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domenica 29 agosto 2010

Sri Sathya Sai Baba: COSÌ BHAGAVAN PARLÒ DELLE DONNE - * * *IL TOCCO DEL SIGNORE * * *


INFINITAMENTE_PER L'ETERNITA'


SRI SATHYA SAI BABA parla alle Devote del Coro Italiano

COSÌ BHAGAVAN PARLÒ DELLE DONNE


Da Mother Sai Settembre - Ottobre 2008

Le donne simboleggiano la devozione e gli uomini la saggezza.

Solo le donne, che sono il simbolo della devozione, hanno accesso all’Antahpur (le camere interne del palazzo) di Dio. Che cos’è dunque l’Antahpur? Non è altro che Antaratma, lo Spirito che dimora interiormente: E’ solo la devozione-saggezza a guidare all’Antahpur.

Il primo titolo attribuito alla donna è “Grhalaksmi” (la Dea della prosperità della casa). Da una donna ci si aspetta che conferisca ogni prosperità, onore e buon nome alla casa e alla famiglia. Essa viene definita Grhalaksmi, “Dea della casa” e non “Dea dell’ufficio”.

Un altro titolo attribuito alla donna è “ardhangi” (la metà migliore). Questo significa che essa è la metà migliore del marito e non una sua collega di lavoro.

Il terzo titolo è “illalu” (la padrona di casa). E’ la padrona della casa e non dell’ufficio.

“Dharmapatni” (la compagna del marito nel viaggio verso Dio) e pertanto “la sposa leale del Dharma”. E’ il quarto titolo conferito alla donna sposata. Questo significa che la casa è la dimora per eccellenza della Rettitudine. La casa è il luogo natale di ogni “Dharma” ( le regole di Retta Condotta), che si è radicato attraverso la pratica fin dai tempi antichi.

Le donne dovrebbero comprendere che, indipendentemente dall’educazione o posizione, loro obbligo precipuo è proteggere la casa.

Fin dal momento della nascita, la madre è, per ognuno, il precettore. Se tale insegnante lascia la casa per insegnare ad altri bambini, chi insegnerà ai suoi?

Per le donne indiane, il primo dovere è organizzare la casa e amministrarla su basi ideali.


Da Mother Sai Novembre - Dicembre 2008

Sin dai tempi antichi, il nome e la fama dell’India hanno poggiato sulla grandezza delle donne
(Bhagavan ha intonato un canto che elogia la grandezza di Savitri, la quale indusse il Dio
della morte a restituire la vita al marito; la forza di Candramati, che sostenne la determinazione del marito a sacrificare qualsiasi cosa per la verità; la castità di Sita, che attraversò un cerchio di fuoco, e Dayamanti, che condivise con forza d’animo tutte le vicissitudini del marito. L’India era famosa per queste donne eroiche, la cui castità e coraggio sono un esempio per tutta l’umanità).
E’ davvero un privilegio nascere donna in un Paese dove sono vissute donne tante eroiche.

Più profumato del dolce profumo dei fiori di gelsomino e di campak, più morbido del formaggio e del burro, più bello degli occhi del pavone, più piacevole del chiaro di luna è l’amore della madre.

Il grembo materno è il luogo natale di tutti, tanto della persona comune quanto dell’ Avatar Stesso. Adorate, pertanto, la madre come Dio. Tenetene alto il nome e rispettatela.

La cultura dell’India ha dato massima importanza alla madre. Ci si riferisce al proprio Paese come “madrepatria”, non padrepatria. Il Signore Rama dichiarò: “La madre e la madrepatria sono più grandi del paradiso stesso”.
La festa della donna si celebra solo perché possiate capire il valore dell’amore materno e la sua premura per voi. Tra madre, padre, maestro e Dio, alla madre viene riservata la massima priorità.

Lava e Kusa divennero bambini eroici per merito della loro grande madre, Sita Devi. Sono i nobili pensieri della madre a rendere grandi i bambini.

Molti grandi uomini si sono prodigati in nobili attività dopo aver ottenuto le benedizioni materne. Per esempio, prima di andare in battaglia per combattere contro il demone Tarakasura, Sanatkumara ottenne la benedizione della madre, Gauri. Similmente, Parasurama ricevette le benedizioni della madre prima di andare a combattere i propri nemici e anche Vinata benedì suo figlio Garuda. Allo stesso modo, ogni madre benedice suo figlio dicendo: “Sri rama raksa” (Possa il Signore Rama proteggerti sempre).


Da Mother Sai Gennaio - Febbraio 2009

Sankaracarya insegnò che i figli, che non hanno ottenuto le benedizioni materne, nella vita hanno dovuto affrontare varie traversie. Coloro che ottengono le benedizioni della madre hanno spesso raggiunto la liberazione dalla rinascita.
E’ dovere precipuo dei bambini assicurarsi le benedizioni della madre per il loro benessere terreno.
Le donne sono le artefici della casa, della nazione e del mondo. Voi siete le madri che formano le generazioni. Dovete pertanto custodire gelosamente nel vostro cuore l’impulso spirituale verso la Luce e l’Amore, la Saggezza e la Beatitudine.

I Veda dichiarano: “Matr devo bhava”, “Riverisci tua madre come Dio”. Ciò vale anche per il Paese che vi ha dato i natali. Dovete pertanto rispettare la nazione e seguirne la cultura. Dovete altresì riverire vostra madre, che vi ha cresciuto con amore, dedizione e sacrificio. Per quanto un uomo possa essere famoso, se non rispetta la propria madre non merita rispetto. Una persona, il cui cuore è così duro da non accogliere le suppliche della madre, non merita altro che il ridicolo.

La parola “stri” (donna) indica che ella è una combinazione dei tre elementi, i tre aspetti della natura umana: satvico (serenità), rajasico (attività) e tamasico (inattività-inerzia), poiché comprende i tre suoni sa, ra e ta. Come conseguenza della componente satvica, la donna possiede forza d’animo, equanimità, rettitudine, bontà e devozione. La componente rajasica l’ha dotata di coraggio, audacia e tenacia. La componente tamasica viene espressa in modestia e prudenza.

La donna ottiene reputazione da quello che fa; un uomo ottiene reputazione da quello che smette di fare. Sulla base di quello che fanno, le donne acquisiscono nome e fama.

Il grembo materno è la prima scuola per ogni uomo, è il suo primo tempio. La madre è, per ogni uomo, la ricchezza principale. E’ dovere di ogni persona riconoscere tale verità circa la propria madre.

Verità, sacrificio e pace sono qualità predominanti nella donna. Le donne hanno il compito di occuparsi della purezza e del benessere della comunità.



Da Mother Sai Marzo - Aprile 2009

La madrepatria non è un luogo sulla carta geografica o un’estensione di terra o un elenco di nomi: è la madre che nutre il corpo così come la mente, che canta ninnananne e offre immagini per gli occhi e per lo spirito, insegna l’arte di camminare, di dirigersi verso l’obiettivo della vita, ovvero l’auto-realizzazione. Dà a ogni bambino la conoscenza delle sue potenzialità e dei suoi limiti. Rappresenta pertanto sia Laksmi sia Sarasvati.

La maternità è il dono di Dio più prezioso. Le madri sono artefici della buona o della cattiva sorte della nazione, poiché forgiano le redini della sua anima. Esse s’irrobustiscono attraverso due lezioni che devono insegnare: il timore del peccato e la propensione per la virtù.

Se volete sapere quanto è avanzata una nazione, studiate le madri. Sono libere dall’ansietà, sono piene d’amore verso tutti, sono allenate alla forza d’animo e alla virtù. Se desiderate assorbire la grandezza di una cultura, osservate le madri mentre dondolano le culle, nutrono, allevano, insegnano e coccolano i bambini. Come è la madre, così è il progresso della nazione; come è la madre, così è la dolcezza di una cultura.

Le donne hanno dimostrato nei secoli della storia indiana di avere il coraggio, la visione e l’intelligenza necessarie ad investigare nelle profondità della scienza e della disciplina spirituale. Maitra, Mira, Gargi, Sulabha, Cudala, Mahadevi Andal sono stabili esempi di grandi eroine dell’avventura spirituale nel regno della realizzazione di Dio.

Mentre studiate economia domestica, dovreste allenarvi nell’arte di rendere la casa felice e piena d’armonia e salute. Dovete altresì imparare come evitare il malanimo, l’avidità, l’ira, l’inquietudine, l’orgoglio e altri ostacoli che si frappongono sul sentiero della pace interiore. Non basta che il bilancio familiare sia in pareggio: la moglie (e madre) deve imparare l’arte di avere una visione equilibrata della vita, che non sia turbata da successi e insuccessi, guadagni o perdite, vittorie e sconfitte.

Il centro di ogni casa deve essere la stanza dedicata alla preghiera; la fragranza dei fiori e dell’incenso, che da essa emana, deve pervadere la casa e purificarla. La madre deve dare l’esempio dando rilievo alla stanza della preghiera come il cuore della casa. Essa deve far valere, nei confronti dei bambini, la disciplina per quanto riguarda la pulizia personale, l’umiltà e l’ospitalità, le buone maniere e azioni di servizio. Deve convincere i bambini, con l’esempio e con le regole, a rispettare gli anziani e ad utilizzare un po’ di tempo sia la mattina sia la sera per la preghiera e per una silente meditazione.

La madre stessa deve farsi carico dell’educazione dei figli durante i loro primi anni di vita. Se il bambino viene affidato a servitori e bambinaie, imparerà le loro abitudini di vita e di parola e piangerà solo quando esse moriranno e non quando morirà la madre.

Le donne rivestono un grande ruolo nella rigenerazione morale delle persone. Questa è la ragione della rinnovata puntualizzazione circa l’importanza del mahila satsanga (stare in compagnia di donne buone, pie). Le donne possono raccontare ai bambini le storie epiche di sacrificio ed eroismo, di santi che cercarono Dio e Lo videro ovunque, nella verità, nella bellezza e nella bontà di grandi uomini e donne che indagarono nei segreti dell’universo e nella legge di tutte le leggi che governano, in egual misura, il microcosmo e il macrocosmo.



Da Mother Sai Maggio-Giugno 2009

Al fine di insegnare le sottigliezze dei testi sacri e incoraggiare le donne a svolgere il loro ruolo in società, il 19 di ogni mese è fissato come giorno della donna o “mahila day”.

Ora ci sono taluni che negano alle donne il diritto di ripetere il Pranava (l’Om). Questo è puro e semplice pregiudizio. Esso non è enunciato nelle Sastra. Com’è possibile proibire alle donne il Pranava, dato che esse hanno diritto al Brama Vidya, la Conoscenza del Brahman, ovvero la realizzazione spirituale (cosa che Yajnavalkya insegnò a sua moglie Maitrey), come testimonia la grande erudita Gargi, che sosteneva dibattiti coi pandit vedici alla corte di Janaka?

La gente generalmente definisce le donne il “sesso debole”. Gli indiani, almeno ora, riconoscono che le donne non possono essere ritenute deboli. La donna, che ha la responsabilità della casa, svolge il ruolo principale nel procurare buon nome e buona reputazione alla casa. Essa svolge il ruolo più importante, non solo rispetto alla singola casa, ma anche per il buon nome della nazione e del mondo.

La donna è sempre pronta a sacrificare i propri agi e anche la vita pur di sostenere l’onore della casa e della famiglia.

La donna possiede sette buone qualità: Satya (Verità), Prema (Amore), Dharma (Rettitudine), Shanti (Pace), Sahana (Tolleranza), Ananda (Beatitudine), Svanubhuti (Spiritualità).

La donna è l’incarnazione del sacrificio. Sebbene anche l’uomo possa sacrificarsi, in lui ci sarà un pizzico di egoismo, mentre il sacrificio della donna è assolutamente disinteressato.

Se l’India non viene meno alle aspettative nonostante abbia subìto molte invasioni straniere e crisi, ciò è dovuto, non in modesta misura, alle donne.

Le donne risplendono come soldati con l’arma di Satya (la Verità) e Dharma (la Rettitudine). Normalmente non diranno bugie, ma potranno esservi occasioni in cui alcune di esse inconsapevolmente lo faranno, ma, in linea di massima, come categoria, sostengono la Verità e la Retta Condotta.

A causa delle cattive influenze della moderna educazione, la gente considera le donne come giocattoli e tende a trattarle come bambole. Le donne hanno qualità molte propizie e nobili, ma gli uomini le trattano come cuoche confinate fra le quattro mura domestiche, considerandole “Illalu”, ovvero adatte solo ad essere “uccellini domestici”. Quello che essi dimenticano è che la donna in casa, non solo organizza le questioni familiari, ma si prende anche cura della salute e del benessere di tutti i membri della famiglia.

Nel mondo moderno è necessario che la donna condivida il peso del mantenimento della famiglia con il marito e quindi anche la donna dovrebbe studiare e passare all’atto pratico, condividendo il carico di far quadrare il bilancio familiare. Avrebbe il sapore dell’egoismo da parte dell’uomo impedire alla donna di esercitare il lavoro per il quale ella avesse ottenuto le qualifiche necessarie.

La donna può controllare il mondo intero da se stessa, in virtù dei suoi intimi requisiti di amore e spirito di sacrificio. La collera è estranea alla donna e predomina maggiormente nell’uomo.

Le donne partecipano con entusiasmo in gran numero ad attività come aiutare le donne di classi sociali più disagiate ad apprendere mestieri quali attività di sartoria ecc., in modo che possano guadagnare un po’ di denaro per la loro famiglia e utilizzare proficuamente il loro tempo. Se tali attività saranno praticate in tutta la nazione, il Paese progredirà.

Le donne sono eredi dell’antica cultura. Cultura significa “affinamento”. Le donne sono tedofore dell’affinamento e si adoperano di buon grado all’emancipazione della nazione.

Se solo alle donne fosse tributato il dovuto riconoscimento ed incoraggiamento, esse brillerebbero in tutti i campi e servirebbero la casa, la nazione e il mondo intero contribuendo magnificamente al benessere di tutta l’umanità.

Le donne lavorano con più onestà ed efficienza degli uomini. Dio è descritto come “Raso vai sah”, la dolce Ambrosia. Se anche l’uomo seguisse l’esempio delle donne con qualità sacre e senso di sacrificio, il mondo migliorerebbe decisamente.

In nessun testo sacro si dichiara che la donna dovrebbe solo cucinare e non lavorare come l’uomo.
Le donne hanno una cultura del lavoro migliore degli uomini. Di fatto, anche l’uomo deve imparare a cucinare e a gestire la casa per aiutare la moglie in momenti di necessità.


Da Mother Sai Luglio-Agosto 2009

Il Dharma può essere portato ad occupare la posizione che gli compete nella società ed essere restituito alla sua originaria grandezza solo dalle donne.

Savitri sconfisse il Dio della morte (Yama) e riuscì a riportare in vita il marito. Potete trovare esempi, nelle Scritture o nella storia, in cui un marito fosse pronto a sacrificarsi per la moglie?

La divinità di Rama fiorì a seguito delle amorevoli attenzioni di Kausalya (la madre); Lava e Kusa poterono diventare potenti e famosi grazie alla nobile e virtuosa madre Sita; l’amore e le attenzioni di Jijabai resero Sivaji un grande guerriero; allevato con l’amore di sua madre Putlibai, Gandhi divenne Mahatma. Esiste qualcuno, a questo mondo, che si sappia prendere cura di voi come vostra madre? “Amma” (mamma) è la prima parola che l’uomo impara nella vita. Si dà il caso che la prima lettera della parola amma, sia la prima lettera dell’alfabeto.

Tra i genitori, il primo posto è assegnato alla madre, poi viene il padre. Non solo nella vita quotidiana, ma anche in campo spirituale alle madri e alle donne è riservata la più alta considerazione. Per esempio, quando si citano i nomi di coppie divine come Sita e Rama, Radha e Krisna, Laksmi e Narayana ecc., i nomi delle Dee vengono per primi. Qual è l’intimo significato di ciò? La madre rappresenta la Natura, che è l’aspetto manifesto della Divinità.

Alla madre è data la massima importanza nella vita umana. Potrebbe esserci un cattivo figlio, ma non una cattiva madre. E’ a causa dei nobili sentimenti delle madri che i figli diventano virtuosi, intelligenti, ottengono posizioni elevate e si guadagnano un buon nome e buona reputazione.

E’ la madre che vi insegna sacri principi come l’amore, la compassione, la pazienza, la tolleranza e il sacrificio. La madre indica il padre, il padre vi porta all’insegnante e l’insegnante vi indirizza verso Dio. Questa è la ragione per cui tra madre, padre, insegnante e Dio, la madre viene per prima.

Le donne, tranne poche eccezioni, non si allontanano mai dalla strada della Verità e della Rettitudine, anche in caso di avversità. Quando il mendicante sta davanti alla porta di casa allungando la mano per avere l’elemosina, può succedere che il marito lo cacci via, mentre la moglie si fa sempre avanti per dargli qualcosa. Potrebbero esserci delle discussioni in merito alla proprietà tra padre e figlio, ma la madre cercherà sempre di calmare il figlio con buoni consigli. La madre pregherà sempre per il benessere del figlio, ovunque egli sia.

Alcune donne potrebbero pensare che avrebbero goduto di maggiore libertà se fossero nate uomini. Questo è un concetto sbagliato. Dio fatto, le donne sono molto più potenti degli uomini con tutti i sentimenti sacri che hanno nel cuore. Rispettate le donne e sarete rispettati. Rispettate vostra madre e obbedite ai suoi comandi. La madre protegge i suoi figli in molti modi. Anche dopo la morte, essa ritorna e vi aiuta in varie maniere. Non mancate mai di rispetto a vostra madre e non deludetela mai. Non urtate i suoi sentimenti. Cercate di soddisfarla sotto ogni punta di vista.


Da Mother Sai Settembre-Ottobre 2009

L’aspetto femminile di questi nomi, Satyavati, Angavati, Anyavati e Nidanavati, è attribuito ai Veda. I nomi sono differenti, ma la Divinità è una. Per questo non dovremmo mai considerare il principio femminile come qualcosa di insignificante.

Per quanto il marito possa essere spregevole e malvagio, la moglie deve, attraverso l’amore, convincerlo e correggerlo e aiutarlo ad ottenere le benedizioni del Signore.

La cultura indiana mette in risalto l’importanza della madre, del padre, del maestro, di Dio. In quest’ordine, la madre ha il primo posto. Perché le si assegna il primo posto? E’ la madre a portare in grembo il figlio per nove mesi, a sopportare ogni problema e dolore, a sacrificare tutto per il bambino e ad allevarlo con amore.

Il Principio femminile è definito illusione che il Signore ha imposto a Se Stesso, l’Energia della quale si è dotato per Sua propria volontà. Questa è la ragione per cui la donna viene considerata l’incarnazione della Suprema Sakti (l’Energia primaria). Ella è la compagna fedele dell’uomo, la sua fortuna; dato che rappresenta la forma concreta della Volontà di Dio, tutto in lei è mistero, meraviglia, prodigio e manifestazione del principio protettivo. Ella è la regina della casa, il sostegno dell’uomo, la luce della casa. Le donne non sono in alcun modo inferiori all’uomo, dato che sono le depositarie dell’Energia divina.

Non rientra nel Mio modo di vedere che le donne non debbano ricevere un’istruzione. E’ giusto che la ricevano. Possono anche avere un lavoro, ma, comunque, non devono venir meno ai doveri e alla grandezza che attengono all’essere donne.

L’uomo non ha lo stesso spirito di sacrificio della donna. Se insorgono dei problemi, l’uomo si fa avanti con iniziale entusiasmo, ma è sola la donna a combattere con ostinazione fino a raggiungere il successo.

Probabilmente conoscete la storia di Savitri, che con la forza di carattere, superò molti ostacoli per riportare in vita il suo defunto marito. Anche in quest’era di Kali, è la preghiera delle mogli a proteggere i mariti nei momenti di pericolo. Molte donne, nel passato, celebravano il Varalaksmi Vrata con devozione e sincerità, ricevendo in tal modo la grazia di Varalaksmi.

Sfortunatamente, al giorno d’oggi, gli uomini guardano alle donne con disprezzo e le trattano solo come serve. Più rispetterete le donne, più sarete rispettati. Dovreste fare attenzione affinché le donne non versino lacrime, altrimenti la famiglia andrà incontro a delle sofferenze. Una spina può essere estratta dal piede, ma una parola sgradevole che ha ferito il cuore non potrà essere rimossa. Pertanto, non usate mai parole aspre. Parlate gentilmente e dolcemente. Il marito ha il diritto di far notare gli errori della moglie, ma non ha il diritto di usare parole sgradevoli e ferire i suoi sentimenti. Non sempre è possibile fare cortesie, ma si può sempre parlare cortesemente.

Isvara rivelò il sacro Varalaksmi Vrata a Parvati, in modo che tutte le donne potessero celebrare questo rito e ricavarne benefici. Quando le donne compiono questo rituale, ottengono la benedizione di una ubertosa e prospera lunga vita come sumangali (donne sposate il cui marito è ancora in vita) con i propri figli e nipoti. Varalaksmi protegge sette generazioni dei vostri antenati e sette generazioni di discendenti. Donne nobili come Savitri e Anasuya, dopo la pratica di questo rituale, sperimentarono pace e prosperità. Il fine del rituale è di farvi espiare i vostri peccati, sviluppare sacralità e guidarvi infine alla Divinità. Varalaksmi è decantata come “Loka Mata”.


Da Mother Sai Novembre-Dicembre 2009

L’uomo non dovrebbe scoraggiare la donna dal praticare sacri rituali come il Varalaksmi Vrata. Egli dovrebbe darle tutto il sostegno necessario. Tale rituale è benefico non solo per le donne, ma anche per gli uomini. L’uomo non dovrebbe comportarsi in modo arrogante verso le donne pensando di essere più forte. A dir la verità, le donne sono più forti degli uomini. La Bhagavad Gita afferma che l’uomo ha solo tre poteri, mentre la donna ne possiede cinque. La donna è capace di sacrificare anche la propria vita per amore del marito. Savitri fu pronta ad offrire la vita per amore del marito, mentre non si trova tale spirito di sacrificio nell’uomo. Rispetto, dignità, sacrificio, capacità di accontentarsi e prosperità: tutte e cinque queste virtù sono presenti nella donna.

Poiché le donne sono incarnazioni di Laksmi(la Dea della ricchezza), il mondo otterrà prosperità solo quando esse saranno rispettate.

Voi tutte sapete che molti Paesi soffrirono distruzioni durante le guerre mondiali. Se l’India ha potuto rimanere intatta, è solo per merito della presenza di donne virtuose. L’India deve la sua grandezza e la sua magnificenza interamente alle sue donne. Rispettate quindi le donne e fatele felici.

Gli uomini che occupano una posizione dovrebbero assolvere i loro doveri in proporzione al salario ricevuto. Le donne sono, a tal riguardo, un esempio da proporre. C’è una fabbrica di telefoni a Bangalore dove vengono assunte solo donne. Quando al presidente fu chiesto perché fossero state assunte solo donne, egli rispose che il loro rendimento produttivo era di gran lunga maggiore di quello degli uomini. In confronto agli uomini, le donne nel lavoro sono tenaci e vi si dedicano con maggiore sollecitudine. Vi faccio un altro esempio. Vi sarete accorti che oggi, alla guida delle auto, ci sono sia uomini sia donne, ma quando sono gli uomini al volante si verifica un maggior numero di incidenti. Ciò è dovuto alla mancanza di concentrazione degli uomini.

Il movimento Bal Vikas si è fatto strada grazie all’attiva partecipazione delle donne. Gli uomini dovrebbero raccogliere il segnale delle donne e assumersi un ruolo attivo nei Bal Vikas. Alcuni si giustificano esonerandosi dai corsi Bal Vikas a motivo del loro lavoro in ufficio o di altre responsabilità che hanno. Però trovano il tempo per guardare la televisione, giocare a carte, leggere i giornali e frequentare i circoli. Non potrebbero utilizzare quel tempo dedicandolo ai bambini, come fanno le donne? Il giorno in cui gli uomini coltiveranno le qualità della sincerità e della devozione, connaturate alle donne, la nazione godrà di prosperità.
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IL TOCCO DEL SIGNORE

Bhagawan Sri Sathya Sai Baba

La storia della costruzione del Mandir a Prasanthi Nilayam è una catena di miracoli realizzati dalla grazia di Bhagawab . Il più straordinario è stato il trasporto di una enorme trave per la sala centrale dalla stazione di Penukonda m distante 16 miglia. Travi di 40 piedi di lunghezza erano giunte Trichinopoly (attualmente Tiruchirapalli) a Penukonda per mezzo del treno. La strada da Penukonda a Bukkapattanam era una strada confine del distretto con un fiume sabbioso al settimo miglio e che attraversava alcuni villaggi con case molto delicate(!) fiancheggianti la stretta strada su entrambi i lati con alcune curve molto angolate. C’era un trato di 3 miglia , da Bukkapatanam a Puttaparthi con alcune fogne ridotte in pessimo stato ed un sentiero di poso sollevato utilizzante la sabbia del fiume Chitravathi .
Then there was the task of hoisting the heavy girders on the twenty-foot high walls. Therefore, the engineers gave up all hope of transporting the girders from Penukonda to Puttaparthi and placed before Baba some alternative proposals for roofing the prayer hall. But Baba did not relent.

One fine morning, the Road Transport Officer of Anantapur district, who was a devotee of Baba, woke up to find a surprise in front of his house. It was a huge crane from the Tungabhadra Dam site that had stopped there and refused to move forward. It had struck work! The driver was grappling with the engine in vain. He could not make it move. He sought the help of the Road Transport Officer who

domenica 8 agosto 2010

Erasmo da Rotterdam (Erasmus Roterodamus) - * * * E L O G I O D E L L A F O L L I A * * * - Edizione Integrale


§>>>>>> Erasmus Roterodamus <<<<<<§
-(Erasmo da Rotterdam)
Elogio della Follia

* * * ELOGIO DELLA FOLLIA * * *
di Erasmo da Rotterdam

da Erasmo da Rotterdam al suo Tommaso Moro
Alcuni giorni fa, tornando dall'Italia in Inghilterra, per non sprecare in chiacchiere banali il tempo
che dovevo passare a cavallo, preferii riflettere un poco sui nostri studi comuni e godere del ricordo
degli amici tanto dotti e cari, che avevo lasciato qui. Fra i primi che mi sono tornati alla mente c'eri
tu, Moro carissimo. Anche da lontano il tuo ricordo aveva il medesimo fascino che esercitava, nella
consueta intimità, la tua presenza che è stata, te lo giuro, la cosa più bella della mia vita.
Visto, dunque, che ritenevo di dover fare ad ogni costo qualcosa, e che il momento non sembrava
adatto a una meditazione seria, mi venne in mente di tessere un elogio scherzoso della Follia.
"Ma quale capriccio di Pallade - ti chiederai - ti ha ispirato un'idea del genere?" In primo luogo, il
tuo nome di famiglia, tanto vicino al termine morìa, quanto tu sei lontano dalla follia. E ne sei lontano
a parere di tutti. Immaginavo inoltre che la mia trovata scherzosa sarebbe piaciuta soprattutto a
te, che di solito ti diletti in questo genere scherzi, non privi, mi sembra, di dottrina e di sale, perchè
nella vita di tutti i giorni fai in qualche modo la parte di Democrito. Sebbene, infatti, per singolare
acume d'ingegno tu sia tanto lontano dal volgo, con la tua incredibile benevolenza e cordialità puoi
trattare familiarmente con uomini d'ogni genere, traendone anche godimento.
Quindi, non solo accoglierai di buon grado questo mio modesto esercizio retorico, per ricordo del
tuo amico, ma anche lo prenderai sotto la tua protezione; dedicato a te, non mi appartiene più: è tuo.
E' probabile, infatti, che non mancheranno voci rissose di calunniatori ad accusare i miei scherzi,
ora di una futilità sconveniente per un teologo, ora di un tono troppo pungente per la mansuetudine
cristiana; e grideranno che prendo a modello la commedia antica e Luciano, mordendo tutto senza
lasciare scampo. Vorrei però che quanti si sentono offesi dalla scherzosa levità del mio tema, si rendessero
conto che non sono l'inventore del genere, e che già nel passato molti grandi autori hanno
fatto lo stesso. Tanti secoli fa, Omero cantò per scherzo "la guerra dei topi con le rane", Virgilio la
zanzara e la focaccia, Ovidio la noce. Policrate incorrendo nelle critiche di Ippocrate fece l'elogio di
Busiride, Glaucone quello dell'ingiustizia, Favorino di Tersite, della febbre quartana, Sinesio della
calvizie, Luciano della mosca e dell'arte del parassita. Sono scherzi l'apoteosi di Claudio scritta da
Seneca, il dialogo fra Grillo e Ulisse di Plutarco, l'asino di Luciano e di Apuleio, e il testamento - di
cui ignoro l'autore - del porcello Grunnio Corocotta menzionato anche da san Girolamo. Lasciamo
perciò che certa gente, se crede, vada fantasticando che, per svago, a volte, ho giocato a scacchi, o,
se preferisce, che sono andato a cavallo di un lungo bastone. Certo, è una bella ingiustizia concedere
a ogni genere di vita i suoi svaghi, e non consentirne proprio nessuno ai letterari, soprattutto poi
quando gli scherzi portano a cose serie, e gli argomenti giocosi sono trattati in modo che un lettore
non del tutto privo di senno può trarne maggior profitto che non da tante austere e pompose trattazioni.
Come quando con mucchi di parole si tessono le lodi della retorica o della filosofia, o si fa l'elogio
di un principe, o si esorta a fare la guerra ai Turchi, mentre qualcuno predice il futuro, o va
formulando questioncelle di lana caprina. In realtà, come niente è più frivolo che trattare in modo
frivolo cose serie, così niente è più gradevole che trattare argomenti leggeri in modo da dare l'impressione
di non avere affatto scherzato. Di me giudicheranno gli altri; eppure se la presunzione non
mi accieca completamente, ho fatto sì l'elogio della Follia, ma non certo da folle. Quanto poi all'accusa
di spirito mordace, rispondo che si è sempre concessa agli scrittori la libertà d'esercitare impunemente
la satira sul comune comportamento degli uomini, purché non diventasse attacco rabbioso.
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Per questo mi meraviglia tanto di più la delicatezza delle orecchie d'oggi, che riescono a sopportare
ormai solo titoli solenni. In taluni, anzi, trovi una religione così distorta che passano sopra alle più
gravi offese a Cristo prima che alla minima battuta ironica sul conto di un pontefice o di un principe,
soprattutto poi se entrano in gioco i loro privati interessi. D'altra parte, uno che critica il modo di
vivere degli uomini così da evitare del tutto ogni accusa personale, si presenta come uno che morde,
o non, piuttosto, come chi ammaestra ed educa? E, di grazia, non investo anche me stesso con tanti
appellativi poco lusinghieri? Aggiungi che, chi non risparmia le sue critiche a nessun genere di uomini,
dimostra di non avercela con nessun uomo, ma di detestare tutti i vizi. Se, dunque, ci sarà
qualcuno che si lamenterà d'essere offeso, sarà segno di cattiva coscienza o per lo meno di paura.
Satire di questo genere, e molto più libere e mordenti, troviamo in san Girolamo, che talvolta fece
anche i nomi. Io non solo non ho mai fatto nomi, ma ho adottato un tono così misurato che qualunque
lettore avveduto si renderà conto che mi sono proposto la piacevolezza piuttosto che l'offesa. né
ho seguito l'esempio di Giovenale: non ho mai smosso l'oscuro fondo delle scelleratezze; ho cercato
di colpire quanto è risibile piuttosto che le turpitudini. Se poi c'è ancora qualcuno che nemmeno così
è contento, ricordi almeno questo: che è bello essere vituperati dalla Follia e che avendola introdotta
a parlare, dovevo rimanere fedele al personaggio. Ma perché dire queste cose a te, avvocato
così straordinario da difendere in modo egregio anche cause non egregie? Addio, eloquentissimo
Moro, e difendi con zelo la tua Morìa.
dalla campagna, 9 giugno 1508.
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Elogio della Follia
Parla la Follia.
1. Qualsiasi cosa dicano di me i mortali - non ignoro, infatti, quanto la Follia sia portata per bocca
anche dai più folli - tuttavia, ecco qui la prova decisiva che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare
gli Dèi e gli uomini. Non appena mi sono presentata per parlare a questa affollatissima assemblea,
di colpo tutti i volti si sono illuminati di non so quale insolita ilarità. D'improvviso le vostre fronti si
sono spianate, e mi avete applaudito con una risata così lieta e amichevole che tutti voi qui presenti,
da qualunque parte mi giri, mi sembrate ebbri del nettare misto a nepènte degli Dèi d'Omero, mentre
prima sedevate cupi e ansiosi come se foste tornati allora dall'antro di Trofonio. Appena mi avete
notata, avete cambiato subito faccia, come di solito avviene quando il primo sole mostra alla terra
il suo aureo splendore, o quando, dopo un crudo inverno, all'inizio della primavera, spirano i dolci
venti di Favonio, e tutte le cose mutando di colpo aspetto assumono nuovi colori e tornano a vivere
visibilmente un'altra giovinezza. Così col mio solo presentarmi sono riuscita a ottenere subito quello
che oratori, peraltro insigni, ottengono a stento con lunga e lungamente meditata orazione.
2. perché poi io sia venuta qui oggi, e vestita in modo così strano, lo saprete fra poco, purché non vi
annoi porgere orecchio alle mie parole: non quell'orecchio, certo, che riservate agli oratori sacri, ma
quello che porgete ai ciarlatani in piazza, ai buffoni, ai pazzerelli: quell'orecchio che il famoso Mida,
un tempo, dedicò alle parole di Pan. Mi è venuta infatti voglia d'incarnare con voi per un po' il
personaggio del sofista: non di quei sofisti, ben inteso, che oggi riempiono la testa dei ragazzi di
capziose sciocchezze addestrandoli a risse verbali senza fine, degne di donne pettegole. Io imiterò
quegli antichi che per evitare l'impopolare appellativo di sapienti, preferirono essere chiamati sofisti.
Il loro proposito era di celebrare con encomi gli Dèi e gli eroi. Ascolterete dunque un elogio, e
non di Ercole o di Solone, ma il mio: l'elogio della Follia.
3. Certamente, io non faccio alcun conto di quei sapientoni che vanno blaterando dell'estrema dissennatezza
e tracotanza di chi si loda da sé. Sia pure folle quanto vogliono; dovranno riconoscerne
la coerenza. Che cosa c'è, infatti, di più coerente della Follia che canta le proprie lodi? Chi meglio
di me potrebbe descrivermi? a meno che non si dia il caso che a qualcuno io sia più nota che a me
stessa. D'altra parte io trovo questo sistema più modesto, e non di poco, di quello adottato dalla
massa dei grandi e dei sapienti; costoro, di solito, per una falsa modestia, subornano qualche retore
adulatore, o un poeta dedito al vaniloquio, e lo pagano per sentirlo cantare le proprie lodi, e cioè un
sacco di bugie. Così il nostro fiore di pudicizia drizza le penne come un pavone, alza la cresta, mentre
lo sfacciato adulatore lo va paragonando, lui che è un pover'uomo, agli Dèi, e lo propone quale
modello assoluto di virtù, lui che da quel modello sa di essere lontanissimo. Insomma, veste la cornacchia
con le penne altrui, fa diventare bianco l'Etiope, e di una mosca fa un elefante. Io invece seguo
quel vecchio detto popolare secondo il quale, chi non trova un altro che lo lodi, fa bene a lodarsi
da sé.
Ora, tuttavia, devo esprimere la mia meraviglia per l'ingratitudine, o, come dire?, per l'indifferenza
dei mortali. Tutti mi fanno la corte e riconoscono di buon grado i miei benefici, eppure, in tanti secoli,
non si è trovato nessuno che desse voce alla gratitudine con un discorso in lode della Follia,
mentre non è mancato chi con lodi elaborate ed acconce, e con grande spreco di olio e di sonno, ha
tessuto l'elogio di Busiride, di Falaride, della febbre quartana, delle mosche, della calvizie, e di altri
flagelli del genere.
4. Da me ascolterete un discorso estemporaneo e non elaborato, ma tanto più vero. Non vorrei però
che lo riteneste composto per farvi vedere quanto sono brava, come usa il branco dei retori. Costoro,
come sapete, di un'orazione su cui hanno sudato trenta lunghi anni - e qualche volta l'ha fatta un
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altro - giurano che l'hanno buttata giù, e magari dettata, in tre giorni, quasi per svago. A me, invece,
è sempre piaciuto moltissimo dire tutto quello che mi salta in mente.
Nessuno, perciò, si aspetti da me che, secondo il costume di codesti oratori da strapazzo, definisca
la mia essenza, e tanto meno che la distingua analizzandola. Sono infatti cose di malaugurio, sia
porre dei confini a colei il cui potere è sconfinato, sia introdurre delle divisioni in lei, il cui culto è
oggetto di così universale consenso. D'altra parte perché una definizione, che sarebbe quasi un'ombra
e un'immagine, quando potete vedermi con i vostri occhi?
5. Sono come mi vedete, quell'autentica dispensatrice di beni che i Latini chiamano Stulticia e i
Greci Morìa.
Che bisogno c'era di dirvi tutto questo, come se il mio volto non bastasse, come dice la gente, a mostrare
chi sono? come se, pretendendo qualcuno ch'io sia Minerva o Sofia, non bastasse a smentirlo
il mio sguardo, che, senza bisogno di parole, è lo specchio più schietto dell'animo. Da me è lontano
ogni trucco; non simulo in volto una cosa, mentre ne ho un'altra nel cuore. Sotto ogni rispetto sono
a tal punto inconfondibile, che non possono tenermi nascosta nemmeno quelli che si arrogano la
maschera e il titolo della Saggezza, e se ne vanno in giro come scimmie ammantate di porpora o
come asini vestiti della pelle del leone. Eppure, per accorti che siano nel fingere, le orecchie di Mida,
spuntando fuori da qualche parte, li tradiscono. Ingrati, per Ercole, sono anche quelli che, appartenendo
in pieno alla mia parte, si vergognano a tal segno di fronte alla gente del mio nome, che lo
attribuiscono genericamente agli altri come un grave insulto. Essendo in realtà costoro pazzi da legare
proprio quando vogliono sembrare sapienti come Talete, potremo senz'altro chiamarli a buon
diritto MORO-SOFI.
6. Anche in questo, infatti, intendo imitare i retori del nostro tempo, che si credono proprio degli
Dèi se, a mo' delle sanguisughe, mostrano due lingue, e considerano una grande impresa inserire nel
discorso latino, come in un intarsio, qualche paroletta greca, che magari era proprio fuori posto. Se
poi fanno loro difetto termini esotici, tirano fuori da pergamene ammuffite quattro o cinque termini
arcaici con cui rendere oscuro il testo al lettore. Così chi riesce a capire è più soddisfatto di sé, e chi
non capisce ammira tanto di più quanto meno capisce. Tra gli eletti piaceri dei nostri contemporanei,
infatti, c'è anche questo: esaltare tanto di più una cosa, quanto più è straniera. I più ambiziosi
ridono e applaudono e, come gli asini, muovono le orecchie, dando ad intendere agli altri di avere
capito tutto. E' proprio così. Ritorno all'argomento.
7. Il nome mio lo sapete, miei cari... Quale attributo aggiungerò? Quale, se non Arcifolli? Con quale
altro più nobile appellativo potrebbe la dea Follia chiamare i suoi iniziati? Ma poiché non a molti
sono ugualmente noti i miei maggiori, con l'aiuto delle Muse tenterò di parlarne.
Non il Caos, né l'Orco, né Saturno, né Giapeto, né alcun altro di questi Dèi decrepiti e fuori moda,
fu mio padre, ma Pluto lui solo, [il dio della ricchezza], padre degli uomini e degli Dèi, con buona
pace di Esiodo, di Omero e dello stesso Giove. Un suo cenno, ora come sempre, mette sottosopra
cielo e terra. Il suo arbitrio decide della guerra e della pace, degli imperi, dei consigli, dei giudizi,
dei comizi, dei matrimoni, dei trattati, delle alleanze, delle leggi, delle arti, delle cose scherzose e di
quelle serie; da lui dipendono tutti gli affari pubblici e privati degli uomini. Senza il suo aiuto, tutta
la folla degli Dèi, dei poeti, e, oserò dire, perfino le stesse divinità maggiori, o non esisterebbero, o
vivacchierebbero alla meglio, di briciole. Chi incorre nella sua ira, neppure Pallade potrebbe aiutarlo.
Chi, invece, ne gode il favore, potrebbe trarre in catene lo stesso Giove col suo fulmine. Di tale
padre io mi glorio. E questo padre non mi generò dal suo cervello, come Giove la fosca e crudele
Pallade, ma dalla ninfa Neotete [la Giovinezza], di tutte la più graziosa e lieta. E non mi generò nell'uggioso
vincolo del matrimonio - in cui nacque il famoso fabbro zoppo ma, ed è molto più dolce,
in un amplesso d'amore, come dice il nostro Omero. né, a scanso d'equivoci, mi generò quel Pluto di
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Aristofane, già mezzo morto e già cieco, ma quello in pieno vigore, fervente di giovinezza, e non
solo di giovinezza, ebbro soprattutto di schietto nettare che aveva generosamente bevuto al banchetto
degli Dèi.
8. Se poi volete anche sapere dove sono nata, visto che oggi nel valutare il grado di nobiltà attribuiscono
la massima importanza al luogo dove si sono messi fuori i primi vagiti: ebbene, io non sono
nata nell'errante Delo, non tra i flutti del mare, non in grotte profonde, ma proprio nelle Isole Fortunate,
dove tutto cresce senza seme né aratro. Là non esiste fatica, vecchiaia, malattie; nei campi non
asfodeli, malva, squilla, lupini o fave, e simili piante da poco.
Da ogni parte ti accarezzano gli occhi e il naso moly, panacea, nepènte, maggiorana, ambrosia, loto,
rose, viole, giacinti - i giardini d'Adone. Nata fra queste delizie, non ho cominciato la vita nel pianto;
subito ho sorriso dolcemente a mia madre.
Al sommo figlio di Crono non invidio la capretta nutrice; ad allattarmi con le loro mammelle sono
state due graziosissime ninfe, Mete l'Ebbrezza, figlia di Bacco, e Apedia l'Ignoranza, figlia di Pan.
Le vedete qui con me, nel gruppo di tutte le altre mie compagne e seguaci, delle quali se, per Ercole,
vorrete sapere i nomi, da me li sentirete solo in greco.
9. Quella che vedete con le sopracciglia inarcate è senz'altro Filautia; quella che sembra ridere con
gli occhi, e che batte le mani, è Colacìa; quella mezza addormentata e vinta dal sonno si chiama Lete;
quella appoggiata sui gomiti e con le mani intrecciate si chiama Misoponia; l'altra, cinta da un
serto di rose, e tutta cosparsa di profumi, Hedonè; Anoia questa, dai mobili sguardi lascivi. Quella
dalla pelle splendente e dal corpo rigoglioso si chiama Trufè. Tra le fanciulle potete vedere anche
due Dèi: Como e Ipno, il dio del sonno profondo. Col fedele aiuto di questa mia corte io signoreggio
su tutte le cose, e sono sovrana degli stessi sovrani.
10. Vi ho detto origine, educazione, compagni. Ora, perché a qualcuno non paia senza fondamento
la mia pretesa al titolo di dea, drizzate le orecchie e ascoltate di quanta utilità io sia agli Dèi e agli
uomini, e quanto si estenda il mio potere. Se, infatti, non senza saggezza qualcuno ha scritto che essere
un dio proprio questo significa: giovare ai mortali; se a buon diritto sono stati accolti nel consesso
degli Dèi coloro ai quali i mortali debbono il vino, il grano, e simili beni; perché io non dovrei
a buon diritto essere ritenuta e proclamata l'alfa degli Dèi, dal momento che io, io sola, sono a tutti
prodiga di tutto?
11. lnnanzitutto, che cosa può esserci di più dolce e prezioso della vita? ma a chi, se non a me, riportarne
la desiderata origine? Non l'asta di Pallade dal padre possente, né l'egida di Giove adunatore
di nembi, generano e propagano la stirpe umana. Lo stesso padre degli Dèi e re degli uomini, al
cui cenno trema l'Olimpo intero, quando vuol fare quello che poi fa sempre, e cioè generare dei figli,
deve deporre quel suo famoso fulmine a tre punte, deve spogliarsi del titanico sembiante con cui
spaventa a suo piacimento tutti gli Dèi, e, come un povero commediante qualsiasi, deve assumere la
maschera di un altro personaggio. Quanto agli stoici che si credono così vicini agli Dèi, datemene
uno che sia stoico magari tre o quattro volte, o, se volete, stoico mille volte! Anche lui dovrà deporre,
se non la barba che è l'insegna della sapienza (comune, a dir il vero, con i caproni), certamente il
suo sussiego. Dovrà spianare la fronte, mettere da parte i suoi princìpi adamantini, e abbandonarsi
un poco a qualche leggerezza e follia. Se vuole davvero diventare padre, insomma, anche quel saggio
deve chiamare me, proprio me.
E perché, dal momento che sto chiacchierando con voi, non essere più esplicita, secondo il mio costume?
E' forse con la testa, col volto, col cuore, con la mano, con l'orecchio (parti considerate tutte
oneste) che si generano gli Dèi e gli uomini? No davvero! propagatrice del genere umano è quella
parte così assurda e ridicola che non si può neppure nominare senza ridere. Quello è il sacro fonte a
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cui tutto attinge la vita, quello e non la tetrade pitagorica. E, ditemi, quale uomo vorrebbe porgere il
collo al capestro del matrimonio se prima, secondo la consuetudine di codesti saggi, ne considerasse
gli svantaggi? Quale donna accosterebbe un uomo, se conoscesse e avesse in mente i pericolosi travagli
del parto, e i fastidi di allevare i figli? Perciò se dovete la vita al matrimonio, e il matrimonio
ad Anoia del mio seguito, comprenderete quello che dovete a me. D'altra parte quale donna dopo la
prima esperienza vorrebbe riprovarci, se non ci fosse ad assisterla la presenza di Letes? Venere medesima,
protesti pure Lucrezio, non negherebbe mai che senza l'aiuto della mia divinità la sua forza
sarebbe insufficiente e inutile. Perciò è da quella nostra ebbrezza giocosa che sono nati i filosofi severi,
a cui ora sono subentrati quelli che il volgo chiama monaci, e i re ammantati di porpora, i pii
sacerdoti, i pontefici, tre volte santissimi. E infine anche tutto quel consesso degli Dèi dei poeti, così
affollato che a stento può contenerlo l'Olimpo, pur vasto che sia.
12. Eppure sarebbe ben poco dovermi il seme e la fonte della vita, se non dimostrassi che quanto vi
è di buono nella vita è anch'esso un mio dono. E che cos'è poi questa vita? e se le togli il piacere, si
può ancora chiamarla vita? Avete applaudito! Lo sapevo bene, io, che nessuno di voi era così saggio,
anzi così folle - no, è meglio dire saggio, da non andare d'accordo con me. Del resto neppure
questi stoici disprezzano il piacere, anche se dissimulano con cura e se, di fronte alla gente, rovesciano
sul piacere ingiurie sanguinose; in realtà solo per distogliere gli altri e goderne di più, loro
stessi. Ditemi, per Giove, quale momento della vita non sarebbe triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso,
senza il piacere, e cioè senza un pizzico di follia? E di questo è degno testimone il non mai
abbastanza lodato Sofocle con quelle sue splendide parole di elogio per me: "Dolcissima è la vita
nella completa assenza di senno".
Ma è tempo di esaminare a parte tutta la questione.
13. E, tanto per cominciare, chi non sa che la prima età dell'uomo è per tutti di gran lunga la più lieta
e gradevole? ma che cosa hanno i bambini per indurci a baciarli, ad abbracciarli, a vezzeggiarli
tanto, sì che persino il nemico presta loro soccorso? Che cosa, se non la grazia che viene dalla mancanza
di senno, quella grazia che la provvida natura s'industria d'infondere nei neonati perché con
una sorta di piacevole compenso possano addolcire le fatiche di chi li alleva e conciliarsi la simpatia
di chi deve proteggerli? E l'adolescenza che segue l'infanzia, quanto piace a tutti, quale sincero trasporto
suscita, quali amorevoli cure riceve, con quanta bontà tutti le tendono una mano!
Ma di dove, di grazia, questa benevolenza per la gioventù? di dove, se non da me? E' per merito
mio che i giovani sono così privi di senno; è per questo che sono sempre di buon umore. Mentirei,
tuttavia, se non ammettessi che appena sono un po' cresciuti, e con l'esperienza e l'educazione cominciano
ad acquistare una certa maturità, subito sfiorisce la loro bellezza, s'illanguidisce la loro alacrità,
s'inaridisce la loro attrattiva, vien meno il loro vigore. Quanto più si allontanano da me, tanto
meno vivono, finché non sopraggiunge la gravosa vecchiaia, la molesta vecchiaia, odiosa non solo
agli altri, ma anche a se stessa. Nessuno dei mortali riuscirebbe a sopportarla se, ancora una volta,
impietosita da tanto soffrire non venissi in aiuto io, e, a quel modo che gli Dèi della fiaba di solito
soccorrono con qualche metamorfosi chi è sul punto di perire, anch'io, per quanto è possibile, non
riportassi all'infanzia quanti sono prossimi alla tomba, onde il volgo, non senza fondamento, usa
chiamarli rimbambiti. Se poi qualcuno vuol sapere come opero questa trasformazione, neppure su
questo farò misteri.
Conduco i vecchi alla fonte della mia ninfa Lete, che sgorga nelle Isole Fortunate - il Lete che scorre
agli Inferi è solo un esile ruscello. Lì, bevute a grandi sorsi le acque dell'oblio, un poco alla volta,
dissipati gli affanni, torneranno bambini.
Ma delirano ormai, non ragionano più! Certo. E' proprio questo che significa tornare fanciulli. Forse
che essere fanciulli non significa delirare e non avere senno? e non è proprio questo, il non aver
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senno, che più piace di quella età? Chi non vivrebbe come mostro un bambino con la saggezza di un
uomo? Lo conferma il diffuso proverbio: "Odio il bambino di precoce saggezza". E chi, d'altra parte,
vorrebbe rapporti e legami di familiarità con un vecchio che alla lunga esperienza di vita unisse
pari forza d'animo e acutezza di giudizio?
Così, per mio dono, il vecchio delira. E tuttavia questo mio vecchio delirante è libero dagli affanni
che travagliano il saggio; quando si tratta di bere, è un allegro compagno; non avverte il tedio della
vita, che l'età più vigorosa sopporta a fatica. Talvolta, come il vecchio di Plauto, torna alle tre famose
lettere [AMO], che se fosse in senno ne sarebbe infelicissimo. Invece per merito mio è felice,
simpatico agli amici, piacevole in compagnia. Del resto anche in Omero il discorso scorre dalla
bocca di Nestore più dolce del miele, mentre amare sono le parole di Achille; e, sempre in Omero, i
vecchi che se ne stanno seduti insieme sulle mura parlano con voce soave. In questo senso sono superiori
alla stessa infanzia, che è sì deliziosa, ma non parla, e, priva della parola, manca del principale
diletto della vita, che è quello di una schietta conversazione. Aggiungi che ai vecchi piacciono
moltissimo i bambini, e altrettanto ai bambini i vecchi, "perché il dio spinge sempre il simile verso
il simile". In che differiscono, infatti, se non nelle rughe e negli anni che nel vecchio sono di più?
Per il resto, capelli sbiaditi, bocca sdentata, corporatura ridotta, desiderio di latte, balbuzie, garrulità,
mancanza di senno, smemoratezza, irriflessione: in breve, sotto ogni altro aspetto si accordano.
Quanto più invecchiano, tanto più somigliano ai bambini, finché, come bambini, senza il tedio della
vita, senza il senso della morte, abbandonano la vita.
14. Paragoni ora chi vuole questo mio beneficio con le metamorfosi operate dagli altri Dèi. E non
sto a ricordare quello che fanno quando li possiede l'ira; parlo di coloro che godono di tutta la loro
benevolenza: li trasformano di solito in alberi, uccelli, cicale, e perfino in serpenti, come se il diventare
altro non fosse proprio un morire. Io, invece, restituisco il medesimo uomo al periodo migliore
della vita, al più felice. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, e vivessero
sempre sotto la mia insegna, la vecchiaia neppure ci sarebbe, e godrebbero felici di un'eterna giovinezza.
Non vi accorgete che gli uomini austeri, dediti a studi filosofici, o impegnati in faccende serie e difficili,
in genere sono già vecchi prima di essere stati davvero giovani, e questo per le preoccupazioni
e per il costante e teso dibattito mentale, che un po' alla volta esaurisce gli spiriti e la linfa vitale?
Al contrario, i miei bei matti sono tutti grassottelli, lustri, senza una ruga, proprio come quelli che
chiamano porcelli d'Acarnania, immuni, per certo, da qualunque disturbo senile, a meno che non si
trovino a subire in qualche misura il contagio dei saggi, come capita, poiché la vita non consente
mai una completa felicità.
Valida testimonianza di tutto questo è il diffuso proverbio secondo cui solo la Follia è capace di
prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima, e di tenere lontana la molesta vecchiaia. Sicché,
non a torto, si è fatto l'elogio del detto popolare del Brabante: mentre altrove, di solito, l'età
porta saggezza, qui più s'invecchia e più matti si diventa. Non c'è popolazione, infatti, più incline di
questa a un giocondo abito di vita e meno portata ad avvertire la tristezza della vecchiaia. Loro vicini,
e dal punto di vista geografico e da quello del costume, sono i miei Olandesi - e perché, poi, non
dovrei chiamarli miei, se mi sono così devoti da essersi meritato un soprannome [di folli] di cui non
si vergognano per nulla, che anzi ne traggono il loro vanto principale?
Vadano pure gli stoltissimi mortali a cercare le Medee, le Circi, le Veneri, le Aurore, e non so quale
fonte che restituisca loro la giovinezza, quando io sola posso, e sono solita farlo. Sono io che possiedo
quel filtro miracoloso con cui la figlia di Memnone prolungò la giovinezza di Titone suo avo.
Sono io quella Venere per la cui grazia Faone ringiovanì a tal segno da essere amato follemente da
Saffo. Sono mie le erbe, se ve ne sono, miei gli incantesimi, la fonte che non solo risuscita la giovi10
nezza svanita, ma, meglio ancora, la mantiene per sempre. Perciò, se siete tutti d'accordo su questo,
che niente è meglio della giovinezza, e niente più odioso della vecchiaia, vi rendete conto, io credo,
di quello che dovete a me, che, fugato un male tanto grande, conservo un così grande bene.
15. Ma perché parlo ancora dei mortali? Passate in rassegna tutto il cielo, e possa chiunque infamare
il mio nome se si troverà un solo Dio non privo di grazia e di pregio che non sia sotto la protezione
del mio nume. Infatti, perché Bacco è sempre il chiomato efebo? proprio perché, pazzo ed ebbro,
passa tutta la vita in conviti, balli, canti e giochi, e non ha proprio nulla a che fare con Pallade. A tal
punto rifugge dal desiderare la fama di sapiente, da compiacersi di un culto fatto di beffe e di scherzi.
né trova offensivo quel detto che gli attribuisce il soprannome di fatuo, e che suona: "più pazzo
di Morico". E cambiarono il suo nome in Morico perché i contadini, nella loro sfrenata allegria, erano
soliti impiastricciare di mosto e di fichi freschi il suo simulacro, che lo ritraeva seduto alle soglie
del tempio.
D'altra parte, quali lazzi non scaglia contro di lui l'antica commedia? O Dio pazzo, dicono, degno
parto d'una coscia! Ma chi non preferirebbe essere questo Dio fatuo e dissennato, sempre allegro,
sempre giovane, sempre generoso di svaghi e di piaceri per tutti, piuttosto che quel tortuoso Giove,
temuto da tutti, o Pan che tutto va devastando con i terrori che diffonde, o Vulcano avvolto di scintille
e sempre nero del fumo della sua fucina, o Pallade medesima dallo sguardo sempre torvo, terribile
con la Gorgone e la lancia? perché Cupido è, invece, sempre fanciullo? perché? se non per la
sua leggerezza, per la sua incapacità di fare o pensare qualcosa di assennato. perché la bellezza dell'aurea
Venere è sempre in fiore? perché è mia parente e conserva nell'aspetto il colore di mio padre.
Per questa ragione Omero la chiama "l'aurea Afrodite". Inoltre, stando ai poeti, o agli scultori loro
emuli, ride sempre. E quale nume i Romani venerarono più di Flora, madre di tutti i piaceri? Se poi
si andasse ad esaminare un po' meglio, attraverso Omero e gli altri poeti, la vita anche degli Dèi ritenuti
più austeri, si scoprirebbe che tutto è pieno di follie. E perché poi ricordare le imprese degli
altri, quando si conoscono così bene gli amori e i sollazzi dello stesso Giove tonante? Quando la fiera
Diana, dimentica del sesso nella sua esclusiva passione per la caccia, muore tuttavia d'amore per
Endimione?
Preferirei però che gli Dèi se le sentissero cantare da Momo, come una volta accadeva piuttosto
spesso. Ma ora lo hanno scaraventato sulla terra con Ate perché le sue sagge critiche disturbavano
la loro felicità. né alcun mortale si degna di offrirgli ospitalità; tanto meno poi c'è posto per lui alle
corti dei prìncipi, dove però è sempre ospite d'onore la mia Colacìa, che va d'accordo con Momo
come l'agnello coi lupi.
Allontanato lui, gli Dèi folleggiano molto più liberamente e gradevolmente, e se la passano bene
davvero, come dice Omero, senza che nessuno li critichi. Quali scherzi scurrili, infatti, non alimenta
il Priapo di legno di fico? quali divertimenti non procura Mercurio con i suoi furti ed i suoi trucchi?
Perfino Vulcano, al banchetto degli Dèi, si è abituato alla parte del buffone, facendo ridere il simposio
ora con la sua andatura zoppicante, ora con i suoi frizzi, ora con le sue facezie. Anche Sileno, il
vecchio mandrillo, uso a danzare il cordace, balla con Polifemo la TRETANELO' [il ballo dei Ciclopi],
mentre le Ninfe danzano a piedi nudi. I Satiri dal piede caprino rappresentano le atellane, e
Pan fa ridere tutti con le sciocche cantilene che gli Dèi preferiscono al canto delle Muse, specialmente
quando il vino comincia a farsi sentire. Ma perché raccontare ora ciò che fanno gli Dèi alla
fine del banchetto dopo una buona bevuta? Follie tali che io stessa, per Ercole, non riesco a tenermi
dal riderne.
A questo punto è meglio ricordare Arpocrate [il dio del silenzio]: che può succedere che qualche
Dio di Corico sia in ascolto mentre narriamo fatti che neppure Momo ha potuto rivelare impunemente.
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16. E' tempo ormai di seguire l'esempio di Omero lasciando da parte gli Dèi e tornare sulla terra per
vedere fino a qual punto gioia e fortuna vi si trovino solo per mio dono.
In primo luogo osservate con quanta previdenza la natura, madre e artefice del genere umano, ebbe
cura di spargere dappertutto un pizzico di follia. Se, infatti, secondo la definizione stoica, la saggezza
consiste solo nel farsi guidare dalla ragione, mentre, al contrario, la follia consiste nel farsi trascinare
dalle passioni, perché la vita umana non fosse del tutto improntata a malinconica severità,
Giove infuse nell'uomo molta più passione che ragione: press'a poco nella proporzione di mezz'oncia
ad un asse. Relegò inoltre la ragione in un angolino della testa lasciando il resto del corpo ai turbamenti
delle passioni. Quindi, alla sola ragione contrappose due specie di violentissimi tiranni: l'ira,
che occupa la rocca del petto e il cuore stesso che è la fonte della vita, e la concupiscenza che estende
il suo dominio fino al basso ventre. Quanto valga la ragione contro queste due agguerrite avversarie
ce lo dice a sufficienza la condotta abituale degli uomini: la ragione può solo protestare, e
lo fa fino a perderci la voce, enunciando i princìpi morali; ma quelle, rivoltandosi alla loro regina, la
subissano di grida odiose, finché lei, prostrata, cede spontaneamente dichiarandosi vinta.
17. Tuttavia, poiché l'uomo, nato per far fronte agli affari, doveva ricevere in dote un po' più di un'oncia
di ragione, Giove, per provvedere debitamente, mi convocò perché lo consigliassi, come su
tutto il resto, anche a questo proposito; e il mio pronto consiglio fu degno di me: affiancare all'uomo
la donna, animale, sì, stolto e sciocco, ma deliziosamente spassoso, che nella convivenza addolcisce
con un pizzico di follia la malinconica gravità del temperamento maschile. Platone, infatti, quando
sembra in dubbio circa la collocazione della donna, se fra gli animali razionali o fra i bruti, vuole
solo sottolineare la straordinaria follia di questo sesso. E, se per caso una donna vuole passare per
saggia, ottiene solo di essere due volte folle, come se uno volesse, contro ogni ragionevole proposito,
portare un bue in palestra. Infatti raddoppia il suo difetto chi, distorcendo la propria natura, assume
sembianza virtuosa. Come, secondo il proverbio greco, la scimmia è sempre una scimmia, anche
se si ammanta di porpora, così la donna è sempre una donna, cioè folle, comunque si mascheri.
Non però così folle, voglio credere, da prendersela con me perché la giudico folle, io che sono folle,
anzi la Follia in persona. Le donne, infatti, se ponderassero bene la questione, anche questo dovrebbero
considerare come un dono della Follia: il fatto di essere, sotto molti aspetti, più fortunate degli
uomini. In primo luogo hanno il dono della bellezza, che giustamente mettono al disopra di tutto,
contando su di essa per tiranneggiare gli stessi tiranni. Quanto all'uomo, di dove gli viene l'aspetto
rude, la pelle ruvida, la barba folta, e un certo che di senile, se non dalla maledizione del senno? Le
donne, invece, con le guance sempre lisce, con la voce sempre sottile, con la pelle morbida, danno
quasi l'impressione d'una eterna giovinezza. Ma che altro desiderano poi in questa vita, se non piacere
agli uomini quanto più è possibile? Non mirano forse a questo, tante cure, belletti, bagni, acconciature,
unguenti, profumi; tante arti volte ad abbellire, dipingere, truccare il volto, gli occhi, la
pelle? C'è forse qualche altro motivo che le faccia apprezzare dagli uomini più della follia? Che cosa
mai non concedono gli uomini alle donne? Ma in cambio di che, se non del piacere? E il diletto
da nient'altro viene se non dalla loro follia. Che questo sia vero non si può negare solo che si pensi a
tutte le sciocchezze che un uomo dice quando parla con una donna, a tutte le stupidaggini che fa
ogni volta che si mette in testa di ottenerne i favori. Ecco da che fonte sgorga il primo e principale
diletto della vita.
18. Ma ci sono uomini, specialmente tra i vecchi, che alla donna preferiscono il bere; per loro il
sommo piacere sta nei simposi. Altri pensano che possa esservi un lauto banchetto senza donne; però
una cosa è certa, che senza un pizzico di follia non può esservi banchetto ben riuscito. A tal punto
che, se non c'è già qualcuno capace di far ridere con la sua follia, autentica o simulata, si chiama
un buffone a pagamento, o un allegro parassita, che, con le sue comiche, ossia folli battute, dissipi il
silenzio e la noia del simposio. A che scopo infatti riempirsi il ventre di tanti dolciumi, leccornie e
ghiottonerie, se anche gli occhi, le orecchie e l'anima intera, non si nutrissero di risa, di scherzi, di
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facezie? ma cibi del genere posso ammannirli solo io. D'altra parte anche quei riti conviviali, come
sorteggiare il re del convito, giocare ai dadi, invitare al brindisi, gareggiare intorno ad un tavolo a
cantare e bere a turno, passarsi il mirto cantando, ballare, far pantomime, non sono stati inventati
dai sette sapienti della Grecia ma da me, per la felicità dell'umana specie.
Tutte le cose di questo genere hanno un tratto comune: che quanto più partecipano della follia tanto
più rallegrano la vita dei mortali, che, se fosse triste, neanche meriterebbe di essere chiamata vita. E
triste risulterà senz'altro, se non le toglierai di dosso l'innato tedio con questo tipo di divertimenti.
19. Forse taluni trascureranno anche questo genere di piacere e saranno paghi dell'amore e della familiarità
degli amici, affermando che l'amicizia vale più di tutto: l'amicizia, un bene non meno necessario
dell'aria, del fuoco, dell'acqua; tanto soave che se togli l'amicizia togli il sole; infine tanto
nobile - ammesso che la cosa ci riguardi - che gli stessi filosofi non esitano a ricordarla fra i beni
fondamentali. Ma che succede se dimostro che anche di questo bene così grande sono io la poppa e
la prora? Io lo dimostrerò non col sofisma del coccodrillo, non coi soliti cornuti o con altre simili
dialettiche sottigliezze, ma alla buona, facendovi toccare la cosa con mano.
Orbene, chiudere gli occhi, ingannarsi, essere ciechi, illudersi a proposito dei difetti degli amici,
amarne e apprezzarne come qualità alcuni dei vizi più evidenti, non è forse qualcosa di molto vicino
alla follia? C'è chi bacia il neo dell'amica, chi trova incantevole il polipo di Agna; il padre dice del
figlio strabico che ha il vezzo di ammiccare. Tutto questo, io domando, che è, se non pura follia?
Ripetano a gran voce che è follia: eppure essa sola è capace di promuovere e cementare le amicizie.
Parlo dei comuni mortali, nessuno dei quali nasce senza difetti: il migliore è chi ne ha meno; quanto
poi a quei famosi saggi che hanno il piglio di Dèi, tra loro l'amicizia, o non nasce affatto, o è qualcosa
di cupo e scostante, limitata poi a pochissimi (non oso dire che non include proprio nessuno),
perché la maggior parte degli uomini ha un pizzico di follia, anzi non c'è nessuno che, in un modo o
in un altro, non abbia le sue stranezze, e non c'è amicizia se non tra persone simili. Se, infatti, tra
questi uomini austeri si desse una volta uno scambievole affetto, non sarebbe per nulla stabile e durerebbe
ben poco, nascendo tra uomini difficili e più oculati del necessario, capaci di cogliere i difetti
degli amici con l'occhio acuto dell'aquila e del serpente di Epidauro. Quando però si tratta dei
loro difetti, come ci vedono poco! e come ignorano la parte della bisaccia che portano dietro le spalle!
Perciò, dato che la natura dell'uomo è tale che nessuno è immune da gravi difetti (aggiungi la
grande varietà di caratteri e di studi, le tante cadute, i tanti errori, i tanti casi della vita mortale), come
potranno questi Arghi gustare anche solo per un'ora le gioie dell'amicizia se non interverrà quella
che i Greci chiamano EUETHEIA, termine felice da tradursi con follia, o con indulgente semplicità?
Del resto, non è forse del tutto cieco quel Cupido, che è artefice e padre di ogni legame? E
come il brutto gli appare bello, così fa in modo che anche a ciascuno di voi sembri bello ciò che gli
è toccato in sorte, che il vecchio ami la sua vecchia, e il ragazzo la sua ragazza. Sono cose che accadono
a ogni piè sospinto e che muovono il riso; eppure sono proprio queste cose ridicole il fondamento
di una società che vive con gioia.
20. Quanto si è detto dell'amicizia a maggior ragione vale per il matrimonio, che altro non è se non
un legame per la vita tra singoli individui. Dio immortale, quanti divorzi, o fatti anche peggiori dei
divorzi, non si avrebbero dappertutto, se la domestica convivenza del marito con la moglie non si
rafforzasse nutrendosi di adulazioni, di scherzi, d'indulgenza, di errori, di dissimulazioni, tutte cose
che appartengono al mio seguito. Quanto matrimoni ci sarebbero, se il fidanzato saggiamente s'informasse
dei passatempi a cui già molto prima delle nozze si dedicava la sua verginella così delicata
e pudica in apparenza. E, a celebrazione avvenuta, quanti ne durerebbero, se tante imprese delle
mogli non rimanessero ignorate per la negligenza e la sciocchezza dei mariti! E anche questo, a
buon diritto, è da attribuirsi alla Follia, a cui si deve se il marito ama la moglie e la moglie il marito,
se in casa regna la pace, se il vincolo dura.
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Si ride del cornuto, del cervo (e quanti altri nomi non gli si danno!), quando asciuga con i baci le lacrime
dell'adultera. Ma quanto meglio lasciarsi ingannare così che rodersi di gelosia e volgere tutto
in tragedia!
21. Insomma, senza di me nessuna società, nessun legame potrebbe durare felicemente. Il popolo si
stancherebbe del principe, il servo del padrone, la serva della padrona, il maestro dello scolaro, l'amico
dell'amico, la moglie del marito, il locatore del locatario, il compagno del compagno, l'ospite
dell'ospite, se volta a volta non s'ingannassero a vicenda, ora adulandosi, ora facendo saggiamente
finta di non vedere, ora lusingandosi col miele della Follia. So che queste vi sembrano enormità; ma
ne sentirete di più belle.
22. Di grazia, chi odia se stesso come potrà amare qualcuno? chi è interiormente combattuto, potrà
forse andare d'accordo con altri? potrà, chi è sgradito e molesto a se stesso, riuscire gradevole a un
altro? Nessuno, credo, lo affermerebbe, se non fosse un pazzo più pazzo della Follia stessa. Pertanto,
se non ci fossi più io, lungi dal sopportare il prossimo, ognuno, inviso a se stesso, proverebbe disgusto
di sé e delle sue cose. La Natura, infatti, in molte cose matrigna piuttosto che madre, ha posto
nell'animo dei mortali, soprattutto se appena più intelligenti, il seme di questo male: scontento di
sé e ammirazione per gli altri. Di qui il venire meno e l'estinguersi di tutte quelle squisite doti che
sono il profumo della vita. A che giova infatti la bellezza, il massimo dono degli Dèi immortali, se
deve esser lasciata sfiorire? A che la giovinezza, se deve intristire per il veleno di senili malinconie?
Infine, in tutti i casi della vita, come potrai agire in modo conveniente nei tuoi o negli altrui confronti
(agire come conviene non è solo la prima regola dell'arte, ma di tutta la nostra condotta), se
non ti sarà propizia Filautìa, che a buon diritto tengo in conto di sorella, tanto validamente mi presta
il suo aiuto in ogni occasione? Se piaci a te stesso, se ti ammiri, questo è proprio il colmo della follia;
ma d'altra parte, dispiacendo a te stesso, che cosa potresti fare di bello, di gradevole, di nobile?
Togli alla vita l'amor proprio e subito la parola suonerà fredda sulle labbra dell'oratore, il musicista
non piacerà a nessuno con le sue melodie, l'attore si farà fischiare con la sua mimica, il poeta e le
sue muse saranno irrisi, sarà tenuto a vile il pittore con la sua arte, si ridurrà alla fame il medico con
le sue medicine. Alla fine invece di Nireo sembrerai Tersite, invece di Faone, Nestore, invece di
Minerva una scrofa, invece di un forbito oratore, uno che non balbetta neanche una parola; invece di
un distinto cittadino, un rozzo contadino. Se vuoi poter essere raccomandato agli altri, devi proprio
cominciare col raccomandarti a te stesso; devi essere il primo a lodarti, e non senza una punta di
adulazione.
Infine, poiché la felicità consiste soprattutto nel voler essere ciò che si è, qui interviene col suo aiuto
la mia Filautìa, facendo in modo che nessuno sia scontento del proprio aspetto, carattere, schiatta,
posizione, educazione, Patria, tanto che né un irlandese si cambierebbe con un italiano, né un tracio
con un ateniese, né uno scita con un abitante delle Isole Fortunate. O singolare bontà della natura
che in tanta varietà di cose, stabilì un regime di uguaglianza! Dove scarseggia coi suoi doni, là, è
solita aggiungere una dose maggiore di amor proprio. Ma che sciocchezza ho detto! Proprio questo
è il più grande dei suoi doni.
23. Ora dovrei aggiungere che nulla di grande si può intraprendere senza la mia spinta, perchè è a
me che si deve l'invenzione di ogni nobile arte. Forse che non sia la guerra la fonte e il coronamento
di ogni celebrata impresa? E che c'è di più pazzesco dell'impegnarsi, per non so quali cause, in un
confronto da cui, immancabilmente, ognuna delle due parti trae più danno che guadagno? Dei caduti,
poi, neanche si parla, quasi fossero gente di Megara. Quando le schiere in armi si fronteggiano e
le trombe intonano il loro rauco suono, a che servono, di grazia, i sapienti esauriti dagli studi, col
loro sangue povero e privo di calore, e che a malapena tirano il fiato? C'è bisogno di gente ben piantata;
con moltissima audacia e pochissimo cervello. A meno che non si preferisca arruolare Demostene,
tanto vile soldato quanto grande oratore, che, seguendo il consiglio d'Archiloco, appena vide
il nemico fuggì abbandonando lo scudo.
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La prudenza, obiettano, in guerra ha grandissimo peso. Lo riconosco; ma lo ha in chi comanda; e si
tratta di prudenza militare, non filosofica; per il resto, l'impresa tanto egregia della guerra è affidata
a parassiti, ruffiani, briganti, sicari, contadini, imbecilli, debitori e altri rifiuti del genere; non a filosofi
da tavolino.
24. Della cui totale inutilità sul piano pratico è testimone lo stesso Socrate che l'oracolo d'Apollo
giudicò - con poco senno, del resto - il solo sapiente: quando tentò d'impegnarsi in non so quale faccenda
pubblica, fu costretto a ritirarsi fra il generale dileggio. Anche se del tutto sciocco non si dimostrò
quando rifiutò il titolo di sapiente che attribuì solo a Dio, e quando sostenne che il saggio
non deve occuparsi di politica; e meglio avrebbe fatto a consigliare di tenersi lontani dalla sapienza,
se si vuol vivere da uomini.
D'altra parte, quando fu processato, che cosa se non la sapienza lo costrinse a bere la cicuta? Infatti
mentre andava filosofando di idee e di nuvole, mentre misurava il salto delle pulci, mentre ammirava
la voce delle zanzare, non imparava nulla di ciò che riguarda la vita di tutti i giorni. In aiuto del
maestro, sull'orlo di una condanna capitale, interviene il discepolo Platone, difensore così egregio
che, turbato dal rumoreggiare della folla, a malapena riesce a pronunciare qualche frase smozzicata.
E che dire di Teofrasto? come avrebbe mai potuto animare i soldati in guerra, lui che, levatosi a parlare,
ammutolì di colpo come se d'improvviso avesse visto un lupo? Isocrate, pavido per natura, non
osò mai aprire bocca. Marco Tullio, il padre della romana eloquenza, abitualmente, preso da poco
dignitoso tremore, esordiva balbettando, come un ragazzino. Quintiliano vede in questo la prova
dell'oratore di valore, che misura le difficoltà; ma non farebbe meglio a dire che la sapienza è un ostacolo
a condurre in porto le faccende pratiche? Che faranno costoro quando si dovrà ricorrere alle
armi, se si perdono d'animo così quando si combatte semplicemente a parole?
Nonostante questo, a Dio piacendo, si esalta il famoso detto di Platone, che fortunati saranno gli
Stati se a reggerli saranno chiamati i filosofi, o se i reggitori si daranno alla filosofia. Se, invece,
consulterai gli storici, troverai che il concentrarsi del potere nelle mani di un filosofastro o di un letterato
è la peggiore sciagura che possa colpire uno Stato. E mi pare lo attestino bene i due Catoni:
uno dei quali turbò la pace della repubblica romana con le sue pazze denunce; l'altro, mentre difendeva
con un eccesso di saggezza la libertà del popolo romano, la mise del tutto a soqquadro. Aggiungi
a questi i Bruti, i Cassi, i Gracchi, e Cicerone stesso, che allo stato romano fece tanto male
quanto Demostene a quello ateniese. Quanto a Marco Antonio, ammesso che fosse un buon imperatore
(potrei contestarlo, perché, dedito come era alla filosofia, per questa stessa fama si era fatto
prendere a noia dai concittadini) ammesso tuttavia che lo fosse, certamente, lasciando dietro di sé il
figlio che lasciò, danneggiò lo Stato più di quanto non gli avesse giovato col suo governo. Questa
categoria, infatti, di uomini dediti allo studio della filosofia, di solito ha pochissima fortuna in ogni
cosa, ma soprattutto nei figli che mette al mondo; penso sia la provvidenza della natura a volere impedire
che questo malanno della filosofia si diffonda più largamente fra gli uomini. Così risulta che
Cicerone ebbe un figlio degenere, e che Socrate, il famoso filosofo, ebbe figli, com'è stato scritto
non del tutto a torto, "più simili alla madre che al padre", e cioè stolti.
25. Comunque, se fossero come asini davanti a una lira solo riguardo ai pubblici affari, ci si potrebbe
passare sopra; il guaio è che sono altrettanto incapaci in ogni altra occasione della vita. Invita a
pranzo un sapiente: disturberà col suo cupo silenzio, o con le sue noiose questioncelle. Invitalo alla
danza: diresti che balla come un cammello. Portalo ad uno spettacolo: basterà la sua espressione a
guastare il divertimento alla gente e, come il saggio Catone, sarà costretto a lasciare il teatro perché
non può spianare il cipiglio. Se per caso capiterà durante una conversazione, sarà come il lupo della
favola. Se c'è da fare un acquisto, un contratto, insomma qualcuna delle cose indispensabili alla vita
di ogni giorno, questo sapiente ti sembrerà un pezzo di legno, non un uomo. A tal punto è incapace
di rendersi utile a se stesso, alla patria, ai suoi, perché inesperto delle faccende usuali e perché tanto
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lontano dal giudizio corrente e dalle accettate consuetudini. Quindi, per forza, si fa anche odiare,
per questa sua grande diversità di vita e di intendimenti. Tra i mortali, infatti, che cosa mai si fa che
non trabocchi di follia, e che non sia opera di folli in un mondo di folli? Perciò, se qualcuno volesse
opporsi da solo a tutti, io gli consiglierei di ritirarsi, come Timone, in un deserto, per godervi, da solo,
la propria saggezza.
26. Ma, per tornare all'argomento proposto, quale forza, se non l'adulazione, raggruppò nella città
quegli uomini primitivi, simili ai sassi e alle querce? Questo solo vuole indicare la famosa cetra di
Anfione e di Orfeo. Cosa mai riportò alla concordia cittadina la plebe romana che già stava per
spingersi ad atti irreparabili? Forse un discorso filosofico? Nemmeno per sogno! Al contrario, fu il
ridicolo e puerile apologo del ventre e delle altre membra. Altrettanto si dica dell'analogo apologo
di Temistocle, della volpe e del riccio. E quale discorso di un sapiente avrebbe potuto raggiungere
l'efficacia della famosa cerva immaginata da Sertorio, o della trovata dei due cani, dello spartano
Licurgo, o dell'altra ridicola storia, sempre di Sertorio, sul modo di strappare i peli dalla coda del
cavallo? Per non parlare di Minosse e di Numa: entrambi governarono la stolta moltitudine con invenzioni
favolose. E' con simili sciocchezze che si fa presa su quella grossa e potente bestia che è il
popolo.
27. Viceversa, quale città ha mai fatto sue le leggi di Platone e di Aristotele, o i precetti di Socrate?
Che cosa persuase i Deci a votarsi spontaneamente agli Dèi Mani? Che cosa trascinò nella voragine
Quinto Curzio, se non la vanagloria, dolcissima sirena (ma quanto esecrata dai sapienti!).
Che c'è infatti di più sciocco, dicono, di un candidato che lusinga il popolo in tono supplichevole,
che compra i voti, che va in cerca degli applausi di tanti stolti, che si compiace delle acclamazioni,
che si fa portare in giro in trionfo, come una statua da mostrare al popolo, che fa collocare nel foro
il proprio simulacro di bronzo? Aggiungi la sfilza dei nomi e dei soprannomi, gli onori divini tributati
a un uomo insignificante, il fatto che si dà il caso di tiranni scelleratissimi elevati con pubbliche
cerimonie alla gloria dell'Olimpo. Sono autentiche manifestazioni di follia, e per riderci sopra non
basterebbe un solo Democrito. Chi lo nega? Tuttavia, proprio di qui sono nate le grandi imprese degli
eroi, levate al cielo dall'opera di tanti letterati. Questa follia genera le città; su di essa poggiano i
governi, le magistrature, la religione, le assemblee, i tribunali. La vita umana non è altro che un gioco
della Follia.
28. Quanto poi alle arti, cosa mai se non la sete di gloria ha suscitato nell'animo umano la brama
d'inventare e tramandare ai posteri tante discipline ritenute nobili? Furono uomini davvero stoltissimi
quelli che hanno creduto valesse la pena di conquistare a prezzo di tante faticose veglie quella
fama di cui niente può essere più vano. Ma intanto voi dovete alla Follia tante cose e così egregie
della vita, e, ciò che soprattutto conta, la follia altrui fa la vostra cuccagna.
29. C'è, ora, qualcosa di cui stupirsi se, dopo essermi attribuita la fortezza e l'operosità, rivendicherò
anche la saggezza? qualcuno potrebbe dire che è come accoppiare l'acqua e il fuoco. Eppure credo
che riuscirò anche in questo purché voi, come prima, mi prestiate benevola attenzione. In primo
luogo, se la saggezza si fonda sull'esperienza, a chi meglio conviene fregiarsi dell'appellativo di
saggio? Al sapiente che, parte per modestia, parte per timidezza, nulla intraprende, o al folle che né
il pudore, di cui è privo, né il pericolo, che non misura, distolgono da qualche cosa? Il sapiente si
rifugia nei libri degli antichi e ne trae solo sottigliezze verbali. Il folle affronta da vicino le situazioni
coi relativi rischi e così acquista, se non erro, la saggezza. Cosa, questa, che sembra avere visto,
benché cieco, Omero, quando dice: "Il folle capisce i fatti". Sono due infatti i principali ostacoli alla
conoscenza delle cose: la vergogna che offusca l'animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie
dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto: pochissimi sanno
quale messi di vantaggi ne derivi.
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perché, se preferiscono attingere quella sapienza che consiste nel saper giudicare delle cose, state a
sentire, vi prego, quanto ne sono lontani coloro che si spacciano per sapienti. In primo luogo, com'è
noto, tutte le cose umane, a guisa dei Sileni di Alcibiade, hanno due facce affatto diverse. A tal segno
che sulla faccia esteriore, come dicono, vedi la morte, mentre, se guardi dentro, scopri la vita; e,
viceversa, al posto della vita scopri la morte, al posto del bello il brutto, della ricchezza la miseria,
dell'infamia la gloria, della dottrina l'ignoranza, del vigore la debolezza, della generosità l'abiezione,
della letizia la malinconia, della prosperità la sventura, dell'amicizia l'inimicizia, del salutare il nocivo:
in breve, se apri il Sileno, trovi di tutte le cose l'opposto. Se poi qualcuno giudica troppo filosofico
questo discorso, mi spiegherò, come suol dirsi, più alla buona.
Chi negherà che un re è ricco e potente? Eppure, se manca del tutto dei beni dell'animo, se non è
mai contento di nulla, è davvero il più povero di tutti. Se poi il suo animo è una sentina di vizi, è
addirittura uno schiavo abietto. Lo stesso ragionamento si potrebbe fare anche per gli altri. Ma accontentiamoci
dell'esempio proposto. A che scopo? domanderà qualcuno. State a sentire dove voglio
arrivare.
Se uno tentasse di strappare la maschera agli attori che sulla scena rappresentano un dramma, mostrando
agli spettatori la loro autentica faccia, forse che costui non rovinerebbe lo spettacolo meritando
di esser preso da tutti a sassate e cacciato dal teatro come un forsennato? Di colpo tutto muterebbe
aspetto: al posto di una donna un uomo; al posto di un giovane, un vecchio; chi prima era un
re, d'improvviso diventa uno schiavo; chi era un Dio, ad un tratto appare un uomo da nulla. Dissipare
l'illusione significa togliere senso all'intero dramma. A tenere avvinti gli sguardi degli spettatori è
proprio la finzione, il trucco. L'intera vita umana non è altro che uno spettacolo in cui, chi con una
maschera, chi con un'altra, ognuno recita la propria parte finché, ad un cenno del capocomico, abbandona
la scena. Costui, tuttavia, spesso lo fa recitare in parti diverse, in modo che chi prima si
presentava come un re ammantato di porpora, compare poi nei cenci di un povero schiavo. Certo,
sono tutte cose immaginarie; ma la commedia umana non consente altro svolgimento.
A questo punto, se un sapiente caduto dal cielo si levasse d'improvviso a gridare che il personaggio
a cui tutti guardano come a un Dio e a un potente, non è neppure un uomo, perché come le bestie si
lascia dominare dalle passioni, che spontaneamente asservito a padroni così numerosi e turpi, è l'ultimo
degli schiavi; e, se ad un altro che piange il padre morto ordinasse di ridere perché il padre, finalmente,
ha cominciato a vivere, dato che questa vita altro non è che morte; e se chiamasse plebeo
e bastardo un terzo che mena vanto di una nobile nascita, ma che è ben lontano dalla virtù, unica
fonte di nobiltà: se allo stesso modo parlasse di tutti gli altri, non agirebbe costui proprio in modo
da sembrare a tutti pazzo da legare? Nulla di più stolto di una saggezza intempestiva; nulla di più
fuori posto del buon senso alla rovescia. Agisce appunto contro il buon senso chi non sa adattarsi al
presente, chi non adotta gli usi correnti, e dimentica persino la regola conviviale: o bevi o te ne vai,
e vorrebbe che una commedia non fosse più una commedia. Invece, per un mortale, è vera saggezza
non voler essere più saggio di quanto gli sia concesso in sorte, fare buon viso all'andazzo generale e
partecipare di buon grado alle umane debolezze. Ma, dicono, proprio questo è follia. Non lo contesterò,
purché riconoscano in cambio che questo è recitare la commedia della vita.
30. Quanto al resto, Dèi immortali, parlerò o tacerò? E perché mai dovrei tacere cose più vere della
verità? Ma forse, in così grave frangente, meglio sarebbe chiamare in aiuto dall'Elicona le Muse che
i poeti sono soliti invocare anche troppo spesso per vere sciocchezze. Assistetemi dunque per un
poco, figlie di Giove, finché non dimostri che nessuno senza la guida della follia può accedere alla
sapienza, a quella che chiamano la rocca della felicità.
In primo luogo, è pacifico che tutte le passioni rientrano nella sfera della follia: ciò che distingue il
savio dal pazzo è che questi si fa guidare dalle passioni, mentre il primo ha per guida la ragione.
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Perciò gli stoici spogliano il sapiente di tutte le passioni come fossero delle malattie. Tuttavia questi
elementi emotivi, non solo assolvono la funzione di guide per chi si affretta verso il porto della sapienza,
ma nell'esercizio della virtù vengono sempre in aiuto spronando e stimolando, come forze
che esortano al bene. Anche se qui fieramente leva la sua protesta Seneca, col suo stoicismo integrale,
negando al sapiente ogni passione. Ma così facendo distrugge anche l'uomo e crea al suo posto
un Dio di nuovo genere, che non è mai esistito e non esisterà mai; anzi, per parlare ancora più chiaro,
scolpisce la statua di un uomo di marmo, privo d'intelligenza e di qualunque sentimento umano.
Perciò, se lo desiderano, si godano pure il loro saggio, che potranno amare senza rivali, e dimorino
con lui nella Repubblica di Platone, o, se preferiscono, nel mondo delle idee, o nei giardini di Tantalo.
Chi, infatti, non sfuggirà con orrore come spettro mostruoso un uomo così fatto, sordo ad ogni naturale
richiamo, incapace d'amore o di pietà, come "una dura selce o una rupe Marpesia"? Un uomo
cui non sfugge nulla, che non sbaglia mai, ma che con l'occhio acuto di Linceo tutto vede, tutto pesa
con assoluta precisione, nulla perdona; solo di sé contento, lui solo ricco, lui solo sano, lui solo re,
lui solo libero. Per dirla in breve, lui solo tutto (e solo a suo giudizio); senza amici, pronto a mandare
all'inferno gli stessi Dèi, e che condanna come insensato e risibile tutto ciò che si fa nella vita.
Eppure quel perfetto sapiente è proprio un animale fatto così. Ma, di grazia, se si dovesse decidere
con i voti, quale città lo vorrebbe come magistrato, quale esercito lo designerebbe come capo? Quale
donna vorrebbe o sopporterebbe un simile marito, quale anfitrione un simile convitato, quale servo
un padrone con questi costumi? Chi non preferirebbe un uomo qualunque, uno della folla dei
pazzi più segnalati, che, pazzo com'è, possa comandare o obbedire ad altri pazzi, attirando la simpatia
dei suoi simili, che poi sono tanti? Gentile con la moglie, gradito agli amici, buon commensale;
uno con cui si possa convivere, che, infine, non ritenga estraneo a sé niente di ciò che è umano? Ma
ormai del sapiente ne ho abbastanza. Perciò torniamo a parlare degli altri vantaggi che offro.
31. Supponiamo che potendo spaziare da una specola sublime con lo sguardo tutt'attorno - come,
secondo i poeti, fa Giove - uno veda quante avversità minaccino la vita, quanto infelice e miserabile
sia la nascita, quanto faticosa l'educazione, e tutte le offese cui va incontro la fanciullezza, tutti gli
affanni della gioventù, e com'è pesante la vecchiaia, come amara la fatale morte; tutta la schiera delle
malattie, dei vari accidenti, l'incalzare delle contrarietà: nulla mai che sia immune da un amaro
veleno; per non dire di quei mali che l'uomo subisce dall'uomo, come la povertà, la prigionia, l'infamia,
la vergogna, la tortura, le insidie, il tradimento, le ingiurie, i processi, le frodi. Ma dire tutto è
come mettersi a contare i granelli di sabbia. Certo non spetta a me, dire qui per quali colpe gli uomini
abbiano meritato questa sorte, o quale Dio irato li abbia costretti a nascere tanto infelici. Chi
rifletta a tutto questo non sarà forse portato ad approvare l'esempio, pur così penoso, delle vergini di
Mileto? E quali sono soprattutto gli uomini che, per disgusto della vita, si sono dati la morte? Non
sono forse quelli che alla sapienza si erano accostati di più? Tralasciando Diogene, Senocrate, i Catoni,
i Cassi, i Bruti, prendiamo il famoso Chirone che, potendo diventare immortale, preferì cercare
spontaneamente la morte. Credo vi sia chiaro che cosa accadrebbe se la sapienza si diffondesse; sarebbe
necessario altro fango e un secondo Prometeo capace di plasmare altri uomini. Io, invece,
puntando ora sull'ignoranza e ora sulla spensieratezza, a volte facendo dimenticare i malanni, a volte
suscitando speranze di cose favorevoli, esaltando i piaceri con qualche stilla di miele, in così
grandi malanni, sono così soccorrevole che nessuno vuole lasciare la vita, neppure quando il filo
delle Parche è già esaurito e la vita stessa viene meno. Anzi chi ha minori motivi di restare in vita,
tanto più ama vivere, tanto è lontano dall'essere comunque sfiorato dal tedio della vita.
Si deve certo a me, se si vedono in giro tanti vecchi annosi quanto Nestore, vecchi che non hanno
più neppure volto d'uomo, balbuzienti, svaniti, sdentati, canuti, calvi, o, per dirla con Aristofane,
lerci, curvi, miseri, rugosi, senza capelli, senza denti, lascivi, ma a tal segno amanti della vita e tanto
inclini a fare i giovinetti, che ora si tingono i capelli, ora nascondono la calvizie con una parrucca e
ora si servono di denti presi a prestito magari da un porco; mentre c'è tra loro chi si strugge d'amore
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per una fanciulla e, in fatto di amorose sciocchezze, dà punti anche a un ragazzino. Che vecchi
rammolliti, già pronti per il cataletto, sposino giovinette, anche se prive di dote e destinate a fare la
gioia di altri, è cosa ormai così frequente da costituire quasi motivo di vanto.
Ma nulla c'è di più spassoso di certe vecchie praticamente già morte tanto sono decrepite, a tal punto
cadaveriche da sembrare reduci dagl'inferi, ma che hanno sempre sulle labbra il ritornello: "la vita
è bella"; fanno ancora le vezzose; mandano sentore di capra - come dicono i Greci; conquistano a
caro prezzo un qualche Faone, s'imbellettano di continuo, stanno sempre allo specchio, si sfoltiscono
i peli del pube, ostentano le vecchie mammelle avvizzite, sollecitano con tremuli mugolii il desiderio
che vien meno, bevono, si inseriscono nelle danze delle fanciulle, scrivono bigliettini amorosi.
Sono cose di cui tutti ridono come di indubbie follie; ed hanno ragione: ma loro, le vecchie, sono
tanto contente di sé, nuotano in un mare di delizie, gustano dolcezze senza fine, sono felici: e tutto
per merito mio. Vorrei che chi giudica queste cose degne d'irrisione riflettesse un po': è meglio trascorrere
nella follia una vita colma di dolcezza, o andare cercando, come suol dirsi, una trave a cui
impiccarsi?
Che la loro condotta sia giudicata comunemente vergognosa, ai miei pazzi non importa proprio nulla:
nemmeno se ne accorgono, o, se ne hanno sentore, non ne tengono nessun conto. Prendersi un
sasso in testa, questo sì che fa male. La vergogna, l'infamia, il disonore, le offese, nuocciono nella
misura in cui fanno soffrire. Per chi non se la prende, non sono neppure un male. Che t'importa se
tutti ti fischiano, se tu ti applaudi? Che questo ti sia possibile lo devi alla sola Follia.
32. Mi pare di sentire protestare i filosofi: l'infelicità, dicono, è proprio qui, nell'essere prigionieri
della Follia, sbagliare, vivere nell'inganno, nell'ignoranza. Ma essere uomo è appunto questo. né riesco
a capire perché parlino d'infelicità: così siete nati, educati, formati: questa è la sorte comune a
tutti. Nessuno è infelice quand'è in armonia con la propria natura, a meno di compiangere l'uomo
perché non può volare con gli uccelli, né camminare a quattro zampe con gli altri mammiferi, o perché,
a differenza dei tori, non è armato di corna. Da tal punto di vista chiameremo infelice anche un
bellissimo cavallo perché non sa di grammatica e non mangia dolciumi, infelice il toro in quanto
negato agli esercizi della palestra. In realtà, come non è infelice il cavallo che ignora la grammatica,
così non è infelice l'uomo per la sua follia, che è conforme alla sua natura.
Ma ecco che quegli esperti del ragionamento tortuoso tornano alla carica. E' dono peculiare dell'uomo,
dicono, la conoscenza scientifica, di cui si serve per compensare con l'ingegno ciò che la
natura gli ha negato. Come se fosse verosimile che la natura, così sollecita nei confronti delle zanzare
e perfino delle erbette e dei fiorellini, avesse tirato via solo nella creazione dell'uomo, rendendogli
necessarie quelle scienze che Theuth, col suo genio ostile al genere umano, inventò per nostra
somma iattura: tanto inadatte a renderci felici che anzi contrastano col loro presunto fine, come con
eleganza sostiene in Platone un re molto saggio a proposito dell'invenzione dell'alfabeto. Le scienze
dunque sono penetrate fra gli uomini, insieme alle altre calamità della vita mortale, per opera di coloro
da cui partono tutti i malanni, i demoni che ne hanno anche derivato il nome, in greco DAEMONES,
ossia "coloro che sanno". La gente semplice dell'età dell'oro, del tutto priva di dottrina,
viveva sotto l'unica guida della natura e dell'istinto. Che bisogno c'era della grammatica, quando tutti
parlavano la stessa lingua e niente altro si chiedeva se non di capirsi l'un l'altro? A che la dialettica,
se non c'era contrasto di opposte posizioni? A che la retorica, se nessuno intentava cause al prossimo?
E che bisogno c'era della giurisprudenza, se non c'erano quei cattivi costumi che, senza dubbio,
hanno fatto nascere le buone leggi? Erano troppo religiosi per scrutare con empia curiosità i
misteri della natura, la grandezza, i moti, gl'influssi delle stelle, le cause riposte delle cose, giudicando
vietato ai mortali il tentativo di conoscere più di quanto era loro concesso. Lo stolto desiderio
di andare a cercare cosa ci fosse di là dal cielo non passava neppure per la mente. Col graduale esaurirsi
dell'età dell'oro, dapprima, come ho detto, dai demoni del male furono inventate le scienze,
ma poche, e limitate a pochi. Poi, i Caldei con la loro superstizione, e quei perdigiorno dei Greci coi
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loro interessi svagati, moltiplicarono a dismisura queste autentiche torture della mente. Con la sola
grammatica ce ne sarebbe già di troppo per il tormento di una vita intera.
33. Tuttavia tra queste scienze le più pregiate sono le più vicine al senso comune, cioè alla Follia. I
teologi fanno la fame, i fisici soffrono il freddo, gli astrologi sono derisi, i dialettici non contano
nulla, mentre un solo medico vale quanto molti uomini. In questa professione quanto più uno è ignorante,
avventato, leggero, tanto più è considerato dagli stessi prìncipi con tanto di corona in testa.
La medicina, infatti, specialmente come viene esercitata oggi dai più, si riduce, come la retorica,
a una forma di adulazione. Il secondo posto, con un brevissimo stacco, spetta ai legulei - e starei
per dire il primo; la loro professione, per non esprimere pareri personali, è irrisa per lo più dai filosofi,
fra il generale consenso, come un'arte da asini. Tuttavia gli affari, dai più grandi ai più piccoli,
sono a discrezione di questi asini. I loro latifondi si estendono, mentre il teologo, dopo essersi documentato
su tutti gli aspetti della divinità, rosicchia lupini, impegnato in una guerra continua con
cimici e pidocchi.
Ma, se le arti più fortunate sono quelle più affini alla Follia, più fortunati fra tutti sono coloro che
riescono a tenersi lontani da qualunque disciplina per seguire la sola guida della natura che in nessuna
parte è manchevole, a meno che non pretendiamo di oltrepassare i confini della nostra sorte
mortale. La natura odia gli artifici: fortunato chi è rimasto immune dalla contaminazione delle arti.
34. Orsù, non vedete che fra le varie specie animali se la passano meglio di tutte proprio le più lontane
dalle arti, quelle che hanno per unica maestra e guida la natura? che c'è di più felice o mirabile
delle api? E dire che non hanno neppure tutti i sensi. Come potrebbe un architetto realizzare qualcosa
di simile alle loro costruzioni? quale filosofo mai fondò una Repubblica come la loro? Il cavallo,
invece, poiché è simile all'uomo dal punto di vista dei sensi ed è diventato suo compagno, è anche
partecipe delle umane calamità. Non di rado, vergognandosi di perdere in gara, si sfianca nella corsa;
in guerra, assetato di vittoria, viene colpito e morde la polvere insieme al cavaliere. Per non parlare
del morso, degli sproni aguzzi, della stalla dove è quasi prigioniero, del frustino, del bastone,
delle redini, del cavaliere, per dirla in breve, di tutta la tragica schiavitù a cui si è votato spontaneamente
nel tentativo di vendicarsi a ogni costo del nemico emulando gli eroi. Quanto più invidiabile
la condizione delle mosche e degli uccellini, che vivono alla giornata obbedendo solo al naturale istinto,
sempre che lo consentano le insidie degli uomini! Gli uccelli, infatti, chiusi in gabbia e ammaestrati
a imitare la voce umana, quanto si allontanano dal primitivo splendore! A tal segno, sotto
tutti i rispetti, il prodotto di natura è migliore di quello che l'arte ha adulterato.
Perciò non loderò mai abbastanza il gallo in cui si reincarnò Pitagora che, essendo stato tutto, filosofo,
uomo, donna, re, principe, privato cittadino, pesce, cavallo, rana e, credo, anche spugna, nessun
animale, tuttavia, giudicò più disgraziato dell'uomo, perché, mentre tutti gli altri sono contenti
dei loro limiti naturali, soltanto l'uomo tenta di oltrepassare i confini della sua condizione.
35. E tra gli uomini, sotto molti punti di vista, antepone i semplici ai dotti e ai grandi. Molto più
saggio di Ulisse, simbolo della scaltrezza, Grillo che preferì di grugnire in un porcile piuttosto che
andare con lui incontro a tante calamità. Mi pare la pensi così anche Omero, padre delle favole, che,
mentre di continuo dice gli uomini miseri e travagliati, e a più riprese chiama infelice Ulisse con la
sua proverbiale avvedutezza, non usa mai questo termine parlando di Paride, o di Aiace, o di Achille.
perché mai? Soltanto perché, quell'astuto inventore di trucchi agiva solo sotto la spinta di Pallade,
e, quanto mai sordo a ogni richiamo della natura, era tutto cervello.
Perciò i più lontani dalla felicità sono tra i mortali quelli che aspirano alla sapienza, doppiamente
stolti perché, dimentichi della loro condizione di uomini, si atteggiano a Dèi immortali e, a somiglianza
dei giganti, dichiarano guerra alla natura valendosi di ordigni costruiti dalla loro perizia; i
meno infelici, invece, sembrano quelli che restano più vicini all'istinto e alla stupidità dei bruti, né
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tentano mai di oltrepassare le capacità dell'uomo. Proverò anche a dimostrarlo, e non con gli entimèmi
degli stoici, ma con qualche esempio alla portata di tutti. Per gli Dèi immortali, vi è forse al
mondo qualcosa di più felice di quella specie di uomini chiamati volgarmente scimuniti, stolti, fatui,
sciocchi? appellativi, a mio parere, onorevolissimi. Dirò anzi una cosa che, se a prima vista può
sembrare una sciocchezza ed un'assurdità, in fondo è di una verità indiscutibile.
Loro, innanzitutto, non hanno paura della morte, male, per Giove, non trascurabile. Non li tormentano
rimorsi di coscienza; non li turbano le storie degli spiriti dei defunti; non hanno paura delle apparizioni;
non si crucciano per il timore di mali incombenti; non entrano in ansia nella speranza di
beni futuri. Insomma, non sono in balìa dei mille affanni a cui è esposta la nostra vita. Ignorano la
vergogna, il timore, l'ambizione, l'invidia, l'amore. Infine, chi più si avvicina alla stupidità dei bruti
- ne sono garanti i teologi - è anche immune dal peccato. Ed ora, mio sciocchissimo saggio, vorrei
che tu mi esternassi tutti gli affanni che notte e giorno tormentano il tuo animo e facessi un bel
mucchio di tutti i tuoi guai; alla fine capiresti quanto gravi mali ho risparmiato ai miei folli. Aggiungi
che, non solo vivono in perpetua letizia, scherzando, canterellando, ridendo, ma offrono anche
a tutti gli altri, dovunque vadano, motivi di piacere, scherzo, divertimento e riso, come se la benevolenza
divina proprio a questo li avesse votati: a rallegrare la tristezza della vita umana. Perciò,
mentre gli uomini provano, caso per caso, sentimenti diversi verso i loro simili, nei confronti di
questi pazzi nutrono senza eccezione sentimenti amichevoli: li vanno a cercare, li nutrono, li stringono
in una sorta di caldo abbraccio e, all'occorrenza, li soccorrono, non tenendo in nessun conto
quanto possono dire o fare. Nessuno desidera fargli del male. Persino le bestie feroci li risparmiano,
istintivamente consapevoli della loro innocenza. Infatti sono davvero sacri agli Dèi, e a me in particolare.
Perciò, a buon diritto, sono da tutti onorati.
36. Grandi re, tanto se ne dilettano, che alcuni di loro, nemmeno per un'ora, possono farne a meno
né a tavola né a passeggio. Non di poco preferiscono questi buffoni agli austeri filosofi, che tuttavia
sono soliti mantenere per ragioni di prestigio. perché poi li preferiscano, non mi sembra un mistero,
né deve destare stupore; quei saggi, per i prìncipi, sono solo apportatori di tristezza; talora fidando
nella loro dottrina, non si peritano di sfiorare quelle orecchie delicate con qualche pungente verità. I
buffoni, invece, offrono ai prìncipi la sola cosa che questi desiderano con tutta l'anima: delizie come
passatempo, scherzi, risate, divertimenti. E non dimenticate anche questa non trascurabile dote dei
folli: solo loro sono schietti e veritieri.
E che c'è mai di più lodevole della verità? Anche se in Platone un detto d'Alcibiade attribuisce la
verità al vino e ai fanciulli, si tratta tuttavia di un elogio che, in assoluto, spetta soprattutto a me. Ne
fa fede Euripide che a me si riferisce col celebre detto: "Il folle dice cose folli". Il folle porta scritto
in faccia, e traduce in parole, tutto quanto ha nel cuore. I saggi, invece, sempre secondo Euripide,
hanno due linguaggi: quello della verità e quello dell'opportunismo. E' loro caratteristica mutare il
nero in bianco, spirando dalla medesima bocca ora il freddo ora il caldo, avendo in fondo al cuore
tutt'altro da quello che dicono nei loro artefatti discorsi. Nella loro fortuna i prìncipi a me sembrano
sotto questo rispetto molto sfortunati: non hanno nessuno che dica loro la verità, e sono costretti ad
avere come amici degli adulatori.
Ma, si potrebbe osservare, le orecchie dei prìncipi detestano la verità e proprio per questo rifuggono
dai saggi, nel timore che qualcuno di lingua più sciolta osi dire cose vere piuttosto che gradevoli.
Così è: i re non amano la verità. Tuttavia proprio questo si volge mirabilmente in vantaggio per i
miei folli: da loro si ascoltano con piacere, non solo la verità, ma anche indubbie insolenze, a tal
punto che, la stessa cosa, detta da un sapiente, gli frutterebbe la morte, detta da un buffone diverte il
signore oltre ogni dire. La verità, infatti, ha un non so quale schietta capacità di piacere, purché non
si accompagni all'intenzione di offendere: ma questo è un dono che gli Dèi hanno elargito ai soli
folli.
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Sono press'a poco medesime le ragioni per cui le donne, più inclini per natura al divertimento e alle
frivolezze, si trovano di solito tanto bene con un simile genere di uomini. Perciò, qualunque cosa
costoro facciano - anche se a volte sono cose fin troppo serie - le donne, tuttavia, le volgono in
scherzo e gioco, abili come sono nel mascherare ogni loro trascorso.
37. Ma ora torniamo alla felicità dei folli. Trascorsa la vita in grande letizia, senza né il timore né il
senso della morte, se ne vanno diritti ai campi Elisi, per dilettare anche lì, coi loro scherzi, il riposo
delle anime pie.
Paragoniamo quindi la condizione del saggio con quella di questo buffone. Immagina, per contrapporlo
a lui, un modello di sapienza: un uomo che abbia consumato tutta la fanciullezza e l'adolescenza
a istruirsi in mille modi, perdendo la parte migliore della propria vita in veglie senza fine, in
affanni e fatiche; che nemmeno in tutto il resto della propria vita abbia mai gustato un istante di piacere;
sempre parco, povero, triste, austero, inflessibile con se stesso, fastidioso e inviso agli altri;
pallido, macilento, cagionevole; invecchiato e incanutito prima del tempo, colto da morte prematura,
anche se nulla importa, dopo tutto, quando muore un uomo così, che non è mai vissuto. Ecco
l'immagine perfetta del sapiente.
38. A questo punto, sento che le rane del Portico si rimettono a gracidare contro di me. "Niente, dicono,
è più miserevole della demenza. Ma una eminente follia è molto vicina alla demenza, o è demenza
essa stessa. Che cosa infatti è la demenza, se non l'uscire di senno? e costoro ne sono usciti
del tutto. "Orsù, vediamo di confutare con l'aiuto delle Muse anche questo sillogismo". Certo il loro
ragionamento è sottile, ma, come il Socrate platonico, procedendo per divisione, di una Venere e di
un Cupido ne faceva due, così anche i nostri dialettici, se volevano apparire in senno, dovevano distinguere
dissennatezza da dissennatezza. Infatti non ogni follia è fonte di guai. Altrimenti Orazio
non si sarebbe chiesto: "Si prende forse gioco di me un'amabile follia?", né Platone avrebbe collocato
il delirio dei poeti, dei vati e degli amanti tra i massimi doni della vita; né la Sibilla avrebbe
chiamato folle l'impresa di Enea.
In verità ci sono due specie di follia. Una scaturisce dagli inferi tutte le volte che le crudeli dee della
vendetta, scatenando i loro serpenti, suscitano nei cuori dei mortali ardore di guerra, o insaziabile
sete di oro, o amore turpe e scellerato, parricidio, incesto, sacrilegio, e altri consimili orrori; oppure
quando travagliano con le furie e le faci tremende, un animo conscio dei propri delitti. L'altra, non
ha nulla in comune con questa; nasce da me e tutti la desiderano. Si manifesta ogni volta che una
dolce illusione libera l'animo dall'ansia e lo colma, insieme, di mille sensazioni piacevoli. Proprio
questa illusione Cicerone, scrivendo ad Attico, augura a se stesso come un gran dono degli Dèi, per
potersi liberare dall'oppressione dei gravi mali incombenti. né aveva torto quell'argivo che era pazzo
al punto da sedere da solo in teatro per giornate intere, ridendo, applaudendo, godendosela, perché
credeva vi si rappresentassero tragedie bellissime, mentre non si rappresentava proprio nulla. Eppure,
in tutte le altre faccende della vita, era perfettamente normale: cordiale con gli amici, "gentile
con la moglie, capace di perdonare ai servi e di non dare in escandescenze se il sigillo rotto denunciava
la bottiglia aperta". Guarito dalle cure dei familiari che gli somministrarono le medicine del
caso, tornato del tutto in sé, così si lamentava con gli amici: "Per Polluce! m'avete ammazzato, amici
miei, e non salvato, privandomi del piacere e togliendomi con la forza quella mia così dolce illusione".
Aveva ragione: erano loro che sbagliavano e che, più di lui, avevano bisogno dell'elleboro, loro che
credevano di dover estirpare con le medicine, quasi fosse un malanno, una così felice e piacevole
follia.
Tuttavia non ho ancora accertato se qualunque errore del senso o della mente meriti il nome di follia.
Se uno che ci vede poco scambia un mulo per un asino, se un altro ammira come un monumento
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di dottrina una rozza poesia, non si può senz'altro chiamarlo pazzo. Ma se uno sbaglia, non solo col
senso, ma anche col giudizio della mente, e questo gli accade sempre e in proporzioni insolite, di
lui, sì, diremo che ha un ramo di pazzia; come chi, sentendo un asino ragliare, credesse di ascoltare
un meraviglioso concerto, o chi, povero e di umili origini, credesse di essere Creso, re di Lidia. Ma
quando questa specie di follia, come di solito accade, assume aspetti piacevoli, è di non piccolo diletto,
sia per coloro che ne sono posseduti, sia per quelli che stanno a vedere senza esserne colpiti.
Si tratta, si badi, di un'affezione molto diffusa; più di quanto di solito si crede. Il pazzo ride del pazzo,
e a vicenda si offrono diletto. E non di rado vi accadrà di vedere che, di due pazzi, è il più pazzo
quello che più si prende gioco dell'altro.
39. Eppure, ve lo assicura la Follia in persona, uno è tanto più felice quanto più la sua follia è multiforme,
purché si mantenga entro il genere a me peculiare: un genere così diffuso che non so se fra
tutti gli uomini se ne possa trovare uno solo che sia costantemente saggio, e che sia del tutto immune
da una qualche forma di pazzia. La differenza è tutta qui: chi vedendo una zucca la scambia per
la moglie, viene chiamato pazzo perché la cosa succede a pochissimi. Chi invece, avendo la moglie
in comune con molti, giura che è più virtuosa di Penelope, e, felice del suo errore, è orgoglioso di
sé, nessuno lo chiama pazzo, perché la cosa accade spesso e dovunque.
Appartengono alla confraternita anche coloro che disprezzano tutto in confronto ad una partita di
caccia, e vanno dicendo di provare un incredibile piacere tutte le volte che sentono il suono cupo del
corno e l'abbaiare dei cani. Credo che anche gli escrementi dei cani, quando li annusano, mandino
per loro profumo di cinnamomo. E quale dolcezza squartare la selvaggina! L'umile plebe può squartare
tori e castrati, ma sarebbe un delitto farlo con un capo di selvaggina: questa è prerogativa di
nobili. A capo scoperto sta il nobile, piegati i ginocchi, col coltello destinato allo scopo (è vietato
servirsi di uno strumento qualunque), con gesti rituali, in pio raccoglimento, taglia determinate
membra in un determinato ordine. Una folla silenziosa lo circonda, ammirata come se assistesse a
non so quale nuovo rito, mentre si tratta di uno spettacolo visto e rivisto. Se poi uno ha la fortuna
d'assaggiare un bocconcino della preda, crede di avanzare non poco in nobiltà. Costoro, cacciando e
cibandosi in continuazione di selvaggina, mentre ottengono solamente di trasformarsi press'a poco
in fiere, si illudono invece di menar vita da re.
Molto simili sono quanti, in preda alla frenesia del costruire, senza posa trasformano il quadrato in
rotondo, o il rotondo in quadrato. Procedono ignari di ogni limite e misura finché, ridotti in estrema
povertà, non hanno più né tetto né cibo. Ma che gli importa del dopo? Intanto, per alcuni anni, sono
stati immensamente felici.
Molto vicini a costoro, mi pare, sono quelli che con arti nuove e arcane, tentano di trasformare la
natura degli elementi e cercano per terra e per mare la quinta essenza. Si nutrono di una speranza
così dolce da non tirarsi mai indietro di fronte a spese o fatiche, e con mirabile spirito inventivo ne
pensano sempre qualcuna per ingannarsi una volta di più e per rivestire l'inganno di liete apparenze,
finché, dato fondo a tutto il loro, non possono costruire più niente, nemmeno un fornello. Non per
questo, tuttavia, smettono di sognare i loro bei sogni, ma spingono con tutte le loro forze anche gli
altri verso la medesima felicità. E quando l'ultima speranza li ha abbandonati, resta tuttavia, a consolarli
pienamente, un detto: le grandi cose basta averle volute. Accusano allora la brevità della vita,
inadeguata alla grandezza dell'impresa.
Sono in dubbio se annoverare nella nostra congrega i giocatori. Tuttavia è decisamente uno spettacolo
di spassosa follia vedere a volte gente così schiava del gioco da sentirsi venire le palpitazioni
appena giunge al loro orecchio il rumore di dadi. Quando poi, obbedendo al costante stimolo della
speranza di vincere, vedono naufragare tutta la loro fortuna, infranta contro lo scoglio del gioco, ben
più insidioso del Capo Malea, appena in salvo, nudi di tutto, per non farsi la fama di uomini poco
seri, defraudano chiunque, piuttosto che chi nel gioco li ha vinti. E che dire di quando, ormai vec23
chi, con la vista che vacilla, ricorrendo alle lenti, continuano a giocare? E quando infine la meritata
gotta impedisce l'uso delle mani, arrivano a pagare un sostituto che getti sulla tavola, per loro, i dadi.
Gran bella cosa sarebbe il gioco, se il più delle volte non volgesse in passione rabbiosa; ma qui
siamo ormai nel regno delle Furie, non nel mio.
40. E' senza dubbio della mia pasta, invece, la schiera di quegli uomini che si divertono ad ascoltare
o narrare storie di miracoli o di prodigi fantastici e non si stancano mai di ascoltare favole in cui si
parla di eventi portentosi, di spettri, di fantasmi, di larve, degl'inferi, o di altre innumerevoli cose
del genere. Quanto più la favola si scosta dal vero, tanto più volentieri ci credono, tanto più voluttuosamente
le loro orecchie ne sono solleticate. Di qui, non solo un apprezzabile passatempo contro
la noia, ma anche una fonte di guadagno, specialmente per i sacerdoti ed i predicatori.
Sono della stessa razza quanti nutrono la folle ma piacevole convinzione di non essere esposti a morire
in giornata, se hanno visto il simulacro ligneo o l'immagine dipinta di un gigantesco san Cristoforo
(il nuovo Polifemo); o credono di tornare sani e salvi dalla battaglia, se hanno rivolto le debite
preghiere alla statua di santa Barbara; o di arricchirsi in breve rendendo omaggio a sant'Erasmo in
certi giorni, con speciali moccoli e determinate formulette. In san Giorgio hanno scoperto una specie
di Ercole e hanno anche un secondo Ippolito. Quasi adorano il suo cavallo dopo averlo adornato
con la massima devozione di falere e di borchie, né risparmiano offerte di ogni sorta per accaparrarsi
la benevolenza del santo; giurare per il suo elmo di bronzo, secondo loro, è proprio degno di un
re.
Che dire poi di quelli che, nella dolcissima illusione di immaginarie indulgenze accordate ai loro
peccati, computano quasi con l'orologio alla mano il periodo da passare in purgatorio, numerando
secoli, anni, mesi, giorni, ore, secondo una sorta di tavola matematica sicura al cento per cento. O di
quelli che fidando in segni magici o in giaculatorie inventate da qualche pio ciurmadore, o per naturale
disposizione, o a scopo di lucro, non pongono limiti alle loro speranze: ricchezze, onori, piaceri,
abbondanza di tutto, una salute costantemente ottima, una lunga vita, una vecchiaia vegeta, e, alla
fine, nel regno dei cieli, un seggio proprio accanto a Cristo. Questo, però, senza fretta, per carità;
ben vengano le delizie dei beati, ma quando, con disappunto, dovranno lasciare i piaceri della vita a
cui sono abbarbicati con le unghie e coi denti.
Immagina un negoziante, ma anche un soldato, un giudice: rinunciando a una sola monetina dopo
tante ruberie, crede di avere lavato una volta per tutte il fango di un'intera vita, un'autentica palude
di Lerna, e ritiene che tanti spergiuri, tanta libidine, tante ubriacature, tante risse, tante stragi, tante
imposture, tante perfidie, tanti tradimenti, siano riscattati come in base ad un regolare patto, e riscattati
al punto da poter ricominciare da zero una nuova catena di delitti.
E chi è più folle, o meglio più felice, di quanti recitando ogni giorno sette versetti del salterio si ripromettono
una beatitudine sconfinata? A indicare a san Bernardo quei magici versetti si crede sia
stato un demone faceto, più sciocco invero che furbo, se, poveretto, rimase intrappolato nel suo
stesso inganno. Roba da matti! persino io me ne vergogno. Sono cose, tuttavia, che godono l'approvazione,
non solo del volgo, ma anche di chi propina insegnamenti religiosi.
O non è forse lo stesso caso di quando ogni regione reclama il suo particolare santo protettore, ognuno
coi suoi poteri, ognuno venerato con determinati riti? questo fa passare il mal di denti; quello
assiste le partorienti. C'è il santo che fa recuperare gli oggetti rubati, quello che rifulge benigno al
naufrago, un altro che protegge il gregge; e via discorrendo. Troppo lungo sarebbe elencarli tutti.
Ve ne sono che da soli possono essere utili in parecchi casi; vi ricordo la Vergine, madre di Dio, alla
quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al figlio.
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41. Infine, che cosa chiedono gli uomini a questi santi, se non cose che sanno di follia? Fra tanti exvoto
di cui sono zeppe le pareti, e persino le volte di certe Chiese, ne avete mai visti di chi fosse
guarito dalla follia, o che fosse diventato, sia pure uno zinzino, più saggio? Qualcuno si è salvato a
nuoto; un altro, ferito dal nemico, è riuscito a sopravvivere; chi, abbandonato il campo mentre gli
altri combattevano, ne è uscito con fortuna salvando anche l'onore; uno, con l'aiuto di un santo protettore
dei ladri, è caduto dal patibolo per poter continuare ad alleggerire delle loro ricchezze quelli
che non le meritano. Chi è fuggito dal carcere forzando la porta; un altro è guarito dalla febbre con
disappunto del medico; a uno la bevanda velenosa non è stata letale, perché, sciogliendogli il corpo,
gli è servita da medicina, con scarsa soddisfazione della moglie che si era data da fare per niente.
Un uomo, pur essendoglisi rovesciato il carro, ha riportato sani e salvi i cavalli. Un altro ancora, rimasto
sotto le macerie, è sopravvissuto; uno, infine, colto sul fatto da un marito, è riuscito a svignarsela.
Nessuno che renda grazie per essere stato guarito dalla pazzia. Gran bella cosa mancare di senno, se
i mortali tutto deprecano, fuori che la follia. Ma perché poi mi vado a cacciare in questo mare di superstizioni?
"Cento lingue, cento bocche, un'ugola di ferro, non mi basterebbero a enumerare tutte le
varietà di pazzi, a elencare tutte le forme di follia." (Virgilio, "Eneide"). A tal punto la cristianità intera
trabocca di vaneggiamenti del genere; e i sacerdoti stessi sono pronti ad ammetterle e incoraggiarle,
non ignorando il guadagno che di solito ne viene. Se però nel frattempo qualche odioso saggio
si levasse a dire le cose come stanno - "morirai bene, se bene hai vissuto; laverai i tuoi peccati,
se all'offerta di una moneta aggiungerai il pentimento con lacrime, veglie, preghiere, digiuni, e un
radicale cambiamento di vita; avrai la protezione di questo Santo, se ne imiterai la vita" -; se quel
saggio si mettesse a ripetere queste cose ed altre del genere, vedresti in quale sgomento farebbe precipitare
le anime dei mortali, prima così colme di letizia!
Rientrano in questa congrega coloro che da vivi stabiliscono la pompa del proprio funerale con tanta
cura da indicare il numero delle torce, degli incappati, dei cantori, dei lamentatori di mestiere,
come se dovessero avere un qualche sentore dello spettacolo, o se da morti potessero vergognarsi
qualora il cadavere non fosse sepolto con la debita magnificenza, a somiglianza di chi, elevato ad
una carica, si preoccupa di organizzare giochi e banchetto.
42. Per quanto cerchi di non dilungarmi, non riesco proprio a passare sotto silenzio coloro che, in
nulla diversi dall'ultimo ciabattino, si compiacciono tuttavia oltremodo di un vano titolo nobiliare.
Chi, a sentir lui, discende da Enea, chi da Bruto, chi da Arturo; mostrano da ogni parte gli antenati
in effigie, ritratti da scultori e pittori. Ti enumerano uno dopo l'altro bisavoli e trisavoli ricordandone
gli antichi soprannomi, mentre per parte loro non dicono molto di più di una muta statua, anzi dicono
meno dei ritratti che ostentano. E tuttavia il dolce amore di sé li fa vivere in perfetta letizia. né
mancano gli sciocchi che guardano a questa razza di animali come se fossero divinità.
Ma perché perdermi a parlare dell'una o dell'altra specie di gente, come se dappertutto la nostra Filautìa
non fosse per tanti, e nelle forme più inattese, fonte di grandissima felicità?
Questo qui è più brutto di una scimmia, e si crede un Nireo. Un altro, appena ha tracciato tre linee
col compasso, si crede Euclide. Un altro ancora, che sta come un asino davanti alla lira, ed ha mezzi
vocali degni di un gallo in amore quando si avventa sulla gallina, s'immagina di essere un secondo
Ermogene. Un posto a parte merita quell'ineffabile genere di follia per cui tanti, se uno dei loro servi
ha delle doti, se ne gloriano come di cosa propria. Come quel riccone doppiamente felice di cui
parla Seneca, che, se doveva raccontare una storiella, teneva d'intorno i servi perché gli suggerissero
i nomi; e, fidando nel fatto di averne in casa tanti assai ben piantati, pur essendo così debole da reggere
l'anima coi denti, non avrebbe esitato a cimentarsi in una gara di pugilato.
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A che ricordare chi fa professione di artista? La filautìa è peculiare a tutta questa gente a tal segno,
che faresti prima a trovarne uno disposto a cedere il campicello paterno che a rinunziare al suo talento,
soprattutto nell'ambito degli attori, dei cantori, degli oratori e dei poeti. Quanto più uno lascia
a desiderare, tanto più è arrogante nell'autocompiacimento, tanto più si vanta, tanto più si gonfia. Il
simile ama il simile, e quanto meno si vale tanto più si è ammirati; i più vanno sempre dietro alle
cose peggiori, perché, come ho detto, la maggior parte degli uomini è soggetta alla follia. Quindi, se
chi è più ignorante è più contento di sé e ha più largo successo, cosa mai lo dovrebbe indurre ad optare
per una cultura autentica, che in primo luogo gli costerebbe parecchio, e in secondo luogo lo
renderebbe più fragile e più timido; e, infine, restringerebbe sensibilmente la cerchia dei suoi ammiratori.
43. Mi rendo conto che la natura, come ha infuso un amor proprio particolare nei singoli individui,
ne ha instillato uno comune a tutti i cittadini di ciascuna nazione, e starei per dire di una stessa città.
Di qui la pretesa degli Inglesi di primeggiare, oltre che nel resto, sul piano della bellezza, della musica,
delle laute mense; gli Scozzesi vantano nobiltà, parentele regali, nonché dialettiche sottigliezze;
i Francesi rivendicano la raffinatezza dei costumi; i Parigini pretendono la palma della scienza
teologica vantandone un possesso quasi esclusivo; gli Italiani affermano la loro superiorità nelle lettere
e nell'eloquenza; e si cullano tutti nella dolcissima convinzione di essere i soli non barbari fra i
mortali. Primi, in questo genere di felicità, sono i Romani, ancora immersi nei bellissimi sogni dell'antica
Roma; quanto ai Veneti, si beano del prestigio della loro nobiltà. I Greci, quali inventori
delle arti, si vantano delle antiche glorie dei loro famosi eroi; i Turchi, e tutta quella massa di autentici
barbari, pretendono il primato anche in fatto di religione e quindi deridono i cristiani come superstiziosi.
Molto più gustoso è il caso degli Ebrei che aspettano sempre incrollabili il proprio Messia,
e ancor oggi si tengono aggrappati al loro Mosè; gli Spagnoli non la cedono a nessuno in fatto
di gloria militare; i Tedeschi si compiacciono dell'alta statura e della conoscenza della magia.
44. Senza andare dietro ai casi particolari, vi rendete conto, penso, di quanto piacere venga dalla Filautìa
agli individui e ai mortali in genere. Le sta quasi alla pari la sorella Adulazione.
La filautìa, infatti, consiste nell'accarezzare se stessi; se si accarezza un altro, si tratta di adulazione.
Oggi, però, l'adulazione non gode buona fama; ma questo fra coloro per cui le parole valgono più
delle cose. Ritengono che l'adulazione non si può accompagnare alla fedeltà, mentre potrebbero
rendersi conto di quanto sbagliano, solo se guardassero all'esempio che viene dalle bestie. Chi, infatti,
più adulatore del cane? e, al tempo stesso, chi più fedele? Chi è più carezzevole dello scoiattolo?
ma chi più di lui amico dell'uomo? A meno che non si vogliano considerare più utili all'uomo i
fieri leoni, e le crudeli tigri, o i feroci leopardi. Anche se è vero che c'è una forma d'adulazione davvero
perniciosa con cui taluni, perfidamente beffando i poveri ingenui, li portano alla rovina. Questa
mia adulazione, invece, ha radice in un certo bonario candore ed è molto più vicina alla virtù di
quella durezza e severità ruvida e stizzosa, di cui parla Orazio, e che si suole contrapporle. La mia
adulazione rincuora gli animi abbattuti, raddolcisce la tristezza, riscuote dall'inerzia, sveglia gli ottusi,
dà sollievo ai malati, mitiga i violenti, mette pace fra gli innamorati e ne conserva la buona armonia.
Attira i fanciulli allo studio delle lettere, rallegra i vecchi, ammonisce ed ammaestra i prìncipi
senza offenderli, sotto specie di lodarli. Insomma, fa in modo che ciascuno sia di sé più contento
e a sé più caro, il che è parte della felicità, e addirittura la parte più importante. Che cosa può esservi
di più gentile di due muli che si grattano a vicenda? Per non aggiungere che questa mia adulazione
è una notevole parte della celebrata eloquenza, e costituisce la parte maggiore della medicina;
della poesia poi è la componente massima. Ed è miele e condimento di tutte le relazioni umane.
45. Ma è male, dicono, essere ingannati; c'è molto di peggio: non essere ingannati. Sono, infatti,
proprio privi di buon senso quanti ripongono la felicità dell'uomo nelle cose stesse. Essa dipende
dal nostro modo di vederle. Infatti tale è l'oscurità e varietà delle cose umane che niente si può sapere
con chiarezza, come giustamente affermano i miei Accademici, i meno presuntuosi dei filosofi.
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Se poi qualcosa si può sapere, spesso abbiamo poco da rallegrarcene. L'animo umano, infine, è fatto
in modo tale che la finzione lo domina molto più della verità. Chi ne volesse trovare una prova facilmente
accessibile, potrebbe andare in Chiesa a sentir prediche: qui, se il discorso si fa serio, tutti
sonnecchiano, sbadigliano, si annoiano. Ma, se l'urlatore di turno (è stato un lapsus, volevo dire l'oratore),
come spesso succede, prende le mosse da qualche storiella da vecchierelle, tutti si svegliano,
si tirano su, stanno a sentire a bocca aperta. Del pari, se c'è un Santo leggendario e poetico - per
esempio San Giorgio, o San Cristoforo, o Santa Barbara - lo vedrete venerare con molto maggiore
pietà di San Pietro, e San Paolo, e dello stesso Gesù Cristo. Ma di questo, qui non è il luogo. Costa
veramente poco conquistare la felicità illusoria che dicevo! Le cose vere, anche le meno rilevanti,
come la grammatica, costano tanta fatica. Un'opinione, invece, costa così poco, e alla nostra felicità
giova altrettanto, se non di più. Se, per esempio, uno si ciba di pesce in salamoia andato a male, di
cui un altro neppure potrebbe sopportare il puzzo, mentre per lui sa d'ambrosia, di' un po', che cosa
mai gl'impedisce di godersela? Al contrario, se a uno lo storione dà la nausea, che razza di piacere
ne trarrà? Se una moglie decisamente brutta al marito sembra tale da poter gareggiare con la stessa
Venere, non sarà forse come se fosse bella davvero? Se uno contempla ammirato una tavola impiastricciata
di rosso e di giallo, persuaso di trovarsi davanti ad un dipinto di Apelle o di Zeusi, non sarà
forse più felice di chi ha comprato a caro prezzo un'opera di quegli artisti per poi gustarla forse
con minore passione? Conosco un tale che si chiama come me, e che alla sposa novella donò alcune
gemme false facendogliele credere, con la parlantina che aveva, non solo assolutamente vere, ma
anche rare e di valore inestimabile.
Ditemi un po', che differenza c'era per la fanciulla, visto che quei pezzetti di vetro rallegravano altrettanto
i suoi occhi e il suo cuore, se conservava gelosamente presso di sé delle sciocchezzuole di
nessun valore come se fossero chissà qual tesoro? Il marito, frattanto, evitava una spesa e godeva
dell'illusione della moglie che gli era grata come se avesse ricevuto doni di gran pregio.
Che differenza pensate vi sia fra coloro che nella caverna di Platone contemplano le ombre e le immagini
delle varie cose, senza desideri, paghi della propria condizione, e il sapiente che, uscito dalla
caverna, vede le cose vere? Se il Micillo di Luciano avesse potuto continuare a sognare in eterno il
suo sogno di ricchezza, che motivo avrebbe avuto di desiderare un'altra felicità? La condizione dei
folli, perciò, non differisce in nulla da quella dei savi, o, meglio, se in qualcosa differisce, è preferibile.
Innanzitutto perché la loro felicità costa ben poco: solo un piccolo inganno di sé.
46. E poi perché ne godono insieme con moltissimi, e "non c'è bene di cui si possa godere davvero
se non si ha qualcuno con cui dividerlo" (Seneca, "Epistuale morales"). E chi non sa quanto pochi
sono i sapienti, se pur qualcuno ve n'è? In tanti secoli i Greci ne contano in tutto sette, e anche di
questi, per Ercole, se si andasse a guardare meglio, nessuno, ho paura, risulterebbe sapiente a metà,
e forse neppure per un terzo.
Perciò, se dei molti meriti di Bacco giustamente si considera il più importante la capacità di scacciare
gli affanni, e anche questo solo finché, appena smaltita la sbornia, gli affanni tornano all'assalto -
come dicono, su bianchi destrieri - quanto più completo ed efficace il mio beneficio per cui l'animo,
in una ebbrezza perenne, senza nessuna fatica, si riempie di gioia, di piaceri, di esultanza! né lascio
alcun mortale privo del mio dono, mentre i doni degli altri Dèi vanno ora a questo ora a quello.
Non sgorga dappertutto, a scacciare gli affanni, un dolce vino generoso, fecondo di speranze.
A pochi la bellezza, dono di Venere; meno ancora sono quelli a cui tocca l'eloquenza, dono di Mercurio;
non molti hanno in sorte, col favore di Ercole, le ricchezze, né il Giove omerico concede a
tutti l'imperio. Spesso Marte nega il suo appoggio ad entrambi i contendenti. Parecchi lasciano il
tripode di Apollo con la tristezza in cuore. Il figlio di Saturno scaglia spesso i suoi fulmini; a volte
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Febo coi suoi dardi diffonde la peste. Nettuno ne uccide più di quanti ne salva; per non menzionare
cotesti Veiovi, Plutoni, Sventure, Pene, Febbri, e simili, che non sono divinità ma carnefici. Io, la
Follia, sono la sola a stringere tutti ugualmente in così generoso abbraccio.
47. Non voglio preghiere e non mi sdegno per avere offerte espiatorie, se qualche particolare del cerimoniale
è stato trascurato. Se, quando tutti gli altri Dèi sono invitati, mi lasciano a casa non permettendomi
neanche di annusare il buon odore delle vittime, non ne faccio una tragedia. Quanto agli
altri Dèi, invece, sono così suscettibili che quasi meglio sarebbe - senza dubbio sarebbe più prudente
- lasciarli perdere piuttosto che venerarli. Come certi uomini, così difficili ed irritabili, che è
preferibile non conoscerli affatto piuttosto che averli amici.
Nessuno, dicono, offre sacrifici o innalza templi alla Follia. Di questa ingratitudine, come dicevo,
un poco mi stupisco, anche se poi, col buon carattere che mi ritrovo, ci passo sopra. D'altronde onori
del genere esulano dai miei desideri. perché mai dovrei desiderare un pugno di incenso, una focaccia,
un becco o un porco, quando gli uomini di tutto il mondo mi tributano un culto che persino
dai teologi viene tenuto nel massimo pregio! A meno che non debba mettermi ad invidiare Diana
perché riceve sacrifici di sangue umano! Io ritengo di essere venerata col massimo della devozione
quando tutti gli uomini, come di fatto succede, mi hanno in cuore e modellano su di me i loro costumi,
le loro regole di vita. Una forma di culto che non è frequente neppure fra i cristiani.
Quanti sono, infatti, coloro che accendono alla Vergine, madre di Dio, un candelotto, magari a mezzogiorno,
quando proprio non ce n'è bisogno! D'altra parte, quanto pochi cercano d'imitarne la castità,
la modestia, l'amore per il regno dei cieli! Mentre è questo alla fine il vero culto, il più gradito
agli abitatori del cielo. Inoltre, perché mai dovrei desiderare un tempio, quando l'universo è il mio
tempio? e un gran bel tempio, se non erro. né mi mancano i devoti, se non dove mancano gli uomini.
né sono così sciocca da andare in cerca di statue di pietra dipinte a colori, che spesso nuocciono
al nostro culto perché i più ottusi adorano le immagini invece delle divinità, mentre a noi capita
quello che di solito succede a quanti sono soppiantati dai loro rappresentanti. Io credo di avere tante
statue quanti sono gli uomini che, anche senza volere, mostrano nel volto la mia immagine vivente.
Non ho nulla da invidiare agli altri Dèi, se vengono venerati chi in un cantuccio della terra chi in un
altro, e solo in giorni determinati, come Febo a Rodi, Venere a Cipro, Giunone ad Argo, Minerva ad
Atene, Giove sull'Olimpo, Nettuno a Taranto, Priapo a Lampsaco. A me il mondo intero offre senza
sosta vittime ben più pregiate.
48. Se qualcuno giudica questo mio discorso più baldanzoso che veritiero, andiamo un po' a vedere
la vita stessa degli uomini, per mettere in chiaro quanto mi devono, e in che conto mi tengono, tanto
i potenti come i poveri diavoli.
Non esamineremo la vita di uomini qualunque, si andrebbe troppo per le lunghe, ma solo quella di
personaggi segnalati, da cui sarà facile giudicare gli altri. Che importa infatti parlare del volgo e del
popolino che, al di là di ogni discussione, mi appartiene senza eccezioni? Tante, infatti, sono le
forme di follia di cui da ogni parte il popolo trabocca, tante ne inventa di giorno in giorno, che per
riderne non basterebbero mille Democriti, anche se poi, per quegli stessi Democriti, ci vorrebbe ancora
un altro Democrito. E' quasi incredibile quanti motivi di riso, di scherzo, di piacevole svago, i
poveracci offrono agli Dèi. Agli Dèi che dedicano le ore antimeridiane, quando ancora non sono ubriachi,
a litigiose discussioni e all'ascolto delle preghiere. Ma poi, quando sono ebbri di nettare, e
non hanno più voglia di attendere a faccende serie, seduti nella parte più alta del cielo, si chinano a
guardare cosa fanno gli uomini. né c'è spettacolo che gustino di più. Dio immortale! quello sì che è
teatro! Che varietà nel tumultuoso agitarsi dei pazzi! Io stessa, infatti, talvolta vado a sedermi nelle
file degli Dèi dei poeti. Questo si strugge d'amore per una donnetta, e quanto meno è riamato tanto
più ama senza speranza. Quello sposa la dote e non la donna. Quell'altro prostituisce la sposa, mentre
un altro ancora, roso dalla gelosia, tiene gli occhi aperti come Argo. Quali spettacolari scioc28
chezze dice e fa qualcuno in circostanze luttuose, arrivando a pagare dei professionisti perché recitino
la commedia del compianto! C'è chi piange sulla tomba della matrigna, e chi spende tutto ciò
che può racimolare per impinguarsi il ventre, a rischio, magari, di ridursi in breve a morire di fame.
Qualcuno pone in cima ai suoi pensieri il sonno e l'ozio. C'è chi si prodiga con ogni cura per gli affari
degli altri mentre trascura i propri, e chi, preso nel giuoco dei debiti, prossimo a fallire, si crede
ricco del denaro altrui; un altro pone all'apice della sua felicità morire povero pur di arricchire l'erede.
Questi per un guadagno modesto, e per giunta incerto, corre tutti i mari, affidando la vita, che il
denaro non ricompra, alle onde e ai venti; quello preferisce cercare di arricchirsi in guerra piuttosto
che starsene al sicuro in casa sua. Ci sono di quelli che credono si possa arrivare alla ricchezza senza
la minima fatica andando a caccia di vecchi senza eredi; né manca chi, in vista dello stesso risultato,
opta per un legame con vecchiette danarose. Gli uni e gli altri offrono agli Dèi che stanno a
guardare uno spettacolo oltremodo divertente, quando si fanno abbindolare proprio da coloro che
vogliono intrappolare. La razza più stolta e abietta è quella dei mercanti che, pur trattando la più
sordida delle faccende e nei modi più sordidi, pur mentendo, spergiurando, rubando, frodando a tutto
spiano, si credono da più degli altri perché hanno le dita inanellate d'oro. né mancano di adularli
certi fraticelli che li ammirano e li chiamano apertamente venerabili, senza dubbio perché una piccola
parte degli illeciti profitti vada a loro. Altrove puoi vedere dei Pitagorici, a tal segno convinti
della comunanza dei beni, che, se trovano qualcosa d'incustodito, tranquillamente se ne appropriano
come l'avessero ricevuto in eredità. C'è chi, ricco solo di speranze, sogna la felicità, e già questo sogno,
per lui, è la felicità. Taluni si compiacciono di essere creduti ricchi, mentre a casa loro muoiono
di fame. Uno si affretta a dilapidare tutto quello che possiede; un altro accumula con mezzi leciti
e illeciti. Questo si fa portare candidato perché ambisce a pubbliche cariche, quello è contento di
starsene accanto al fuoco. E sono tanti quelli che intentano interminabili cause e che, portatori di
opposti interessi, fanno a gara per arricchire il giudice che accorda rinvii, e l'avvocato che è in combutta
con la parte avversa. Uno ha la mania di rinnovare il mondo, un altro propende per il grandioso.
C'è chi, senza nessuna ragione d'affari, lascia a casa moglie e figli e se ne va a Gerusalemme, a
Roma, a San Giacomo di Compostella.
Insomma, se, come una volta Menippo dalla Luna, potessimo contemplare dall'alto gli uomini nel
loro agitarsi senza fine, crederemmo di vedere uno sciame di mosche e di zanzare in contrasto fra
loro, intente a combattersi, a tendersi tranelli, a rapinarsi a vicenda, a scherzare, a giocare, nell'atto
di nascere, di cadere, di morire. Si stenta a credere che razza di terremoti e di tragedie può provocare
un animaletto così piccino e destinato a vita così breve. Infatti, di tanto in tanto, un'ondata anche
non grave di guerra o di pestilenza ne colpisce e ne distrugge migliaia e migliaia.
49. Sarei io stessa un'autentica pazza, e meriterei proprio di far ridere Democrito a più non posso, se
continuassi ad elencare tutte le forme di stolta pazzia proprie del volgo. Mi rivolgerò a quelli che fra
i mortali vestono l'abito della sapienza e, come si dice, aspirano al famoso ramo d'oro.
Fra loro al primo posto stanno i grammatici, che sarebbero per certo la genìa più calamitosa, più lugubre,
più invisa agli Dèi, se non ci fossi io a mitigare, con una dolce forma di follia, i guai di quella
infelicissima professione. Su di essi, infatti, non pesano solo le cinque maledizioni di cui parla
l'epigramma greco, ma tante, tante di più: sempre affamati, sempre sporchi, se ne stanno nelle loro
scuole, e le ho chiamate scuole, ma avrei dovuto dire luoghi dove si lavora come schiavi, camere di
tortura; fra turbe di ragazzi invecchiano nella fatica; assordati dagli schiamazzi, imputridiscono nel
puzzo e nel sudiciume; tuttavia, per mio beneficio, avviene che si ritengano i primi tra gli uomini.
Sono così contenti di sé, quando col volto truce e con la voce minacciosa atterriscono la tremebonda
folla degli alunni; quando le suonano a quei disgraziati con sferze, verghe e scudisci, e in tutti i modi
incrudeliscono a loro capriccio, a imitazione del famoso asino di Cuma. Intanto, per loro, quel
sudiciume è la quintessenza del nitore, quel puzzo sa di maggiorana, quell'infelicissima schiavitù è
pari a un regno, a tal punto che rifiuterebbero di scambiare la loro tirannide col potere di Falaride o
di Dionigi. Ma anche più felici si sentono per non so quale convinzione di essere dei dotti. Mentre
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ficcano in testa ai ragazzi madornali sciocchezze, tuttavia, Dio buono, di fronte a chi, Palemone o
Donato che sia, non ostentano sprezzante superiorità? E con non so quali trucchi riescono a meraviglia
nell'intento di apparire al re sciocche mammine e ai padri scemi pari all'opinione che hanno di
sé.
C'è poi un'altra fonte di piacere: quando uno di loro scova in un foglio ammuffito il nome della madre
di Anchise, o una paroletta di uso non comune, BUBSEQUA, BOVINATOR o MANTICULATOR,
o quando, scavando da qualche parte, tira fuori un frammento di antico sasso che porta un'iscrizione
mutila. O Giove, che esplosioni di gioia allora, che trionfi, che elogi! come se avesse messo
in ginocchio l'Africa, o espugnato Babilonia! E che diremo di quando vanno sbandierando a tutto
spiano i loro insulsissimi versiciattoli, che non mancano peraltro di ammiratori? credono ormai che
lo spirito di Virgilio sia penetrato in loro. Ma la scena più divertente si ha quando si scambiano lodi
e complimenti, e a vicenda si danno una lisciatina. Se poi uno di loro incappa in un lapsus, e un altro
più avveduto per caso se ne accorge, allora sì, per Ercole, che ne viene fuori una tragedia a base
di polemiche, di litigi, di ingiurie! Possano tutti i grammatici volgersi contro di me, se mento.
Ho conosciuto una volta un tale, dotto in svariati campi: sapeva di greco, di latino, di matematica, di
filosofia, di medicina, e questo a livello superiore. Ormai sessantenne, messo da parte tutto il resto,
da oltre vent'anni si tormenta sulla grammatica, ritenendo di poter essere felice se vivrà abbastanza
da stabilire con certezza come vadano distinte le otto parti del discorso; finora nessuno, né dei Greci
né dei Latini, ci è riuscito pienamente. Di qui quasi un caso di guerra se uno considera congiunzione
una locuzione avverbiale. A questo modo, pur essendovi tante grammatiche quanti grammatici, anzi
di più se solo il mio amico Aldo Manuzio ne ha pubblicate più di cinque, questo tale non tralascia di
leggerne ed esaminarne minuziosamente nessuna, per barbara o goffa che sia nello stile. Guarda infatti
con sospetto chiunque faccia in materia un tentativo, sia pure insignificante, attanagliato com'è
dalla paura che qualcuno lo privi della gloria, rendendo vane così annose fatiche. Preferite chiamarla
follia o stoltezza? A me poco importa, purché siate disposti a riconoscere che, per mio beneficio,
l'animale più infelice di tutti può attingere tale una felicità da non volere scambiare la propria sorte
neppure con quella dei re persiani.
50. Meno mi devono i poeti, che pure appartengono apertamente alle mie schiere, libera schiatta
come sono, secondo il proverbio, tutti presi dall'impegno di sedurre l'orecchio dei pazzi con autentiche
sciocchezze e storielle risibili. Fidando in questi mezzi, mirabile a dirsi, promettono immortalità
e divina beatitudine a se stessi e anche agli altri. A costoro soprattutto sono legate Filautìa e Kolakìa,
che da nessun'altra stirpe mortale ricevono un culto altrettanto schietto e costante. Quanto ai retori,
benché prevarichino un poco con la complicità dei filosofi, fanno parte anche loro della nostra
confraternita. Molte cose lo dimostrano, ma una in primo luogo: che, a parte le altre sciocchezze,
tanto hanno scritto e con tanto impegno a proposito dell'arte di scherzare. E l'autore, chiunque esso
sia, della RETORICA AD ERENNIO, annovera la follia tra le varietà di facezie; Quintiliano poi,
che in questo campo è di gran lunga il migliore, ci ha dato sul riso un capitolo più lungo dell'ILIADE.
Tanto essi valorizzano la follia che spesso quando sono a corto d'argomenti, cercano una scappatoia
nel riso. A meno di negare che sia proprio della follia suscitare ad arte pazze risate dicendo
cose che appunto, fanno ridere.
Nella stessa schiera rientrano quelli che aspirano a fama immortale pubblicando libri. Mi devono
tutti moltissimo, ma in particolare coloro che imbrattano i fogli con autentiche sciocchezze. Gli eruditi,
infatti, che scrivono per pochi dotti, e che non rifiutano per giudici né Persio né Lelio, a me non
sembrano punto felici, ma piuttosto degni di pietà, perché senza posa si arrovellano a fare giunte,
mutamenti, tagli, sostituzioni. Riprendono, limano; chiedono pareri; lavorano a una cosa anche per
nove anni, e non sono mai contenti; a così caro prezzo comprano un premio da nulla quale è la lode,
e lode di pochissimi, per di più: la pagano con tante veglie, con tanto spreco di sonno - il sonno, la
più dolce delle cose! - con tanta fatica, con tanto sacrificio.
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Aggiungi il danno della salute, la bellezza che se ne va, il calo della vista, o addirittura la cecità, la
povertà, l'invidia degli altri, la rinuncia ai piaceri, la senescenza precoce, la morte prematura; e chi
più ne ha, più ne metta. Il sapiente crede che ne valga la pena: mali sì gravi in cambio del plauso di
uno o due cisposi. Quanto più felice il delirio dello scrittore mio seguace quando, senza starci punto
a pensare, solo col modico spreco di un po' di carta, seguendo l'ispirazione del momento, traduce
prontamente in scrittura tutto quanto gli passa per la testa, anche i sogni, sapendo che più sciocche
saranno le sciocchezze che scrive, e più troverà consenso nella maggioranza, cioè in tutti gli stolti e
ignoranti. Che importa il disprezzo di tre dotti, ammesso che le leggano? e che peso può avere il
giudizio di così pochi sapienti, se a contrastarlo c'è una folla così sconfinata? Ma ancora più avveduti
si rivelano coloro che pubblicano, spacciandoli per propri, gli scritti altrui e valendosi dell'apparenza
trasferiscono sulla propria persona una gloria che è frutto del faticoso impegno d'altri; fidano
su questo, che se anche saranno accusati di plagio, tuttavia, per qualche tempo, avranno tratto
vantaggio dall'inganno.
Vale la pena di vedere come sono soddisfatti di sé quando la gente li elogia, quando li segna a dito
nella folla: "E lui! lo scrittore famoso!"; quando i loro libri stanno in mostra in libreria, quando in
cima a ogni pagina si leggono quei tre nomi, soprattutto se stranieri e con un sapore di magia. Ma
cosa sono poi, buon Dio, se non dei nomi? E quanto pochi saranno a conoscerli, se si pensa a quant'è
grande il mondo; e meno ancora, poi, saranno a lodarli, perché anche gli ignoranti hanno gusti
diversi. Che dite degli stessi nomi, non di rado fittizi e tratti dai libri degli antichi? Chi si compiace
di chiamarsi Telemaco, chi Steleno o Laerte; chi Policrate e chi Trasimaco, tanto che ormai potremmo
benissimo chiamarli camaleonte o zucca, oppure indicare i libri con le lettere dell'alfabeto,
secondo l'uso dei filosofi.
Eppure più di tutto diverte vederli, sciocchi e ignoranti come sono, impegnati a scambiare con altri,
sciocchi e ignoranti come loro, lettere e versi elogiativi, encomi. In questi scambi di lodi, chi diventa
un Alceo e chi un Callimaco; chi è superiore a Cicerone e chi più dotto di Platone. A volte, per
accrescere nella gara la loro fama, creano un avversario, e "il pubblico, incerto, non sa quale partito
prendere", finché ne escono tutti vittoriosi e lasciano il campo da trionfatori.
I saggi ridono di queste cose come di solenni sciocchezze, e tali sono. Chi lo nega? Ma intanto, per
merito mio, quelli se la godono e non scambierebbero i loro trionfi neppure con quelli degli Scipioni.
Gli stessi dotti, del resto, mentre ridono divertendosi un mondo e godono della follia altrui, contraggono
anch'essi con me un gran debito; né possono negarlo, se non sono proprio degl'ingrati.
51. Fra gli eruditi il primo posto spetta ai giureconsulti, e nessuno più di loro è soddisfatto di sé
quando, impegnati in una fatica di Sisifo, formulano leggi a migliaia, non importa a qual proposito,
e aggiungendo glosse a glosse, pareri a pareri, fanno in modo da presentare lo studio del diritto come
il più difficile fra tutti. Attribuiscono infatti titolo di nobiltà a tutto ciò che costa fatica.
Accanto ai giuristi collochiamo i dialettici e i sofisti, una genìa più loquace dei bronzi di Dodona:
uno qualunque di loro potrebbe gareggiare in fatto di chiacchiera con venti donne di prima scelta.
Meglio per loro sarebbe, se fossero soltanto chiacchieroni, e non anche litigiosi al punto di polemizzare
con estrema tenacia per questioni di lana caprina e da trascurare spesso, nella foga della contesa,
i diritti della verità. Pieni di sé come sono, godono ugualmente quando, armati di tre sillogismi,
non esitano ad attaccare lite con chiunque, a qualunque proposito. Del resto la loro pertinacia li rende
invincibili, anche se il loro avversario è uno Stentore.
52. E poi ci sono i filosofi, venerandi per barba e mantello: affermano di essere i soli sapienti; tutti
gli altri sono soltanto ombre inquiete. Ma com'è bello il loro delirio quando costruiscono mondi innumerevoli;
quando misurano, quasi col pollice e il filo, il sole, la luna, le stelle, le sfere; quando
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rendono ragione dei fulmini, dei venti, delle eclissi e degli altri fenomeni inesplicabili, senza la minima
esitazione, come se fossero a parte dei segreti della natura artefice delle cose, come se venissero
a noi dal consiglio degli Dèi! La natura, intanto, si fa le grandi risate su di loro e sulle loro ipotesi.
A dimostrare che nulla sanno con certezza, basterebbe quel loro polemizzare sulla spiegazione di
ogni singolo fenomeno. Loro, pur non sapendo nulla, affermano di sapere tutto; non conoscendo se
stessi e non accorgendosi, a volte, della buca o del sasso che hanno sotto il naso, o perché in molti
casi ci vedono poco, o perché sono altrove con la testa, sostengono di vedere idee, universali, forme
separate, materie prime, quiddità, ecceità, e cose tanto sottili da sfuggire, credo, persino agli occhi
di Linceo. Disprezzano in particolare il profano volgo, quando confondono le idee agli ignoranti
con triangoli, quadrati, circoli, e figure geometriche siffatte, disposte le une sulle altre a formare una
specie di labirinto, e poi con lettere collocate quasi in ordine di battaglia e variamente manovrate. né
mancano, fra loro, quelli che, consultando gli astri, predicono l'avvenire promettendo miracoli che
vanno al di là della magia; e, beati loro, trovano anche chi ci crede.
53. Quanto ai teologi, forse meglio farei a non parlarne, evitando di suscitare un vespaio e di toccare
quest'erba puzzolente, perché, altezzosi e litigiosi come sono, non abbiano ad assalirmi a schiere
con centinaia di argomenti, costringendomi a fare ammenda. Se mi rifiutassi, mi accuserebbero senz'altro
di eresia, questo essendo il fulmine con cui di solito atterriscono chi non gode le loro simpatie.
Eppure, ancorché siano i meno propensi a riconoscere i miei meriti nei loro confronti, anche loro,
e di non poco, mi sono debitori. Infatti devono a me quell'alta opinione di sé che li rende felici,
come se il terzo cielo fosse la loro dimora, e li induce a guardare dall'alto in basso con una sorta di
commiserazione tutti gli altri mortali, quasi animali che strisciano a terra, mentre loro, trincerati dietro
un valido esercito di magistrali definizioni, conclusioni, corollari, proposizioni esplicite ed implicite,
a tal segno abbondano di scappatoie da poter sfuggire anche alle reti di Vulcano con distinzioni
che recidono ogni nodo con una facilità che neppure la bipenne di Tenedo possiede, inesauribili
nel coniare termini nuovi e parole rare. Spiegano inoltre, a modo loro, gli arcani misteri, i criteri
che sono a base della creazione e dell'ordinamento del mondo; per quali vie la macchia del peccato
si è trasmessa di generazione in generazione; in che modo, in che misura e in quanto tempo Cristo si
è formato nel grembo della Vergine; come nell'Eucaristia ci possono essere gli accidenti senza la
materia. Ma queste sono cose risapute. Altre le questioni che ritengono degne dei teologi grandi e
illuminati - così li chiamano. Quando se le trovano di fronte si esaltano:
"Qual è l'istante della generazione divina? ci sono più filiazioni in Cristo? è sostenibile la proposizione
"Dio Padre odia il Figlio"? avrebbe potuto Dio assumere figura di donna, di demonio, di asino,
di zucca, di pietra? In caso affermativo, come la zucca avrebbe potuto predicare, fare miracoli,
essere messa in croce? che cosa avrebbe consacrato Pietro, se avesse consacrato mentre Cristo pendeva
dalla croce? e poteva Cristo, in quel medesimo tempo, essere chiamato uomo? Infine, dopo la
resurrezione, potremo mangiare e bere?". Della fame e della sete, infatti, costoro si preoccupano fino
da ora. Innumerevoli poi le sottigliezze, anche molto più sottili di queste, circa le nozioni, le relazioni,
le formalità, le quiddità, le ecceità, che sfuggirebbero agli occhi di tutti, fatta eccezione di
un novello Linceo capace di vedere nelle tenebre più profonde anche le cose che non sono in nessun
luogo. Aggiungi sentenze così paradossali che i famosi oracoli stoici, detti appunto paradossi, sembrano
al confronto luoghi comuni dei più rozzi e banali. Per esempio, che accomodare una volta la
scarpa di un povero nel giorno del Signore è delitto più grave che strangolare mille uomini; che dire
una volta tanto una sola bugia, per quanto piccina, è più grave che lasciare andare in malora il mondo
intero con tutta la sua dovizia di cose utili e belle. A rendere ancora più sottili queste sottilissime
sottigliezze ci sono le tante vie battute dagli scolastici, ché usciresti prima dai labirinti che non dalle
oscure tortuosità di realisti, nominalisti, tomisti, albertisti, occamisti, scotisti; e non ho nominato
tutte le scuole, ma solo le principali.
In tutte c'è tanta erudizione, tanta astrusità, che, secondo me, persino gli Apostoli, se si trovassero a
dover discutere con questi teologi di nuovo genere, avrebbero bisogno di un secondo Spirito Santo.
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Paolo poté dimostrare la sua fede, ma quando dice che "la fede è sostanza di cose sperate, e argomento
delle non parventi", dà una definizione manchevole dal punto di vista dottrinale. Proprio
Paolo, che in modo eccellente fece professione di carità, ne dette, nel capitolo tredicesimo della
prima epistola ai Corinzi, un'analisi ed una definizione difettose in sede dialettica. Gli Apostoli, certamente,
celebravano l'Eucaristia con la dovuta pietà. Non credo però che, interrogati sul termine A
QUO e sul termine AD QUEM, sulla transubstanziazione, sull'ubiquità di un medesimo corpo; sulla
differenza tra il corpo di Cristo in cielo, sulla croce e nel sacramento dell'Eucaristia; sull'istante in
cui avviene la transubstanziazione, dovuta com'è ad una formula composta di più parole distinte, e
quindi a una quantità discreta in divenire: non credo, ripeto, non credo che, nel discutere e nel definire,
gli Apostoli avrebbero raggiunto la sottigliezza degli scotisti.
Avevano conosciuto la madre di Gesù; ma chi di loro dimostrò, con l'ineccepibile metodo filosofico
dei nostri teologi, come rimase immune dalla macchia del peccato di Adamo? Pietro ha ricevuto le
chiavi, e le ha ricevute da colui che non le darebbe a un indegno; e tuttavia non so se avrebbe capito
- certo non ne ha mai colto la sottigliezza - la questione del come possa possedere la chiave della
scienza anche chi non ha la scienza. Gli Apostoli battezzavano in ogni luogo; tuttavia non hanno
mai insegnato quale sia la causa formale, materiale, efficiente e finale del battesimo, né mai hanno
fatto menzione del suo carattere delebile e indelebile. Gli Apostoli adoravano, sì, Dio, ma in spirito,
attenendosi unicamente al principio evangelico: "Dio è spirito, e chi lo adora deve adorarlo in spirito
e verità". Non pare tuttavia sia stato ad essi ben chiaro che dobbiamo adorare Cristo allo stesso
modo, sia in persona che in una sua immagine scarabocchiata col carbone sul muro, purché vi appaia
con due dita levate, i capelli lunghi e tre raggi nell'aureola che gli cinge la nuca. Come si possono
cogliere queste finezze, se prima non ci si è dedicati anima e corpo, per almeno trentasei anni,
alla fisica e alla metafisica di Aristotele e di Duns Scoto? Allo stesso modo gli Apostoli parlano della
grazia, ma non fanno mai distinzione fra grazia gratuita e grazia gratificante. Esortano alle opere
buone, ma non distinguono fra opera operante e opera operata. Dappertutto insistono sulla carità,
ma non distinguono fra carità infusa e carità acquisita, né spiegano se sia sostanza o accidente, cosa
creata o increata. Detestano il peccato, ma possa io morire se sono riusciti a definire cosa sia quello
che diciamo peccato; per questo avrebbero dovuto formarsi alla scuola degli scotisti. L'insegnamento
di Paolo può essere preso come punto di riferimento per giudicare di tutti gli Apostoli; ebbene, io
non potrei mai indurmi a credere che egli avrebbe così spesso condannato le questioni, le discussioni,
le genealogie e quelle che chiamava logomachìe, se fosse stato un esperto nell'argomentare. E sì
che le dispute dei suoi tempi erano senz'altro roba da ridere in confronto alle sottigliezze dei nostri
maestri che potrebbero dare punti a Crisippo.
Anche se poi questi maestri, nella loro grande modestia, quando gli Apostoli hanno scritto una cosa
in forma disadorna, e, certo, non magistrale, non la condannano, ma ne offrono un'accettabile interpretazione
Quest'onore tributano in parte all'antichità, in parte all'autorità degli Apostoli. Del resto,
sarebbe stata, per Ercole, una bella ingiustizia pretendere la conoscenza di cose tanto difficili da chi
non ne aveva mai sentito far parola dal maestro. Se però la cosa si verifica in Crisostomo, in Basilio,
in Girolamo, ritengono sia sufficiente annotare: "affermazione respinta". Eppure si tratta di autori
che confutarono i pagani, i filosofi, gli ebrei, per loro natura ostinatissimi; lo fecero con la vita e
coi miracoli più che con i sillogismi. D'altra parte nessuno dei loro avversari sarebbe stato in grado
di capire neppure una delle "questioni quodlibetali" di Scoto. Al giorno d'oggi, qual mai pagano,
qual mai eretico non si darebbe senz'altro per vinto di fronte a tante capillari sottigliezze? Bisognerebbe
fosse tanto ignorante da non capirci nulla, o tanto privo di ritegno da scoppiare in sconce risate;
o, infine, così esperto in quei medesimi cavilli da combattere ad armi pari: un mago di fronte a
un mago, o un duello fra due avversari armati entrambi di una spada incantata: tutto si ridurrebbe a
tessere e ritessere la tela di Penelope. Secondo me i cristiani darebbero prova di un gran buon senso
se, invece delle rozze armate che ormai da un pezzo combattono con esito incerto, inviassero contro
i Turchi gli scotisti coi loro grandi schiamazzi, gli occamisti così ostinati, gl'invitti albertisti, e con
essi l'intera banda dei sofisti: assisterebbero, credo, alla più divertente delle battaglie e a una vittoria
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mai vista prima. Chi, infatti, potrebbe essere tanto freddo da resistere ai loro strali infuocati? chi
tanto torpido da non esserne stimolato? chi tanto avveduto da non restarne accecato?
Ma voi credete che i miei siano tutti scherzi. Posso capirlo: anche fra i teologi ve ne è di più dotti,
che tengono a vile queste arguzie teologiche giudicandole futili. Ve ne sono che considerano un sacrilegio
esecrando, e il massimo dell'empietà, parlare con linguaggio così volgare di cose tanto misteriose,
oggetto d'adorazione più che di spiegazione; discuterne usando il profano argomentare dei
pagani; definirle con tanta presunzione, e infangare la maestà della divina teologia con parole e
concetti così poveri e addirittura sordidi.
Nel frattempo, però, gli altri rimangono pieni di sé, addirittura si battono le mani, e dediti notte e
giorno alle loro piacevolissime cantilene non trovano neppure un minuto per leggere almeno una
volta il Vangelo o le lettere di san Paolo. E, mentre nelle scuole vanno propinando ai discepoli simili
sciocchezze, credono di essere loro a salvare da certa rovina la Chiesa universale sostenendola
con la forza dei loro sillogismi, come il mitico Atlante sosteneva con le spalle il mondo. E vi pare
poco gratificante por mano ai misteri delle Scritture plasmandole a piacere, ora in questa ora in
quella guisa, come fossero cera? Esigere che le proprie conclusioni, già accettate da un certo numero
di scolastici, siano ritenute più importanti delle leggi di Solone e addirittura da anteporre ai decreti
dei pontefici? Se poi qualcosa non coincide a capello con le loro conclusioni esplicite e implicite,
come fossero i censori del mondo, ne impongono la ritrattazione e, come se parlasse l'oracolo,
sentenziano: "Proposizione scandalosa"; "proposizione irriverente"; "questa odora di eresia"; "questa
suona male". Per fare un cristiano non basta più il battesimo, né il Vangelo, né Pietro, né Paolo,
né san Girolamo, né sant'Agostino; addirittura non basta neppure Tommaso, il principe degli aristotelici.
Ci vuole anche il voto di questi baccellieri, così sottili nel giudicare. Chi, infatti, senza l'insegnamento
di questi sapienti, si sarebbe mai accorto che non era cristiano chi riteneva ugualmente
corrette queste due proposizioni: "vaso da notte, tu puzzi" e "il vaso da notte puzza"; oppure: "bolle
la pentola" e "la pentola bolle"?
Chi avrebbe liberato la Chiesa da così gravi errori, di cui nessuno si sarebbe mai accorto, se costoro
non li avessero denunciati col sigillo della loro alta autorità? E non saranno al colmo della gioia
mentre fanno tutto ciò? o quando ritraggono con molta esattezza il mondo infernale come se per
molti anni fossero stati cittadini di quella repubblica? o quando fabbricano a capriccio nuove sfere
celesti, creandone infine una più grande di tutte, più bella, perché le anime beate abbiano agio di
passeggiarvi, di banchettare e anche di giocare a palla? A tal segno la loro testa è infarcita di una
miriade di sciocchezze del genere che, secondo me, nemmeno quella di Giove era così gonfia quando,
sul punto di partorire Minerva, chiese a Vulcano di tirare un bel colpo di scure. Perciò non vi
stupite quando nelle pubbliche dispute li vedete con la testa così accuratamente imberrettata: se no,
scoppierebbe.
A volte, anch'io rido del fatto che, quanto più il loro linguaggio è barbaro e rozzo, tanto più si credono
grandi teologi, e in quel balbettare, comprensibile solo da un altro balbuziente, loro chiamano
finezza d'ingegno quello che la gente non capisce. Negano infatti che sia compatibile con la dignità
delle sacre lettere sottomettersi alle leggi della grammatica. Mirabile maestà, invero, quella dei teologi,
se a loro soli è lecito costellare di spropositi il discorso, anche se poi hanno in comune questo
privilegio con molti ignoranti. Infine si ritengono ormai vicinissimi agli Dèi quando vengono salutati
con venerazione quasi religiosa, e chiamati maestri nostri. Credono presente in quell'appellativo
qualcosa di simile al tetragramma degli ebrei. Perciò considerano un'empietà non scrivere "Magister
noster" tutto in lettere maiuscole. Se poi qualcuno, invertendo, dicesse "noster Magister", di colpo
annullerebbe la maestà del nome teologico.
54. Quasi altrettanto felici, sono quelli che comunemente si fanno chiamare religiosi e monaci, usando,
in entrambi i casi, denominazioni quanto mai false. Per buona parte, infatti, sono mille mi34
glia lontani dalla religione; e nessuno s'incontra in giro più di questi pretesi solitari. Non vedo che
cosa potrebbe esserci di più miserando di loro, se non ci fossi io a soccorrerli in tanti modi. perché,
pur essendo questa genìa a tal segno detestata da tutti, che persino un incontro casuale con qualcuno
di loro è ritenuto di malaugurio, si cullano tuttavia nell'illusione di essere chissà che cosa. In primo
luogo ritengono che il massimo della pietà consista nell'essere tanto ignoranti da non sapere neppur
leggere. Poi, quando con la loro voce asinina ragliano i loro salmi, di cui sono in grado di indicare a
memoria il numero d'ordine senza peraltro capirli, sono convinti d'accarezzare in modo dolcissimo
le orecchie degli Dèi. Neppure mancano quelli che vendono a caro prezzo il loro sudiciume e l'andare
in giro mendicando: dinanzi alle porte chiedono il pane emettendo muggiti lamentosi; non c'è
albergo, non veicolo o nave in cui non portino scompiglio con non piccolo danno degli altri mendicanti.
Cosi, queste carissime persone, dicono di darci un'immagine degli Apostoli con la loro sporcizia,
ignoranza, rozzezza, impudenza.
E cosa c'è di più divertente del loro fare tutto secondo una regola, quasi in base a un calcolo matematico
che sarebbe delittuoso violare? Quanti nodi deve avere il sandalo; di che colore deve essere
il cordone; quale il modello della veste; di cosa deve essere fatta, e di quale larghezza la cintura; di
che tipo e di che capacità il cappuccio; quale la precisa misura della chierica; quante ore vanno concesse
al sonno? Eppure, quanta diversità, chi non lo vede, in questa uguaglianza imposta a corpi e
temperamenti così vari! Tuttavia, per queste sciocchezzuole, non solo si considerano superiori agli
altri, ma anche fra di loro si disprezzano a vicenda e, pur professando la carità apostolica, fanno un'autentica
tragedia di una cintura diversa o di un colore un po' più scuro. Ne potresti vedere di così
rigidamente attaccati alla regola da portare esclusivamente vesti di lana di Cilicia, e biancheria di
lino di Mileto; altri, al contrario, portano vesti di lino e biancheria di lana. C'è chi, odiando toccare
il danaro come fosse veleno, non si astiene comunque né dal vino né dalle donne. Infine, mirabile in
tutti, la cura di non avere nulla in comune quanto a regola di vita, e questo, non nell'intento di guardare
a Cristo, ma per distinguersi tra di loro.
Buona parte della loro soddisfazione deriva dai nomi: gli uni si compiacciono del nome di Cordiglieri,
distinti in Coletani, Minori, Minimi, Bollisti; altri godono del nome di Benedettini, o di Bernardini;
questi di Brigidensi, quelli di Agostiniani; gli uni tengono alla denominazione di Guglielmiti,
altri di Giacobiti, come se chiamarsi Cristiani fosse troppo poco. Gran parte di costoro, a tal
punto dà peso alle proprie cerimonie e a minute tradizioni umane, da ritenere che un solo cielo non
sia premio adeguato a meriti così grandi; e non pensano che Cristo, non facendo alcun conto del resto,
chiederà loro se hanno osservato il suo unico precetto: la carità. Allora uno esibirà il pancione
gonfio di pesci d'ogni specie; un altro rovescerà al suo cospetto centinaia di moggi di salmi. Un altro
ancora farà il conto degli infiniti digiuni; se poi tante volte ha rischiato di scoppiare, è stato per
quell'unico pasto che si concedeva... dopo. Altri ancora mostrerà il mucchio delle cerimonie a cui ha
partecipato, tanto greve che a malapena potrebbero trasportarlo sette navi da carico. Qualcuno si
vanterà di avere oltrepassato i sessant'anni senza toccare denaro, se non con le mani protette da due
paia di guanti. Chi produrrà la cocolla tanto sporca e grassa che neanche un marinaio se ne gioverebbe.
Chi ricorderà di avere fatto per più di undici anni la vita dell'ostrica, sempre attaccato allo
stesso luogo; e chi si farà un merito della voce divenuta rauca per l'ininterrotto cantare, o del rimbecillimento
derivato dalla vita solitaria; altri ancora della lingua resa torpida dal voto del silenzio. Ma
Cristo, interrompendo queste vanterie che altrimenti rischierebbero di non finire più, "Di dove viene,
dirà, questa nuova schiatta di Giudei? Riconosco per mia una legge sola, e solo di questa non si
fa parola. Pure, una volta, con aperto linguaggio, e non in forma di parabola, ho promesso l'eredità
del padre mio non alle cocolle, non alle giaculatorie ed ai digiuni, ma alle opere di carità. Non conosco
questa gente che esalta continuamente i propri meriti; dato che vorrebbero sembrare anche
più santi di me, occupino, se vogliono, i cieli dei seguaci di Abraxas, o si facciano edificare un nuovo
cielo da coloro le cui meschine tradizioni anteposero ai miei precetti".
35
Quando sentiranno queste parole, e si vedranno preferire marinai e aurighi, con che faccia credete
che si guarderanno a vicenda?
Nel frattempo si beano della loro speranza, e non senza mio merito. E poi, benché lontani dalla vita
pubblica, nessuno osa disprezzarli, i mendicanti in particolare, perché attraverso la cosiddetta confessione
conoscono senza eccezione i segreti di tutti. Rivelarli, tuttavia, secondo loro, è peccato,
salvo dopo una bevuta, quando vogliono dilettarsi di qualche racconto più divertente; ma anche allora
raccontano i fatti solo in via ipotetica, senza far nomi. Se però qualcuno irrita questi calabroni,
predicando al popolo, se ne vendicano a misura di carbone, e bollano il nemico con allusioni tanto
scoperte da essere capite da tutti, salvo da chi non capisce proprio nulla. né la smettono di latrare, se
prima non gli hai gettato il boccone in bocca.
Eppure, quale commediante, quale ciarlatano andresti a vedere a preferenza di costoro, quando nella
predica s'esibiscono in tirate retoriche che, pur nella loro assoluta ridicolaggine, s'attengono nel modo
più spassoso alle norme sull'arte del dire tramandate dai maestri? Dio immortale! come gesticolano!
E come cambiano voce! E come canterellano! Come si spenzolano verso l'uditorio e come
mutano espressione! come punteggiano tutto con urla! Quest'arte oratoria viene trasmessa come un
segreto da un fraticello all'altro: sebbene non mi sia concesso di venirne a conoscenza, tenterò comunque
di procedere per congetture.
Scimmiottando i poeti, cominciano con un'invocazione. Poi, se devono parlare, poniamo, della carità,
prendono le mosse dal Nilo, fiume d'Egitto. Se invece devono trattare del mistero della Croce,
prendono opportunamente gli auspici da Bel, drago di Babilonia. Se si preparano a predicare sul digiuno,
si rifanno ai dodici segni dello Zodiaco e, se l'oggetto del loro discorso è la fede, premettono
una lunga introduzione sulla quadratura del cerchio. Ho sentito con le mie orecchie un esimio stupido,
scusate, volevo dire dotto, che, in una predica famosissima, dovendo spiegare il mistero della
Trinità, volendo fare cosa che suonasse gradita all'orecchio dei teologi, e mettere al tempo stesso in
mostra la sua non comune dottrina, si dette a battere una strada affatto nuova. Partì dalle lettere dell'alfabeto,
dalle sillabe, dal discorso, dalla concordanza del nome col verbo e dell'aggettivo col sostantivo,
tra la meraviglia dei più, anche se non mancava qualcuno che borbottava tra sé le parole
d'Orazio: "ma a cosa approdano queste scemenze?". Finalmente arrivò al punto di dimostrare che
l'immagine di tutta la Trinità scaturisce dai rudimenti grammaticali in modo tale che nessun matematico
potrebbe disegnarla con più evidenza nella polvere. E nel comporre questa orazione, quel teologo
principe per otto mesi interi aveva faticato tanto, che anche oggi è più cieco di una talpa, senza
dubbio per avere consumato tutta la forza degli occhi nella suprema tensione della mente. Eppure
non si lamenta della cecità: crede anzi di avere raggiunto il successo con poca spesa.
Ho ascoltato un altro ottuagenario, un teologo di tale statura che lo avresti detto Duns Scoto redivivo.
Dovendo spiegare il mistero del nome di Gesù, con mirabile sottigliezza dimostrò che tutto
quanto se ne poteva dire era nascosto nelle lettere stesse che lo componevano. perché il fatto che la
sua declinazione abbia tre casi soli è segno manifesto della divina Trinità. Il mistero ineffabile poi,
sta nel fatto che il primo caso, JESUS, termina in sé il secondo, JESUM, in M, il terzo, JESU, in U:
quelle tre lettere significano che è sommo, medio e ultimo. Restava un mistero anche più ostico, da
risolversi col calcolo matematico. Divise la parola Jesus in due parti uguali, in modo che una lettera,
in mezzo, restasse divisa in due. Disse che quella lettera per gli Ebrei è SYN, che in lingua scozzese,
credo, voglia dire peccato: di qui risulta manifesto che Gesù è colui che redime il mondo dai
peccati. Per l'originalità dell'esordio tutti rimasero a bocca aperta, i teologi in particolare, sì che per
poco non toccò loro la sorte di Niobe; mentre a me quasi successe come al Priapo di legno di fico
che, con suo grave danno, si trovò ad assistere ai riti notturni di Canidia e di Sagana. E non a torto.
Infatti, quando mai il greco Demostene, o il latino Cicerone, sono andati ad escogitare un simile esordio?
Essi ritenevano difettoso un proemio che troppo si scostasse dal tema: neanche i bifolchi,
che hanno la natura per guida, esordiscono così. Ma questi dotti ritengono che il loro preambolo -
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così lo chiamano - raggiunga il massimo della potenza retorica quando proprio non ha nulla a che
fare col resto del discorso, tanto che chi ascolta meravigliato finisce col dire tra sé: "ma dove si va a
finire?". In terzo luogo commentano, tirandone fuori un raccontino, qualche breve passo del Vangelo,
ma frettolosamente e quasi incidentalmente, mentre questo solo era il punto da sviluppare. In
quarto luogo, cambiando parte in commedia, sollevano un problema teologale, che talvolta non sta
né in cielo né in terra. Anche questo ritengono conforme alle regole dell'arte. Qui finalmente assumono
piglio teologico, riempiendo gli orecchi degli ascoltatori di famosi nomi di dottori solenni,
dottori sottili, dottori sottilissimi, dottori serafici, dottori santi, dottori irrefragabili. Allora sbandierano
davanti ad una folla ignorante sillogismi, maggiori, minori, conclusioni, corollari, supposizioni
e altre sciocchezze prive di mordente e decisamente scolastiche. Resta ormai il quinto atto, in cui
l'artista deve rivelarsi in tutta la sua bravura. A questo punto tirano in ballo una qualche rozza e
sciocca storiella, tolta, penso, dallo SPECULUM HISTORIALE o dai GESTA ROMANORUM, e
ne offrono un'interpretazione allegorica, tropologica, ed anagogica. Così portano a compimento la
loro Chimera, qualcosa che neppure Orazio riusciva a immaginare quando scriveva: "aggiungete ad
una testa d'uomo, ecc.".
Da non so chi, hanno poi sentito dire che l'inizio dell'orazione deve essere basso di tono. Perciò cominciano
con una voce così bassa che neanche loro la sentono, come se il parlare servisse quando
nessuno capisce. Hanno anche imparato che, a volte, per suscitare emozioni, è opportuno erompere
in un grido. Perciò, a metà di un discorso concitato, all'improvviso si mettono a strillare furiosamente,
senza il minimo bisogno. Quegli scoppi di voce che nulla giustifica ti farebbero giurare di trovarti
davanti a casi da trattare con l'elleboro. Inoltre, avendo appreso che il discorso deve animarsi via
via che procede, quando, bene o male, hanno esaurito l'inizio delle singole parti, a un tratto adottano
un tono appassionato, anche se l'argomento è dei meno interessanti, e finiscono col concludere dando
l'impressione di essere esausti.
Avendo infine imparato che i retori parlano del ridere, anche loro si sforzano di introdurre qualche
battuta scherzosa, con una tale grazia, per Venere, con un tale senso d'opportunità, da farti dire che
sono come l'asino davanti alla lira. Talvolta mordono anche, ma in modo da provocare più solletico
che ferite. né riescono mai ad adulare meglio di quando fanno mostra di non aver peli sulla lingua.
Infine tutto il loro stile è tale da farti giurare che abbiano avuto per maestri i ciarlatani di piazza, restandone
però molto al disotto. Tuttavia si rassomigliano tanto da non lasciare dubbi: o i ciarlatani
hanno imparato la retorica dagli oratori, o gli oratori dai ciarlatani.
Nondimeno, certo per opera mia, trovano chi, ascoltandoli, crede di trovarsi davanti a Demostene o
a Cicerone in persona. Appartengono a questo genere di uditorio soprattutto i mercanti e le donnette,
le sole persone a cui si curano di parlare in modo gradito, perché i mercanti, opportunamente lisciati,
sono inclini, di solito, ad elargire una piccola parte del mal tolto; mentre le donnette, oltre che
per molte altre ragioni, sono ben disposte verso la categoria, soprattutto perché è loro costume attingerne
conforto quando vogliono sfogare i propri malumori coniugali.
Vi rendete conto, suppongo, di quel che mi deve questa specie di uomini, che esercitando tra i mortali
una sorta di tirannia attraverso cerimonie da burla, ridicole sciocchezze e urla scomposte, si credono
dei nuovi San Paolo e Sant'Antonio.
55. Non mi par vero di concludere, oramai: ne ho abbastanza di questi istrioni tanto ingrati nel nascondere
ciò che mi devono, quanto empi nell'ostentare una finta pietà religiosa.
E' giunto il tempo di trattare un po', con tutta schiettezza, dei re e dei prìncipi di corte, che, come si
conviene a uomini liberi, mi onorano con la massima sincerità. Se, infatti, avessero solo una briciola
di senno, che vi sarebbe di più malinconico, o di meno desiderabile, della loro vita? né riterrà che
valga la pena d'impadronirsi del potere con lo spergiuro o col parricidio, chiunque consideri l'entità
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del peso che grava sulle spalle di chi vuole essere un principe sul serio. Chi assume il potere supremo
deve occuparsi degli affari pubblici, non dei propri interessi. Deve pensare esclusivamente alla
pubblica utilità; non deve scostarsi neanche di un pollice dalle leggi, di cui è autore ed esecutore;
deve assicurarsi dell'integrità di tutti i funzionari e di tutti i magistrati. Lui solo, agli occhi di tutti,
può, a guisa di astro benefico, giovare enormemente alle cose di quaggiù coi suoi costumi senza
macchia, oppure, come letale cometa, trarle all'estrema rovina. I vizi degli altri non sono altrettanto
conosciuti e non si propagano tanto. Ma se il principe, con la posizione che occupa, si scosta appena
dalla retta via, subito la corruzione si diffonde contaminando moltissimi uomini. Inoltre poiché la
condizione del principe porta con sè parecchie cose che di solito inducono a tralignare piaceri, libertà,
adulazione, lusso - tanto più attentamente egli deve stare in guardia, se non vuole venir meno al
proprio compito. Infine, per non parlare di insidie, odi, e altri pericoli o timori, gli sta sopra la testa
quel vero Re che quanto prima gli chiederà ragione anche della colpa più lieve, e tanto più severamente
quanto più prestigioso fu il suo imperio. Se il principe riflettesse su queste cose e su moltissime
altre del genere - e ci rifletterebbe se avesse senno - non dormirebbe, credo, sonni tranquilli, né
riuscirebbe a gustare il cibo.
Col mio aiuto, i prìncipi lasciano, ora, tutti questi motivi d'affanno nelle mani degli Dèi, e se la
spassano porgendo orecchio solo a chi sa dire cose gradevoli, perché una punta d'ansia non abbia
mai a levarsi dal fondo del cuore. Ritengono di avere compiuto in ogni suo aspetto il dovere di un
principe, se vanno sempre a caccia, se allevano bei cavalli, se mettono in vendita per trarne un utile
magistrature e prefetture, se ogni giorno escogitano nuovi stratagemmi per alleggerire i cittadini
delle loro sostanze, facendole confluire nel loro tesoro privato: ma trovando dei pretesti, tanto da
conferire una qualche apparenza di giustizia anche alla peggiore iniquità. E per conquistare comunque
le simpatie popolari aggiungono qualche parola di adulazione. Dovete immaginare un uomo,
come se ne vedono a volte, ignaro delle leggi, quasi nemico del pubblico bene, tutto preso dai suoi
interessi privati, dedito ai piaceri, con un'autentica avversione per la cultura, la libertà e la verità,
che non si cura minimamente della salvezza dello Stato, che adotta come unità di misura le proprie
voglie e il proprio tornaconto. Mettetegli al collo una collana d'oro, simbolo della presenza in lui di
tutte le virtù riunite; mettetegli in testa una corona ornata di gemme che lo richiami al suo dovere di
superare gli altri in tutte le virtù eroiche. Dategli lo scettro che simboleggia la giustizia e la cristallina
purezza dell'animo, e infine la porpora a significare il suo straordinario amore per lo Stato. Se un
principe paragonasse questi ornamenti simbolici col suo genere di vita, credo che finirebbe col provare
solo vergogna della sua pompa, e col temere che qualche critico salace non si prendesse gioco
di lui volgendo in beffa questo apparato scenico.
56. Che dirò dei cortigiani più segnalati? Benché nulla vi sia di più strisciante, di più servile, di più
sciocco, di più spregevole di loro, vogliono tuttavia essere ovunque al primo posto. In una cosa sola
sono modesti all'estremo: paghi di portarsi addosso oro, gemme, porpora ed altre insegne della virtù
e della sapienza, lasciano sempre agli altri il privilegio di praticarle. Si ritengono molto fortunati
perché possono chiamare "mio signore" il re, perché hanno imparato un saluto di tre parole, perché
sanno intercalare titoli onorifici: Serenità, Maestà, Magnificenza; perché sono abilissimi nel deporre
ogni pudore quando si tratta di ricorrere a complimenti adulatori. Queste, infatti, sono le arti di un
vero nobile, di un vero uomo di corte. Del resto, se vai a guardare più da vicino il loro costume di
vita, troverai degli autentici Feaci, dei pretendenti di Penelope - il resto del verso lo conoscete, e
l'Eco ve lo ripete meglio di me. Dormono fino a mezzogiorno, mentre un pretonzolo stipendiato aspetta
accanto al letto per celebrare la messa alla svelta quando ancora sonnecchiano. Poi la colazione
e, a mala pena terminata, è già ora di pranzo. Dopo pranzo i dadi, gli scacchi, le lotterie, i buffoni,
i parassiti, le cortigiane, i giochi, le insulsaggini. Nel frattempo un alternarsi di merende. Di
nuovo a tavola, si cena; a questa seguono i brindisi, non uno solo, per Giove. E così, senz'ombra di
noia, passano le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i secoli. Io stessa, a volte, mi allontano col voltastomaco
quando li vedo, quei magnanimi, in mezzo alle donne, ognuna delle quali si crede tanto più
vicina all'Olimpo quanto più lunga ha la coda, mentre i grandi fanno a gomitate per mostrarsi più
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vicini a Giove, e ognuno tanto più è beato quanto più pesante ha la catena al collo, segno manifesto,
non solo di ricchezza, ma anche di robustezza.
57. Già da un pezzo i sommi pontefici, i cardinali ed i vescovi hanno preso con impegno a modello
il genere di vita dei prìncipi, e con un successo forse maggiore. Certo, se uno riflettesse sul significato
della veste di lino, splendida di niveo candore, simbolo d'una vita senza macchia; e pensasse a
quello della mitra a due punte riunite in un solo nodo, a indicare una perfetta conoscenza del Vecchio
e del Nuovo Testamento; o delle mani coperte dai guanti, segno della purezza, immune da ogni
umano cedimento, con cui vengono somministrati i sacramenti; se si chiedesse che vuol dire il pastorale,
simbolo della cura estrema con cui si veglia sul proprio gregge; che cosa la croce che precede
indicando la vittoria su tutte le umane passioni; se, dico, uno riflettesse a queste cose, e a molte
altre del genere, che vita sarebbe la sua, piena di malinconie e di affanni! Bene fanno quelli che
pensano soltanto ad ingozzarsi, e la cura del gregge, o la rimettono a Cristo medesimo, o la scaricano
su coloro che chiamano fratelli o vicari. Del significato del loro nome di vescovi neppure si ricordano:
vescovo vuol dire fatica, preoccupazione, sollecita premura. Vescovi sono sul serio nell'arraffare
quattrini: in questo la loro vigilanza è tutta occhi.
58. Altrettanto dicasi dei cardinali, che dovrebbero ricordarsi che sono i successori degli Apostoli, e
che da loro si esigono le stesse opere: non padroni, ma amministratori dei beni spirituali, di cui tra
breve dovranno rendere conto con la massima precisione. Riflettessero un po' anche al loro paludamento
e si chiedessero: che significa il candore della cotta se non estrema e rara purezza di vita?
Che cosa la porpora che la cotta ricopre, se non ardentissimo amore di Dio? Che cosa l'ampio mantello
che con le sue pieghe fluenti ricopre tutta la cavalcatura di sua Eminenza, e che basterebbe a
coprire anche un cammello? Non significa forse la carità che ovunque si diffonde per venire in aiuto
a tutti, cioè per insegnare, esortare, consolare, rimproverare, ammonire, risolvere i conflitti e per
opporsi ai prìncipi malvagi? Non significa il generoso sacrificio, non solo delle proprie ricchezze,
ma anche del proprio sangue, per amore del gregge? A che scopo le ricchezze, se i cardinali fanno
le veci degli Apostoli, che erano poveri? Se riflettessero su queste cose, dico, terrebbero poco alla
carica: deporla sarebbe un piacere; oppure si sobbarcherebbero una vita tutta presa da cure travagliate,
alla maniera degli antichi Apostoli.
59. Ora è la volta dei sommi pontefici, che fanno le veci di Cristo. Nessuno più di loro si troverebbe
a soffrire, se tentassero di imitarne la vita: povertà, travagli, dottrina, croce, disprezzo del mondo; se
pensassero al loro nome PAPA, cioè padre, e alla loro qualifica di SANTISSIMO! Chi mai spenderebbe
tanto per comprarsi quel posto da difendere poi con la spada, col veleno, con tutte le forze? A
quanti vantaggi dovrebbero dire addio, se la saggezza riuscisse appena a farsi sentire! Ma che dico,
saggezza? Dovrei dire un grano di quel sale menzionato da Cristo. Addio a tante ricchezze, a tanti
onori, e a tanto potere, a tante vittorie, a tante cariche, a tante dispense, a tante imposte, a tante indulgenze,
e a tanti cavalli, muli, servi e piaceri. Guardate un po' che mercato, che razza di messe rigogliosa,
che mare di ricchezze ho concentrato in poche parole! Al loro posto veglie, digiuni, lacrime,
preghiere, prediche, studio, sospiri e mille gravose occupazioni del genere. Ancora - particolare
non trascurabile - sarebbero ridotti alla fame tanti scrivani, copisti, notai, avvocati, promotori, segretari,
mulattieri, palafrenieri, banchieri, ruffiani - e stavo per aggiungere un'espressione più
sguaiata, ma temo che offenda l'orecchio, insomma, una così folta schiera che costituisce l'onere - è
un LAPSUS, volevo dire l'onore - della curia romana. Sarebbe proprio inumano, anzi un delitto abominevole!
ma sarebbe molto peggio riportare al bastone e alla bisaccia quei sommi prìncipi della
Chiesa, che sono la vera luce del mondo.
Ora, se fatiche ci sono, si lasciano a Pietro e a Paolo che di tempo libero ne hanno tanto, e si mantengono
per sé la gloria e il piacere, quando ci sono. Così, col mio aiuto, non c'è quasi nessuno che
più di loro faccia, in perfetta tranquillità, una gran bella vita; convinti di avere assolto in pieno i doveri
verso Cristo, se adempiono alla loro funzione di vescovi con un apparato rituale che ha moven39
ze da palcoscenico, con cerimoniali e profusione di titoli: beatitudine, reverenza, santità; e benedizioni
e anatemi. Non si usa più far miracoli: roba d'altri tempi. Insegnare ai fedeli è faticoso; interpretare
le Sacre Scritture è lavoro da farsi a scuola; pregare è una perdita di tempo; spargere lacrime
è misero e femmineo; vivere in povertà è spregevole. Turpe la sconfitta e indegna di chi a mala pena
ammette il re al bacio dei suoi piedi beati: infine, spiacevole la morte, e infamante la morte sulla
croce.
Rimangono solo le armi e le "dolci benedizioni" di cui parla san Paolo, e di cui fanno uso con tanta
larghezza: interdetti, sospensioni, condanne aggravate, anatemi, esposizione di ritratti a titolo di
vergogna, e quella tremenda folgore con cui, a un cenno del capo, mandano le anime dei mortali all'inferno
e oltre. Di quella folgore, i santissimi padri in Cristo, e di Cristo vicari, si servono col massimo
della violenza, soprattutto contro coloro che, per diabolico impulso, tentano di rimpicciolire e
rosicchiare il patrimonio di Pietro. Benché le parole dell'Apostolo nel Vangelo siano: "Abbiamo abbandonato
tutto e ti abbiamo seguito", essi identificano il patrimonio di Pietro con i campi, le città, i
tributi, i dazi, il potere. E mentre, accesi dall'amore di Cristo, combattono per queste cose col ferro e
col fuoco, non senza grandissimo spargimento di sangue cristiano, credono di difendere apostolicamente
la Chiesa, sposa di Cristo, annientando da valorosi quelli che chiamano i nemici. Come se la
Chiesa avesse nemici peggiori dei pontefici empi; di Cristo non fanno parola: fosse per loro, svanirebbe
nell'oblio; legiferando all'insegna dell'avidità, lo mettono in catene; con le loro interpretazioni
forzate ne alterano l'insegnamento; coi loro turpi costumi lo uccidono.
poiché la Chiesa cristiana è stata fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora, come se Cristo
fosse morto lasciando i fedeli senza una protezione conforme alla sua legge, governano con la spada,
e, pur essendo la guerra una cosa tanto crudele da convenire alle belve più che agli uomini, tanto
pazza che anche i poeti hanno immaginato fossero le Furie a scatenarla, così rovinosa da portare
con sé la totale corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione
di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo, tuttavia, trascurando
tutto il resto, fanno solo la guerra. Si possono vedere vecchi decrepiti che, inalberando un vigoroso
spirito giovanile, non si sgomentano davanti alle spese, non cedono alle fatiche, non indietreggiano
di un pollice se si trovano a mettere a soqquadro le leggi, la religione, la pace, I'intero genere umano.
né mancano colti adulatori, pronti a chiamare questa evidente follia zelo, pietà, fortezza, escogitando
stratagemmi che permettono d'impugnare il ferro mortale e di immergerlo nelle viscere del
fratello senza venir meno a quella suprema carità che secondo il dettato di Cristo un cristiano deve
al suo prossimo.
60. Una cosa, continuo a chiedermi: certi vescovi tedeschi che, andando più per le spicce, tralasciando
il culto, le benedizioni e altre cerimonie del genere, si comportano addirittura da satrapi, fino
a considerare una specie di debolezza, e senz'altro una vergogna per un vescovo, rendere la valorosa
anima a Dio altrove che su un campo di battaglia, sono stati loro a offrire il modello di un tale
comportamento, o lo hanno a loro volta imitato?
Ma ormai la massa dei sacerdoti, considerando peccaminoso venire meno alla santità di vita dei presuli,
levando il grido di guerra si dà a combattere per le dovute decime con spade, frecce, sassi, e
armi di ogni specie! e quale accortezza nel tirare fuori da vecchi documenti qualcosa con cui impaurire
il popolino e convincerlo che il suo debito va al di là delle decime! né intanto ai sacerdoti vengono
in mente i molti passi ovunque ricorrenti sui doveri che, per parte loro, essi hanno verso il popolo.
Nemmeno la tonsura basta come monito: hanno dimenticato che il sacerdote, libero da tutti gli
appetiti del mondo, deve pensare soltanto alle cose del cielo. Sono gente buffa: sostengono di aver
fatto tutto il loro dovere quando hanno borbottato alla bell'e meglio le solite giaculatorie, e io, per
Ercole, mi meraviglio che un qualche Dio le ascolti o le intenda, perché nemmeno loro sono capaci
di udirle o di intenderle, pur gridandole con quanto fiato hanno in corpo.
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C'è un punto, però, che i sacerdoti hanno in comune coi laici; entrambi attentissimi ad accumulare
guadagni sono sempre al corrente delle vie da seguire. Se poi c'è un peso da portare, prudentemente
lo scaricano sulle spalle altrui, e lo fanno passare di mano in mano, in una sorta di gioco a palla.
Come i prìncipi laici, delegano a vicari, settore per settore, le funzioni di governo, e il vicario, a sua
volta, ricorre a un vicario in sottordine; così, per modestia, lasciano al popolo la cura di tutto quanto
riguarda la religione. Il popolo la scarica su quelli che chiama ecclesiastici, come se per parte sua
non avesse nulla a che fare con la Chiesa: pare che i voti pronunciati al battesimo non contino nulla.
A loro volta, i sacerdoti che si denominano secolari, come se appartenessero al mondo più che a
Cristo, scaricano il fardello sul clero regolare; il clero regolare sui monaci; i monaci di meno stretta
osservanza su quelli di osservanza più rigida; gli uni e gli altri sui mendicanti, e i mendicanti sui
certosini, i soli presso cui, sepolta, si nasconde la pietà, ma così nascosta che a mala pena si può
scorgerla.
Così fanno anche i pontefici: diligentissimi nel rastrellare soldi, affidano ai vescovi i gravami più
strettamente apostolici; i vescovi li affidano ai parroci; i parroci ai vicari; i vicari ai frati mendicanti,
che, a loro volta, li rimandano a coloro che tosano la lana delle pecore.
61. Ma io, qui, non mi propongo di passare in rassegna i costumi di pontefici e sacerdoti; non vorrei
avere l'aria di comporre una satira, mentre è il mio elogio che pronuncio; né vorrei si credesse che,
mentre elogio i cattivi prìncipi, io biasimi i buoni. Ho parlato brevemente di queste cose per mettere
in chiaro che nessuno al mondo può vivere felicemente, se non è iniziato ai miei misteri, e se non ha
me dalla sua.
Come mai, infatti, la stessa dea di Ramnunte, signora delle umane sorti, a tal punto va d'accordo con
me da avere giurato eterna inimicizia a questi sapienti, mentre ai folli ha donato ogni bene anche nel
sonno? Voi conoscete il famoso Timoteo, che di qui ha preso anche il soprannome, ed il proverbio:
"anche dormendo piglia pesci". C'è anche l'altro detto: "la civetta vola per lui". Invece, altri sono i
proverbi che si adattano ai sapienti: "nato sotto cattiva stella"; "ha il cavallo di Seio e l'oro di Tolosa".
Smetto le citazioni: non vorrei avere l'aria di saccheggiare la raccolta del mio Erasmo.
Per tornare in argomento: la Fortuna ama gli imprudenti, gli audaci, quelli che adottano il motto "il
dado è tratto". La saggezza, invece, rende piuttosto timidi; perciò comunemente vedete questi sapienti
impegnati a combattere con la povertà, la fame, il fumo; li vedete vivere dimenticati, senza
prestigio, senza simpatie: mentre gli stolti, ben forniti di soldi, raggiungono le alte cariche dello Stato
e, per dirla in breve, prosperano in tutti i sensi. Infatti, se si ripone la felicità nel favore dei prìncipi,
nell'entrare a far parte della cerchia di questi miei fedeli simili a Dèi ingioiellati, che c'è di più
inutile della sapienza, anzi di più aborrito presso gente del genere? Se si vuole arricchire, che cosa
può guadagnare un mercante attenendosi alla sapienza? Se terrà in qualche conto gli scrupoli dei
sapienti sul latrocinio e l'usura, avrà ripugnanza a spergiurare; colto a mentire, arrossirà. Se si desiderano
onori o benefizi ecclesiastici, un asino o un bue potrà aggiudicarseli prima del sapiente. Se è
il piacere che ti muove, le fanciulle, che in questa storia hanno il posto d'onore, si danno di tutto
cuore agli stolti, mentre hanno orrore del sapiente e lo fuggono come fosse uno scorpione. Infine,
chiunque si ripromette una vita in qualche misura lieta, comincia con l'escludere il sapiente, tollerando
piuttosto qualunque altro animale. In breve, da qualunque parte tu ti volga, presso pontefici,
prìncipi, giudici, magistrati, amici, nemici, grandi e piccoli, tutto si ottiene col danaro alla mano; ma
il sapiente disprezza il danaro, e perciò, di solito, da lui ci si tiene lontani con la massima cura.
62. Ed ora, benché sia impossibile esaurire il mio elogio, bisogna pure concludere il discorso. Perciò
smetterò di parlare, ma non senza avere prima dimostrato in poche parole che non sono mancate
grandi autorità a glorificarmi, sia con gli scritti che con le azioni; e questo perché qualcuno non sospetti
scioccamente che sia io sola a compiacermi di me stessa, e perché i legulei non mi accusino di
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non produrre documenti. Perciò, prendendo esempio da loro, allegherò le prove senza preoccuparmi
che siano pertinenti.
In primo luogo, tutti sono persuasi della verità di un notissimo proverbio: "Quando una cosa manca,
ottimo sistema è fingere che ci sia". Perciò è bene cominciare con l'insegnare ai ragazzi questo verso:
"Fingersi folli a tempo e luogo è somma sapienza". Potete rendervi conto da voi di quale gran
dono sia la follia, se anche la sua ombra fallace, e la sua sola imitazione, meritano dai dotti così
grande lode. Con franchezza anche maggiore quel famoso "porco lucido e pingue del gregge di Epicuro"
prescrive di "mescolare la follia alla saggezza", ma, aggiunge, "solo per poco": e qui si sbaglia.
Dice altrove: "Bella cosa folleggiare a tempo e luogo". E ancora, in altra occasione: "Preferisce
apparire pazzo e privo di iniziativa, piuttosto che mostrarsi assennato tenendosi la rabbia in corpo".
Già in Omero, Telemaco, che il poeta loda sotto tutti i rapporti, è detto a più riprese privo di senno,
e spesso e volentieri i tragici indicano in tal modo, quasi fosse di buon augurio, fanciulli e adolescenti.
Di che ci parla il divino poema dell'ILIADE? solo delle ire di re folli e di popoli folli. E quale
lode più alta del detto ciceroniano "Tutto il mondo è pieno di pazzi"? Chi, infatti, non sa che qualunque
bene, a quanti più si estende, tanto più vale?
63. Ma forse per i cristiani l'autorità di costoro non ha gran peso. Perciò, se credete, possiamo poggiare,
o, come dicono i dotti, fondare le nostre lodi sulle Sacre Scritture, cominciando col chiedere il
permesso ai teologi. Poi, dato che un'ardua impresa ci attende, e che forse non sarebbe giusto, vista
la lunghezza del viaggio, invocare di nuovo le Muse dall'Elicona - e per una cosa poi che poco le
interessa - credo migliore partito, mentre faccio il teologo procedendo per uno spinoso calle, scegliere
l'anima di Scoto, spinosa più di ogni istrice e porcospino, perché dalla sua Sorbona per un po'
si trasferisca nel mio petto, per poi migrare dove preferisce, magari in un corvo. Volesse il cielo che
potessi mutare aspetto e comparire nelle vesti del teologo! Temo invece che mi si creda colpevole di
furto, come se per farmi una così bella preparazione teologica alla chetichella avessi saccheggiato i
tesori dei maestri. Ma che c'è da stupirsi, se nella mia lunga e intima consuetudine con i teologi,
qualcosa ho imparato? Persino Priapo, il dio di legno di fico, sentendo leggere il padrone, aveva finito
col tenere a mente qualche parola greca, e il gallo di Luciano, per la lunga convivenza con gli
uomini, ne conosceva a menadito il linguaggio.
Torniamo in argomento. Scrive l'Ecclesiaste nel primo capitolo [I, 15]: "Infinito è il numero degli
stolti". E, parlando di numero infinito, non sembra forse intendere tutti gli uomini, a eccezione di
pochissimi che probabilmente nessuno ha mai visto? Con più chiarezza si esprime Geremia, quando
nel capitolo decimo [X, 15] dice: "Ogni uomo è reso stolto dalla sua sapienza". Attribuisce la sapienza
soltanto a Dio, e lascia la stoltezza a tutti gli uomini [X, 7 e 12]. E ancora, poco prima [9,
23]: "L'uomo non riponga nella sapienza il suo vanto". Ma perché, ottimo Geremia, non vuoi che
l'uomo riponga nella sapienza il suo vanto? "perché, risponderebbe certamente, l'uomo non ha la sapienza."
Ritorniamo all'Ecclesiaste. Quando esclama [1, 2; 12, 8]: "Vanità delle vanità; tutto è vanità", che
altro vuol dire, secondo voi, se non che la vita umana è tutta un gioco della follia? Con questo dava
senza dubbio il suo consenso a quel detto di Cicerone, a buon diritto famoso, che abbiamo riferito
poc'anzi: "Tutto il mondo è pieno di stolti". Tornando al saggio Ecclesiastico, quando diceva [27,
12]: "Lo stolto muta come la Luna; il sapiente, come il Sole, non muta", voleva dire semplicemente
che tutti i mortali sono stolti, e che il titolo di sapiente spetta solo a Dio. La Luna viene identificata
dagli interpreti con la natura umana, il Sole, fonte di ogni luce, con Dio. Con ciò si accorda quanto
Cristo stesso nega nel Vangelo [Matteo, 19, 17]: che qualcuno possa chiamarsi buono, eccetto Dio.
Se è stolto chiunque non è sapiente, e se chi è buono, stando agli Stoici, è anche sapiente, la stoltezza,
di necessità, è retaggio di tutti gli uomini. Si legge ancora nel capitolo quindicesimo [21] di Salomone:
"Lo stolto si bea della sua stoltezza"; e con questo chiaramente si ammette che senza la
stoltezza la vita non ha nulla da offrire.
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Alla stessa conclusione approda il detto: "Chi più sa, più soffre; chi più conosce, più spesso s'indigna
[Eccl. 1, 18]". La stessa cosa, quell'eccelso predicatore riconosce apertamente nel capitolo settimo
[5], quando dice: "Nel cuore dei sapienti il dolore; nei cuori degli stolti la gioia".
Non riteneva, infatti, che bastasse il pieno possesso della sapienza; bisognava conoscere anche me,
la follia. Se poi prestate poca fede a me, leggete le parole che scrisse nel primo capitolo [17]: "Volsi
il mio cuore ad apprendere la saggezza e la scienza, gli errori e la follia". E qui va notato che l'essere
collocata all'ultimo posto torna a lode della follia. L'Ecclesiaste ha scritto - e sapete che questo è
l'ordine ecclesiastico - che chi è primo per dignità deve occupare l'ultimo posto, il che è conforme al
dettato evangelico.
Che poi la Follia è superiore alla Sapienza lo attesta chiaramente, nel capitolo 64 [4 1, 1 8], anche
l'Ecclesiastico, chiunque egli sia. Ma, per Ercole, non riferirò le sue parole se prima non avrete collaborato
con me in una serie di appropriate risposte, come fanno nei dialoghi di Platone gli interlocutori
di Socrate. "Che cosa è più opportuno nascondere, le cose rare e preziose, o quelle comuni e
dappoco?" perché tacete? Anche se cercate di non scoprirvi, parla per voi il proverbio greco che dice
della brocca alla porta di casa, e sacrilego sarebbe rifiutarlo, perché lo troviamo in Aristotele, il
nume dei nostri maestri. O forse qualcuno di voi è così stolto da lasciare per la strada oro e gemme?
Non credo, per Ercole. Sono cose che riponete in nascondigli inaccessibili, e addirittura negli angoli
più segreti di una cassaforte a tutta prova. In mezzo alla strada lasciate i rifiuti. Perciò, se si nasconde
quanto è più prezioso, mentre si lascia in vista ciò che vale meno, la sapienza che l'Ecclesiastico
vieta di nascondere non sarà palesemente meno pregiata della stoltezza che comanda di nascondere?
Ascoltate le sue parole testuali: "L'uomo che nasconde la sua insipienza è migliore dell'uomo che
nasconde la sua sapienza" [41, 18]. Che dire dell'ingenuo candore che le Sacre Scritture attribuiscono
allo stolto, di contro all'atteggiamento del sapiente che non crede nessuno suo simile? Così infatti
intendo le parole del decimo [X, 3] dell'Ecclesiaste: "Ma lo stolto, quando va per la strada, essendo
lui stolto, crede che tutti lo siano". E non è forse indizio di singolare candore supporre che tutti
siano uguali a te e, in un mondo di presuntuosi, estendere a tutti gli altri ciò che in te c'è di buono?
Perciò il gran re Salomone non si vergognò di questa qualifica quando, nel trentesimo capitolo
[Prov. 30, 2], disse: "Sono il più folle degli uomini". E san Paolo, il grande dottore delle genti, scrivendo
ai Corinzi [11, 23], non disdegnò la denominazione di stolto: "Parlo, dice, da dissennato: sono
io il più dissennato". Come se, essere superato in fatto di follia, fosse sconveniente.
Qui mi danno sulla voce certi greculi meschini che s'ingegnano di cavare gli occhi alle cornacchie -
cioè ai teologi del nostro tempo - spargendo in giro il fumo delle loro chiose ai sacri testi (e se il
mio amico Erasmo, che molto spesso ricordo a titolo di merito, non è l'alfa [il primo] della schiera,
certo è il beta [il secondo]). Che razza di citazione pazzesca - dicono - proprio degna della Pazzia in
persona! L'Apostolo intendeva una cosa ben diversa dai tuoi vaneggiamenti. Con le sue parole non
cerca di farsi passare per più stolto degli altri; ma, avendo detto in precedenza: "Sono ministri di
Cristo; e anch'io lo sono", ed essendosi così collocato, con una punta d'orgoglio, alla pari con gli altri,
rettifica: "ma io lo sono anche di più", perché nel ministero del Vangelo sente di essere, non solo
alla pari con gli altri Apostoli, ma un poco al disopra. Tuttavia, volendo che l'affermazione suonasse
vera, senza peraltro urtare gli ascoltatori con un eventuale sospetto di presunzione, adottò la follia
come copertura, e disse "parlo da dissennato", perché sapeva che dire la verità senza offendere nessuno
è privilegio dei soli pazzi.
Che cosa intendesse davvero Paolo quando scrisse a quel modo, lascio che siano loro a decidere. Io
seguo i grandi teologi, grassi e grossi, e in genere molto stimati; buona parte dei dotti, per Giove,
preferisce sbagliare con loro piuttosto che essere nel giusto con codesti trilingui. E nessuno tiene il
parere di questi greculi da quattro soldi in maggior conto del gracchiare di un corvo, soprattutto da
quando ha commentato quel passo da maestro e da teologo un illustre teologo (per prudenza ne tac43
cio il nome, perché i nostri volatili gracchianti non si affrettino ad affibbiargli il motto greco dell'asino
che suona la lira). Con le parole "parlo da dissennato, anzi io lo sono più di tutti", fa cominciare
un nuovo capitolo e, con insuperabile rigore dialettico, aggiunge un nuovo capoverso, interpretando
così (riporterò le sue parole, e non solo nella lettera, ma anche nel loro significato): "parlo da
dissennato, cioè, se vi sembro folle mettendomi alla pari con gli pseudoapostoli, anche più folle vi
sembrerò ponendomi al disopra di loro". Purtroppo quel teologo, subito dopo, quasi dimentico di sé,
cambia argomento.
64. Ma perché mi affanno tanto con questo solo esempio? Tutti riconoscono ai teologi il diritto di
manipolare il cielo, ossia le Sacre Scritture, tirandole in qua e in là come un elastico, tanto è vero
che in san Paolo entrano in contraddizione parole della Scrittura che nel sacro testo non sono affatto
in contrasto (almeno se vogliamo prestare fede a san Girolamo, che sapeva ben cinque lingue). Così,
letta per caso ad Atene la dedica di un altare, Paolo ne forzò il significato a beneficio della fede
cristiana, e, tralasciando le altre parole, che avrebbero nuociuto al suo proposito, staccò dal contesto
solo le ultime due: "Al Dio ignoto", e anche queste con qualche variante. La dedica esatta era, infatti,
questa: "Agli Dèi dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa, agli Dèi ignoti e stranieri". Penso che questi
figli di teologi, seguendone l'esempio, sopprimendo qua e là quattro o cinque parolette e, all'occorrenza,
anche alterandole, le adattino ai loro scopi. Poco importa, poi, se le parole che precedono o
quelle che seguono non c'entrano per nulla o, addirittura, sono in contrasto. Lo fanno con una tale
impudenza, che spesso i giureconsulti sono tratti a invidiare i teologi.
Che mai hanno più da temere da quando quel celebre... - a momenti mi sfuggiva il suo nome, ma di
nuovo mi trattiene il proverbio greco - ha ricavato dalla parola di Luca [22, 35-36] un principio che
si accorda con lo spirito di Cristo come il fuoco con l'acqua? Infatti, nell'ora dell'estremo pericolo,
quando i fedeli adepti si stringono di più ai loro protettori per impegnarsi con ogni risorsa al loro
fianco, Cristo, perché i suoi smettessero del tutto di confidare in questo genere di aiuti, chiese loro
se mai avessero sentito la mancanza di qualche cosa, quando li aveva mandati per il mondo così poco
equipaggiati da non avere né calzari contro le spine e i sassi, né bisaccia contro la fame. Avendo
essi risposto di no, che nulla era mancato, soggiunse: "Ma ora chi ha una borsa la prenda, e altrettanto
faccia con la bisaccia, e chi non ne ha venda la sua tunica e compri una spada". Ora, dato che
tutta la dottrina di Cristo predica solo mansuetudine, tolleranza, disprezzo del mondo, non è chi non
intenda il giusto significato di questo passo. Il proposito è di rendere i legati di Cristo anche più inermi;
non solo senza calzari e senza bisaccia, ma anche senza tunica, nudi e liberi di tutto, affrontino
la loro missione evangelica. Non si procurino nulla, se non la spada, non quella, però, di cui si
servono predoni e parricidi per i loro misfatti, ma la spada dello spirito, che penetra nel fondo del
cuore, che taglia via una volta per sempre tutte le passioni, sì che nulla vi resti, salvo la pietà.
Orbene, state un po' a vedere a quale senso riesce a piegare questo passo il nostro famoso teologo.
Secondo lui la spada è la difesa contro i persecutori, il sacchetto, una sufficiente provvista di viveri;
come se Cristo, ritenendo di aver mandato per il mondo i suoi missionari senza provvederli di mezzi
adeguati, cambiando parere ritrattasse quanto ha predicato in precedenza. O dimenticasse quanto
aveva detto, che sarebbero stati felici nel dolore, fatti segno a ingiurie e supplizi, non rendendo male
per male, perché beati sono i mansueti, non i violenti; se, dimenticando di averli esortati a seguire
l'esempio dei passeri e dei gigli, non li volesse più vedere partire senza la spada. La comprino, a costo
di vendere la tunica; meglio nudi che disarmati! Il commentatore ritiene inoltre che il termine
spada indichi tutto ciò che può servire come arma di difesa, e che il termine bisaccia abbracci quanto
concerne i bisogni vitali. Così l'interprete del pensiero divino fa predicare il Cristo in croce da
Apostoli armati di lance, balestre, fionde e bombarde. Li carica di valigie, sacche e bagagli vari perché
non abbiano mai a mettersi in viaggio senza avere debitamente pranzato. né il brav'uomo è turbato
neppure dal fatto che Cristo ingiunge di rimettere subito nel fodero quella spada che aveva ordinato
di comprare a così caro prezzo, e che mai, per quel che se ne sa, gli Apostoli hanno fronteg44
giato con spade e scudi la violenza dei pagani, come avrebbero fatto se il pensiero di Cristo fosse
stato conforme a questa interpretazione.
C'è poi un altro, e non certo l'ultimo venuto (per deferenza non ne faccio il nome) che, basandosi sul
riferimento di Abacuc [3, 7] alle tende di Madian - "le pelli del paese di Madian saranno messe sossopra"
- ne ricava un'allusione alla pelle di san Bartolomeo scorticato.
Di recente partecipai io stessa a una discussione teologica; lo faccio spesso. poiché uno dei presenti
chiedeva in che conto si doveva tenere il precetto delle Sacre Scritture secondo cui gli eretici vanno
arsi sul rogo piuttosto che non persuasi attraverso la discussione, un vecchio dall'aspetto severo,
teologo anche nel piglio, rispose molto indignato che la legge risaliva all'apostolo Paolo che disse
[A TITO, 3, 10]: "Dopo aver tentato ripetutamente di mettere l'eretico sulla buona strada, evitalo".
E più volte tornava a dire quelle parole, mentre erano in parecchi a chiedersi che cosa mai gli succedeva.
Finì con lo spiegare che bisognava togliere DALLA VITA (E VITA) l'eretico. Ci fu chi rise,
ma ci fu anche chi ritenne l'interpretazione ineccepibile dal punto di vista teologico, e poiché
qualcuno continuava a protestare, intervenne un avvocato cosiddetto di Tenedo, un'autorità irrefragabile:
"State a sentire, disse. La Scrittura dice: non lasciar vivere l'uomo malefico. Ma ogni eretico
è malefico, quindi...". Tutti i presenti ammirarono la soluzione ingegnosa, e vi aderirono battendo
forte i piedi calzati di stivali. A nessuno venne in mente che quella legge riguardava incantatori e
maghi, detti in lingua ebraica "malefici". Altrimenti la pena di morte dovrebbe estendersi alla fornicazione
e all'ubriachezza.
65. Sono una sciocca a volermi dilungare su queste cose, così numerose che neanche tutti i volumi
di Crisippo e di Didimo basterebbero a contenerle. Volevo solo farvi presente che, se tanto è stato
concesso a quei maestri di primissima grandezza, è giusto usare qualche indulgenza a me, teologa di
ben poco conto, se le mie citazioni non sono del tutto esatte.
E ora, tornando finalmente a Paolo, parlando di sé dice: "Voi sopportate di buon grado i folli" [2
Cor., 11, 19]. E ancora: "Accettatemi come un folle". E poi: "Non parlo ispirato da Dio, ma quasi
come un folle". E altrove, di nuovo: "Siamo folli a cagione di Cristo". Avete sentito quali elogi della
follia e da quale pulpito! E che diremo di quel suo raccomandare la stoltezza quale fonte per eccellenza
necessaria in vista della salvezza? "Chi di voi sembra sapiente, divenga stolto per essere
sapiente".
In Luca [34, 25] Gesù chiama "stolti" i due discepoli cui si era accompagnato per la strada. Non so
se ci si debba meravigliare, visto che allo stesso Dio, San Paolo attribuisce un pizzico di follia, dicendo:
"La follia di Dio è più saggia del senno degli uomini". [Primo Cor., 1, 25]. Origene, per certo,
contesta che questa follia sia suscettibile di essere tradotta in termini umani, come nell'altro esempio:
"La parola della croce è follia per gli uomini che si perdono" [Primo Cor., 1, 18].
Ma perché mai insisto nel sostenere tutto questo con tante testimonianze? Non ce n'è bisogno, se nei
mistici salmi [68, 6] Cristo stesso dice al Padre: "Tu conosci la mia follia". E non per caso i folli sono
sempre stati tanto cari al Signore. Per la stessa ragione, credo, per cui i sovrani guardano con diffidente
antipatia le persone troppo intelligenti. Così accadeva a Cesare con Bruto e Cassio - mentre
di quell'ubriacone di Antonio non aveva alcun timore; così accadeva a Nerone con Seneca e a Dionigi
con Platone; mentre si trovavano bene con gli uomini privi di acume. Allo stesso modo Cristo
costantemente detesta e condanna quei sapienti che hanno fiducia nella propria saggezza.
Lo attesta chiaramente san Paolo quando dice: "Dio sceglie ciò che il mondo considera stolto", e
che "Dio aveva voluto salvare il mondo attraverso la stoltezza", perché attraverso la saggezza non
era possibile [Primo Cor., 1]. Dio stesso lo rivela con sufficiente chiarezza quando esclama per bocca
del profeta: "Manderò in fumo la sapienza dei sapienti e condannerò la saggezza dei saggi".
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E ancora quando Gesù lo ringrazia perché aveva rivelato ai piccoli, cioè agli stolti, il mistero della
salvezza che aveva celato ai sapienti. In greco, infatti, il termine per indicare i bambini è infanti
(népioi) in contrapposizione ai sapienti (zof¢i ). Nello stesso senso vanno intesi certi motivi ricorrenti
nel Vangelo; Gesù che fieramente si leva contro farisei, scribi e dottori e, viceversa, la sollecita
protezione che accorda al volgo ignorante. Che altro vogliono infatti dire le parole: "Guai a voi,
scribi e farisei", se non "Guai a voi, sapienti" [Matteo, 23, 13-27; Luca, 11, 42-43]. Invece il suo
rapporto con bambini, donne, pescatori, pare fosse improntato a perfetta letizia. Anche fra le bestie
Cristo predilige le più lontane dall'astuzia della volpe. Perciò preferì cavalcare un asino, anche se,
volendo, avrebbe potuto senza rischio cavalcare un leone. Così lo Spirito Santo è sceso dal cielo in
sembianza di colomba, non di aquila o di sparviero. Inoltre, nelle Sacre Scritture, si ricordano un po'
dappertutto cervi, capretti, agnelli. Aggiungasi che Gesù chiama pecore i suoi discepoli destinati a
vivere in eterno. né c'è animale più stupido di questo, stando anche al detto aristotelico "indole di
pecora" che, come Aristotele avverte, tratto dalla stupidità di quell'animale, di solito si applica a titolo
ingiurioso agli stupidi e tardi. Tuttavia Cristo si professa pastore di questo gregge; anzi egli
stesso si compiacque di chiamarsi agnello, e Giovanni Battista lo indicò con questo nome: "Ecco
l'agnello di Dio", denominazione che ricorre spesso anche nell'Apocalisse.
Di qui una clamorosa conclusione: i mortali, anche quelli che coltivano sentimenti di pietà, sono
stolti. Lo stesso Cristo, per venire in aiuto all'umana sapienza, lui che è la sapienza del Padre, si è
fatto in qualche modo stolto, quando, vestite le umane spoglie, si è presentato con sembiante di uomo.
Come si è fatto anche peccato per risanarci dai peccati. né volle porvi altro rimedio se non la
follia della Croce, valendosi di Apostoli rozzi e ignoranti, cui ebbe cura di predicare come ottima
condizione la stoltezza distogliendoli dalla sapienza quando li esorta a seguire l'esempio dei bambini,
dei gigli, del grano di senape, dei passerotti, esseri del tutto privi d'intelligenza, che vivono solo
affidandosi alla natura, senza artifici, senza affanni; e quando proibisce loro di preoccuparsi della
linea da tenere davanti ai giudici e di stare all'erta per cogliere i momenti opportuni: non devono
cioè confidare nella propria saggezza, ma mettersi totalmente nelle sue mani. Allo stesso principio
s'ispira Dio, architetto del mondo, quando proibisce di assaggiare il frutto dell'albero della sapienza,
quasi che la scienza fosse il veleno della felicità. San Paolo, d'altra parte, condanna la scienza apertamente
come fonte di presunzione e di rovina. E credo che san Bernardo si richiamasse a lui identificando
il monte che Lucifero aveva scelto per sua sede col monte della scienza.
Forse c'è anche un altro argomento che non dovrei tralasciare: la stoltezza trova grazia presso gli
Dèi; al sapiente non si perdona, tanto è vero che chi implora il perdono, anche se ha peccato con
cognizione di causa, adduce a pretesto la stoltezza e di essa si fa usbergo. Così infatti, se la memoria
non mi tradisce, nei NUMERI [12, 11] Aronne cerca di stornare dalla moglie la punizione del Signore:
"Ti prego, Signore, non giudicarci colpevoli: abbiamo peccato per mancanza di discernimento".
E anche Saul di fronte a David si discolpa così: "E' chiaro, dice, che ho agito da sciocco". E
David, a sua volta, cerca di propiziarsi il Signore con queste parole: "Ti prego, Signore, non accusare
il tuo servo d'iniquità; ho agito da sciocco", come se non potesse ottenere il perdono se non appellandosi
alla sua stoltezza e alla sua insipienza. Prova di eccezionale efficacia, Cristo in croce,
quando pregò per i suoi nemici, portò come unica scusa l'ignoranza: "Padre, perdona loro perché
non sanno quello che fanno" [Luca 23, 24]. Nello stesso senso Paolo scriveva a Timoteo: "Ho ottenuto
la misericordia divina perché nella mia incredulità ho agito per ignoranza" [Primo Tim. 1, 13].
Che vuol dire "ho agito da ignorante", se non che aveva agito per stoltezza, non per malizia? Che
significa "perciò ho ottenuto misericordia", se non che non l'avrebbe ottenuta se la sua stoltezza non
avesse deposto in suo favore? Fa al caso nostro il mistico salmista che non mi è venuto in mente al
momento giusto: "Non ricordare le colpe della mia gioventù e le mie ignoranze" [PS. 24, 7].
Come avete sentito, adduce due argomenti: la giovane età - a cui sempre io, la Follia, mi accompagno
- e le "ignoranze", ricordate al plurale per fare intendere la grande forza della follia.
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66. Per non dilungarmi all'infinito cercherò di riassumere per sommi capi. Se la religione cristiana
sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza non ha proprio nulla a che fare. Desiderate
averne una prova? Guardate in primo luogo al fatto che bambini, vecchi, donne e anime semplici
godono più degli altri delle funzioni religiose, e perciò, per puro istinto, sono sempre i più vicini
agli altari. Vedete inoltre che i primi fondatori della religione, con mirabile slancio, scelsero le
vie della semplicità, mentre furono nemici acerrimi delle lettere.
Infine non c'è pazzo che sembri più pazzo di coloro che una volta per sempre siano stati conquistati
in pieno dal fuoco della carità cristiana: a tal punto sono prodighi dei loro beni, trascurano le offese,
tollerano gli inganni, non fanno distinzione tra amici e nemici, hanno orrore del piacere; digiuni,
veglie, lacrime, fatiche, ingiurie, sono il loro nutrimento; per nulla attaccati alla vita, desiderano solo
la morte; per dirla in breve, sembrano affatto insensibili alle esigenze del senso comune, come se
il loro animo vivesse altrove, e non nel loro corpo. E che altro è questo se non follia? Non dobbiamo
dunque meravigliarci se gli Apostoli sembrarono ubriachi di vino dolce, se Paolo sembrò pazzo
al giudice Festo.
Comunque, visto che una volta tanto ho vestito la pelle del leone, andrò più in là mettendo in chiaro
un'altra cosa: quella beatitudine che i cristiani cercano di conquistare a così caro prezzo, altro non è
se non una forma di follia e di stoltezza. Non badate alle parole: non c'è intenzione d'offesa; considerate
piuttosto i fatti. C'è in primo luogo un punto di contatto fra cristiani e platonici: entrambi ritengono
che l'anima, irretita nei vincoli del corpo, trovi nella sua materia un impedimento alla contemplazione
e alla fruizione del vero. Perciò Platone definisce la filosofia una meditazione sulla
morte, perché, a somiglianza della morte, distoglie la mente dalle cose visibili e corporee. Perciò,
finché l'anima fa buon uso degli organi del corpo, viene detta sana; ma quando, spezzati i vincoli,
tenta d'affermarsi in piena libertà, e viene quasi meditando una fuga dal carcere corporeo, allora si
parla di follia. Se per caso la cosa accade per malattia, per una qualche affezione organica, allora è
pazzia conclamata. Tuttavia vediamo che anche uomini di questa specie predicono il futuro, sanno
lingue e lettere che non hanno mai appreso in passato, ostentano qualcosa che appartiene decisamente
all'ambito del divino.
Non c'è dubbio: questo accade perché la mente, libera in parte dall'influenza del corpo, comincia a
sprigionare la sua forza nativa. Credo che per la stessa ragione qualcosa di simile accada nel travaglio
della morte imminente: gli agonizzanti, come ispirati, parlano un linguaggio profetico.
Se ciò accade nell'ardore della fede, si tratta forse di un altro genere di follia, ma così vicina alla ordinaria
follia che molta gente la giudica pazzia pura, e tanto più in quanto riguarda un pugno di disgraziati
che in tutto il modo di vivere si scostano dal resto dell'umano consorzio. Qui, di solito,
credo si verifichi il caso del mito platonico: di quelli che incatenati in fondo alla caverna vedono
l'ombra delle cose, e del prigioniero che, fuggito di là, tornando poi nell'antro afferma di avere contemplato
le cose reali, e che loro s'ingannano di molto, convinti come sono che nient'altro esista se
non delle misere ombre. Il saggio compiange e deplora la follia di coloro che sono irretiti in così
grave errore; ma quelli, a loro volta, ridono di lui come se delirasse e lo cacciano via. Allo stesso
modo il volgo ammira soprattutto le cose in cui la materia prevale, e quasi crede che siano le sole ad
esistere. Chi pratica la religione, invece, quanto più una cosa è attinente al corpo tanto più la trascura
ed è tutto preso dalla contemplazione dell'invisibile. Gli uni mettono al primo posto le ricchezze,
al secondo le comodità relative al corpo, all'ultimo l'anima: che, dopo tutto, i più neanche credono
esista perché l'occhio non può scorgerla. Gli altri, invece, in primo luogo tendono con tutte le loro
forze a Dio, il più semplice degli esseri; in secondo luogo a qualcosa che ancora resta nella sua cerchia:
ossia all'anima, che più di tutto è vicina a Dio; trascurano la cura del corpo, disprezzano le ricchezze
e ne rifuggono come da cosa immonda. Se poi non possono esimersi dall'occuparsene, ne
sentono il peso e la noia; hanno, ed è come se non avessero; posseggono, ed è come se non posse47
dessero. Nei singoli casi ci sono anche molte altre differenze di gradazione. Prima di tutto, benché
tutti i sensi abbiano un legame col corpo, alcuni sono più corpulenti, come il tatto, l'udito, la vista,
I'olfatto, il gusto; altri più distaccati dal corpo, come la memoria, l'intelletto, la volontà.
Dato che la potenza dell'anima risulta maggiore là dove concentra il suo sforzo, le persone religiose,
poiché tutta la forza dell'animo loro si volge alle cose lontane per eccellenza dai sensi più corposi,
subiscono in questi una sorta di ottundimento. Il volgo, invece, in essi raggiunge il massimo della
potenza, il minimo negli altri. Si spiega così ciò che raccontano sia accaduto a certi Santi, di bere
olio invece di vino.
E anche fra le passioni dell'anima alcune sono più legate agli aspetti carnali del corpo, come l'impulso
sessuale, il bisogno di cibo e di sonno, l'ira, la superbia, l'invidia: chi coltiva sentimenti di pietà
le respinge senza remissione; il volgo, al contrario, ne fa la fondamentale ragione di vita. Vi sono
poi dei sentimenti intermedi, quasi naturali, come l'amore di patria, l'affetto per i figli, per i genitori,
per gli amici. Il volgo ne riconosce in qualche misura l'importanza, ma quanti vivono secondo pietà
cercano di sradicare dall'animo anche questi, a meno che non raggiungano quel supremo livello spirituale
per cui si ama il padre, non in quanto padre - che ha generato, infatti, se non il corpo? e, alla
fine, anche questo è opera di Dio padre - ma in quanto è buono e porta in sé il lume di quella Mente
che sola chiamano sommo bene, e al di fuori della quale sostengono che nulla merita di essere amato
o desiderato.
Con questo medesimo criterio giudicano di tutti i doveri: tutto ciò che è visibile, se non è da disprezzarsi
senz'altro, va tenuto in molto minor conto dell'invisibile. Dicono che anche nei sacramenti
e nelle pratiche religiose si possono distinguere corpo e spirito. Per esempio, nel digiuno non fanno
gran conto dell'astinenza dalla carne e dal pasto, che il volgo considera invece digiuno stretto;
bisogna che intervenga anche un controllo delle passioni, che si conceda meno del solito ai moti d'ira
o di superbia, perché lo spirito già meno gravato dal corpo si innalzi al godimento dei beni celesti.
Altrettanto dicasi della Eucaristia. Benché non vada sottovalutato l'aspetto cerimoniale, questo
per se stesso giova poco, o addirittura è pernicioso in mancanza dell'elemento spirituale, cioè del
contenuto rappresentato da quei segni visibili. Si rappresenta la morte di Cristo; i mortali devono
parteciparvi come attori vincendo, sopprimendo, starei per dire seppellendo, le passioni corporee
per risorgere a nuova vita, per fare, in totale comunione fra loro, tutt'uno con lui.
Queste le azioni, questi i pensieri dell'uomo di fede. Il volgo, al contrario, crede che il sacrificio sia
tutto nello stare quanto più è possibile accanto agli altari, ascoltando il rumore delle parole e badando
ad altre quisquilie relative al rito.
Quanto al pio, non solo nelle cose che abbiamo portato a esempio, ma in ogni occasione, rifugge da
ciò che è legato al corpo, tutto preso dall'eterno, dall'invisibile, dalla realtà spirituale. Perciò, dato il
loro radicale disaccordo su tutto, accade che uomini di pietà e volgo a vicenda si prendano per matti.
Ma, secondo me, l'appellativo si addice piuttosto alla gente pia che non al volgo. E ciò risulterà
più chiaro se, come ho promesso, dimostrerò in poche parole che quel sommo premio altro non è se
non una forma di follia.
67. Considerate in primo luogo che qualcosa di simile già vagheggiò Platone quando scrisse che il
delirio degli amanti è il più felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se stesso, ma in
colui che ama, e quanto più si allontana da sé e si trasferisce in lui tanto più gode. E quando l'animo
si propone di uscire dal corpo e non usa debitamente dei suoi organi, a buon diritto senza dubbio si
può parlare di delirio. Altrimenti che cosa vogliono dire le comuni espressioni: "non è in sé", o anche
"torna in te stesso", e "è tornato in se stesso"? D'altra parte quanto più è perfetto l'amore, tanto
più è grande, tanto più beato il delirio. Quale sarà dunque quella vita celeste che fa tanto sospirare le
anime pie? Lo spirito, che è il più forte, sarà vittorioso, e assorbirà il corpo tanto più facilmente per48
ché già in vita lo avrà mortificato e indebolito in vista di una simile trasformazione. Poi sarà a sua
volta mirabilmente assorbito da quella somma Mente la cui potenza è infinitamente superiore. A
questo punto l'uomo sarà interamente fuori di sé, e solo per questo felice, perché, essendo fuori di
sé, subirà non so quale ineffabile influsso di quel sommo Bene che tutto trae a sé.
Anche se questa felicità sarà perfetta solo quando le anime, ripresa l'antica veste corporea, riceveranno
il dono dell'immortalità, gli uomini pii, dato che la loro vita è tutta una meditazione di quella
vita immortale, e quasi una sua immagine, possono talvolta pregustare qualcosa, una sorta di anticipazione
di quel premio. Si tratta di una goccia da niente in confronto a quella fontana di eterna felicità,
ma che vale molto di più di tutti i piaceri corporei, anche se potessimo farli convergere tutti in
un punto solo. A tal punto la sfera dello spirito è superiore al corpo, e quella dell'invisibile al visibile.
Questa certo è la promessa del Profeta: "l'occhio non vide, l'orecchio non udì, non penetrarono
nel cuore dell'uomo le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano". Questa è la parte della
follia che il passaggio da una vita all'altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto
parteciparne - pochissimi invero - sono còlti da un turbamento che alla follia è vicinissimo; fanno
discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi, all'improvviso, mutano completamente
d'espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora ridono, ora sospirano; insomma
sono davvero del tutto fuori di sé. Appena rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati,
se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati; di non sapere che cosa
hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare
attraverso il velo della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine
quando erano in quello stato. Perciò piangono per essere tornati in senno, e soprattutto desiderano
di essere in eterno in preda a quel genere di follia. Hanno appena pregustato la felicità futura!
68. Dimentica di me stessa, ho passato da un pezzo i limiti. Tuttavia, se vi pare che il discorso abbia
peccato di petulanza e prolissità, pensate che chi parla è la Follia, e che è donna. Ricordate però il
detto greco: "spesso anche un pazzo parla a proposito"; a meno che non riteniate che il proverbio
non possa estendersi alle donne.
Vedo che aspettate una conclusione: ma siete proprio scemi, se credete che dopo essermi abbandonata
ad un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò che ho detto. Un vecchio proverbio
dice: "Odio il convitato che ha buona memoria". Oggi ce n'è un altro: "Odio l'ascoltatore che
ricorda". Perciò addio! Applaudite, bevete, vivete, famosissimi iniziati alla Follia.

F I N E