
aveva alla banca parecchi titoli di imprese industriali delle quali
consumava gl'interessi senza alcun rimorso. E tutto era così. Harry
Haller si era travestito magnificamente da idealista e misantropo, da
eremita malinconico e profeta accigliato, ma in fin dei conti era un
borghese, considerava spregevole una vita come quella di Erminia, si
seccava delle notti sprecate in un ristorante, del denaro ivi buttato
via, aveva la coscienza poco pulita e non desiderava affatto di
sentirla libera e perfezionata, anzi, al contrario, avrebbe voluto
ritornare ai tempi della comodità, quando i suoi passatempi
intellettuali gli avevano fatto piacere e procurato la gloria. Allo
stesso modo i lettori dei giornali da lui tanto disprezzati e derisi
si auguravano i tempi ideali di prima della guerra perché era più
comodo che trarre insegnamenti da ciò che avevano sofferto. Puah,
roba da recere, quel signor Haller! E tuttavia mi aggrappavo a lui o
alla sua maschera che già svaniva, a quel suo civettare con le cose
dello spirito, al suo timore borghese del disordine e delle cose
fortuite (tra le quali c'era anche la morte) e confrontavo con ironia
e invidia il nuovo Harry in formazione, quel dilettante un po' comico
e timido dei ritrovi da ballo con l'antica figura falsamente ideale
di Harry, nella quale egli aveva scoperto nel frattempo tutti quei
lineamenti antipatici che l'avevano turbato quella sera nel Goethe
del professore. Anche lui, il vecchio Harry, era stato un Goethe
così, borghese idealizzato, un uguale eroe della mente dallo sguardo
troppo nobile, raggiante di sublimità, di spirito, di umanità come di
brillantina e quasi commosso della propria nobiltà interiore! Corpo
del diavolo, quella dolce immagine presentava ora molti buchi e
l'ideale signor Haller era miseramente smontato! Sembrava un
dignitario assalito dai predoni e ridotto in calzoni laceri e avrebbe
fatto bene a imparare la parte dello straccione anziché portare quei
cenci come se vi fossero attaccate le decorazioni e pretendere
piagnucolando la dignità perduta.
Incontravo spesso Pablo il musicante e dovetti rivedere il giudizio
sul suo conto, non fosse altro perché Erminia gli voleva tanto bene e
ne cercava assiduamente la compagnia. Nella mia mente avevo
registrato Pablo come un bellissimo zero, un vagheggino piuttosto
vanitoso, un ragazzo soddisfatto e senza problemi che soffia con
gioia nella tromba di cartone comperata alla fiera e si lascia
facilmente guidare con lodi e cioccolatini. Pablo invece non chiedeva
i miei giudizi, gli erano altrettanto indifferenti quanto le mie
teorie musicali. Mi stava ad ascoltare con amichevole cortesia,
sempre sorridente, ma non mi dava mai risposta. Eppure destavo la sua
attenzione poiché si sforzava in modo evidente di piacermi e
dimostrarmi la sua benevolenza. Una volta, dopo uno di quei colloqui
senza sugo, rimasi seccato e fui quasi sgarbato: egli mi guardò
costernato e triste, mi prese una mano, me la accarezzò e mi porse
una presa da una piccola tabacchiera dorata dicendo che mi avrebbe
fatto bene. Interrogai Erminia con un'occhiata, ella mi fece cenno di
sì e io presi e annusai. Infatti mi sentii subito più fresco e
allegro: quella polverina conteneva probabilmente un po' di cocaina.
Erminia mi rivelò che Pablo possedeva molti di quei rimedi: gli
venivano per vie segrete ed egli li offriva talvolta agli amici; era
un maestro nel far le miscele e stabilire le dosi: si trattava di
mezzi per attutire i dolori, per dormire, per suscitare sogni
piacevoli, per provocare l'allegria e l'amore.
Una volta lo incontrai per la strada sul lungofiume ed egli mi si
accompagnò senz'altro. Allora mi riuscì finalmente di farlo parlare.
"Signor Pablo", gli dissi mentre giocava con un bastoncino nero e
argento "lei è un buon amico di Erminia e questa è la ragione per cui
mi occupo di lei. Ma devo dire che non è facile conversare con lei.
Più volte ho tentato di parlare di musica: mi sarebbe piaciuto
sentire la sua opinione, le sue obiezioni, i suoi giudizi, ma lei non
si è mai degnato di darmi una risposta."
Rise cordialmente e mi rispose davvero, in tono pacato: "Vede,
secondo me non mette conto di parlare di musica. Io non parlo mai di
musica. Del resto che cosa avrei dovuto rispondere alle sue parole
così sagge e giuste? Lei aveva perfettamente ragione in tutto ciò che
diceva. Ma, vede, io sono musicante, non sono un erudito, e credo che
in musica aver ragione non conti proprio nulla. Nella musica non si
tratta di aver ragione, di aver buon gusto e cultura e che so io".
"Di che si tratta allora?"
"Si tratta di far della musica, signor Haller, di sonare,
possibilmente bene e molto e intensamente. Ecco qua, signore. Se ho
in mente tutte le opere di Bach e Haydn e ne so dire le cose più
intelligenti, non ho fatto ancora nulla per nessuno. Ma se piglio il
mio saxofono e suono uno shimmy insinuante, lo shimmy potrà essere
buono o cattivo, ma certo piacerà alla gente, entrerà loro nelle
gambe e nel sangue. Questo conta. Guardi un po' in una sala da ballo
le facce dei ballerini nel momento in cui si riprende a suonare dopo
un intervallo: come luccicano gli occhi, come si stendono le gambe,
come fiorisce il sorriso sulle labbra! Per questo si fa della
musica."
"Sta bene, signor Pablo. Ma non esiste soltanto la musica sensuale,
c'è anche quella spirituale, non c'è soltanto quella che si suona al
momento, ma anche quella immortale che continua a vivere anche quando
non la si suona. Uno può stare coricato a letto e suscitare nella
mente una melodia del Flauto magico o della Passione di San Matteo, e
quella è musica senza che nessuno suoni un flauto o un violino."
"Certo, signor Haller. Anche il Yearning e il Valencia sono
riprodotti ogni notte in silenzio da molte persone solitarie e
sognanti; anche la più povera dattilografa ha in testa l'ultimo
onestep e batte i tasti a quel ritmo. Ha ragione lei, ammetto che
tutta questa gente solitaria abbia la sua musica silenziosa, sia il
Yearning o il Flauto magico o Valencia. Ma dove la vanno a prendere
costoro la loro musica solitaria e muta? Da noi, dai musicanti,
bisogna pure che sia suonata e ascoltata e entrata nel sangue prima
che uno la possa ripensare e sognare nella sua cameretta."
"D'accordo" dissi freddamente. "Eppure non si può mettere sullo
stesso gradino Mozart e l'ultimo foxtrott. Non è la stessa cosa se
lei suona al pubblico una musica divina e eterna o la facile
musichetta della giornata."
Pablo notando la mia voce alterata assunse l'espressione più
gentile, mi passò una carezza sul braccio e diede alla sua voce una
dolcezza incredibile.
"Oh, caro signore, in quanto a gradini avrà tutte le ragioni. Certo
io non ho niente in contrario che metta Mozart e Haydn e Valencia sul
gradino che più le piace. Per me è indifferente. Io non devo
determinare i gradini, nessuno me lo chiede. Può darsi che Mozart si
suoni ancora fra cent'anni e che Valencia non si suoni forse più fra
due anni: questo possiamo affidarlo, credo, tranquillamente al buon
Dio che è giusto e tiene in mano la vita di tutti noi, come anche
quella di ogni valzer e di ogni foxtrott. Egli farà certamente quel
che va fatto. Ma noi musicanti dobbiamo fare la parte nostra,
dobbiamo compiere il nostro dovere: noi dobbiamo sonare quel che la
gente desidera di volta in volta e dobbiamo cercar di sonare
possibilmente bene e con sentimento."
Con un sospiro mi rassegnai. Con quell'uomo non era possibile
spuntarla.
In certi momenti il vecchio e il nuovo, il dolore e il piacere,
l'apprensione e la gioia erano stranamente mescolati insieme. Ora mi
sentivo in paradiso ora nell'inferno, per lo più nell'uno e
nell'altro insieme. Il vecchio Harry e il nuovo vivevano talvolta in
pace tra loro, talvolta in aspro conflitto. Talora il vecchio pareva
morto del tutto, morto e sepolto, ma a un tratto riappariva,
comandava, tiranneggiava, cavillava, mentre il nuovo, quello piccolo
e giovane, si vergognava, taceva e si lasciava mettere con le spalle
al muro. In altri momenti il giovane prendeva il vecchio alla gola e
stringeva con forza ed erano gemiti e lotte tra le quali balenava il
rasoio.
Ma spesso il dolore e la felicità mi cadevano addosso come un'onda
che si chiudesse sopra il mio capo. Così avvenne una sera, pochi
giorni dopo la mia prima comparsa a un ballo pubblico, allorché
entrai nella mia camera e con indicibile stupore e spavento e delizia
trovai nel mio letto la bella Maria.
Di tutte le sorprese che Erminia mi aveva fatte fino allora quella
fu la più violenta. Non rimasi infatti nemmeno un istante in dubbio
che fosse stata lei a mandarmi quell'uccello del paradiso. Quella
sera eccezionalmente non ero stato con Erminia, ma ero andato a
sentire nel Duomo un concerto di vecchia musica sacra: era stata una
bella e malinconica escursione nella mia vita precedente, nel
territorio della giovinezza, nel paese di Harry l'idealista. Sotto
l'alta volta gotica della chiesa, le cui crociere oscillavano vive e
fantastiche nel giuoco dei lumi scarsi, avevo ascoltato brani di
Buxtehude, Pachelbel, Bach, Haydn, ero passato di nuovo per le
vecchie strade preferite, avevo ascoltato la voce stupenda di una
cantante della quale ero stato amico e con la quale avevo frequentato
un'infinità di concerti. Le voci della musica antica, la sua infinita
dignità e santità mi avevano ridestato tutte le delizie e tutti gli
entusiasmi della gioventù, ed ero rimasto assorto e triste nel coro
della chiesa per un'ora intera, ospite del mondo nobile e felice che
un giorno era stato la mia patria. A un duetto di Haydn mi erano
venute improvvisamente le lacrime e senza aspettare la fine del
concerto avevo rinunciato a incontrare la cantante (oh quante serate
luminose avevo passato una volta con gli artisti, dopo simili
concerti!) e mi ero allontanato di nascosto girellando per le vie
notturne dove le orchestrine sonavano nei ristoranti le melodie della
mia vita nuova. Qual torbido intrico era diventata ormai la mia vita.
In quella passeggiata notturna avevo anche riflettuto a lungo sulle
mie strane relazioni con la musica e di nuovo avevo capito che quel
rapporto commovente quanto spiacevole era la sorte di tutta
l'intelligenza tedesca. Nello spirito tedesco regna il matriarcato,
il legame con la natura in forma di egemonia della musica, come non
l'ha vista nessun altro popolo. Noi intellettuali, invece di reagire
virilmente e obbedire allo spirito, al logos; alla parola e di farli
ascoltare, sogniamo tutti un linguaggio senza parole che esprime
l'inesprimibile e rappresenta l'irrappresentabile. Invece di suonare
fedelmente e onestamente il suo strumento, l'intellettuale tedesco è
sempre stato un frondista contro la parola e contro la ragione e ha
fatto l'occhiolino alla musica. E nella musica, in meravigliose e
beate forme di suoni, in meravigliosi sentimenti soavi e stati
d'animo che non giunsero mai a realizzarsi, lo spirito tedesco si è
effuso trascurando però la maggior parte dei suoi veri compiti. Noi
intellettuali siamo sempre stati estranei e avversi alla realtà e
perciò la parte dello spirito fu così misera anche nella nostra
realtà tedesca, nella storia, nella politica, nella pubblica
opinione. Spesso avevo formulato questo pensiero non senza provare
talvolta un violento desiderio di contribuire a plasmare la realtà,
di essere attivo con intenti seri e responsabili, anziché far sempre
dell'estetica e dell'artigianato intellettuale. Ma finivo sempre col
rassegnarmi, con l'adattarmi alla sorte. I generali e l'industria
pesante avevano ragione: contavamo poco noi "intellettuali", eravamo
una società superflua, sognante, irresponsabile, di chiacchieroni
spiritosi. Che schifo! Il rasoio, il rasoio!
Pieno dunque di riflessioni e di echi musicali, il cuore gonfio di
tristezza e di un disperato desiderio di vita, di realtà, di cose
irrimediabilmente perdute, ero ritornato finalmente a casa, avevo
salito le scale, acceso la luce nella stanza e tentato invano di
leggere, avevo ripensato all'appuntamento che avevo per l'indomani
nel Bar Cécil e me l'ero presa non solo con me stesso ma anche con
Erminia. Per quanto avesse intenzioni buone e amichevoli, per quanto
fosse una creatura meravigliosa, avrebbe fatto meglio a lasciarmi
andare in rovina anziché tirarmi in quel mondo frivolo, estraneo e
luccicante, dove sarei pur sempre rimasto un estraneo e dove la parte
migliore di me soffriva e si dissolveva!
Sicché avevo spento la luce tristemente, ero passato triste nella
camera e triste avevo cominciato a spogliarmi allorché un profumo
insolito mi colpì, un profumo leggero, e voltandomi vidi nel mio
letto la bella Maria sorridente, un po' incerta, coi grandi occhi
azzurri.
"Maria!" esclamai. E il mio primo pensiero fu che la padrona di
casa, se lo avesse saputo, mi avrebbe dato la disdetta.
"Sono venuta" disse lei sottovoce. "Se ne ha a male?"
"No, no. So che Erminia le ha dato la chiave. Capisco."
"Vedo che le dispiace. Me ne vado."
"Ma no, Maria, resti! E' che oggi sono molto triste, non posso
essere allegro, potrò esserlo forse domani."
Mi ero chinato verso di lei ed ella mi prese la testa fra le mani
robuste, mi attirò a sé e mi baciò a lungo. Poi mi sedetti sul letto,
le presi una mano, la pregai di parlar sottovoce perché non si doveva
udirci, e la guardai nel bel viso che posava come un gran fiore
esotico sul mio guanciale. Lentamente si portò la mia mano alle
labbra, la tirò sotto la coperta e se la posò sul petto caldo e
tranquillo.
"Non occorre che tu sia allegro" disse. "Erminia mi ha già detto
che sei addolorato. Son cose che si capiscono. Ti piaccio ancora?
Recentemente al ballo eri molto innamorato."
Le baciai gli occhi, le labbra, il collo, il seno. Poco prima avevo
pensato male di Erminia, le avevo fatto amari rimproveri. Ora tenevo
in mano il suo dono e le ero riconoscente. Le carezze di Maria non
facevano male alla musica stupenda che avevo ascoltato quella sera,
anzi ne erano degne e la completavano. Piano piano sollevai la
coperta dalla bella creatura finché giunsi coi miei baci fino ai
piedi. Quando mi coricai accanto a lei il suo viso floreale mi
sorrise complice e consapevole.
Quella notte a fianco di Maria non dormii a lungo ma profondamente
e bene come un fanciullo. E tra un sonno e l'altro sorbii la sua
giovinezza bella e serena e conversando sommessamente venni a sapere
una quantità di cose interessanti sulla vita sua e di Erminia. Di
quelle creature e di quella vita avevo saputo molto poco, soltanto a
teatro avevo incontrato occasionalmente individui simili, maschi e
femmine, mezzo artisti, mezzo mondani. E ora soltanto mi si apriva
uno spiraglio in tali vite stranamente innocenti, stranamente
corrotte. Quelle ragazze, per lo più povere di famiglia, troppo
intelligenti e troppo belle per puntare tutta la vita su un impiego
pagato male e senza gioia, vivevano ora di lavori occasionali, ora
della loro grazia e venustà. Ogni tanto passavano un paio di mesi
davanti a una macchina per scrivere, ogni tanto erano le amanti di
vitaioli facoltosi, ricevevano denaro e doni, vivevano per un po' in
pelliccia, automobile e Grand Hôtel, per un altro po' in una
soffitta, e accettavano magari il matrimonio in date circostanze
verso offerte cospicue, ma in complesso non ci tenevano in modo
assoluto. Alcune di loro erano prive di sensualità e concedevano i
loro favori soltanto a malincuore e tirando al massimo prezzo. Altre,
Maria tra queste, erano insolitamente sensuali e bisognose d'amore,
per lo più esperte anche nell'amore di entrambi i sessi; vivevano
soltanto per amare e oltre agli amici ufficiali e paganti avevano
anche altre relazioni. Assidue e affaccendate, preoccupate e leggere,
sagge e sventate, quelle farfalle vivevano la loro vita infantile e
raffinata ad un tempo, indipendenti, non venali per chiunque,
aspettando la loro parte di sole e di fortuna, innamorate della vita
eppure meno attaccate ad essa di quanto non fossero le borghesi,
sempre pronte a seguire un principe azzurro nel castello, sempre
sicure nella loro subcoscienza di fare una fine triste e dolorosa.
Molte cose m'insegnò Maria in quella meravigliosa prima notte e nei
giorni seguenti, non solo nuovi giuochi ed ebbrezze dei sensi ma
anche nuove comprensioni e nuove vedute dell'amore. Il mondo delle
sale da ballo e di divertimento, dei cinema, dei bar, dei grandi
alberghi, che a me eremita ed esteta sembrava ancora un mondo
inferiore, vietato e disonorante, era per Maria, per Erminia e le
loro compagne il mondo intero, né buono né cattivo, né desiderabile
né odioso, e in quel mondo sbocciava la loro breve vita nostalgica,
là erano esperte come a casa loro. Amavano una bottiglia di spumante
o una pietanza speciale nel Grill Room, come uno di noi può amare un
musicista o un poeta, e sprecavano per un nuovo ballabile o per la
canzone sentimentale e dolciastra d'un cantante di jazz quello stesso
entusiasmo e quella stessa commozione che uno di noi prova per
Nietzsche o per Hamsun. Maria mi parlava di Pablo, il bel suonatore
di saxofono, mi parlava di un song americano che egli cantava loro
qualche volta e ne parlava con un'ammirazione, una devozione, un
affetto che mi commoveva e mi trascinava molto più che le estasi di
qualche persona coltissima di fronte a raffinati godimenti artistici.
Ero pronto a vibrare con lei comunque fosse quel song; le parole
amorose di Maria, il suo sguardo nostalgicamente fiorito aprivano
larghe brecce nella mia estetica. Certo esistevano bellezze, alcune
poche bellezze squisite, superiori a ogni dubbio o discussione, in
primo luogo Mozart, ma dov'era il limite? Noi critici ed esperti non
avevamo forse amato da giovani opere d'arte e artisti che oggi ci
apparivano dubbi e noiosi? Non era stato così con Liszt, con Wagner,
per molti addirittura con Beethoven? La fresca commozione infantile
di Maria per il song americano non era forse un godimento artistico
altrettanto puro, bello, superiore a ogni dubbio, quanto l'entusiasmo
di un provveditore agli studi per il Tristano o l'estasi di un
direttore d'orchestra per la Nona Sinfonia? E tutto ciò non
rispondeva stranamente alle idee del signor Pablo e non veniva a
dargli ragione?
Anche Maria pareva amasse molto Pablo il bello.
"E' un bell'uomo" dissi io "anche a me piace. Ma dimmi, Maria, come
puoi voler bene, oltre che a lui, anche a me vecchio e noioso, niente
affatto bello, con alquanti capelli grigi, a me che non so suonare il
saxofono né cantare canzoni amorose inglesi?"
"Che maniera di parlare!" mi rimproverò. "Ma è naturale. Anche tu
mi piaci, anche tu hai qualche cosa di bello, di caro, di
particolare: non devi essere diverso da quello che sei. Di queste
cose non si deve parlare né pretendere che se ne renda conto. Vedi,
quando mi baci il collo o l'orecchia, sento che mi vuoi bene e che ti
piaccio; hai un modo speciale di baciare, quasi un po' timido, che mi
dice: "Ecco, ti vuol bene e ti è grato di essere bella" E' una cosa
che mi piace moltissimo. In un altro invece amo precisamente il
contrario, quando sembra cioè che non sappia che farsene di me e mi
bacia come se mi concedesse una grazia."
Ci addormentammo ancora. E ancora mi svegliai ma senza aver tolto
le braccia da quel mio fiore così bello.
E, strana cosa, il bel fiore era pur sempre il dono che mi aveva
fatto Erminia. Ella era sempre dietro l'altra, la racchiudeva quasi
in una maschera. E a un tratto pensai ad E'rica, la mia cattiva
amante lontana, la mia povera amica. Non era meno bella di Maria,
anche se non così sciolta e florida, e più povera di piccole geniali
arti amorose, e per un po' mi stette davanti agli occhi,
dolorosamente limpida, amata e profondamente avviticchiata al mio
destino, finché si sommerse nel sonno, nell'oblio, nella lontananza
semirimpianta.
E così in quella notte di tenerezza risorsero molte visioni della
mia vita tanto povera e vuota e a lungo senza immagini. Ora,
magicamente dischiusa dall'eros, la fonte incominciò a versare
immagini a dovizia e per qualche istante rimasi senza fiato a vedere
con tristezza e con delizia quanto fosse ricca la pinacoteca della
mia vita, quanto fosse stata piena di astri eterni e di costellazioni
l'anima del povero lupo della steppa. L'infanzia e la mamma mi
apparivano tenere e trasfigurate come una montagna lontana e
perdutamente azzurra, limpido e metallico squillava il coro delle mie
amicizie a cominciare dal leggendario Ermanno, il fratello d'anima di
Erminia; olezzanti e sovrumane, come ninfee affioranti dall'acqua, mi
giungevano le figure di molte donne che avevo amate, desiderate e
cantate, delle quali però soltanto poche avevo raggiunto e cercato di
far mie. Anche mia moglie mi apparve, con la quale avevo vissuto
parecchi anni, dalla quale avevo imparato il cameratismo, il dissidio
e la rassegnazione, nella quale nonostante l'insufficienza della vita
mi era rimasta una gran fiducia fino al giorno in cui, malata e
folle, era fuggita improvvisamente abbandonandomi in un impeto di
ribellione... e vidi quanto dovevo averla amata e quanta fiducia
dovevo aver avuto in lei se quella ribellione aveva potuto colpirmi
così profondamente e per tutta la vita.
Quelle visioni, centinaia e centinaia, con e senza nomi,
ritornavano tutte, sorgevano giovani e rinnovellate dal pozzo di
quella notte d'amore e io capivo, dopo averlo dimenticato nella mia
lunga miseria, che erano il vero possesso e valore della mia vita,
che si erano conservate incorruttibili, che erano avvenimenti
diventati astri del firmamento che io potevo dimenticare ma non
distruggere, e la cui serie rappresentava la leggenda della mia vita,
il valore indistruttibile della mia esistenza. La mia vita era stata
faticosa, errabonda, infelice, mi aveva portato alla negazione e alla
rinuncia, era stata amareggiata dal sale inevitabile di ogni umanità,
ma ricca e orgogliosa, una vita regale anche nello squallore. Se
anche quel tratto di strada fino alla morte fosse stato sprecato
miseramente, il nocciolo di quella vita era nobile, era di razza,
poiché non mirava a miseri quattrini, mirava alle stelle.
E' passato del tempo da allora e molte cose sono accadute, molte si
sono modificate, e di quella notte ricordo soltanto pochi
particolari, poche parole scambiate, alcuni gesti di profonda
tenerezza, momenti limpidi di risveglio dal sonno greve dello
sfinimento amoroso. Ma in quella notte, per la prima volta dopo la
mia decadenza, la mia propria vita mi fissò con occhi raggianti nei
quali vidi che il mio destino era di nuovo affidato al caso e i
rottami della mia esistenza erano un frammento di divinità. La mia
anima riprese a respirare, i miei occhi a vedere, e per un istante
ebbi l'intuizione fiammeggiante che bastava raccogliessi il mondo
delle immagini disperse, elevassi a visioni tutta la mia vita di lupo
della steppa per entrare anch'io nel mondo delle immagini ed essere
immortale. Non è forse la meta verso la quale ogni vita umana è un
tentativo di rincorsa?
Al mattino, dopo aver spartito la colazione con Maria, dovetti
contrabbandarla fuori di casa e ci riuscii. Quello stesso giorno
affittai per lei e per me una cameretta in un quartiere poco distante
e la destinai soltanto ai nostri convegni.
Erminia, la mia maestra di ballo, arrivò fedelmente e io dovetti
imparare il boston. Era severa e inesorabile e non mi risparmiava
nessuna lezione poiché era deciso che dovevo andare al prossimo ballo
mascherato. Mi aveva chiesto il denaro per il suo costume, ma
rifiutava ogni informazione in proposito. E ancora mi era vietato di
andarla a trovare e persino di sapere dove abitava.
Il periodo prima del ballo mascherato, circa tre settimane, fu
bello davvero. Mi pareva che Maria fosse veramente la prima amante
che avessi avuto. Dalle donne che avevo amato avevo sempre preteso
spirito e cultura senza mai accorgermi che anche la donna più
intelligente e relativamente colta non rispondeva mai al mio logos,
ma gli era sempre contraria; andando dalle donne portavo con me i
miei problemi e i miei pensieri e mi sarebbe parso assolutamente
impossibile amare per più di un'ora una ragazza che non avesse mai
letto un libro, sapesse appena che cosa vuol dire la lettura e non
fosse in grado di distinguere Ciaicovski da Beethoven. Maria non
aveva cultura, non aveva bisogno di queste deviazioni e di questi
surrogati, tutti i suoi problemi le nascevano direttamente dai sensi.
La sua arte e il suo compito consistevano nell'ottenere il massimo di
felicità amorosa e sensuale con la sua bella persona, i suoi colori,
i capelli, la voce, la pelle, il temperamento, nel trovare e
suscitare nell'amante la comprensione e la corrispondenza viva e
beata, la risposta a ogni propria capacità, a ogni curva delle
proprie linee, a ogni tenerezza del suo corpo modellato. L'avevo
sentito già in quel primo timido ballo, avevo fiutato quel profumo di
sensualità geniale e deliziosamente raffinata e ne ero rimasto
affascinato. E poi non era certo un caso se Erminia, l'onnisciente,
mi aveva recato proprio Maria. Il suo profumo era estivo, tutta la
sua figura un boccio di rosa.
Non avevo la fortuna di essere l'unico amante di Maria o almeno il
preferito; ero uno fra i tanti. Spesso ella non aveva tempo per me,
qualche volta mi concedeva un'ora al pomeriggio, raramente una notte
intera. Non accettava denaro, probabilmente per suggerimento di
Erminia. Ma accettava volentieri regali e quando le offrii, per
esempio, un piccolo portamonete di cuoio rosso, permise che ci
fossero dentro anche due o tre monete d'oro. Ma come mi prese in giro
per quel borsellino rosso! Era graziosissimo, ma era un fondo di
magazzino, passato di moda. In queste cose che fino allora non avevo
capito più di quanto capissi l'esquimese, imparai parecchio da Maria.
Venni a sapere anzitutto che piccoli balocchi, gli oggetti della
moda, del lusso, non sono soltanto orpelli né un'invenzione di
industriali e avidi commercianti, ma oggetti giustificati e belli, un
piccolo o anche grande mondo di cose che hanno tutte lo scopo di
servire l'amore, di raffinare i sensi, di animare ambienti morti e di
fornir loro nuovi organi amorosi, dalla cipria e dal profumo alla
scarpina da ballo, dall'anello all'astuccio delle sigarette, dalla
fibbia della cintura alla borsetta. La borsetta non è una borsetta,
il portamonete non è un portamonete, i fiori non sono fiori, il
ventaglio non è un ventaglio, ma tutto è materia plastica di amore,
di magìa, di stimolo, tutto è messaggio, contrabbando, arma, grido di
battaglia.
Spesso mi rompevo il capo per sapere chi Maria amasse veramente.
Più di tutti, penso, amava il giovane Pablo del saxofono, il giovane
dagli occhi perdutamente neri e dalle mani lunghe, pallide e
malinconiche. Mi figuravo che quel Pablo fosse in amore un po'
sonnolento, viziato e passivo, ma Maria mi assicurò che era bensì
lento a scaldarsi, ma poi diventava più esaltato, virile ed esigente
di qualunque pugilatore. Così venni a sapere i fatti segreti di
questo e quello, di musicanti e attori, di parecchie donne e
fanciulle del nostro ambiente, vidi sotto la superficie unioni e
inimicizie, diventai a poco a poco un membro di quel mondo nel quale
ero stato un vero corpo estraneo senza alcun rapporto. Anche sul
conto di Erminia seppi molte cose. Ma particolarmente m'incontravo
col signor Pablo del quale Maria era molto innamorata. Talvolta usava
anche le sue droghe segrete e ne procurava anche a me: per quei
godimenti Pablo si metteva sempre volentieri a mia disposizione. Una
volta me lo disse senza ambagi: "Lei è molto infelice. Non sta bene,
non bisogna essere così. Mi fa pena. Prenda una leggera pipata
d'oppio".
Il mio giudizio su quell'uomo gaio, ingenuo e tuttavia
imperscrutabile, mutava continuamente; diventammo amici e non di rado
accettavo qualcuna delle sue medicine. Egli osservava con una certa
allegria il mio amore per Maria. Una volta organizzò una
"festicciola" nella sua stanza, una mansarda in un albergo della
periferia. Vi era un'unica seggiola, sicché Maria e io ci mettemmo a
sedere sul letto. Egli ci versò da bere un liquore misterioso e
strano nel quale era mescolato il liquido di tre bottiglie. Poi,
quando mi vide di buon umore, ci propose cogli occhi lustri di fare
un'orgia a tre. Rifiutai bruscamente perché mi ripugnava, ma lanciai
un'occhiata a Maria per vedere come prendeva la cosa e, benché
approvasse subito il mio rifiuto, le vidi però un baleno negli occhi
e sentii che rinunciava con dispiacere. Pablo fu deluso del mio
rifiuto ma non offeso. "Peccato" disse. "Harry ha troppi scrupoli
morali. Non c'è niente da fare. Eppure sarebbe stato bello, molto
bello! Ma io so un surrogato." Ci diede da fumare alcune boccate di
oppio e immobili, ad occhi aperti, assistemmo tutti e tre per
suggestione alla scena da lui proposta mentre Maria tremava dal
piacere. Più tardi quando mi sentii un po' male, Pablo mi coricò sul
letto, mi diede alcune gocce di una medicina e quando chiusi per
qualche minuto gli occhi, sentii su ogni palpebra un bacio lieve come
un soffio. L'accettai fingendo di credere che fosse di Maria, ma
sapevo benissimo che era stato lui.
E una sera mi fece una sorpresa ancor più grande. Venne a casa mia
e mi disse che aveva bisogno di venti franchi e mi pregava di
darglieli. In compenso mi offriva di disporre quella notte di Maria
in vece sua.
"Pablo!" dissi atterrito "lei non sa quel che dice. Cedere per
denaro la propria amante ad un altro è per noi la cosa più vergognosa
che ci sia. Io non ho sentito la sua proposta, Pablo."
Egli mi guardò con commiserazione. "Non vuole, signor Harry? Va
bene. Le difficoltà le va a cercare lei. Allora questa notte, se
preferisce, non andrà a letto con Maria, e mi dia pure il denaro:
glielo restituirò. Ne ho molto bisogno."
"Per farne che?"
"Per Agostino, sa, quel piccolino che suona il secondo violino. E'
malato già da otto giorni e nessuno si cura di lui. Non ha un soldo e
adesso anch'io mi sono ridotto al verde."
Per curiosità e un poco anche per castigarmi andai con lui da
Agostino, al quale portò latte e medicinali nella soffitta dove
abitava, una misera stanzetta che aveva bisogno di essere arieggiata.
Pablo gli rifece il letto, gli mise una compressa sulla fronte
febbricitante, a regola d'arte, operando rapidamente e con
delicatezza come una buona infermiera. Quella stessa sera lo vidi poi
suonare fin verso il mattino nel City-Bar.
Con Erminia parlavo spesso di Maria, delle sue mani, delle spalle,
dei fianchi, del suo modo di ridere, di baciare e di danzare.
"Questo te l'ha già fatto vedere?" mi domandò una volta Erminia
accennando un giuoco particolare della lingua nel bacio. La pregai di
farmelo sentire lei, ma mi respinse facendosi seria. "Più in là"
osservò. "Non sono ancora la tua amante."
Le domandai come faceva a conoscere l'arte di Maria nel bacio e
altri segreti particolari del corpo noti soltanto all'uomo che ama.
"Oh!" esclamò "siamo buone amiche. Credi che abbiamo segreti tra
noi? Non poche volte ho dormito e giocato con lei. Certo hai trovato
in lei una bella ragazza più esperta delle altre."
"Eppure credo, Erminia, che anche voi abbiate segreti. O le hai
detto forse tutto quello che sai di me?"
"No, queste sono altre cose, e non comprenderebbe. Maria è
meravigliosa e tu hai avuto fortuna, ma fra te e me ci sono cose
delle quali lei non ha un'idea. Le ho parlato molto di te,
naturalmente, molto più di quanto allora ti sarebbe piaciuto: dovevo
pur sedurla per te! Ma comprendere, caro amico, come ti comprendo io,
Maria non potrà mai e non lo potrà nessun'altra. A mia volta ho
saputo parecchio da lei: di te so tutto quel che sa Maria. Ti conosco
bene come se avessimo già dormito insieme molte volte."
Quando mi ritrovai con Maria mi parve strano di venir a sapere che
aveva stretto al seno Erminia tante volte quante me, che aveva
palpato, baciato, assaporato ed esaminato le sue membra, i suoi
capelli e la pelle quanto i miei.
Nuovi rapporti e nuove unioni indirette e complicate mi sorsero
davanti gli occhi, nuove possibilità di vita e d'amore, e mi venne
fatto di pensare alle mille anime della Dissertazione.
Nel breve tempo fra il giorno in cui avevo conosciuto Maria e il
grande ballo mascherato fui quasi felice, pur non ripromettendomi che
fosse una redenzione, una felicità raggiunta; sentivo invece
chiaramente che tutto ciò era un preludio, una preparazione, che
tutto incalzava verso l'avvenire, che il bello doveva ancora
arrivare.
A ballare avevo imparato quel tanto che mi consentiva di
partecipare al ballo del quale si discorreva tutti i giorni. Erminia
aveva un segreto: non voleva assolutamente rivelarmi in che costume
sarebbe comparsa. L'avrei certamente riconosciuta, diceva, e se non
ci fossi riuscito mi avrebbe aiutato, ma prima non dovevo saper
nulla. D'altro canto non aveva nessuna curiosità di conoscere i miei
progetti, sicché decisi di non mascherarmi affatto. Maria, quando
volli invitarla, mi dichiarò che aveva già un cavaliere per quella
festa, e possedeva davvero un biglietto d'ingresso sicché, previdi,
deluso, che avrei dovuto andarci da solo. Era il ballo mascherato più
elegante della città, quello che gli artisti organizzavano ogni anno
nelle Sale Globus.
Quei giorni vidi poco Erminia, ma il giorno prima del ballo passò
un momento da me (venne a ritirare il biglietto d'ingresso che le
avevo procurato) e stette tranquillamente nella mia stanza dove si
svolse fra noi una conversazione strana che mi fece molta
impressione.
"Veramente stai molto bene adesso", incominciò "il ballo ti fa
bene. Chi non t'abbia visto da quattro settimane non ti
riconoscerebbe."
"E' vero", confermai "non sono stato così bene da anni. Lo devo a
te, Erminia."
"Non alla tua bella Maria?"
"No, perché anche lei me l'hai regalata tu. E' veramente
meravigliosa."
"E' l'amante che faceva per te, lupo della steppa. Bella, giovane,
di buon umore, molto esperta in amore e non disponibile tutti i
giorni. Se tu non dovessi spartirla con altri, se non venisse da te
sempre a scappa e fuggi, non staresti così bene."
Dovetti ammettere anche questo.
"Sicché adesso hai veramente tutto quanto ti occorre, vero?"
"No, Erminia, non siamo d'accordo. Ho una cosa molto bella e
deliziosa, una grande gioia, un dolce conforto. Sono addirittura
felice..."
"E dunque, che cosa vuoi di più?"
"Voglio di più. Non mi basta essere felice, non vi sono tagliato,
non è la mia vocazione. La mia vocazione è il contrario."
"Vale a dire essere infelice? Ebbene, ne hai avuto abbastanza
quando non potevi ritornare a casa tua per via del rasoio."
"No, Erminia, non è così. Allora, ammetto, ero molto infelice. Ma
era una infelicità stolta, sterile."
"O perché?"
"Perché altrimenti non avrei avuto tanta paura di quella morte che
pur desideravo. L'infelicità che mi occorre, l'infelicità che vorrei
è diversa: è tale da farmi soffrire con avidità e morire con voluttà.
Questa è l'infelicità o la felicità che aspetto."
"Ti capisco. In questo siamo fratelli. Ma che cosa hai da ridire
contro la felicità che hai provato adesso con Maria? Perché non sei
contento?"
"Non dico niente contro questa felicità, anzi la amo e le sono
grato. E' bella come un giorno di sole in un'estate piovosa. Ma sento
che non può durare. Anche questa felicità è sterile. Rende contenti
ma la contentezza non è cibo per me. Assopisce il lupo della steppa e
lo sazia. Ma non è quella felicità per cui metta conto di morire."
"Di morire non si può fare a meno, vero, lupo della steppa?"
"Si capisce. Sono molto contento della mia felicità e posso
sopportarla ancora per qualche tempo. Ma quando questa felicità mi
lascia un momento libero per svegliarmi e aver desideri, tutti i miei
desideri non mirano a conservare questa felicità, bensì a soffrire di
nuovo, seppure in modo più bello e meno misero di prima. Ho una gran
voglia di sofferenze che mi dispongano a morir volentieri."
Erminia mi guardò negli occhi teneramente con quello sguardo scuro
che aveva qualche volta. Occhi magnifici, terribili! Lentamente,
studiando le parole e collocandole in fila, parlò poi a voce così
bassa che dovetti fare uno sforzo per udire:
"Oggi ti dirò una cosa, una cosa che so da tempo, e anche tu la
sai, ma forse non te la sei mai detta. Ti dirò quel che so di me e di
te e della nostra sorte. Tu, Harry, sei stato un artista, un
pensatore, un uomo pieno di gioia e di fede, sempre in traccia delle
cose grandi e eterne, mai contento di quelle piccole e graziose. Ma
quanto più la vita ti ha svegliato e portato verso te stesso, tanto
maggiore si è fatta la tua miseria, tanto più sei affondato nel
dolore, nell'angoscia, nella disperazione, fino al collo, e tutto ciò
che di bello e di sacro avevi conosciuto e amato e venerato un
giorno, tutta la tua antica fede negli uomini e nel nostro alto
destino non ti è servita a nulla, ha perso ogni valore ed è andata in
frantumi. La tua fede non trovò più aria da respirare. E morire di
asfissia è una brutta morte. Dico bene, Harry? E' questa la tua
sorte?"
Io seguitavo ad accennare di sì, di sì.
"Tu avevi in cuore una visione della vita, una fede, un postulato,
eri pronto ad agire, a soffrire, a sacrificarti... e poi ti
accorgesti a poco a poco che il mondo non chiedeva affatto gesta e
sacrifici e cose simili, che la vita non è un poema sublime con
personaggi eroici, bensì una buona stanza borghese dove ci si
accontenta di mangiare e bere, di prendere il caffè e di far la
calza, di giocare a tarocchi e di ascoltare la radio. E chi pretende
quelle altre cose, le cose belle ed eroiche, il rispetto dei grandi
poeti o la venerazione dei santi è uno sciocco, un Don Chisciotte.
Bene: a me è capitato lo stesso, caro amico. Ero una ragazza di belle
doti, destinata a vivere secondo un modello elevato, a pretendere
molto da me e ad adempiere degnamente i miei compiti. Potevo assumere
una parte importante, essere la moglie di un re, l'amante di un
rivoluzionario, la sorella di un genio, la madre di un martire. La
vita invece mi ha concesso soltanto di diventare una cortigiana di
discreto buon gusto... e anche questo non mi è stato facile! Così è
capitata a me. Per un po' rimasi sconsolata e a lungo cercai la colpa
in me stessa. Infine, pensavo, la vita ha pur sempre ragione, e
quando la vita derideva i miei bei sogni, pensavo che i sogni erano
stati sciocchi e avevano torto. Ma era inutile. E siccome avevo gli
occhi acuti e le orecchie buone ed ero anche un po' curiosa, osservai
attentamente la vita, i vicini, i conoscenti, una cinquantina e più
di destini umani, e vidi, Harry, che i miei sogni avevano avuto
ragione, mille volte ragione, come i tuoi. La vita invece, la realtà
aveva torto. Che una donna come me non avesse altra scelta che quella
d'invecchiare poveramente e stupidamente davanti a una macchina per
scrivere, al servizio di uno che faceva quattrini, o di sposare un
tale quattrinaio per amor del suo denaro, o di diventare invece una
specie di sgualdrina, non era certo giusto: tanto poco giusto quanto
che un uomo come te, solitario, pavido e disperato, dovesse ricorrere
al rasoio. Per me la miseria era forse più materiale e morale, per te
piuttosto spirituale... ma la via era la stessa. Credi che non
capisca il tuo timore del foxtrott, la tua antipatia per i bar e le
sale da ballo, la tua opposizione al jazz e a tutta questa roba?
Capisco fin troppo, e così pure il tuo orrore della politica, la tua
tristezza per le ciarle e i maneggi dei partiti senza responsabilità,
della stampa, la tua disperazione per la guerra, quella passata e
quelle che verranno, per il modo che si ha oggi di pensare, di
leggere, di costruire, di far della musica, di organizzare feste, di
diffondere la cultura! Hai ragione tu, lupo della steppa; mille volte
ragione, eppure devi perire. Per questo mondo odierno, semplice,
comodo, di facile contentatura, tu hai troppe pretese, troppa fame,
ed esso ti rigetta perché hai una dimensione in più. Chi vuol vivere
oggi e godere la vita non deve essere come te o come me. Chi pretende
musica invece di miagolio, gioia invece di divertimento, anima invece
di denaro, lavoro invece di attività, passione invece di trastullo,
per lui questo bel mondo non è una patria..."
Abbassò lo sguardo a terra e rimase assorta nei suoi pensieri.
"Erminia" la chiamai teneramente "che buoni occhi hai, sorella mia!
Eppure sei stata tu a insegnarmi il foxtrott, ma che cosa intendi
quando dici che uomini come noi, uomini con una dimensione in più,
non possiamo vivere qui? Da che dipende? E' così soltanto oggi o è
sempre stato così?"
"Non so. A onore del mondo voglio ammettere che solo il nostro
tempo sia così, che sia un morbo, una disgrazia passeggera. I capi
preparano con ardore e con successo la prossima guerra, noialtri
intanto balliamo il foxtrott, guadagniamo denaro e mangiamo
cioccolatini: in un'epoca simile il mondo dev'essere ben meschino.
Speriamo che le altre epoche siano state migliori e altre diventino
migliori in avvenire, più ricche, più larghe, più profonde. Ma a noi
serve poco. E forse è sempre stato così..."
"Sempre come oggi? Sempre un mondo di politicanti, di trafficanti,
di camerieri e uomini di mondo, senza aria per uomini veri?"
"Perché no? Io non lo so. Non lo sa nessuno. E del resto non
importa. Anch'io penso in questo momento al tuo beniamino, del quale
mi hai parlato più volte e mi hai fatto leggere anche le lettere,
penso a Mozart. Come sarà stato allora? Ai suoi tempi chi governava
il mondo? Chi dava il tono e valeva qualcosa, Mozart o gli affaristi?
Mozart o gli uomini dozzinali e superficiali? E poi come è morto,
come fu sepolto? Perciò credo che sia sempre stato così e sarà sempre
così e quella che a scuola chiamano "storia universale" e che si deve
imparare a memoria per la cultura, con tutti quegli eroi, quei geni e
le grandi gesta e i grandi sentimenti... non è che una turlupinatura
inventata dai professori a scopi culturali, affinché i ragazzi nel
periodo obbligatorio abbiano qualche cosa da fare. Sempre è stato
così e così sarà sempre: il tempo e il mondo, il denaro e il potere
apparterranno ai piccoli e ai superficiali, mentre gli altri, i veri
uomini, non avranno niente. Niente all'infuori della morte."
"Proprio nient'altro?"
"Ma sì, l'eternità."
"Vuoi dire il nome, la fama presso i posteri?"
"No, caro lupetto, non la gloria. Che valore può avere? E credi
forse che tutti gli uomini autentici e completi siano diventati
famosi e passati alla posterità?"
"Oh no, certo."
"Dunque non si tratta di gloria. La gloria esiste soltanto per la
cultura, è una faccenda che riguarda i maestri. No, non conta la
gloria: conta invece ciò che io chiamo eternità. I credenti lo
chiamano il regno di Dio. Io penso così: noi uomini, noi che abbiamo
maggiori pretese, che abbiamo le aspirazioni e una dimensione di
troppo non potremmo neanche vivere se, oltre all'aria di questo
mondo, non ci fosse anche un'altra atmosfera respirabile, se oltre al
tempo non esistesse anche l'eternità, il regno dell'autenticità. Di
questo fanno parte la musica di Mozart e i poemi dei tuoi grandi
poeti, e i santi che hanno fatto miracoli, sofferto il martirio e
dato un grande esempio agli uomini. E di questa eternità fa
altrettanto parte l'immagine di ogni vera azione, la forza di ogni
sentimento genuino, anche se nessuno ne sa nulla, se nessuno ne
scrive e ne conserva la notizia ai posteri. Nell'eternità non
esistono posteri, esistono soltanto contemporanei."
"Dici bene" confermai.
"I credenti" continuò pensierosa "furono quelli che meglio se ne
resero conto. Perciò hanno creato i santi e quella che chiamano la
"comunione dei santi". I santi: ecco i veri uomini, i fratelli minori
del Redentore. Verso di loro camminiamo per tutta la vita, con ogni
buona azione, con ogni pensiero coraggioso, con ogni affetto. La
comunione dei santi fu rappresentata in altri tempi dai pittori entro
un cielo dorato, radioso e sereno; non è se non ciò che dianzi ho
chiamato "eternità". E' il regno al di là del tempo e della parvenza.
Quello è il luogo nostro, quella la nostra patria, là tende il nostro
cuore, caro lupo della steppa, e perciò abbiamo il desiderio di
morire. Là troverai il tuo Goethe, il tuo Novalis e Mozart, e io i
miei santi, Cristoforo e Filippo Neri e tutti gli altri. Ci sono
molti santi che furono prima gran peccatori, anche il peccato può
essere una via verso la santità, anche il peccato e il vizio. Ti
verrà da ridere, ma io penso spesso che forse anche nel mio amico
Pablo può celarsi un santo. Pensa, Harry, attraverso quante porcherie
e scempiaggini dobbiamo passare per arrivare a casa! E non abbiamo
nessuno che ci guidi, unica nostra guida è la nostalgia."
Aveva pronunciato queste ultime parole a voce bassissima e ora si
fece silenzio nella stanza; il sole stava per tramontare e faceva
brillare le impressioni dorate sul dorso dei miei libri. Presi fra le
mani la testa di Erminia, la baciai sulla fronte e premetti la
guancia contro la sua, fraternamente, e così restammo alcuni istanti.
Avrei voluto rimanere così e non uscire. Ma per quella notte,
l'ultima prima del grande ballo, avevo un appuntamento con Maria.
Recandomi da lei non pensavo però affatto a Maria, ma soltanto alle
parole di Erminia. Quelli non erano forse pensieri suoi, ma miei, ed
ella, chiaroveggente com'era, li aveva decifrati e respirati e me li
ridava in forma nuova e viva. In quei momenti le ero particolarmente
grato di aver formulato il pensiero dell'eternità. Ne avevo bisogno,
senza di esso non potevo vivere, non potevo morire. L'amica, la mia
maestra di danze, mi aveva dunque ridato l'al di là, il mondo sacro e
senza tempo; il mondo del valore perpetuo, della divina sostanza. Non
potei fare a meno di ripensare al Goethe del mio sogno, alla visione
del vecchio sapiente che aveva riso in modo così sovrumano,
colpendomi con la sua immortale ironia. Ora soltanto comprendevo il
riso di Goethe, il riso degl'immortali. Era senza oggetto, quel riso,
era tutto luce, tutto luminosità, era quel che rimane quando un uomo
vero è passato attraverso le pene, i vizi, gli errori, le passioni e
i malintesi degli uomini ed è salito all'eterno nello spazio
universale, e l'eternità non è altro che riscatto dal tempo, in certo
qual modo il ritorno all'innocenza, la ritrasformazione nello spazio.
Cercai Maria nel luogo dove cenavamo di solito, ma non era ancora
giunta. Stetti dunque ad aspettarla davanti alla tavola
apparecchiata, nel silenzioso alberghetto della periferia, agitando
ancora nella mente la nostra conversazione. Tutti i pensieri che
erano affiorati tra Erminia e me mi apparivano ora così familiari,
così noti, così attinti alla mia più intima mitologia! Gl'immortali
che vivono nello spazio senza tempo, lontani, diventati immagini,
rivestiti dell'eternità cristallina come di un etere, e la fresca
radiosa serenità di quel mondo ultraterreno... come mai tutto ciò mi
era familiare? Riflettei ed ecco venirmi in mente brani delle
"Cassazioni" di Mozart, del "Clavicembalo ben temperato" di Bach e in
tutta quella musica la fresca luminosità stellare, la chiarità
eterea. Ecco dunque, quella musica era come un tempo congelatosi in
spazio e sopra di essa si librava all'infinito una serietà sovrumana,
una perpetua risata divina. Oh come vi s'intonava bene il vecchio
Goethe del mio sogno! E a un tratto udii intorno a me quel riso
imperscrutabile, udii ridere gl'immortali. Ammaliato stetti ad
ascoltare, affascinato estrassi dal taschino una matita, cercai un
pezzo di carta, trovai davanti a me la lista dei vini, la voltai e
scrissi sul rovescio alcuni versi che mi ritrovai in tasca il giorno
dopo. Eccoli:
Gli immortali
Continuamente a noi l'ansia vitaledalle terrene valli sale e
sale,ansia selvaggia, ebbrezza in mille voci,fumo sanguigno di
banchetti atroci,spasmodici piaceri senza fine,mani usuraie,
supplici, assassine;l'umano sciame, in cupidigia e noia,un lezzo
afoso e fracido vaporae, spirando il suo ardore e la sua foia,se
stesso inghiotte e rece e ridivora,e cova guerre ed arti, e
d'illusioniadorna il lupanare tutto brace,e gozzoviglia e fornica
voracenel vivido piacer dei baracconi,mondo infantil che per ognun
dall'ondasorge ed ognun nel fango risprofonda.Ma noi per contro
c'incontrammo al gelodell'etere dagli astri folgorato;non i giorni,
non l'ore ci fan velo:siam uomo? donna? vecchio o neonato?Le vostre
angosce, le ansie ed i peccati,dell'assassin le sensuali ebbrezzenoi
contempliamo dalle nostre altezzecome i soli rotanti e
illimitati.Muti approviamo il fremer della vita,muti assistendo delle
stelle al giuocobeviamo l'aura fredda ed infinitae siamo affini del
celeste fuoco.
Poi venne Maria e dopo la cena tranquilla mi ritirai con lei nella
nostra cameretta. Quella sera fu più bella, più calda e intima che
mai e mi fece assaporare tenerezze e giuochi che mi parvero il
massimo della dedizione.
"Maria", dissi "oggi sei prodiga come una dea. Non voler ucciderci
entrambi, perché domani c'è il ballo mascherato. Chi sarà domani il
tuo cavaliere? Temo, fiorellino mio, che sia un principe azzurro e ti
porti via senza che io possa più ritrovarti. Oggi mi ami quasi come
fanno i buoni amanti al commiato, per l'ultima volta."
Ella appoggiò le labbra alla mia orecchia e bisbigliò: "Taci,
Harry! Ogni volta può essere l'ultima. Se Erminia ti prende, da me
non ritorni più. E può darsi che ti prenda domani".
Non ho mai provato così intensamente come in quella notte prima del
ballo la sensazione caratteristica di quel tempo, il duplice stato
d'animo stranamente dolce e amaro. Era felicità quella che sentivo,
felicità la bellezza e la dedizione di Maria e quel godere,
palpeggiare, respirare cento sottili e soavi sensualità che avevo
conosciuto soltanto così tardi invecchiando, il diguazzare in un mare
ondeggiante di godimento. Eppure quello era soltanto il guscio:
dentro tutto era significativo, teso, fatale e mentre mi occupavo
teneramente di quelle dolci commoventi inezie amorose, mentre nuotavo
in apparenza nella più perfetta beatitudine, sentivo nel cuore che il
destino mi spingeva avanti a precipizio scalpitando come un cavallo
imbizzarrito verso l'abisso, verso la caduta, con ansia e nostalgia,
con grande desiderio di morte. Come poco prima mi ero difeso
timidamente dalla piacevole leggerezza dell'amore soltanto sensuale,
come mi ero intimorito davanti alla bellezza di Maria ridente e
pronta a donarsi, così provavo ora il timore della morte... ma era un
timore già consapevole di diventar presto dono e redenzione.
Mentre in silenzio eravamo sprofondati nei fervidi giuochi del
nostro amore e ci appartenevamo più strettamente che mai, la mia
anima prendeva commiato da Maria, commiato da tutto ciò che era stata
per me. Dovevo a lei se avevo imparato ad affidarmi, ancora una volta
prima della fine, al giuoco infantile della superficie, a cercare le
gioie più fuggevoli, a essere fanciullo e animale nell'innocenza del
sesso: situazione che nella vita precedente avevo conosciuto soltanto
come rara eccezione, poiché la vita dei sensi e del sesso aveva
sempre avuto per me un sapore amaro di colpa, il sapore sospetto del
frutto proibito dal quale l'uomo intellettuale deve guardarsi. Ora
Erminia e Maria mi avevano mostrato quel giardino nella sua innocenza
e vi ero stato ospite riconoscente: ma presto era tempo di
proseguire, si stava troppo bene e troppo al caldo in quel giardino.
La mia sorte era di aspirare al coronamento della vita, di espiare la
colpa infinita del vivere. La vita facile, l'amore facile, la morte
facile... non erano cose per me.
Da allusioni delle ragazze indovinai che per l'indomani, per il
ballo e dopo il ballo, erano progettati godimenti e gozzoviglie
particolari. Forse erano la fine, forse era giusto il presentimento
di Maria e ora eravamo insieme per l'ultima volta. Doveva
incominciare l'indomani la nuova marcia del mio destino? Ardevo dal
desiderio, soffocavo dall'ansietà e mi aggrappavo selvaggiamente a
Maria correndo ancora una volta avido e ardente per tutti i sentieri
e i cespugli del suo giardino, mordendo ancora una volta il dolce
frutto dell'albero paradisiaco.
Il sonno perduto in quella notte lo riguadagnai il giorno seguente.
Al mattino andai a fare il bagno, ritornai a casa stanchissimo,
oscurai la camera, spogliandomi trovai la poesia in tasca, me la
dimenticai di nuovo, mi coricai subito, dimenticai Maria, Erminia, il
ballo in maschera e dormii tutta la giornata. La sera, quando mi
alzai, soltanto mentre mi radevo mi sovvenne che tra un'ora
incominciava il ballo e dovevo ancora tirar fuori la camicia adatta
al frac. Di buon umore mi preparai e uscii prima di tutto per andar a
mangiare.
Era il primo ballo mascherato al quale dovevo partecipare. In altri
tempi avevo bensì assistito più volte a feste simili, mi erano parse
belle, ma non avevo ballato, ero stato soltanto spettatore; l'allegro
entusiasmo con cui ne avevo sentito parlare da altri mi era sempre
parso comico. E ora il ballo era anche per me un avvenimento che
aspettavo con gioia ma non senza qualche apprensione. Poiché non
dovevo far da cavaliere a nessuna dama, decisi di andarci tardi:
anche Erminia me l'aveva consigliato.
All'"Elmo d'acciaio", il rifugio d'una volta, dove i mariti delusi
passavano la sera centellinando il vino e fingendosi scapoli, c'ero
andato di rado negli ultimi tempi: non rispondeva più al nuovo stile
della mia vita. Ma ora mi sentii trascinato là quasi
involontariamente e, in quell'umore tra lieto e angoscioso che mi
dominava, tutte le tappe memorande della mia vita assunsero ancora
una volta lo splendore bello e doloroso delle cose passate: così
anche la piccola osteria fumosa che avevo frequentato assiduamente
fino a poco prima, dove il narcotico primitivo di una bottiglia di
vino paesano era bastato per conciliarmi una notte nel mio letto
solitario, per farmi sopportare un altro giorno della mia vita. Ma
nel frattempo avevo assaggiato altri rimedi, stimoli più forti, avevo
sorbito veleni più dolci. Sorridendo entrai nella vecchia baracca
accolto dal saluto della padrona e dai cenni silenziosi dei
frequentatori assidui. Mi fu consigliato e portato un galletto
arrosto, il vino paesano scorse limpido nel bicchiere di vetraccio, e
i tavolini di legno pulito, il vecchio rivestimento giallo delle
pareti mi guardarono amichevolmente. E mentre mangiavo e bevevo, il
senso di sfioritura e di commiato andò intensificandosi: senso dolce
e doloroso dell'intimo collegamento con tutti i luoghi e le cose
della mia vita precedente, non mai rotto del tutto, ma ora maturo e
pronto per la rottura. L'uomo "moderno" lo chiama sentimentalismo:
egli non ama più le cose, nemmeno la più sacra, l'automobile, che
spera di cambiare prestissimo con un modello migliore. Quest'uomo
moderno è risoluto, capace, sano, freddo, un tipo eccellente che darà
ottima prova nella prossima guerra. Io invece non ci tenevo e
navigavo verso la morte, pronto a morire. Non che avessi da ridire
contro i sentimentalismi, ero lieto e riconoscente di sentire nel
cuore arso qualche cosa come un sentimento. E così mi abbandonai alle
memorie della vecchia osteria, al mio vecchio affetto per quelle
antiche scranne massicce, mi abbandonai all'odore di fumo e di vino,
a quella patina di consuetudine, di calore, d'intimità che era stesa
su tutte le cose. E' bello prendere commiato, infonde dolcezza.
Volevo bene a quel sedile duro, al bicchiere ordinario, alla
freschezza saporosa del vino, alla familiarità di tutto l'ambiente,
alle facce dei bevitori trasognati, i poveri delusi dei quali ero
stato fratello per tanto tempo. Erano sentimentalismi borghesi, i
miei, lievemente drogati di un sentore di romanticismo da locanda
antica che avevo provato da ragazzo quando l'osteria, il vino e il
sigaro erano per me ancora cose proibite e seducenti. Ma il lupo
della steppa non si alzò per digrignare i denti e dilaniare la mia
sentimentalità. Mangiavo tranquillamente ai bagliori del passato, al
debole raggio d'un astro tramontato in quel frattempo.
In quella entrò un venditore ambulante di castagne arrosto e ne
comperai una manciata. Venne una vecchia fioraia e comperai un paio
di garofani che donai alla padrona. Solo al momento di pagare, mentre
cercavo invano la solita tasca, mi accorsi che avevo indossato il
frac. Il ballo in maschera! Erminia!
Ma era ancora presto e non avevo voglia di andar subito al ballo.
Sentivo, come mi era sempre capitato a quei divertimenti, varie
resistenze interiori e ostacoli, la ripugnanza di entrare in grandi
ambienti affollati e rumorosi, una timidezza da scolaretto di fronte
a quell'atmosfera insolita, a quel mondo di vitaioli e di ballerini.
Bighellonando passai davanti a un cinema, vidi brillare fasci di
luce ed enormi insegne luminose, andai avanti di qualche passo, poi
ritornai ed entrai. Lì potevo starmene tranquillamente al buio fin
verso le undici. Guidato dall'inserviente con la lanterna cieca
entrai nella sala buia incespicando nelle portiere, trovai un posto e
mi vidi trasportato nell'Antico Testamento. Era uno di quei film che
si dicono allestiti non per guadagno ma per scopi nobili e santi, con
grandi spese e con molta raffinatezza, film ai quali i maestri di
religione portano nel pomeriggio persino gli scolari. Si
rappresentava la storia di Mosè e degli Israeliti in Egitto con un
immenso impiego di uomini, cavalli, cammelli, palazzi, con grande
splendore di Faraoni e miserie di giudei sulle sabbie ardenti del
deserto. Vidi Mosè acconciato sul modello di Walt Whitman, un
magnifico Mosè da teatro con tanto di bastone e di passi focosi da
Wotan attraverso il deserto, alla testa degli ebrei. Lo vidi pregare
in riva al Mar Rosso, vidi fendersi il mare e lasciare un passaggio,
una trincea fra montagne d'acqua (come i cinematografai l'avessero
fatto, di questo potevano discutere a lungo i ragazzi portati dal
catechista a veder il film), vidi il profeta e il popolo passare con
timore, vidi comparire dietro a loro i carri armati del Faraone, vidi
gli Egizi rimaner perplessi sulla riva del mare e poi avventurarsi
coraggiosamente, e le montagne d'acqua chiudersi sul Faraone
magnifico dalla corazza d'oro e su tutti i suoi carri e gli uomini,
non senza che mi venisse in mente uno stupendo duetto di Händel per
due bassi dove quell'avvenimento è cantato in modo stupendo. Vidi poi
Mosè salire sul monte Sinai, eroe accigliato in un tetro paesaggio di
rocce selvagge, e Geova comunicargli i dieci Comandamenti tra
raffiche di bufera e segnali luminosi, mentre il suo popolo indegno
inalzava ai piedi della montagna il vitello d'oro e si abbandonava a
divertimenti piuttosto agitati. Mi pareva incredibile di esser lì a
vedere tutte queste cose, di veder rappresentare le storie sacre con
gli eroi e i miracoli che nella nostra infanzia avevano suscitato il
primo barlume d'un mondo ultraterreno, davanti a un pubblico
riconoscente che aveva pagato il biglietto e sgranocchiava in
silenzio i panini imbottiti, una bella visione parziale dell'immensa
asta e liquidazione culturale del nostro tempo. Santo cielo, per
evitare questa porcheria era meglio che allora, oltre agli Egizi,
fossero sommersi anche gli ebrei e tutti gli altri, che fossero morti
di morte violenta e onesta anziché di questa orribile morte
apparente, di questa morte così così della quale dobbiamo morire
oggi. Ma via!
Le mie inibizioni interiori, il mio inconfessato orrore del ballo
in maschera non erano diminuiti in seguito alle commozioni del
cinema, ma cresciuti invece in modo preoccupante sicché, ripensando
ad Erminia, dovetti darmi uno scrollone per decidermi ad andare nelle
Sale Globus. Era già tardi e il ballo durava da parecchio. Timido e
imbarazzato mi trovai, prima ancora di aver deposto il pastrano, in
un groviglio di maschere che mi urtavano con confidenza, mi vidi
invitato da molte ragazze a prendere lo champagne mentre i pagliacci
mi battevano sulla spalla e mi davano del tu. Rifiutai tutto, mi
insinuai faticosamente fin verso la guardaroba e quando ebbi il mio
numero lo infilai con cura nel taschino pensando che ne avrei fatto
uso forse molto presto, stufo di quella confusione.
La festa tumultuava in tutti i locali del grande edificio, in tutte
le sale si ballava, anche nel sotterraneo, tutti i corridoi e le
scale erano invasi da una marea di maschere, di danze, di musiche, di
risate e di gente in moto. Depresso attraversai la folla
dall'orchestrina dei negri alla banda dei contadini, dal grande
salone sfolgorante ai corridoi, alle scale, ai bar, alle stanze della
mescita di vino spumante. Le pareti erano per lo più coperte di
pitture allegre e incomposte degli artisti più giovani. C'erano
tutti, artisti, giornalisti, scienziati, uomini d'affari e tutta la
parte mondana della città. In una delle orchestrine c'era mister
Pablo il quale soffiava con entusiasmo nello strumento curvo; quando
mi vide mi cantò a gran voce il suo saluto. Spinto dalla folla mi
trovavo ora in una sala ora in un'altra, su per le scale, giù per le
scale; un corridoio nel sotterraneo era stato addobbato a inferno e
una orchestra di diavoli vi stamburava pazzamente. Incominciai a
cercare Erminia e Maria, feci più volte il tentativo di penetrare
nella sala principale, ma mi smarrivo o avevo contro di me la marea
della folla. A mezzanotte non avevo ancora trovato nessuno; benché
non avessi ancora ballato, ero già accaldato e la testa mi girava
sicché mi buttai sulla prima sedia che trovai fra gente estranea e
ordinai un po' di vino, convinto che feste così rumorose non erano
adatte per un uomo della mia età. Vuotai rassegnato il mio bicchiere
di vino, ammirai le braccia nude e la schiena delle donne, mi vidi
passar davanti gruppi di maschere grottesche, mi lasciai pizzicare e
mandai via con un gesto quel paio di ragazze che volevano sedermisi
sulle ginocchia o ballare con me. "Vecchio borbottone" fece una di
loro, e aveva ragione. Pensai di bere ancora per trovare coraggio e
buon umore, ma neanche il vino mi piaceva e ne mandai giù appena un
secondo bicchiere. Piano piano sentivo che il lupo della steppa era
dietro a me e mostrava la lingua. Ero capitato lì a sproposito; non
era luogo per me. Avevo le migliori intenzioni ma non riuscivo a
essere allegro, e tutta quella gioia spumeggiante, quelle risa e
quelle follie mi parevano insulse e fittizie.
Così fu che al tocco mi avviai deluso e seccato alla guardaroba per
ritirare il pastrano e andarmene. Era una sconfitta, una ricaduta nel
lupo, ed Erminia me l'avrebbe difficilmente perdonata. Ma non potevo
fare diversamente. Fendendo con fatica la folla per raggiungere la
guardaroba avevo guardato ancora intorno per scoprire le amiche.
Invano. Eccomi dunque allo sportello dove il guardarobiere gentile
tendeva già la mano per ritirare il mio numero allorché infilai le
dita nel taschino del panciotto: il gettone non c'era più! Corpo del
diavolo, ci mancava anche questa! Più volte durante quel mio triste
girovagare per le sale e quando mi ero fermato a bere il vino
insipido avevo messo la mano in tasca lottando col desiderio di andar
via e avevo sempre sentito al suo posto il gettone rotondo e piatto.
E ora non c'era più. Tutto congiurava contro di me.
"Hai perduto il numero?" mi domandò un diavolino rosso e giallo con
voce stridula. "Tieni, camerata, prendi il mio" e me lo porse. Mentre
lo prendevo macchinalmente e lo rigiravo fra le dita, il diavolino
agile e svelto scomparve.
Ma sollevando il piccolo disco di cartone per leggervi il numero
vidi che non c'era alcun numero bensì alcune parole in scrittura
molto minuta. Pregai il guardarobiere di aspettare e mi accostai alla
prossima lampada per leggere. Vi era scarabocchiato a lettere
ubriache e di difficile lettura:
Questa notte
dalle quattro in poi
teatro magico
"soltanto per pazzi".
Prezzo d'ingresso: il cervello.
Non per tutti.
Erminia è nell'inferno.
Come la marionetta, i cui fili erano sfuggiti per un attimo al
burattinaio, rivive dopo una morte breve e rigida e riprende ad agire
nella commedia e a danzare, così io trascinato da quel filo magico mi
buttai nella calca con nuovo zelo e con slancio elastico, mentre un
momento prima ne ero fuggito stanco, vecchio e svogliato. Nessun
peccatore ha mai avuto tanta fretta di arrivare nell'inferno. Un
momento prima le scarpe di vernice mi avevano fatto male, l'aria
grassa e profumata mi aveva disgustato, il caldo mi aveva
infiacchito: adesso invece attraversavo le sale con passo elastico al
ritmo dell'onestep verso l'inferno, sentivo l'aria piena di
attrattive, mi facevo cullare dal caldo della musica rombante, dal
turbine dei colori, dal profumo delle spalle femminili, dall'ebbrezza
della folla, dalle risate, dal ritmo del canto, dal luccicore di
tutti quegli occhi ardenti. Una ballerina spagnola mi strinse fra le
braccia: "Vieni a ballare con me!".
"Non posso" dissi "devo andare all'inferno. Ma accetto volentieri
un bacio." Le labbra rosse sotto la maschera mi vennero incontro e
soltanto al bacio riconobbi Maria. La strinsi forte mentre le sue
labbra carnose fiorivano come una rosa matura d'estate. E già
ballavamo, le labbra sulle labbra, e passavamo davanti a Pablo che
soffiava innamorato nel suo strumento teneramente gnaulante, e ci
lanciava raggiante e mezzo assente le sue occhiate di bell'animale.
Ma avevamo fatto appena venti passi quando la musica cessò e io
lasciai Maria con molto dispiacere.
"Avrei ballato volentieri con te ancora una volta", le dissi
inebriato dal suo tepore "facciamo ancora due passi, Maria, sono
innamorato del tuo braccio, lasciamelo ancora un istante! Però, vedi,
Erminia mi ha chiamato. E' nell'inferno."
"Me l'aspettavo. Addio Harry, continuerò a volerti bene..." Così
prese commiato. Commiato era, autunno, destino, quello che la rosa
estiva così piena e matura mi aveva fatto sentire nel suo profumo.
Corsi via attraverso i lunghi corridoi pieni di gente, giù per le
scale verso l'inferno. Alle pareti nere come la pece ardevano alcune
lampade violente mentre l'orchestrina di diavoli suonava con furore.
Su un alto sgabello del bar era seduto un bel giovane senza maschera,
in frac, che mi squadrò un istante con un'occhiata ironica. Il
vortice della danza mi aveva spinto contro la parete: in quel breve
spazio danzavano una ventina di coppie. Avidamente e con ansia
osservai tutte le donne, la maggior parte in maschera; alcune mi
sorrisero, ma Erminia non c'era. Il bel giovane mi guardava intanto
dall'alto sgabello con aria beffarda. "Nell'intervallo", pensavo,
"verrà da me e mi chiamerà per nome." Il ballo terminò, ma nessuno mi
si avvicinò.
Passai nel bar che era incastrato in un angolo della saletta bassa.
Mi misi accanto a quel giovane e ordinai un whisky. Mentre bevevo
osservai il profilo del giovane che mi parve noto e delizioso come
una visione di tempi molto lontani attraverso il velo di polvere del
passato. E un baleno mi attraversò la mente: era Ermanno, il mio
amico di infanzia.
"Ermanno!" esclamai timidamente.
Egli sorrise: "Harry? Mi hai trovata?".
Era Erminia con qualche ritocco alla pettinatura, solo leggermente
truccata, e il suo viso intelligente, pallido e nobile mi guardava di
sopra al colletto alla moda; stranamente piccole, le sue mani
sbucavano dalle maniche larghe del frac e dai polsini bianchi,
stranamente graziosi in calzine di seta bianco-nera i piedini
uscivano dai lunghi calzoni neri.
"Erminia, è codesto il costume col quale vuoi farmi innamorare?"
"Già. Finora ho fatto innamorare soltanto alcune donne. Adesso però
tocca a te. Incominciamo intanto con un bicchiere di sciampagna."
Accoccolati sugli alti sgabelli del bar prendemmo lo spumante
mentre si continuava a ballare e l'orchestra d'archi diventava sempre
più focosa. E senza che Erminia facesse molta fatica ne fui
innamorato prestissimo. Poiché era vestita da uomo, non potevo
ballare con lei, non potevo permettermi alcuna tenerezza, alcun
assalto e, mentre sotto quella maschera divina sembrava lontana e
neutra, mi circondava di sguardi, parole e gesti con tutto il fascino
della sua femminilità. Senza averla toccata soggiacevo al suo fascino
che, contenuto nella parte che recitava, era ermafrodito. Con me
infatti discorreva di Ermanno e dell'infanzia, mia e sua, degli anni
precedenti la pubertà, nei quali la giovanile facoltà d'amare
abbraccia non solo i due sessi ma ogni cosa sensibile e spirituale e
conferisce a tutto l'attrattiva amorosa e la fantastica facoltà di
metamorfosi che ritorna più tardi soltanto per gli eletti e i poeti.
Lei faceva perfettamente la parte del giovanotto, fumava sigarette e
chiacchierava con leggerezza spiritosa spesso un po' beffarda, ma
tutto l'essere suo era permeato di eros, tutto si trasformava in una
soave seduzione dei sensi.
Avevo creduto di conoscere intimamente Erminia e invece mi si
rivelava appieno soltanto in quella notte. Stringeva la rete intorno
a me insensibilmente e mi faceva bere il dolce veleno come in un
giuoco di sirene.
Si chiacchierava e si beveva. Passeggiavamo per le sale come
esploratori in cerca di avventure, seguivamo le coppie spiando il
loro giuoco d'amore. Ella m'indicava qualche donna e m'incoraggiava a
ballare con lei e mi dava consigli sul modo di sedurre questa o
quella. Facevamo i rivali, seguivamo per un po' la stessa donna,
ballavamo con lei a vicenda, cercavamo entrambi di conquistarla.
Eppure era soltanto una mascherata, una celia fra noi due che ci
legava più stretti e c'infiammava a vicenda. Era una fiaba, un mondo
con una dimensione in più, con un significato più profondo, era un
giuoco, un simbolo. Vedemmo una giovane bellissima che pareva un po'
sofferente e insoddisfatta; Ermanno ballò con lei, la fece fiorire,
scomparve con lei in un salottino e mi raccontò poi di averla
conquistata non da uomo ma da donna, col fascino di Lesbo. Per me
invece quel palazzo rombante pieno di sale fervide di balli, quel
popolo di maschere inebriato diventò un folle paradiso di sogni, un
fiore dopo l'altro mi attirava col suo profumo, un frutto dopo
l'altro stringevo fra le dita esploranti, serpenti mi guardavano con
lusinghe dalle ombre verdi, fiori di loto balenavano sopra nere
paludi, uccelli fatati chiamavano tra i rami e ogni cosa mi portava
verso una meta agognata, ogni cosa mi spingeva con nostalgia verso
quell'unica donna. A un certo punto ballai con una fanciulla
sconosciuta, ardente e bramosa, la quale mi trascinò nel turbine
dell'ebbrezza e, mentre ci libravamo nell'irrealtà, mi disse con una
risata improvvisa: "Non ti si riconosce più. Prima eri così stupido e
insulso". E riconobbi quella che un paio d'ore prima mi aveva dato
del "vecchio borbottone". Ora credeva di possedermi ma al prossimo
giro ardevo già per un'altra. Ballai continuamente per due ore o più,
tutti i balli, anche quelli che non avevo mai imparato. E di continuo
mi vedevo apparire Ermanno, il giovane sorridente, che mi faceva un
cenno e scompariva nella calca.
Un fatto che mi è rimasto ignoto per cinquanta anni, quantunque
ogni ragazzina e ogni studente lo conosca, mi fu concesso in quella
notte di danze: l'esperienza della festa, l'ebbrezza della comunione
festosa; il segreto dell'immersione della persona nella folla,
dell'unione mistica nella gioia. Spesso ne avevo sentito parlare, lo
sapevano anche le domestiche, e spesso avevo visto brillare gli occhi
a chi ne parlava e avevo sorriso con un'aria tra la superbia e
l'invidia. Avevo visto mille volte nella vita quella luce negli occhi
ebbri della persona estatica, di colui che è liberato della propria
persona, avevo visto il sorriso e la follia trasognata di chi si
perde nell'ebbrezza altrui, l'avevo notato in mille esempi nobili e
volgari, nelle reclute e nei marinai ubriachi e nei grandi artisti,
per esempio nell'entusiasmo di rappresentazioni festose, e non meno
in giovani soldati che andavano alla guerra, e anche recentemente
avevo ammirato, amato, ironizzato e invidiato quella luce e quel
sorriso estatico nel mio amico Pablo quando nel turbine della musica
si chinava beato sul saxofono o guardava estasiato il direttore
dell'orchestra, il suonatore di tamburo o di banjo. Un sorriso così,
una luce così infantile, avevo pensato talvolta, doveva essere
possibile soltanto a uomini giovanissimi o a quei popoli che non si
permettono una notevole individuazione e differenziazione dei singoli
cittadini. Ora però, in quella notte felice, io stesso, Harry, il
lupo della steppa, raggiavo di quel sorriso, io stesso ero immerso in
quella felicità profonda, puerile e favolosa, io stesso respiravo
quel dolce sogno di ebbrezza dalla folla, dalla musica, dal ritmo,
dal vino e dal piacere del sesso, quel sogno che avevo sentito
elogiare tante volte da uno studente qualunque atteggiandomi a uomo
superiore e beffardo, io non ero più io, la mia personalità era
disciolta in quell'aria di festa come il sale nell'acqua. Danzavo con
questa e con quella, ma non stringevo fra le braccia soltanto lei,
non sfioravo soltanto i capelli di lei, non respiravo soltanto il
profumo di lei, ma di tutte, di tutte le altre donne presenti con me
nella stessa sala, lanciate nella stessa danza, avvolte nella stessa
musica, e mentre i loro visi radiosi mi passavano accanto come grandi
fiori fantastici, tutte erano mie e io ero loro, tutti eravamo
partecipi di tutti. E vi erano compresi anche gli uomini, io ero
anche in loro ed essi non mi erano estranei, il mio sorriso era il
loro, il loro invito era il mio.
Un nuovo ballo, un foxtrott stava conquistando il mondo in
quell'inverno: si chiamava Yearning. Questo Yearning era suonato
continuamente e continuamente fatto ripetere, tutti ne eravamo
imbevuti e inebriati, tutti ne ripetevamo la melodia. Io ballavo
senza interruzione con qualunque donna mi capitasse a tiro, con
ragazzine giovani, con donne floride, con donne mature nell'estate
della vita, con altre malinconicamente sfiorenti, entusiasta di
tutte, sorridente e felice. Quando Pablo mi vide così raggiante,
mentre mi aveva sempre considerato un povero diavolo da compiangere,
i suoi occhi mi mandarono lampi di beatitudine e alzatosi in piedi
con entusiasmo fece squillare lo strumento con forza, salì in piedi
sulla sedia e soffiando a gran forza incominciò a dondolarsi al ritmo
dell'Yearning e tanto io quanto la mia ballerina gli buttavamo baci e
cantavamo ad alta voce. "Succeda quel che vuole", dicevo tra me,
"almeno una volta voglio essere stato felice, sciolto da ogni legame,
fanciullo, fratello di Pablo."
Avevo perduto il senso del tempo e non saprei dire quanto durò
quella felicità, se ore o momenti. E non mi accorsi che la festa più
diventava impetuosa, più si restringeva in breve spazio. Molti erano
già usciti, i corridoi erano diventati silenziosi, molti lumi erano
già spenti, le scale erano deserte e nelle sale superiori le
orchestrine erano ammutolite l'una dopo l'altra; solo nella sala
principale e nell'interno vi era ancora tumulto e ardore sempre più
vivo. Poiché non potevo danzare con Erminia travestita da giovanotto,
ci eravamo incontrati e salutati solo di sfuggita negli intervalli
fra un ballo e l'altro e infine l'avevo perduta di vista del tutto,
non solo con gli occhi ma persino col pensiero. Pensieri non ne avevo
più. Libero e sciolto mi lasciavo trasportare dalle onde della danza,
dai profumi, dai suoni, dai sospiri, salutato da occhi estranei,
eccitato e circondato da visi sconosciuti e labbra e guance e braccia
e seni e ginocchia, sballottato ritmicamente dalla musica come da una
mareggiata.
A un tratto, come risvegliandomi per un istante, vidi tra gli
ultimi ospiti rimasti in una delle sale piccole, l'ultima in cui si
suonasse ancora... vidi improvvisamente una pierrette nera dal viso
bianco, una bella ragazza fresca, l'unica che avesse il volto coperto
dalla maschera, una figura deliziosa che non avevo ancora visto
quella notte. Mentre in tutti gli altri si vedeva che era tardi
perché avevano la faccia accaldata, i costumi sciupati, i colletti e
le gorgiere appassite, la nera pierrette era fresca e nuova con quel
suo viso bianco sotto la maschera, il costume senza una piega, la
gorgiera intatta, i polsini di pizzo stirati e la pettinatura
irreprensibile. Mi sentii trascinato verso di lei, la presi alla vita
e la portai nella danza; la gorgiera profumata mi solleticava il
mento, i capelli mi sfioravano la guancia, il suo corpo giovane e
sodo rispondeva più intimamente che qualunque altra ballerina di
quella notte ai miei movimenti o li scansava e invitava ad un giuoco
di contatti sempre nuovi. A un tratto mentre mi chinavo danzando,
cercando le sue labbra con le mie, quelle labbra mi mostrarono un
sorriso ben noto, e riconobbi il mento forte, le spalle, i gomiti, le
mani: era Erminia, non più Ermanno, travestita, fresca, leggermente
profumata e incipriata. Le nostre labbra si unirono con ardore e per
un istante tutto il suo corpo fin giù alle ginocchia aderì al mio con
desiderio e abbandono, ma poi ella staccò le labbra e danzò quasi
fuggendo. Quando la musica cessò rimanemmo abbracciati, mentre le
coppie infiammate intorno a noi si misero a batter le mani, a pestare
i piedi, a gridare e a spronare l'orchestra sfinita perché ripetesse
il Yearning. E tutti sentimmo improvvisamente il mattino, vedemmo la
luce scialba che traspariva dalle tende, notammo che il piacere stava
per terminare e in previsione della stanchezza ci buttammo ciechi e
disperati ancora una volta nella danza, nella musica, nella marea di
luce, sollevati dal ritmo, stretti coppia contro coppia, immersi
nella beatitudine ondeggiante. Durante quella danza Erminia lasciò
andare la superiorità, l'ironia, la freddezza: sapeva che non aveva
più nulla da fare per suscitare il mio amore. Ormai ero suo. E si
abbandonava nella danza, nello sguardo, nel bacio e nel sorriso.
Tutte le donne di quella notte di febbre, tutte quelle con le quali
avevo ballato, quelle che avevo cercato di conquistare e avevano
infiammato me, alle quali mi ero avvinghiato con desiderio, quelle
che avevo seguito con gli sguardi nostalgici, si erano fuse insieme e
avevano formato la sola che sbocciava fra le mie braccia.
La danza nuziale durò a lungo. La musica rimase spossata due volte,
tre volte, i suonatori lasciarono cadere gli strumenti, il pianista
si alzò in piedi, il primo violino scosse il capo rifiutando, ma ogni
volta le implorazioni degli ultimi ballerini fecero divampare ancora
la fiamma e quelli suonarono ancora, più rapidamente, più
selvaggiamente. Poi (eravamo ancora abbracciati e ansimanti per
l'ultima danza) il coperchio del pianoforte si chiuse con uno
schianto, le braccia ci caddero inerti come quelle dei suonatori, il
flautista infilò lo strumento nell'astuccio, le porte si aprirono,
l'aria fredda irruppe, i servitori comparvero con i soprabiti e il
cameriere del bar spense la luce. Tutti si squagliarono come
fantasmi, i ballerini che fino a un momento prima erano tutti fuoco
si infilarono i cappotti rabbrividendo e alzarono il bavero. Erminia
era pallida ma sorridente. Alzò lentamente le braccia e si ravviò i
capelli mentre l'ascella brillava alla luce e una striscia d'ombra
sottile e infinitamente tenera correva di lì fino al seno velato, e
quella riga d'ombra sospesa mi parve comprendesse, come un sorriso,
tutte le attrattive e le possibilità delle sue belle membra.
Rimanemmo a guardarci, ultimi nella sala, ultimi nel palazzo. Da
non so dove arrivò il rumore di una porta sbattuta, di un bicchiere
infranto, di una risata che si perdette nel rumore cattivo e
frettoloso delle automobili avviate. Da qualche parte, forse
dall'alto, a una distanza indefinibile udii squillare una risata, una
risata molto limpida e gaia eppur paurosa e fredda, come una risata
di cristallo e di ghiaccio, radiosa ma inesorabilmente gelata. Eppure
quella strana risata non mi era ignota; ma non riuscivo a capire di
chi fosse.
Noi due stavamo ancora a guardarci. Per un istante rinvenni e
ragionai, mi sentii alle spalle un'enorme stanchezza che mi
aggrediva, sentii l'abito disgustosamente impregnato di sudore, mi
vidi le mani arrossate con le vene sporgenti sbucare dai polsini
sudati e schiacciati. Ma l'impressione passò via, subito spenta da
un'occhiata di Erminia. A quell'occhiata dalla quale pareva mi
guardasse l'anima mia, la realtà fu sommersa, anche la realtà del mio
sensuale desiderio di lei. Ci guardammo ammaliati: così mi guardava
la mia povera animuccia.
"Sei pronto?" mi domandò Erminia mentre il suo sorriso svaniva come
era svanita l'ombra del suo seno. E lontano nell'alto si perdeva
l'eco di quella strana risata nello spazio sconosciuto.
Accennai di sì. Sì, ero pronto.
Ora comparve sulla soglia Pablo il musicante, il quale mi guardò
con occhi sereni, ma erano occhi di animale e gli occhi degli animali
sono sempre seri; i suoi invece ridevano e quel riso li trasformava
in occhi umani. E ci faceva cenni pieni di cordialità. Aveva
indossato una giacca da casa di seta colorata, sopra il cui colletto
rosso apparivano vizzi e scialbi il collo della camicia ammollito e
il viso pallido e stanco, ma il baleno nero degli occhi vinceva
quell'impressione. E anch'essi smorzavano la realtà, anch'essi
facevano opera di magìa.
Seguimmo il suo cenno d'invito e sulla soglia egli mi disse
sottovoce: "Harry, fratello mio, la invito a un piccolo divertimento.
Sono ammessi soltanto pazzi. Si paga il cervello. E' pronto?". Di
nuovo accennai di sì.
Che caro ragazzo! Ci prese teneramente a braccio, Erminia a destra,
me a sinistra, e ci condusse su per una scala in una stanzetta
rotonda che riceveva dall'alto una luce azzurrina e non conteneva
nient'altro che un tavolinetto rotondo e tre seggiole sulle quali ci
sedemmo.
Dove eravamo? Dormivo? Ero a casa? Ero in un'automobile in corsa?
No, ero seduto in una stanza rotonda inondata di luce azzurra, in
un'aria sottile, in uno strato di realtà molto permeabile. Ma Erminia
perché era così pallida? Pablo perché parlava tanto? O non ero forse
io che lo facevo parlare e parlavo con le sue labbra? Non era forse
la mia anima che mi guardava con i suoi occhi neri come mi guardavano
gli occhi grigi di Erminia?
Con tutta la sua gentilezza un po' cerimoniosa l'amico Pablo ci
guardò e parlò, parlò a lungo. Non lo avevo mai udito fare un
discorso, mai interessarsi a una disputa, a una definizione, non
l'avevo quasi creduto capace di pensare ed ecco che ora parlava con
quella sua voce calda, discorreva senza intoppi, senza errori.
"Amici, vi ho invitati a un divertimento che Harry desidera da
parecchio e sogna da molto tempo. E' già tardi e probabilmente siamo
tutti un po' stanchi. Perciò vogliamo riposare qui un pochino e
prender forza."
Da una nicchia nella parete prese tre bicchierini e una buffa
bottiglietta, prese una scatoletta esotica di legni colorati, riempì
i tre bicchierini, tolse dalla scatola tre lunghe sigarette gialle e
sottili, cavò dalla giacca di seta un accendisigari e ci offrì il
fuoco. Ciascuno di noi si mise a fumare appoggiato alla spalliera
della sedia, aspirando lentamente il fumo della sigaretta, spesso
come quello dell'incenso, e centellinando il liquore agrodolce, di un
sapore strano e ignoto, che però aveva un effetto molto corroborante:
pareva di bere gas e di vincere la propria gravità. Così si stette a
riposare tirando brevi boccate, sorseggiando con l'impressione di
diventare leggeri e contenti. E intanto Pablo parlava con voce calda
e smorzata:
"E' una grande gioia per me, caro Harry, poterla ospitare
quest'oggi. Lei è stato spesso disgustato della vita e ha cercato di
scappare, non è vero? Ha una gran voglia di abbandonare quest'epoca,
questo mondo, questa realtà e di rifugiarsi in un'altra realtà più
consona a lei, in un mondo senza tempo. Lo faccia, caro amico, io la
invito. Lei sa già dove si cela quell'altro mondo, sa che quello che
cerca è il mondo della sua anima. Soltanto dentro di lei vive l'altra
realtà, che lei va cercando. Io non posso darle nulla che non esista
già dentro di lei, non posso aprirle altre visioni che quelle del suo
spirito. Non posso darle nulla, soltanto l'occasione, la spinta, la
chiave. L'aiuterò a farle vedere il suo proprio mondo: ecco tutto."
Di nuovo mise la mano nella tasca della giacca multicolore e ne
trasse uno specchietto rotondo.
"Ecco, guardi: questo era il suo aspetto fino ad oggi."
Mi tenne lo specchietto davanti gli occhi e ci vidi un ritratto un
po' sfumato e nebuloso, un po' mosso, tormentato e in fermento: vidi
me stesso, Harry Haller, e dentro a lui il lupo della steppa, un lupo
timido, bello, ma impaurito e sperduto con negli occhi un fuoco ora
cattivo ora malinconico, e quella forma di lupo si agitava
continuamente in Harry come l'affluente entrato nel fiume lo
annebbia, lo annuvola di un colore diverso lottando e soffrendo,
corrodendolo, con nostalgia insoddisfatta. Molto triste, il lupo
fluente e quasi informe mi guardava con gli occhi belli e timidi.
"Così lei vedeva se stesso" ripeté Pablo con dolcezza e intascò lo
specchio. Chiusi gli occhi riconoscente e sorseggiai l'elisir.
"Ora abbiamo riposato", disse Pablo "abbiamo ripreso forza e fatto
quattro chiacchiere. Se non vi sentite più stanchi, vi porterò a
vedere il mio panorama e vi mostrerò anche il teatrino. Siete
d'accordo?"
Ci alzammo, Pablo ci precedette sorridendo, aprì una porta, scostò
una tenda e ci trovammo nel corridoio d'un teatro a ferro di cavallo,
esattamente nel mezzo, e il corridoio curvo portava da un lato e
dall'altro lungo un numero incredibile di porticine: le porte dei
palchi.
"Questo è il nostro teatro", spiegò Pablo "un teatro piacevole, e
spero che ci troverete molte occasioni di ridere." Così dicendo
scoppiò in una risata breve, ma tale che mi scosse da capo a piedi:
era quella stessa risata squillante ed enigmatica che avevo udito
prima dall'alto.
"Il mio teatrino ha tanti palchi quanti volete, dieci, cento,
mille, e oltre ogni porticina vi attende proprio quello che state
cercando. E' una bella galleria di quadri, caro amico, ma non le
servirebbe passare come sta da uno all'altro. Sarebbe ostacolato e
abbagliato da quello che lei è avvezzo a chiamare la sua personalità.
Senza dubbio avrà già capito che il superamento del tempo, la
redenzione dalla realtà o quel nome qualsiasi che voglia dare alla
sua aspirazione non è altro che il desiderio di sbarazzarsi della sua
così detta personalità. Questa è la prigione nella quale lei è
rinchiuso. E se entrasse nel teatro così come sta, vedrebbe tutto con
gli occhi di Harry, attraverso le vecchie lenti del lupo della
steppa. Perciò la invito a sbarazzarsi di queste lenti e a deporre,
per favore, la sua rispettabile personalità qui nella guardaroba dove
rimane sempre a sua disposizione. La bella serata col ballo, la
Dissertazione sul Lupo della steppa e infine la bevanda eccitante che
abbiamo preso poc'anzi dovrebbero essere una preparazione
sufficiente. Lei, Harry, dopo aver deposto la sua rispettabile
personalità avrà a disposizione la metà sinistra del teatro, Erminia
la destra, nell'interno potrete incontrarvi a volontà. Per piacere,
Erminia, vai intanto dietro la tenda: vorrei introdurre Harry."
Erminia scomparve a destra passando davanti a un enorme specchio
che copriva la parete dal pavimento alla volta del soffitto.
"Bene, Harry, ora venga e stia di buon animo. Farla stare di buon
animo, insegnarle a ridere è precisamente lo scopo di tutta questa
manifestazione: spero che vorrà facilitarmi il compito. Si sente
bene, vero? Non ha mica paura? Bene dunque, molto bene. Senza timori
e con piacere cordiale lei entrerà dunque nel nostro mondo fittizio e
vi sarà introdotto secondo l'usanza con un piccolo suicidio per
finta."
Di nuovo estrasse lo specchietto e me lo tenne davanti agli occhi.
E di nuovo vi scorsi Harry attraversato dalla forma nebulosa, confusa
e sfocata del lupo, visione a me ben nota e tutt'altro che simpatica,
la cui distruzione non poteva certo impensierirmi.
"Questa immagine ormai superflua sarà ora distrutta, caro amico.
Basterà che, se il suo umore glielo consente, contempli questa
immagine con una risata sincera. Lei è qui nella scuola del buon
umore, deve imparare a ridere. Ebbene, ogni superiore umorismo
incomincia col non prendere sul serio la propria persona."
Fissai gli occhi nello specchietto nel quale Harry-lupo era in
convulsioni. Per un istante mi sentii sconvolgere profondamente,
dolorosamente, come da un ricordo, una nostalgia, un pentimento. Ma
quella lieve ansietà fu vinta subito da una sensazione nuova simile a
quella che si prova quando un dente cariato viene estratto dalla
mascella anestetizzata con la cocaina, un senso di sollievo e un
respiro profondo misto allo stupore di aver provato così poco male. E
a questa sensazione si unì una fresca allegria e voglia di ridere
irresistibilmente, sicché scoppiai in una gran risata di liberazione.
La torbida immagine nello specchio diede un guizzo e si spense, la
superficie di esso, piccola e rotonda, parve a un tratto bruciata,
tanto era grigia e ruvida e opaca. Pablo buttò via ridendo il vetro
che andò a perdersi rotolando per il corridoio senza fine.
"Hai riso bene, Harry", esclamò Pablo "imparerai ancora a ridere
come gl'immortali. Finalmente hai ammazzato il lupo della steppa. Non
è cosa che si possa fare col rasoio. Bada ora che rimanga morto! Tra
un po' potrai abbandonare la stolta realtà. Alla prossima occasione
berremo un bicchiere alla nostra amicizia, non mi sei mai piaciuto
come oggi. E se ci terrai potremo anche filosofare insieme e
discutere e parlare di musica e di Mozart e Gluck e di Platone e
Goethe finché vorrai. Adesso capirai perché prima non si poteva.
Spero che tu riesca e per oggi rimanga senza lupo. Infatti il tuo
suicidio non è definitivo; qui siamo in un teatro magico, qui ci sono
soltanto visioni e niente realtà. Scegli le visioni belle e serene e
dimostra di non essere più innamorato della tua problematica persona!
Se però tu dovessi desiderarla ancora, non hai che da guardare nello
specchio che ti mostrerò adesso. Tu sai l'antico proverbio: "uno
specchietto in mano vale più che due alla parete". Ah ah ah! (ancora
la sua risata bella e paurosa). Ecco, adesso ci rimane ancora una
piccola allegra cerimonia. Ora hai buttato via le lenti della tua
personalità e puoi venir a guardare in uno specchio vero! Vieni, ti
divertirai."
Tra risa e buffe carezze mi voltò mettendomi di fronte allo
specchio enorme sulla parete. E mi ci guardai.
Vidi per un solo istante quel Harry che conoscevo salvo che aveva
il viso chiaro e ridente, di buon umore. Ma appena l'ebbi
riconosciuto si divise, una seconda persona si staccò da lui e una
terza, una decima, una ventesima, e tutto l'enorme specchio fu pieno
di Harry o pezzi di Harry, di infiniti Harry, ognuno dei quali mi
appariva per la durata di un baleno. Alcuni di essi erano vecchi come
me, altri più vecchi, alcuni decrepiti, altri giovanissimi,
adolescenti, fanciulli, scolaretti, monelli, ragazzi. Harry
cinquantenni e ventenni si accavallavano e si confondevano, trentenni
e cinquenni, seri e allegri, dignitosi e buffi, ben vestiti e
stracciati o anche nudi, senza capelli o con lunghe ciocche, e tutti
erano io e ciascuno era visto e riconosciuto per un istante prima di
scomparire, e tutti si dissipavano da ogni parte, verso sinistra,
verso destra, nella profondità dello specchio e fuori di esso. Uno di
questi, un giovanotto elegante, corse verso Pablo, lo abbracciò e
scappò via con lui. Un altro che mi piaceva particolarmente, un bel
giovanetto di sedici anni, infilò come un lampo il corridoio, lesse
con avida curiosità i cartelli su tutte le porte mentre io gli
correvo dietro e si fermò a leggere su una di esse:
Tutte le ragazze per te!
Introdurre un marco
Il caro giovane diede un balzo e si buttò a capofitto nella fessura
che doveva accogliere le monete e scomparve nell'interno.
Anche Pablo era sparito, sparito lo specchio e con questo le
innumerevoli varianti di Harry. Mi sentii abbandonato a me stesso e
al teatro e passai curioso da una porta all'altra leggendo su
ciascuna una scritta, un invito, una promessa.
Mi attirò questa iscrizione:
Caccia allegra!
Caccia grossa alle automobili
Aprii la porticina ed entrai. Mi trovai in un mondo rumoroso e
agitato. Per le strade correvano le automobili, in parte corazzate, e
davano la caccia ai pedoni, li schiacciavano riducendoli in
poltiglia, li spiaccicavano contro i muri delle case. Capii subito:
era la lotta fra gli uomini e le macchine, preparata da molto tempo,
da molto tempo attesa e temuta e finalmente scoppiata. Dappertutto
morti straziati, dappertutto automobili schiacciate, contorte, mezzo
bruciacchiate e in alto sopra quel groviglio uno sfrecciare di
velivoli contro i quali si sparava dai tetti e dalle finestre con
moschetti e mitragliatrici. Su tutti i muri vi erano manifesti
eccitanti che, a lettere cubitali, ardenti come fiaccole, esortavano
la nazione a prendere finalmente la parte degli uomini contro le
macchine, ad accoppare finalmente i ricchi grassi, ben vestiti e
profumati, i quali con l'aiuto delle macchine spremevano il grasso
dal prossimo, ad accopparli insieme con le loro grandi automobili dal
rombo maligno e diabolico, a incendiare finalmente le fabbriche e a
ripulire e spopolare la terra violentata affinché vi ricrescesse
l'erba, e quel mondo polveroso di cemento potesse ridiventare prato,
foresta, brughiera, fiume e palude. Altri manifesti invece, dipinti
meravigliosamente e stilizzati, a colori più delicati e meno puerili,
con parole quanto mai savie e accorte, invitavano al contrario tutti
i possidenti e le persone posate a guardarsi dal caos minaccioso
dell'anarchia, descrivevano con parole davvero commoventi i benefici
dell'ordine, del lavoro, del possesso, della cultura, del diritto ed
esaltavano le macchine come ultima e suprema invenzione degli uomini
i quali col loro aiuto sarebbero diventati dei. Ammirando pensieroso
lessi i manifesti, quelli rossi e quelli verdi, e ne subivo la
fiammeggiante eloquenza, la logica stringente, capivo che avevano
ragione e mi soffermavo convintissimo ora davanti agli uni ora
davanti agli altri, sempre però disturbato da quella sparatoria
piuttosto nutrita che vi era intorno. Il fatto più importante era
palese: c'era la guerra, una guerra seria e molto simpatica dove non
si trattava dell'imperatore, della repubblica, di frontiere, di
colore di bandiere e di simili cose piuttosto decorative e teatrali,
quisquilie in fin dei conti, ma dove chiunque si sentisse mancare
l'aria e fosse insoddisfatto della vita manifestava la sua
contrarietà e preparava con molta energia la distruzione completa di
questo volgare mondo civilizzato. Vedevo sprizzare dagli occhi di
tutti la voglia sincera di distruggere e di uccidere e quei fiori
rossi e selvaggi fiorivano anche nel mio cuore e crescevano alti e
carnosi e partecipavano alle risate comuni. Con gioia presi parte
alla battaglia.
Ma il bello fu che mi trovai improvvisamente a fianco di Gustavo,
il mio compagno di scuola, dimenticato ormai da decenni, mentre era
stato il più scatenato, il più ardente e robusto tra i miei amici
d'infanzia. Vedendolo ammiccare con quegli occhi celesti, il mio
cuore diede un balzo. E accettai immediatamente e con gioia il suo
invito.
"Perbacco, Gustavo", esclamai felice "ti si rivede finalmente! Che
cosa hai fatto nel mondo?"
Rise indispettito proprio come quando era ragazzo. "Bestione, c'è
bisogno di far subito domande e chiacchiere? Ho fatto il professore
di teologia, giacché lo vuoi sapere, ma ora per fortuna non si tratta
di teologia, ora si fa la guerra. Vieni, vieni!"
Sparò addosso al conducente di una piccola automobile che ci veniva
incontro sbuffando, balzò sulla macchina, agile come una scimmia, la
fermò e mi fece montare. E con la rapidità del diavolo ci
precipitammo fra le pallottole e le macchine rovesciate verso la
periferia, verso i sobborghi.
"Dimmi, tu difendi i fabbricanti?" domandai all'amico.
"E' questione di gusti: ci penseremo quando saremo fuori. Però,
vedi, preferirei scegliere il partito contrario benché in fondo sia
indifferente. Io sono teologo e il mio predecessore Lutero ha aiutato
a suo tempo i principi e i ricchi contro i contadini; sarà bene
correggere il rapporto. Che macchina scalcinata! Speriamo che resista
ancora un paio di chilometri."
Veloci come il vento figlio del cielo, filavamo via in un paesaggio
verde e tranquillo, per miglia e miglia in una gran pianura e poi in
lieve salita verso un gruppo di alte montagne. Là ci fermammo sulla
strada levigata e abbacinante che saliva tra una parete rocciosa e un
muricciolo di protezione, a curve ardite, quasi sospesa sopra un lago
azzurro e abbagliante.
"Bel paesaggio" osservai.
"Molto bello. Potremo chiamarlo la strada degli assi, perché qui,
caro Harry, verranno ad infrangersi parecchi assi. Vedrai."
Sul margine della strada cresceva un gran pino e lassù tra i rami
vedemmo come una gabbia di tavole, una specie di vedetta. Gustavo si
mise a ridere e ammiccando con gli occhi celesti mi fece scendere con
lui dalla macchina e arrampicare su per il tronco; lassù ci
nascondemmo fra quelle assicelle con un respiro di sollievo. Ci si
stava bene. Vi trovammo moschetti, pistole e casse di cartucce. Ci
eravamo appena un po' rinfrescati e assestati nella vedetta, allorché
si udì dall'ultima curva lo strombettare rauco e imperioso di una
grande automobile di lusso che rombava a tutta velocità per la strada
accecante. Avevamo già in mano i moschetti: un momento emozionante.
"Mira al conducente!" mi ordinò Gustavo mentre la macchina pesante
passava già sotto di noi. Mirai e sparai contro il berretto azzurro
del conducente. Questi si accasciò, la macchina continuò la corsa,
batté contro la roccia, rimbalzò e andò come un grosso calabrone
contro il muricciolo, si capovolse e precipitò con uno schianto
nell'abisso.
"Liquidato!" rise Gustavo. "Il prossimo tocca a me."
Ed ecco arrivare una macchina con tre o quattro persone sedute sui
cuscini. Il velo di una signora svolazzava orizzontale all'indietro,
era un velo celeste e a me pareva che fosse veramente peccato: chi sa
che non ridesse là sotto un bel volto di donna. Infatti, se facevamo
i masnadieri, sarebbe forse stato meglio e più giusto seguire
l'esempio dei grandi precursori e non estendere la nostra passione
omicida alle belle donne. Ma Gustavo aveva già sparato. Il conducente
diede un guizzo, la macchina s'impennò contro la roccia verticale e
ricadde sulla strada con le ruote all'insù. Aspettammo, ma nulla si
mosse, tutti erano sotto la macchina, silenziosi come dentro una
trappola. L'automobile ronzava girando ancora le ruote nell'aria in
modo ridicolo, ma ad un tratto si udì uno scoppio e l'automobile
s'incendiò.
"Una Ford" disse Gustavo. "Dobbiamo scendere e liberare la strada."
Scendemmo e andammo a guardare quel mucchio ardente. Era bruciato
molto presto e intanto avevamo tagliato un alberello facendone una
leva con la quale lo spingemmo al margine della strada fin
nell'abisso dove rimbalzò di cespuglio in cespuglio. Nel girare la
macchina vedemmo due dei morti cadere sulla strada con gli abiti
bruciacchiati. Uno aveva la giacca ancora abbastanza conservata e io
gli rovistai le tasche in cerca di documenti. Trovammo un portafoglio
di pelle con biglietti di visita. Ne presi uno e lessi: "Tat twam
asi".
"Molto spiritoso" fece Gustavo. "Ma in fondo non importa saper come
si chiamano quelli che ammazziamo. Sono poveri diavoli come noi, poco
importa il nome. Questo mondo deve andare alla malora e noi con lui.
Il sistema meno doloroso sarebbe quello di tenerlo dieci minuti
sott'acqua. Basta; al lavoro!"
Buttammo i morti dietro la macchina. E già si sentiva la tromba di
un'altra. Questa la abbattemmo dalla strada. Prillò come ubriaca per
un tratto, poi si rovesciò ansimante, uno dei viaggiatori rimase
seduto dentro, mentre una bella ragazza ne uscì illesa benché pallida
e tremante. La salutammo gentilmente e le offrimmo i nostri servigi.
Ma era troppo spaventata, incapace di parlare e ci guardò un istante
come impazzita.
"Be', vediamo un po' il vecchio" disse Gustavo rivolgendosi al
passeggero che stava ancora seduto dietro il conducente ucciso. Era
un signore dai capelli grigi e corti, dagli occhi celesti e
intelligenti, ma pareva gravemente ferito poiché il sangue gli
scorreva dalla bocca e il collo era paurosamente torto e rigido.
"Se permette, signore, mi chiamo Gustavo. Ci siamo presi la libertà
di ammazzare il suo conducente. Con chi abbiamo l'onore di parlare?"
Il vecchio ci guardò freddo e triste con gli occhietti grigi.
"Io sono il pubblico ministero Loering" disse lentamente. "Non
avete ammazzato soltanto il mio povero conducente ma anche me. Sento
la fine. Perché avete sparato contro di noi?"
"Perché andavate a troppa velocità."
"Era l'andatura normale."
"Quello che era normale ieri non lo è più oggi, signor pubblico
ministero. Oggi siamo del parere che qualunque velocità è troppa.
Oggi massacriamo tutte le automobili e anche le altre macchine."
"Anche i vostri moschetti?"
"Verrà il momento anche per questi, se ne avremo il tempo.
Probabilmente domani o dopodomani saremo liquidati tutti. Lei sa che
il nostro continente era orribilmente sovrappopolato. Aria, aria ci
vuole."
"Sparate su chiunque, senza distinzione?"
"Certo. Per alcuni sarà sicuramente un peccato: mi sarebbe
dispiaciuto, ad esempio, per questa bella signorina... è sua figlia,
vero?"
"No, è la mia stenografa."
"Tanto meglio. E ora esca, per favore, dalla macchina poiché
dobbiamo distruggerla."
"Preferisco perire insieme."
"Come vuole. Mi permetta ancora una domanda. Lei fa il pubblico
ministero. Non sono mai riuscito a capire come un uomo possa fare
codesto mestiere. Lei vive accusando e condannando gli altri, per lo
più poveri diavoli. Non è così?"
"Così. Io ho fatto il mio dovere. Era il mio compito, come era
compito del carnefice di ammazzare quelli che io condannavo. Anche
voi avete assunto il medesimo compito. Anche voi uccidete."
"Giusto. Ma noi non ammazziamo per dovere, ammazziamo per
divertimento o meglio per nausea, perché disperiamo del mondo. Perciò
ci troviamo un certo gusto. A lei ha mai fatto piacere uccidere?"
"Lei mi annoia. Mi faccia la cortesia di portare a termine il suo
lavoro. Se lei ignora il concetto del dovere..."
Tacque e strinse le labbra come per sputare. Ma ne uscì soltanto un
po' di sangue che gli rimase attaccato al mento.
"Scusi!" disse Gustavo con cortesia. "E' vero, non conosco il
concetto del dovere, non lo conosco più. Prima me ne occupavo molto,
d'ufficio, ero professore di teologia. Oltre a ciò ho fatto il
soldato e preso parte alla guerra. Quello che mi pareva un dovere e
mi era ordinato dalle varie autorità e dai superiori non era affatto
un bene: io avrei sempre preferito fare il contrario. Ma se anche non
conosco più il concetto del dovere, conosco però quello della colpa:
forse sono anche la stessa cosa. Poiché una madre mi ha partorito,
sono colpevole, sono condannato a vivere, obbligato ad appartenere a
uno stato, a fare il soldato, a uccidere, a pagare le tasse per gli
armamenti. E ora in questo momento la colpa della vita mi ha
riportato, come una volta in guerra, a dover uccidere. Ma questa
volta non uccido con disgusto, mi sono rassegnato alla colpa, non ho
nulla in contrario a che questo mondo stupido e intasato vada in
frantumi e do una mano volentieri e volentieri vado in rovina col
mondo stesso."
Il pubblico ministero faceva grandi sforzi per sorridere un po' con
quelle labbra incrostate di sangue. Non che ci riuscisse
brillantemente, ma si vedeva la buona intenzione.
"Va bene" disse. "Dunque siamo colleghi. Faccia ora il suo dovere,
collega."
La bella fanciulla intanto si era accasciata sul margine della
strada ed era svenuta.
In quel momento un'altra automobile strombettò e arrivò a corsa
pazza. Tirammo in disparte la ragazza, ci addossammo alla roccia e
lasciammo che la nuova macchina andasse a cozzare contro i rottami
dell'altra. Il conducente frenò con violenza e fece inalberare la
macchina, ma questa si fermò illesa. Puntammo i fucili contro i nuovi
arrivati.
"Scendere!" comandò Gustavo. "Mani in alto!"
Scesero in tre e tutti e tre alzarono le mani obbedienti.
"C'è un medico tra voi?" domandò Gustavo.
No, non c'era.
"Allora abbiate la bontà di estrarre cautamente questo signore che
è gravemente ferito. Poi prendetelo nella vostra automobile e
portatelo fino in città. Avanti, presto!"
Il vecchio fu adagiato nella nuova automobile, Gustavo diede un
ordine e quelli partirono.
Intanto la nostra stenografa aveva ripreso i sensi e seguito gli
avvenimenti. Ero contento di aver fatto quella bella preda.
"Signorina", disse Gustavo "ha perduto il suo datore di lavoro.
Spero che non abbia avuto rapporti più stretti con quel vecchio
signore. La prendo io al mio servizio e veda di essere una buona
compagna. Avanti, abbiamo fretta. Tra un po' qui si ballerà.
Signorina, sa arrampicarsi? Sì? Avanti dunque, la prendiamo tra noi e
le daremo una mano."
Tutti e tre ci arrampicammo con la massima velocità fin nel rifugio
fra i rami. Lassù la signorina si sentì male, ma le demmo un po' di
cognac e si riebbe subito tanto da poter ammirare la magnifica vista
sul lago e sulle montagne e da poterci comunicare che si chiamava
Dora.
Poco dopo arrivò un'altra macchina che senza fermarsi manovrò con
cautela evitando l'automobile rovesciata e allontanandosi a corsa
accelerata.
"Imboscato!" gridò Gustavo ridendo e sparando sul conducente. La
macchina danzò un istante, fece un balzo contro il muricciolo, lo
schiantò e rimase sospesa sopra l'abisso.
"Dora", domandai "sa adoperare il moschetto?"
Non lo sapeva, ma imparò da noi come si carica. Da principio era
maldestra e si fece sanguinare un dito mettendosi poi a piangere e a
chiedere un po' di cerotto. Gustavo però le fece notare che era la
guerra e che doveva dimostrare di essere una ragazza brava e
valorosa. E così fu.
"Ma dove andremo a finire?" domandò poi.
"Non lo so" rispose Gustavo. "Al mio amico Harry piacciono le belle
donne; diventerà la sua amica."
"Ma verranno i poliziotti e i soldati e ci ammazzeranno."
"Non esiste più polizia né alcunché di simile. Possiamo scegliere,
Dora: o rimaniamo tranquilli quassù e massacriamo tutte le automobili
che vogliono passare, oppure prendiamo un'automobile anche noi e
lasciamo che gli altri ci sparino addosso. E' indifferente prendere
un partito o l'altro. Io sono del parere di rimanere qui."
Un'altra automobile passava strombettando. Fu tosto liquidata e
rimase lì con le ruote all'aria.
"E' buffo" osservai "che ci si trovi tanto gusto a sparare. E dire
che prima ero contrario alla guerra!"
Gustavo sorrise. "Già, c'è troppa gente al mondo. Prima non lo si
notava tanto. Ma ora che ciascuno non solo vuole l'aria da respirare,
ma pretende anche l'automobile, ora lo si nota. Naturalmente quello
che facciamo non è ragionevole, è una cosa puerile, come del resto
anche la guerra è stata una immensa fanciullaggine. In seguito
l'umanità imparerà a frenare la moltiplicazione con mezzi
ragionevoli. Per il momento si reagisce alla situazione intollerabile
in modo piuttosto irrazionale, ma in fondo facciamo quel che bisogna
fare: riduciamo."
"Già", dissi "quel che facciamo è probabilmente un agire da matti,
eppure è probabilmente ben fatto e necessario. Non è bene che
l'umanità sforzi troppo l'intelletto e cerchi di ordinare le cose con
l'aiuto della ragione se queste non sono accessibili alla ragione. In
tal caso sorgono ideali come quelli degli americani o dei
bolscevichi, straordinariamente razionali entrambi, quantunque
violentino e depauperino la vita perché la semplificano in un modo
troppo ingenuo. La figura dell'uomo che fu una volta un grande ideale
sta per diventare un cliché. Forse noi matti la nobiliteremo un'altra
volta."
Gustavo rispose ridendo: "Tu parli molto saggiamente, è una gioia e
un vantaggio ascoltare un simile pozzo di sapienza. E forse hai
persino un po' di ragione. Ma ora fammi il piacere di caricare il
moschetto, mi sembri un po' troppo sognatore. Da un momento all'altro
possono arrivare altri caprioli che non potremo ammazzare con la
filosofia: ci vogliono pallottole nella canna".
Un'automobile arrivò e cadde subito sbarrando la strada. Un
sopravvissuto, un uomo grasso dalla testa rossa si mise a gesticolare
come un forsennato accanto ai rottami e guardando di qua e di là
scoprì il nostro nascondiglio, si avvicinò urlando e sparò molte
revolverate contro di noi.
"Vada via o sparo" gridò Gustavo. L'altro mirò contro di lui e
sparò un'altra volta. Allora lo abbattemmo con due colpi.
Arrivarono anche due altre macchine che facemmo capotare. La strada
rimase poi vuota e silenziosa, doveva essersi diffusa la notizia del
pericolo che vi si correva. E a noi rimase il tempo di ammirare la
bella vista. Al di là del lago sorgeva una piccola città: vi vedemmo
salire una colonna di fumo e poco dopo il fuoco propagarsi da un
tetto all'altro. Si udiva anche sparare. Dora si mise a piangere e io
le accarezzai le guance umide.
"Ma dobbiamo dunque morire tutti?" domandò. Nessuno rispose.
Intanto arrivò un pedone il quale vide le automobili fracassate, andò
a frugare, mise la testa dentro una di quelle macchine, ne trasse un
parasole colorato, una borsetta di cuoio, una bottiglia di vino, si
sedette tranquillamente sul muricciolo, incominciò a bere dalla
bottiglia, mangiò qualche cosa che cavò dalla borsetta (era una cosa
avvolta nella stagnola), vuotò la bottiglia e andò per la sua strada
col parasole sotto il braccio. Se ne andava pacifico e io dissi a
Gustavo: "Saresti capace di sparare contro quella brava persona e di
fargli un buco nella testa? Io davvero non me la sentirei".
"Non è neanche richiesto" brontolò l'amico. Ma anche lui provava
non so che disagio. Appena visto un uomo che si comportava
tranquillamente, ingenuamente, un uomo che viveva ancora in stato
d'innocenza, tutta la nostra attività così lodevole e necessaria ci
parve a un tratto sciocca e disgustosa. Puah, tutto quel sangue! Ci
vergognavamo. Ma dicono che in guerra persino certi generali abbiano
avuto il medesimo sentimento.
"Perché restiamo ancora quassù?" incominciò Dora in tono lamentoso.
"Scendiamo, troveremo certamente nelle macchine qualche cosa da
mangiare. Non avete fame, voi bolscevichi?"
Laggiù nella città incendiata le campane incominciarono a suonare
agitate e affannose. E noi ci accingemmo a scendere. Mentre aiutavo
Dora a scavalcare il parapetto, le baciai le ginocchia. Ella si mise
a ridere. Ma in quella i sostegni cedettero e tutti e due
precipitammo nel vuoto...
Di nuovo mi trovai nel corridoio curvo, tutto agitato per
quell'avventura di caccia. E su tutte le innumerevoli porte c'erano
iscrizioni allettanti:
Mutabor
Metamorfosi in animali
e piante a volontà
Kamasutra
Scuola indiana
dell'arte d'amare
Corso per principianti:
42 diversi modi
dell'esercizio d'amore
Suicidio dilettevole!
Si muore dal ridere
Volete spiritualizzarvi?
Sapienza orientale
Oh, avessi mille lingue!
Solo per uomini
Tramonto dell'occidente
Prezzi ridotti -
Ancora unico nel suo genere
Concetto dell'arte
La trasformazione
del tempo nello spazio
mediante la musica
La lacrima ridente
Gabinetto del buon umore
Giochi solitari
Surrogato perfetto
di ogni compagnia
La sequela delle iscrizioni era senza fine. Una diceva:
Avviamento
alla costruzione
della personalità
Successo garantito
Questa mi parve degna di nota e perciò entrai. Mi trovai in una
stanza silenziosa avvolta nella penombra dove c'era un uomo seduto
per terra alla orientale, senza sedia, il quale aveva davanti a sé
una specie di grande scacchiera. Al primo momento mi parve che fosse
l'amico Pablo: per lo meno portava una simile giacca di seta a colori
e aveva gli stessi occhi neri e raggianti.
"Siete Pablo?" domandai.
"Io non sono nessuno" mi spiegò gentilmente. "Qui non abbiamo nome,
non siamo persone. Io sono un giocatore di scacchi. Desiderate
lezioni sul modo di costruire la personalità?"
"Sì, per favore."
"Allora mettetemi a disposizione un paio di dozzine delle vostre
figure."
"Delle mie figure?..."
"Sì, di quelle figure nelle quali avete visto dissolversi la vostra
così detta personalità. Senza figure come faccio a giocare?"
Mi presentò uno specchio e di nuovo vidi che l'unità della mia
persona si scindeva in numerosi io e il numero pareva che fosse
ancora cresciuto. Ma le figure erano ora molto piccole, su per giù
come i pezzi degli scacchi; il giocatore ne prese con gesti risoluti
alcune dozzine e le pose per terra accanto alla scacchiera. E diceva
con voce monotona come chi ripete un discorso o una lezione tenuta
molte volte:
"Voi conoscete già l'errato e funesto concetto, secondo il quale
l'uomo sarebbe un'unità durevole. Sapete anche che l'uomo è composto
di una gran quantità di anime, di moltissime persone. La scissione
dell'unità apparente in queste numerose figure è considerata pazzia:
per questa la scienza ha coniato il nome di schizofrenia. La scienza
è nel giusto in quanto naturalmente non si può aver ragione di una
pluralità senza una guida, senza un certo ordine o aggruppamento. Ha
torto invece credendo che sia possibile soltanto un determinato
ordine delle numerose sottopersone, ordine che dovrebbe essere
stabilito una volta per sempre ed essere un legame per tutta la vita.
Da questo errore della scienza derivano parecchie conseguenze
spiacevoli; l'unico suo valore sta in questo, che i maestri e gli
educatori statali vedono la loro opera semplificata e si risparmiano
di pensare e di sperimentare. In seguito a quell'errore si
considerano "normali", anzi preziosi per la società, molti uomini che
sono inguaribilmente pazzi, e viceversa si prendono per matti molti
altri che sono geni. Perciò noi completiamo la insufficiente
psicologia della scienza mediante quel concetto che chiamiamo arte
costruttiva. A colui che abbia visto la scissione del proprio io
facciamo vedere che può ricomporre i pezzi in qualunque momento e
nell'ordine che più gli piace, raggiungendo in tal modo una varietà
infinita nel giuoco della vita. Come il poeta con un pugno di
personaggi crea un dramma, così noi con le figure del nostro io
sezionato costruiamo gruppi sempre nuovi con nuovi giuochi, nuove
tensioni, nuove situazioni. Guardate!"
Con le dita fini e spirituali prese le mie figure, tutti quei
vecchi, giovani, fanciulli, donne, tutte le figure serene e
malinconiche, robuste e delicate, agili e maldestre, e le mise in
ordine rapidamente sulla scacchiera, formando un giuoco nel quale si
costruivano gruppi, famiglie, scherzi e conflitti, amicizie e
ostilità, un vero microcosmo. Davanti ai miei sguardi deliziati fece
sì che quel piccolo mondo mosso ma ben ordinato si agitasse, giocasse
e lottasse, stipulasse legami e desse battaglie, festeggiasse connubi
e moltiplicazioni: era veramente un dramma di numerosi personaggi
agitato e avvincente.
Poi passò la mano sulla scacchiera con un gesto sereno, rovesciò
tutte le figure, le mise in un mucchio e costruì, artista pensoso ed
eletto, con le medesime figure un giuoco del tutto nuovo con altri
raggruppamenti, altri rapporti e intrecci. Il secondo giuoco era
affine al primo: era il medesimo mondo, lo stesso materiale da
costruzione, la tonalità era diversa, il ritmo era un altro, i motivi
erano accentati diversamente e le situazioni disposte in maniera
nuova.
E così il savio costruttore andava combinando con le figure,
ciascuna delle quali era un pezzo di me stesso, un giuoco dopo
l'altro, tutti lontanamente simili tra loro, tutti appartenenti allo
stesso mondo, legati alla stessa origine eppure sempre nuovi.
"Questa si chiama arte di vivere" continuò la lezione. "Voi stesso
potrete plasmare e animare il giuoco della vostra vita a volontà,
complicarlo e arricchirlo: dipende da voi. Come la pazzia, in un
certo senso elevato, è l'inizio di ogni sapienza, così la
schizofrenia è l'inizio di tutte le arti, di ogni fantasia. Persino
gli scienziati se ne sono accorti, almeno in parte, come si può
vedere per esempio dal Corno magico del principe, libro delizioso nel
quale la fatica assidua di uno scienziato è nobilitata dalla geniale
collaborazione di alcuni artisti pazzi e rinchiusi nel manicomio.
Ecco dunque, prendete queste vostre figurine, il giuoco vi farà
piacere. La figura che oggi diventa uno spauracchio insopportabile e
vi guasta il giuoco, domani la degraderete a figura secondaria e
innocua. La cara figurina che per un po' vi è parsa condannata alla
disdetta e alla disgrazia, nel giuoco successivo la farete
principessa. Buon divertimento, signore!"
M'inchinai profondamente e con animo grato davanti a quel giocatore
di scacchi così intelligente, misi in tasca le figurine e mi ritirai
dalla porticina.
Immaginavo che nel corridoio mi sarei seduto subito per terra a
giocare per ore e ore, per un'eternità, con quelle figure, ma appena
mi ritrovai nell'ansa del corridoio illuminato, nuove correnti più
forti di me mi trascinarono via. Davanti agli occhi mi vidi
fiammeggiare un nuovo cartello:
Modo meraviglioso
di addomesticare
il lupo della steppa
Queste parole suscitarono in me una folla di sentimenti; mi sentii
stringere il cuore da ogni sorta di angosce e imposizioni della mia
vita passata, della realtà abbandonata. Con mano tremante aprii la
porta e mi trovai in un baraccone da fiera nel quale c'era una
cancellata di ferro che mi divideva dal misero palcoscenico. Su
questo vidi un domatore, un uomo dall'aspetto di ciarlatano che si
dava molte arie e nonostante i lunghi mustacchi, il braccio gonfio di
muscoli e il vestito azzimato da circo, somigliava a me in modo
perfido e disgustoso. Egli teneva al guinzaglio come un cane (quadro
miserando!) un grosso lupo, bello ma orribilmente magro, che mandava
occhiate timide, da schiavo. Ed era uno spettacolo schifoso ma
allettante, orrendo e tuttavia segretamente piacevole, vedere quel
domatore brutale che presentava in una serie di scene e trucchi la
belva nobile e pur così vergognosamente disciplinata.
Certo quell'uomo, quel mio maledetto gemello in caricatura, aveva
domato magnificamente il suo lupo. Questo obbediva a tutti gli
ordini, reagiva come un cane servile ad ogni richiamo e ad ogni
schiocco di frusta, si metteva in ginocchio, faceva il morto, si
rizzava sulle zampe posteriori, portava per benino tra le fauci una
pagnotta, un uovo, un pezzo di carne, un cestello, sollevava persino
la frusta che il domatore lasciava cadere e gliela portava dietro
dimenando la coda con servilità strisciante e odiosa. Si presentarono
al lupo prima un coniglio, poi un agnello bianco ed egli digrignò i
denti bensì, mentre la saliva gli colava dalla bocca tremante dal
desiderio, ma non toccò gli animali, passò anzi sopra a loro con un
salto elegante mentre quelli si rannicchiavano tremanti, si distese
persino tra il coniglio e l'agnello, li abbracciò con le zampe
anteriori formando un commovente gruppo familiare. E intanto prendeva
dalla mano dell'uomo una tavoletta di cioccolata. Era una pena vedere
fino a qual punto fantastico il lupo avesse imparato a rinnegare la
sua natura: mi sentivo rizzare i capelli sulla testa.
Ma nella seconda parte della rappresentazione lo spettatore
eccitato e il lupo stesso trovavano un compenso per quella pena.
Infatti dopo lo svolgimento del raffinato programma col lupo
addomesticato, dopo che il domatore si fu inchinato sorridente e
trionfante sopra il gruppo del lupo e delle bestiole mansuete, le
parti furono scambiate. Il domatore dall'aspetto harryano depose
improvvisamente la frusta ai piedi del lupo con un profondo inchino e
incominciò a tremare e ad assumere un tono miserando come il lupo
nella prima scena. Questo però si leccò il muso ridendo, depose
l'aria bugiarda e paurosa, i suoi occhi si illuminarono e tutto il
corpo si fece teso, lustro, fiorente di riconquistata fierezza.
E ora il lupo si mise a comandare e l'uomo a obbedire, a un ordine
l'uomo si buttò in ginocchio, fece il lupo con la lingua penzoloni e
si strappò gli abiti di dosso coi denti otturati. Secondo gli ordini
del domatore di uomini, camminava a due o a quattro zampe, faceva il
morto, si rizzava sulle gambe, portava il lupo sulla schiena, gli
recava la frusta. Con intelligenza e sottomissione e con molta
fantasia accettava ogni umiliazione, ogni pervertimento. Entrò in
scena una bella fanciulla la quale si avvicinò all'uomo
addomesticato, gli accarezzò il mento, posò la guancia contro quella
di lui, ma egli rimase sulle quattro zampe, restò bestia, scosse il
capo e mostrò i denti alla bella creatura, così minaccioso infine e
così lupo che quella scappò via. Gli fu presentato un pezzo di
cioccolata, ma egli la annusò e la respinse con disdegno. Infine
entrarono di nuovo l'agnello bianco e il grasso coniglio pezzato e
l'uomo docile si comportò da lupo che era un piacere vederlo. Con le
dita e coi denti afferrò le bestiole che strillavano, strappò loro
brandelli di pelle e di carne, masticò la carne viva ghignando e
bevve il sangue caldo con abbandono e con gli occhi socchiusi dalla
voluttà.
Fuggii inorridito. Quel teatro magico non era certo un paradiso,
tutti gli inferni si celavano sotto la gradevole superficie. Non
c'era neanche lì la redenzione?
Angosciato mi diedi a correre in su e in giù, sentivo in bocca il
sapore del sangue e della cioccolata, odioso l'uno quanto l'altro, e
avevo una gran voglia di sottrarmi a quella torbida ondata e di
conquistare immagini più liete, più sopportabili. "Amici, non questi
suoni!" sentii cantare nel mio cuore, e con orrore mi ricordai delle
spaventevoli fotografie del fronte che si erano viste qualche volta
durante la guerra, con mucchi di cadaveri alla rinfusa, il cui volto
era tramutato dalle maschere contro il gas in larve mostruose e
diaboliche. Come ero stato ingenuo e sciocco a quei tempi quando ero
inorridito a quelle visioni, filantropo com'ero e nemico della
guerra! Ora sapevo che nessun domatore o ministro, nessun generale o
mentecatto era capace di generare col cervello visioni e pensieri che
non esistessero dentro di me altrettanto orribili e malvagi,
altrettanto stupidi e brutali.
Con un respiro di sollievo ricordai la scritta che avevo visto
all'inizio della rappresentazione, accolta con tanto slancio da quel
bel giovanotto:
TUTTE le ragazze per te!e mi parve, tutto sommato, che nulla fosse
desiderabile quanto questo. Lieto di poter scampare al maledetto
mondo lupino entrai da quella porta.
Stranamente (come una leggenda e, insieme, come un mondo noto a tal
segno da farmi rabbrividire) mi sentii alitare in viso l'aroma della
mia giovinezza, l'atmosfera dell'infanzia, mentre nel cuore mi
scorreva il sangue di allora. Quello che ero stato fin poco prima,
ciò che avevo fatto e pensato sprofondò dietro le mie spalle e mi
ritrovai giovane. Un'ora prima, anzi fino a pochi istanti prima avevo
creduto di sapere benissimo che cosa fosse l'amore, il desiderio, la
nostalgia, ma erano stati l'amore e il desiderio di un vecchio. Ora
ero di nuovo giovane e ciò che sentivo nell'anima, quel torrente di
fuoco, la nostalgia travolgente, la passione sgelante come il tepido
vento di marzo, tutto era giovane, nuovo e genuino. Come divampavano
nuovamente i fuochi dimenticati, come risonavano squillanti i suoni
di una volta, come mi fioriva il sangue, come cantava e gridava
l'anima mia! Ero ragazzo, avevo quindici o sedici anni, avevo la
testa piena di latino e greco e di bei versi poetici, i pensieri
gonfi di aspirazioni e ambizioni, la fantasia carica di sogni
artistici, ma molto più forte e terribile di tutti questi fuochi
avvampanti bruciava e lingueggiava dentro di me la fiamma dell'amore,
la fame del sesso, lo struggente presentimento della voluttà.
Stavo su un colle roccioso sopra la mia cittadina natale, c'era
odore di sgelo e di prime violette, dalla città il fiume mandava
baleni e le finestre della mia casa natale luccicavano, e ogni cosa
emetteva lumi, suoni, odori così inebrianti, così nuovi, irradiava
colori così vivi e si agitava nella brezza primaverile così
trasfigurata e surreale come mi era capitato una volta nelle ore più
sature e poetiche della prima giovinezza. Stavo su quel colle mentre
il vento mi accarezzava i lunghi capelli; con mano tremante, perduto
in un sogno nostalgico d'amore, strappai da un arbusto appena
verzicante una foglia ancora avvolta nella gemma, la tenni davanti
gli occhi, ne aspirai l'odore (e già a quell'odore mi sovvenne di
tutta l'ardenza di quel tempo); poi strinsi la fogliolina verde fra
le labbra che non avevano ancora baciato una fanciulla e incominciai
a masticare. A quel sapore aspro, amarognolo e aromatico compresi
improvvisamente che tutto quel mondo era ritornato. E rivissi un'ora
dei miei ultimi anni di fanciullo, un pomeriggio domenicale al
principio della primavera, il giorno in cui durante una passeggiata
solitaria avevo incontrato Rosa Kreisler e l'avevo salutata
timidamente e me n'ero innamorato e stordito.
Allora avevo aspettato con ansia la bella fanciulla che saliva il
colle sola e trasognata e non mi aveva ancora scorto, avevo osservato
i suoi capelli raccolti in grosse trecce mentre però alcune ciocche
le cadevano di qua e di là sulle guance e si agitavano al vento.
Avevo notato per la prima volta nella vita quanto era bella quella
fanciulla, quanto era dolce e trasognato il giuoco del vento nelle
sue chiome, quanto erano invitanti le pieghe dell'abitino azzurro che
le fluiva lungo le membra giovanili, e come il sapore amaro e
aromatico della gemma masticata m'impregnava di tutta l'ansiosa
dolcezza della primavera, così la vista della fanciulla mi recò tutto
il mortale presentimento dell'amore e della donna, il presagio
commovente d'infinite possibilità e promesse, di voluttà ineffabili,
d'impensabili stordimenti e sofferenze, della più intima redenzione e
della colpa più grave. Oh come bruciava il sapore amaro della
primavera sulla mia lingua! Come scorreva il vento garrulo tra i
capelli sciolti sulle sue guance rosee! Poi si era avvicinata, aveva
alzato lo sguardo, riconoscendomi era arrossita un attimo e aveva
guardato dall'altra parte; io la salutai togliendomi il cappello e
Rosa, riavutasi rapidamente, mi salutò sorridendo con un'aria da
signorina, e alzando il viso proseguì lenta e sicura, avvolta
nell'onda di quei mille desideri amorosi e degli omaggi coi quali la
seguivo.
Così era stato una volta, una domenica di trentacinque anni prima e
così tutto ritornava in quell'istante: il colle e la città, l'aura di
primavera e il profumo delle gemme, Rosa e i suoi capelli castani,
l'onda della nostalgia e l'ansietà di quella dolcezza. Tutto era come
allora e mi pareva di non aver mai più amato come avevo amato Rosa in
quei tempi. Ma questa volta mi era concesso di accoglierla
diversamente da allora. La vidi arrossire nel momento in cui mi
riconosceva, vidi il suo sforzo di nascondere il rossore e compresi
subito che mi voleva bene, che l'incontro significava per lei lo
stesso che per me. E invece di togliermi il cappello e di aspettare
solennemente con il cappello in mano che fosse passata, nonostante
l'angoscia feci quello che il sangue mi diceva di fare ed esclamai:
"Rosa! Ringrazio il cielo che sei venuta, bella fanciulla. Ti voglio
tanto bene". Non era forse la cosa più spiritosa che si potesse dire
in quel momento. Ma bastava, non vi era bisogno di spirito. Rosa non
prese le arie da signorina e non andò avanti; si fermò invece, mi
guardò e fattasi ancor più rossa disse: "Ti saluto, Harry: mi vuoi
bene davvero?" e gli occhi bruni mandarono lampi dal viso regolare e
io sentii che tutta la mia vita passata era stata falsa e confusa e
disgraziata dal momento in cui quella domenica avevo lasciato che
Rosa passasse oltre. Ora invece l'errore era rettificato e tutto il
resto andò bene.
Ci stringemmo la mano e tenendoci stretti proseguimmo
ineffabilmente felici e imbarazzati, non sapevamo che cosa fare e
dire, e per l'imbarazzo ci mettemmo a correre e trottare finché ci
fermammo senza fiato ma sempre tenendoci per mano. Eravamo ancora
fanciulli tutti e due e non sapevamo che cosa combinare fra noi;
quella domenica non arrivammo neanche a un primo bacio, ma ci
sentivamo felici. Respirando con affanno ci sedemmo nell'erba, io le
accarezzai una mano e lei mi passò l'altra timidamente nei capelli.
Poi ci rialzammo e tentammo di misurare chi di noi due fosse più
alto, e benché io fossi un dito più alto di lei, non lo ammisi, ma
decretai che eravamo esattamente della medesima statura e che il buon
Dio ci aveva fatti l'uno per l'altra e in seguito ci saremmo sposati.
Rosa disse allora che sentiva odor di violette e ci inginocchiammo
nell'erba breve a cercare e trovammo un paio di viole dal gambo
cortissimo, ce le regalammo a vicenda e quando l'aria si fece più
fresca e la luce scese obliqua sulle rocce, Rosa osservò che doveva
ritornare a casa e tutti e due diventammo molto tristi poiché non
potevo accompagnarla; ma ormai avevamo tra noi un segreto ed era la
cosa più soave che possedessimo. Io rimasi lassù tra le rocce,
annusai le violette di Rosa, mi coricai sull'orlo di un precipizio a
guardare la città là in fondo e a spiare finché la dolce figurina di
lei scomparve laggiù, e, passando davanti alla fontana, infilò il
ponte di corsa. Pensai poi che doveva essere arrivata nella casa
paterna e attraversava quelle stanze mentre io ero lassù, lontano da
lei, ma fra me e lei correva un nastro, passava una corrente, aliava
un segreto.
C'incontrammo di nuovo ora qua ora là sulle rocce, dietro le siepi,
per tutta la primavera e quando incominciarono a fiorire le serenelle
le diedi timidamente il primo bacio. Era poco quello che potevamo
darci noi ragazzi, e il bacio era ancora senza ardore e senza
pienezza, e osavo appena accarezzarle i riccioli sopra le orecchie,
ma tutto era nostro quel che l'affetto e la gioia potevano darci, e
ogni timido contatto, ogni immatura parola d'amore, ogni reciproca
attesa ci rivelava una felicità nuova, ci faceva salire di un breve
gradino sulla scala dell'amore.
Vissi così, incominciando da Rosa e dalle violette, ancora una
volta tutta la mia vita amorosa sotto costellazioni più felici.
Svanita Rosa apparve Ermengarda, il sole divenne più cocente, gli
astri più ebbri, ma né Rosa né Ermengarda furono mie e di gradino in
gradino dovetti salire, imparare molte cose e riperdere anche
Ermengarda, anche Anna. Riamai tutte le fanciulle che avevo amato da
giovane, ma a ciascuna ero in grado di infondere amore, di dare
qualche cosa, da ciascuna potevo ricevere qualche cosa. Desideri,
sogni e possibilità che una volta si erano agitati soltanto nella mia
fantasia, ora diventavano realtà vissuta. O fiori belli, Ida e
Leonora, e voi tutte che avevo amato una volta per un'estate, per un
mese, per un giorno!
Adesso comprendevo che ero io il bel giovane ardente che avevo
visto precipitarsi con tanto impeto dentro alla porta dell'amore,
comprendevo che stavo vivendo quella parte di me, sviluppata soltanto
per un decimo, per un millesimo della mia natura, senza il peso di
tutte le altre figure del mio io, senza essere disturbato dal
pensatore, tormentato dal lupo, diminuito dal poeta, dal visionario,
dal moralista. Ora non ero altro che amante, non respiravo altra
felicità né altra pena che quella dell'amore. Già Ermengarda mi aveva
insegnato a ballare, Ida a baciare, e la più bella, Emma, era stata
la prima a offrirmi, una sera d'autunno sotto le fronde fruscianti
dell'olmo, i seni abbronzati da baciare e il calice del piacere da
sorbire.
Molte cose vissi nel teatrino di Pablo, ma nemmeno la millesima
parte la si può dire a parole. Tutte le fanciulle amate una volta
diventavano mie, ciascuna mi dava ciò che lei sola mi poteva dare e a
ciascuna davo ciò che da me solo poteva prendere. Assaporai molto
amore, molta beatitudine e voluttà, ma anche stordimento e dolore,
tutto l'amore trascurato della mia vita sbocciò magicamente in
quell'ora di sogno dentro il mio giardino, ed erano fiori teneri e
casti, fiori vivaci e fiammeggianti, fiori scuri e prossimi ad
avvizzire, voluttà lappolante, sogno intimo, malinconia mordente,
morte angosciosa, radiosa rinascita. Trovai donne che si potevano
conquistare soltanto in rapido assalto, e altre che era una gioia
corteggiare a lungo e assiduamente; ogni angolo crepuscolare della
mia vita risorse, ogni angolo dove una volta sia pure per un attimo
la voce del sesso mi aveva chiamato, uno sguardo femminile mi aveva
infiammato, un baleno di pelle bianca mi aveva invitato, e tutto
quanto era stato trascurato ora diventava realtà. Ognuna fu mia,
ognuna a modo suo. C'era la donna dagli occhi bruni enigmatici sotto
i capelli chiari come il lino, accanto alla quale ero stato un quarto
d'ora al finestrino di un direttissimo e che poi mi era apparsa più
volte in sogno: senza dire una parola mi insegnava arti amorose
insospettate, paurose, mortali. E anche la cinese del porto di
Marsiglia, dai capelli lisci e corvini, dal sorriso vitreo e dagli
occhi erranti, anche lei sapeva cose inaudite. Ciascuna aveva il suo
segreto, mandava l'olezzo della sua terra, baciava e rideva a modo
suo, era pudica in un modo particolare e in un modo particolare
spudorata. Venivano e andavano, il torrente me le portava, portava me
verso di loro, mi allontanava, era un nuotare infantile e bizzarro
nel fiume del sesso, pieno di attrattive, di pericoli, di sorprese. E
mi stupivo al vedere quanto era stata ricca di occasioni, d'inviti,
d'innamoramenti la mia vita apparentemente così povera, la mia vita
da lupo senza affetti. Le avevo trascurate quasi tutte ed ero fuggito
inciampando in loro, le avevo rapidamente dimenticate: ma tutte erano
conservate qui, a centinaia, non ne mancava alcuna. E ora le vedevo,
mi abbandonavo a loro, ero tutto aperto e sprofondato nel loro averno
roseo e crepuscolare. Ritornò anche quella seduzione che mi era stata
offerta un giorno da Pablo, e altre precedenti che a suo tempo non
avevo neanche comprese, giuochi fantastici a tre e a quattro mi
accoglievano sorridenti nella loro ridda. Molte cose avvennero, molti
giuochi, da non dirsi a parole.
Dal fiume infinito delle lusinghe, dei vizi, delle catene mi
risollevai armato e silenzioso, saturo di sapere, saggio ed esperto,
maturo per Erminia. Ultima figura nella mia milliforme mitologia,
ultimo nome nella serie infinita, affiorò lei, Erminia, e io riebbi
la mia coscienza che pose fine alla fiaba amorosa poiché non volevo
incontrarla nella penombra di uno specchio fatato, a lei non
apparteneva soltanto una figuretta della mia scacchiera, a lei
apparteneva Harry tutto intero. Avrei quindi ricostruito il mio
giuoco di figure in modo che tutto si riferisse a lei e convergesse
verso l'adempimento.
Il fiume mi aveva buttato a riva e di nuovo mi trovai nel corridoio
silenzioso del teatro. Che fare? Misi la mano in tasca per prendere
le figurine, ma quell'impulso era già affievolito. Inesauribile era
davanti a me la fuga delle porte, delle iscrizioni, degli specchi
magici. Involontariamente lessi la scritta più vicina e fui scosso da
un brivido:
Come si uccide con l'amore
Così era scritto. Per un istante mi balenò nella mente un ricordo:
Erminia al tavolino di un ristorante, dimentica del vino e dei cibi e
perduta in una conversazione abissale, l'occhio paurosamente serio,
mi diceva che voleva infiammarmi d'amore soltanto per essere uccisa
dalle mie mani. Un greve flutto di tenebra e d'angoscia mi si riversò
nel cuore e nell'improvviso ritorno di ogni cosa sentii ancora dentro
di me pena e fatalità. Disperatamente affondai la mano nella tasca
per trarne le figure, per eseguire un po' di arti magiche e
riordinare la mia scacchiera. Ma le figure non c'erano più. Invece di
figure ne cavai un pugnale. Atterrito mi misi a correre per il
corridoio davanti quelle porte, mi fermai di fronte allo specchio
enorme e mi guardai. Alto come me c'era nello specchio un lupo
gigantesco che mi guardava con gli occhi irrequieti e lampeggianti.
Mi lanciò sguardi sfiaccolanti e rise un attimo disgiungendo le
labbra e mostrando la lingua rossa.
Dov'era Pablo? Dov'era Erminia? Dov'era quel sapiente che sapeva
discorrere così bene della costruzione della personalità?
Ancora una volta guardai nello specchio. Ero stato pazzo. Non c'era
il lupo nell'alto cristallo e non agitava la lingua nelle fauci.
Nello specchio c'ero io, Harry, col viso grigio, abbandonato da tutti
i giuochi, stanco di tutti i vizi, orribilmente pallido ma ancora
uomo, ancora uno con cui si poteva parlare.
"Harry", domandai "che fai costì?"
"Niente", rispose quello dello specchio "aspetto. Aspetto la
morte."
"E dov'è la morte?" chiesi.
"Sta arrivando" replicò l'altro. E dal vuoto del teatro udii sonare
una musica, una musica bella e terribile, la musica del Don Giovanni
che accompagna la comparsa del convitato di pietra. Le note gelide
squillavano paurosamente nell'ambiente spettrale come venissero
dall'al di là, dagl'immortali.
"Mozart!" pensai evocando le visioni più care e più elevate della
mia vita interiore.
In quella scoppiò dietro a me una risata, una risata limpida e
gelida, da un mondo di dolori sofferti, un mondo inaudito, sorto
dall'allegria degli dei. Mi voltai beato e gelato da quella risata ed
ecco passare Mozart sorridendo e avvicinarsi tranquillamente alla
porta di un palco, aprirla ed entrare. Per parte mia lo seguii
avidamente, quel dio della mia gioventù, quella meta perpetua del mio
affetto e della mia venerazione. La musica continuava. Mozart si
affacciò al parapetto del palco: il teatro invisibile era avvolto in
una tenebra senza limiti.
"Vede?" fece Mozart. "Si può fare anche a meno del saxofono; per
quanto non vorrei aver detto male di questo magnifico strumento."
"Dove siamo?" domandai.
"Siamo all'ultimo atto del Don Giovanni. Leporello è già in
ginocchio. Una scena splendida, e anche la musica, non faccio per
dire, è discreta. Anche se contiene ancora molti lati umani, vi si
sente già l'al di là, la risata... non è vero?"
"E' l'ultima musica grande che sia stata scritta" proclamai
solennemente come un maestro di scuola. "Certo, ci fu poi anche
Schubert, anche Hugo Wolf, e non bisogna dimenticare il povero
stupendo Chopin. Maestro, lei aggrotta la fronte... Sì, sì, c'è stato
anche Beethoven, meraviglioso anche lui. Tutto questo però, per
quanto sia bello, ha del frammento, vi è qualche cosa che si
dissolve: ma un'opera di getto, un'opera perfetta gli uomini non
l'hanno più fatta dopo il Don Giovanni."
"Non si prenda tanta premura", disse Mozart ridendo con terribile
ironia. "E' musicista anche lei? Vede, io ho abbandonato il mestiere,
mi sono messo a riposo. Solo per divertimento vengo ogni tanto a dare
un'occhiata."
Alzò le mani come per dirigere e una luna o un altro astro pallido
sorse non so dove, e oltre il parapetto guardai dentro profondità
immense, dove passavano nebbie e nuvole, e montagne si profilavano
sulle rive del mare e sotto di noi si estendeva una pianura infinita
simile a un deserto. Su quella pianura scorgemmo un vecchio
dall'aspetto venerando, con tanto di barba lunga, che guidava
malinconicamente un enorme corteo di forse diecimila uomini vestiti
di nero. Aveva l'aria triste e sconsolata e Mozart disse:
"Vede? Quello là è Brahms. Va in cerca della redenzione, ma c'è
ancora tempo."
Appresi che quelle migliaia di nerovestiti erano gli esecutori
delle voci e delle note che, secondo il giudizio divino, sarebbero
inutili nelle sue partiture.
"Troppo spreco di materiale, strumentazione troppo pesante" fece
Mozart.
E poco dopo vedemmo alla testa di un esercito ugualmente numeroso
Riccardo Wagner e sentimmo come quelle migliaia lo tiravano e
trascinavano; anche lui si trascinava a fatica e con rassegnazione.
"Quando ero giovane", osservai tristemente "questi due musicisti
erano considerati la maggiore antitesi possibile."
Mozart rise.
"Già, è sempre così. Visti da una certa distanza questi contrasti
si appianano sempre più. La strumentazione pesante non era, del
resto, un errore personale né di Wagner né di Brahms, era un errore
del loro tempo."
"Davvero? E per questo devono pagare così amaramente?" dissi in
tono di accusa.
"Si capisce. E' la via delle istanze. Solo quando avranno scontato
la colpa del loro tempo, si vedrà se rimane ancora quel tanto di
personale che meriti di essere preso in considerazione."
"Ma di questo non hanno colpa né l'uno né l'altro!"
"S'intende. Non hanno colpa neanche che Adamo abbia ingoiato la
mela, eppure devono espiare."
"Ma è spaventevole!"
"Certo, la vita è sempre spaventevole. Noi non abbiamo colpa e
siamo tuttavia responsabili. Si nasce e già si è colpevoli. Se lei
non lo sa, deve aver ricevuto ben magre lezioni di religione."
Mi sentivo molto male. Vedevo me stesso, pellegrino esausto,
attraversare il deserto dell'al di là carico di tutti i libri
superflui che avevo scritto, di tutti gli articoli, di tutte le
appendici, seguito dalla legione dei tipografi che vi avevano dovuto
lavorare, dalla legione dei lettori che avevano dovuto inghiottire
tutta quella roba. Dio mio! e oltre a ciò vi era anche Adamo con la
mela e il peccato originale. Tutto dunque doveva essere scontato, in
un purgatorio senza fine, e soltanto dopo si sarebbe visto se in
fondo rimaneva qualche cosa di proprio, di personale, o se tutto il
mio lavoro è le sue conseguenze erano soltanto vana schiuma sopra il
mare, giuoco insensato nel fiume del divenire!
Vedendo il mio sbalordimento Mozart si mise a ridere forte. Dal
ridere fece una capriola e si mise a far trilli con le gambe. E
m'investiva: "Ehi, giovanotto, ti brucia di sotto? sei crudo, sei
cotto? Pensi ai lettori, i biondi e i mori, i divoratori? Pensi al
tuo proto, ai redattori, sempre in moto, tra mille furori, aizzanti
alla guerra di dentro e di fuori? Oh com'è buffa, la zuffa, baruffa,
una truffa! Che ridere! da smascellarsi, da scompisciarsi! Va là,
credulone, sporco d'inchiostro, ti accendo un moccolo, ti batto il
groppone, per spasso, per chiasso. E il diavolo ti porti, nel regno
dei morti, pei tuoi rapporti storti; contorti, plagiati ed estorti!".
Era troppo grossa. La collera m'impedì di abbandonarmi alla
malinconia. Afferrai Mozart per il ciuffo, ma egli volò via mentre il
ciuffo si allungava, si allungava come la coda di una cometa, a un
capo della quale ero attaccato e turbinato nel mondo. Diavolo,
com'era freddo quel mondo! Quei benedetti immortali resistevano a
un'aria terribilmente gelata. Ma dava piacere, quell'aria gelida, me
ne accorsi nei brevi istanti prima di perdere la conoscenza. Mi
sentii compenetrare da una serenità amara e tagliente, gelida e
ferrigna, da una voglia di ridere di un riso squillante e sovrumano
come quello di Mozart. Ma in quel momento rimasi senza respiro e
perdetti i sensi.
Confuso e pestato mi ritrovai nel corridoio dove la luce bianca
lustrava sul pavimento specchiante. Non ero presso gl'immortali, non
ancora. Ero nel mondo di qua, nel mondo degli enigmi, dei dolori, dei
lupi, delle penose complicazioni. Soggiorno tutt'altro che bello e
sopportabile! Bisognava farla finita.
Nel grande specchio alla parete Harry stava di fronte a me. Non
aveva buona cera, era poco diverso da come era stato quella notte
dopo la visita al professore e il ballo all'Aquila Nera. Ma era una
cosa passata da molti anni, da secoli. Harry era invecchiato, aveva
imparato a ballare, aveva frequentato teatri magici e udito ridere
Mozart, non aveva più paura delle danze, delle donne, dei pugnali.
Anche uno che sia di mediocre intelligenza diventa maturo, se
attraversa un paio di secoli. Lo guardai a lungo nello specchio: lo
conoscevo ancora molto bene, ancora somigliava un tantino a Harry di
quindici anni che una domenica di marzo aveva incontrato Rosa sul
colle roccioso e si era tolto il cappello. Eppure da allora era
invecchiato di alcune centinaia di annetti, aveva fatto della musica
e della filosofia e se ne era stufato, aveva bevuto il vino paesano
all'"Elmo d'acciaio", disputato su Krishna con valenti scienziati,
amato E'rica e Maria, era diventato l'amico di Erminia, aveva sparato
alle automobili e dormito con la cinese liscia, aveva incontrato
Goethe e Mozart e fatto vari strappi nella rete del tempo e della
realtà apparente. Aveva anche riperduto le belle figurine degli
scacchi, ma teneva ancora in tasca il suo bravo pugnale. Avanti,
vecchio Harry, vecchio e stanco!
Puah, com'era amara la vita! Sputai in faccia al Harry dello
specchio, gli tirai una pedata e lo ridussi in cocci. Attraversai
lentamente il corridoio sonoro, osservai attentamente le porte che mi
avevano fatto tante belle promesse: non c'era più nessuna scritta.
Lentamente passai davanti alle cento porte del teatro magico. Non ero
stato quel giorno a un ballo in maschera? Erano già passati cent'anni
da allora. Tra poco gli anni non dovevano esistere più. Ma c'era
ancora qualche cosa da fare, Erminia aspettava. Strane nozze dovevano
diventare! Nuotavo in un'onda torbida, tirato da forze torbide,
schiavo, lupo della steppa. Uh, che porcheria!
Mi fermam davanti all'ultima porta dove l'onda torbida mi aveva
trascinato. Oh Rosa, oh giovinezza lontana, oh Goethe e Mozart!
Entrai. Quello che trovai fu un quadro semplice e bello. Per terra
sui tappeti scorsi due individui nudi, la bella Erminia e il bel
Pablo a fianco a fianco profondamente addormentati, sfiniti dal
giuoco amoroso che pare così insaziabile e invece sazia così
rapidamente. Uomini belli, immagini magnifiche, corpi stupendi.
Erminia aveva sotto il seno sinistro un segno rotondo e recente di
sangue rappreso, il segno di un morso dei bei denti lustri di Pablo.
In quel segno cacciai il pugnale quanto era lunga la lama. Il sangue
spicciò sulla pelle bianca di Erminia. Avrei voluto asciugare quel
sangue coi baci, se tutto fosse stato un po' diverso. Non lo feci,
guardai soltanto il sangue uscire e vidi gli occhi di lei aprirsi un
attimo dolorosamente stupefatti. "Di che si meraviglia?" mi domandai.
Poi pensai che dovevo chiuderle gli occhi, ma essi si richiusero da
sé. Era fatta. Lei si volse soltanto su un fianco; dall'ascella al
petto vidi errare un'ombra sottile e delicata che mi suscitò non so
quale ricordo; ma avevo dimenticato. Poi giacque immobile.
La guardai a lungo. Infine mi riscossi con un brivido e feci per
allontanarmi. Ma in quella vidi Pablo stirarsi e aprire gli occhi, lo
vidi curvarsi sulla bella morta e sorridere. "Costui non sarà mai una
persona seria", pensai "tutto lo fa sorridere." Pablo sollevò
delicatamente una cocca del tappeto e coprì Erminia fino al seno di
modo che non si vedeva più la ferita; poi uscì silenziosamente dal
palco. Dove andava? Tutti mi lasciavano solo? Rimasi lì con quella
morta semicoperta che amavo e invidiavo. Sulla fronte pallida le
scendeva un ricciolo da bambina, le labbra rosseggiavano semiaperte
nel viso impallidito, i capelli mandavano un lieve profumo e
lasciavano trasparire l'orecchia piccola e ben modellata.
Il suo desiderio era appagato. Prima ancora che fosse tutta mia
avevo ucciso l'amante. Avevo compiuto un atto inaudito e mi buttai in
ginocchio senza capire che cosa significasse quel gesto, senza sapere
neanche se avevo agito bene o male. Che cosa avrebbe detto il savio
giocatore di scacchi, che cosa ne avrebbe detto Pablo? Non lo sapevo,
non riuscivo a pensare. Sempre più rossa ardeva la bocca dipinta nel
volto che si spegneva. Così era stata tutta la mia vita, come quelle
labbra rigide, così era stato quel poco di felicità e di amore che
avevo goduto: un po' di rosso dipinto sul volto di una morta.
E da quel volto spento, da quelle morte spalle bianche e braccia
candide veniva serpeggiando un brivido freddo una solitudine
invernale, un gelo lentamente crescente che mi faceva irrigidire le
mani e le labbra. Avevo dunque spento il sole? Avevo ucciso il cuore
di tutta la vita? Mi avvolgeva il freddo mortale dell'universo?
Rabbrividendo fissavo quella fronte che si era fatta di marmo,
fissavo il ricciolo immobile, il pallido barlume dell'orecchia. Il
freddo, che ne emanava era mortale ma pur bello: squillava,
ondeggiava meravigliosamente, era una musica! Non avevo già provato
in altri tempi quello stesso brivido che pareva fosse anche di
felicità? Sì, da Mozart, presso gl'immortali.
E mi vennero in mente certi versi che avevo trovato non so dove un
giorno, in altri tempi:
Ma noi per contro c'incontrammo al gelodell'etere dagli astri
folgorato;non i giorni, non l'ore ci fan velo:siam uomo? donna?
vecchio o neonato?...beviamo l'aura fredda ed infinitae siamo affini
del celeste fuoco.
In quella la porta del palco si aprì e vidi entrare, riconoscendolo
soltanto alla seconda occhiata, Mozart senza ciuffo, senza calzoni
corti e scarpine con la fibbia, in abito moderno. Venne a sedersi
accanto a me e stavo quasi per toccarlo e trattenerlo perché non si
macchiasse del sangue che era colato sul pavimento dal petto di
Erminia. Egli sedette e si diede da fare con alcuni apparecchi e
strumenti che erano lì intorno, lavorava con molta attenzione
combinando e avvitando e io osservavo con ammirazione quelle dita
agili e svelte: mi sarebbe piaciuto vederle suonare il pianoforte. Lo
osservavo pensieroso o, meglio, senza pensieri e piuttosto
trasognato, perduto nell'ammirazione di quelle belle mani
intelligenti; scaldato, anche un po' intimorito dalla sua vicinanza.
Veramente non badavo neanche a quello che stava facendo, non capivo
che cosa stesse avvitando e manipolando.
Era un apparecchio radio che si era costruito. Ora inserì
l'altoparlante e disse: "Si sente Monaco, il Concerto grosso in fa
maggiore di Händel".
Infatti con mio indescrivibile stupore e spavento quel diabolico
imbuto di latta si mise a vomitare quel misto di catarro bronchiale e
di gomma masticata che i proprietari di grammofoni e gli abbonati
alla radio si sono messi d'accordo di chiamare musica: e oltre quello
scatarrare e gracchiare si riconosceva veramente, come si riconosce
dietro una crosta di sudiciume un antico quadro prezioso, la nobile
struttura di quella musica divina, l'edificio regale, l'ampio
respiro, il suono pieno e largo degli archi.
"Dio mio", esclamai atterrito "che cosa fa, Mozart? Lei prende sul
serio questa sudiceria, questo insulto a lei e a me? E' proprio
necessario scatenarci addosso questo orribile apparecchio, il trionfo
del nostro tempo, l'ultima arma vittoriosa nella lotta mortale contro
l'arte? Non si può farne a meno, Mozart?"
Oh come rise quell'uomo terribile, d'un riso freddo e spettrale,
silenzioso ma tale da frantumare ogni cosa! Con intima soddisfazione
guardava le mie pene, girava quelle maledette viti, assestava
l'imbuto di latta. Ridendo faceva filtrare nella stanza quella musica
sfigurata, avvelenata, senz'anima, e mi rispose ridendo:
"Non faccia il sentimentale, caro compare. Ha notato, del resto,
quel ritardando? Un'idea, vero? Già, e ora, benedetto uomo
impaziente, cerchi di accogliere il pensiero di quel ritardando... li
sente i bassi? Incedono come dei... E si calmi e assapori nel cuore
irrequieto quella trovata del vecchio Händel! Ascolti un po', caro
omino, ascolti senza ironia e senza pathos, la forma lontana della
musica divina che passa dietro il velo disperatamente idiota di
questo ridicolo apparecchio! Stia attento, c'è sempre qualche cosa da
imparare. Osservi come questo imbuto insensato faccia apparentemente
l'azione più sciocca, più inutile e vietata del mondo e scaraventi
una musica eseguita qua o là, senza discernimento, stupidamente e
svisandola miseramente, in un ambiente estraneo, non adatto a questa
musica... e come tuttavia non possa distruggerne lo spirito, ma debba
limitarsi a farvi trionfare la propria tecnica sperduta e il suo
piatto affarismo! Ascolti bene, lei ne ha bisogno. Apra dunque le
orecchie! Bene. E ora lei non sente soltanto un Händel storpiato
dalla radio, ma pur sempre divino, anche in questa forma ributtante,
lei sente e vede, mio caro, anche una bellissima similitudine della
vita. Quando lei ascolta la radio, ascolta e vede il conflitto
primordiale tra idea e fenomeno, fra tempo e eternità, fra il divino
e l'umano. Proprio come la radio lancia la più bella musica del mondo
per dieci minuti a casaccio negli ambienti più impensati, in salotti
borghesi e soffitte, fra abbonati che chiacchierano, si rimpinzano,
sbadigliano e dormicchiano, come la radio priva questa musica della
sua bellezza sensibile, la sciupa, la graffia, la scatarra e tuttavia
non può sopprimerne lo spirito: esattamente così la vita, la così
detta realtà, manipola le stupende visioni del mondo, fa seguire a
Händel una conferenza sulla tecnica dei bilanci falsi nelle medie
industrie, fa dei suoni affascinanti di un'orchestra una poltiglia
ripugnante, insinua la sua tecnica, il suo affanno, la sua vanità e
miseria fra l'idea e la realtà, fra l'orchestra e l'orecchia. Tutta
la vita è così, caro mio, e bisogna prenderla com'è; e chi non è
asino ci ride. La gente come lei non ha il diritto di criticare la
radio o la vita. Impari prima ad ascoltare! Impari a prendere sul
serio quel che merita di essere preso sul serio, e a ridere del
rimanente! O ha fatto lei qualche cosa di meglio, qualche cosa di più
nobile, di più savio, di più fine? Nossignore, non l'ha fatto. Lei,
signor Harry, ha fatto della sua vita la storia di un'orrida
malattia, della sua intelligenza una disgrazia. E, come vedo, di una
fanciulla così bella e giovane e affascinante non ha saputo fare
altro che cacciarle in corpo un pugnale e rovinarla! Le par giusto?"
"Giusto? No certo!" esclamai disperato. "Dio, tutto è falso, tutto
è così diabolicamente sciocco e cattivo! Sono una bestia, Mozart, una
bestia stolta e cattiva, malata e corrotta. Ha ragione lei. Ma in
quanto a questa ragazza è stata lei a volere così, io non ho fatto
che appagare il suo desiderio."
Mozart sorrise ed ebbe la grande compiacenza di chiudere la radio.
Anche a me che avevo pur creduto nella mia difesa, questa a un
tratto parve sciocca. Quando un giorno Erminia (mi ricordai) aveva
parlato del tempo e dell'eternità, ero stato subito pronto a
considerare i suoi pensieri un riflesso dei miei. Mi era parso logico
però supporre che il pensiero di farsi uccidere non fosse minimamente
influenzato da me. Ma perché allora avevo non solo creduto e
accettato quel pensiero così pauroso, ma persino indovinato e
previsto? Forse perché era un pensiero mio? E perché avevo ucciso
Erminia proprio nel momento in cui la trovavo nuda tra le braccia di
un altro? Sapiente e sarcastica squillava la risata di Mozart.
"Harry" disse "lei è un buffone. E' possibile che questa bella
ragazza non abbia avuto altro da desiderare da lei che una
coltellata? Lo vada a contare a chi vuole! Però ha colpito bene, non
c'è che dire, questa povera figliuola è proprio morta e stramorta. Ma
forse è ora che lei si renda conto delle conseguenze della sua
galanteria verso questa donna. O pensa di sottrarsi alle
conseguenze?"
"Ma no, ma no", gridai "non capisce? Io sottrarmi alle conseguenze?
Non desidero di meglio che espiare, espiare, espiare, mettere la
testa sul ceppo e farmi punire e annientare."
Mozart mi guardò con un'ironia insopportabile.
"Sempre patetico lei! Ma vedrà, Harry, anche lei imparerà il buon
umore. Il buon umore è sempre allegria da impiccati e, se occorre,
lei lo imparerà sulla forca. E' pronto? Bene, allora vada dal
pubblico ministero e accetti la fredda montatura degli uomini di
legge fino al taglio del collo, la mattina presto, nel cortile della
prigione. E' pronto dunque?"
In quella mi balenò davanti un'iscrizione:
Harry giustiziato
e accennai che ero d'accordo. Un cortile nudo tra quattro mura con
finestrelle inferriate, una mannaia preparata con cura, una dozzina
di signori in toga o abito da passeggio; e in mezzo a loro stavo io,
rabbrividendo all'aria fresca del mattino, il cuore stretto
dall'angoscia ma pronto e disposto a subire. A un comando mi avanzai,
a un altro comando m'inginocchiai. L'accusatore si tolse il berretto,
si raschiò in gola e così fecero tutti gli altri. Teneva un foglio
spiegato solennemente e lesse:
"Signori, davanti a voi sta Harry Haller, accusato e trovato
colpevole di malizioso abuso del nostro teatro magico. Haller non
solo ha offeso l'arte scambiando la nostra bella galleria di quadri
con la così detta realtà e pugnalando una fanciulla riflessa con un
pugnale riflesso, ma oltre a ciò ha manifestato l'intenzione di
servirsi, senza umorismo, del nostro teatro come di un meccanismo
suicida. Perciò condanniamo Haller alla pena della vita eterna e lo
priviamo per dodici ore del permesso di entrare nel nostro teatro.
D'altronde non possiamo condonare all'imputato la pena di essere
deriso almeno una volta. Signori, attenti: uno... due... tre..." Al
tre tutti i presenti intonarono, con attacco perfetto, una risata,
una risata in coro, una risata terribile, la risata dell'al di là,
insopportabile per gli uomini.
Quando rinvenni, trovai Mozart seduto accanto a me come prima, il
quale battendomi una spalla disse: "Ha udito la sentenza? Dovrà
dunque abituarsi ad ascoltare ancora la radio della vita. Le farà
bene. Lei è d'intelligenza molto corta, caro stupidello, ma pian
piano avrà forse capito che cosa si vuole da lei. Lei deve imparare a
ridere, questo è richiesto. Deve comprendere l'umorismo della vita,
l'allegria degli impiccati. Ma naturalmente lei è pronto a tutto meno
che a quello che le si chiede! Lei è disposto a pugnalare fanciulle,
a farsi giustiziare solennemente e sarebbe certo anche disposto a far
penitenza e a flagellarsi per cent'anni. Non è così?".
"Sì, sì, sono dispostissimo" esclamai nella mia disperazione.
"Ma si capisce! Lei, generoso, è pronto a ogni manifestazione
stupida e seria, a tutto ciò che è sentimentale e privo di spirito.
Io invece non sono di questo parere; di tutta la sua penitenza
romantica non darei un soldo. Lei vuol essere giustiziato, vuol farsi
tagliar la testa, vandalo che non è altro. Per cotesto ideale
imbecille sarebbe capace di commettere dieci altri omicidi. Lei vuol
morire, vigliacco, non vuol vivere. Ma perdio, dovrà proprio vivere!
Le starebbe bene se la condannassero alla pena più grave."
"E qual pena sarebbe?"
"Potremmo, per esempio, risuscitare questa fanciulla e fargliela
sposare."
"No, a questo non sarei disposto. Sarebbe una disgrazia."
"Come non fosse sufficiente disgrazia quello che ha combinato! Ma è
ora di finirla di fare il sentimentale e l'omicida. Metta giudizio
finalmente! Lei deve vivere e imparare a ridere. Deve imparare ad
ascoltare questa maledetta musica della radio della vita, deve
rispettare lo spirito che vi si cela e ridere di questo strimpellio.
Altro non è richiesto."
Con voce sommessa, stringendo i denti domandai: "E se mi rifiuto?
Se, signor Mozart, le negassi il diritto di disporre del lupo della
steppa e d'intervenire nel suo destino?".
"Allora" rispose Mozart, tranquillo "ti proporrei di fumare
un'altra delle mie buone sigarette." E così dicendo fece scaturire
dal taschino una sigaretta e mentre me la offriva, non era più
Mozart, ma uno che mi guardava con caldi e scuri occhi esotici, il
mio amico Pablo, simile come un gemello all'uomo che mi aveva
insegnato a giocare agli scacchi con le figurine.
"Pablo!" esclamai riscotendomi. "Pablo, dove siamo?"
Pablo mi diede la sigaretta e me la accese.
"Siamo" disse sorridendo "nel mio teatro magico e se tu volessi
imparare il tango o diventar generale o conversare con Alessandro
Magno, potrai farlo senz'altro la prossima volta. Ma devo dire,
Harry, che un pochino mi hai deluso. Hai dimenticato te stesso, hai
sciupato l'umorismo del mio teatrino e hai combinato una cattiva
azione: hai usato il pugnale e insudiciato con macchie di realtà il
nostro bel mondo immaginifico. Hai fatto male. Speriamo almeno che tu
abbia agito per gelosia, quando hai trovato Erminia e me. Purtroppo
non hai saputo comportarti a dovere di fronte a questa visione:
credevo che tu avessi imparato meglio il giuoco. Ma si può sempre
rimediare."
Prese Erminia che tra le sue dita impicciolì riducendosi a una
figurina da giuoco e se la infilò in quel taschino dal quale aveva
fatto uscire la sigaretta.
Il fumo greve e dolciastro aveva un aroma piacevole e io mi sentii
svuotato e pronto a dormire un anno intero.
Comprendevo tutto, capivo Pablo, capivo Mozart, udivo dietro a me
la sua risata paurosa, sapevo di avere in tasca le centomila figure
del giuoco della vita, ne intuivo commosso il significato, avevo
voglia di ricominciare il giuoco, di assaporarne ancora una volta i
tormenti, di rabbrividire ancora una volta della sua stoltezza, di
ripercorrere molte e molte volte l'inferno del mio cuore.
Un giorno avrei giocato meglio il giuoco delle figurine. Un giorno
avrei imparato a ridere. Pablo mi aspettava. Mozart mi aspettava.
Nota dell'Autore
Le opere letterarie possono essere intese e fraintese in vari modi.
Per lo più l'autore di un'opera non è competente a stabilire in qual
punto termina la comprensione dei lettori e dove incomincia il
malinteso. Qualche autore ha già trovato lettori per i quali la sua
opera era più limpida che per lui stesso. D'altro canto in certi casi
anche i malintesi possono essere fecondi.
Comunque sia, il "Lupo della steppa" sarebbe, tra i miei libri,
quello che più spesso e più gravemente di ogni altro è stato
frainteso, e varie volte furono proprio i lettori consenzienti, anzi
gli entusiasti, non già i negatori a esprimersi intorno al libro in
modo da lasciarmi perplesso. In parte, ma soltanto in parte, la
frequenza di questi casi dipende dal fatto che il libro, scritto da
un cinquantenne e impostato appunto sui problemi di quell'età, è
capitato in mano a lettori giovanissimi.
Anche a parecchi lettori della mia età il libro ha fatto, sì,
impressione, ma è strano che essi abbiano visto soltanto la metà di
ciò che contiene. Questi lettori, mi pare, hanno riconosciuto se
stessi nel lupo della steppa, si sono identificati con lui, hanno
sofferto e sognato i suoi dolori e i suoi sogni, e non si sono
accorti che il libro sa anche altre cose e parla anche di altro che
non siano Harry Haller e le sue difficoltà, che al di sopra del lupo,
della steppa e della sua vita problematica si eleva un secondo
universo, più alto, imperituro, e che il "trattato" e tutti i passi
del libro nei quali si discorre dello spirito, dell'arte e degli
"immortali" contrappongono al mondo doloroso della steppa un mondo di
fede positivo, più sereno, superiore alle persone e al tempo; che il
libro offre una storia di pene e sofferenze, ma non è il libro di un
disperato, bensì di un credente.
Io non posso e non voglio, beninteso, prescrivere ai lettori come
abbiano da intendere il mio racconto. Ne faccia ognuno ciò che
risponde e serve al suo spirito! Mi piacerebbe però se molti di loro
notassero che la storia del lupo della steppa rappresenta, sì, una
malattia e una crisi, ma non verso
la morte, non un tramonto, bensì il contrario: una guarigione.
§
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