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sabato 26 giugno 2010

PRIMO LEVI **S E Q U E S T O E' U N U O M O**



** SE QUESTO E’ UN UOMO ** - Primo Levi

INDICE
1 - Prefazione dell'autore
2 - Se questo è un uomo
3 - Il viaggio
4 - Sul fondo
5 - Iniziazione
6 - Ka-Be
7 - Le nostre notti
8 - Il lavoro
9 - Una buona giornata
10 - Al di qua del bene e del male
11 - I sommersi e i salvati
12 - Esame di chimica
13 - Il canto di Ulisse
14 - I fatti dell'estate
15 - Ottobre 1944
16 - Kraus
17 - Die drei Leute vom Labor
18 - L'ultimo
19 - Storia di dieci giorni
20 - Appendice

PREFAZIONE DELL'AUTORE
Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz
solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data
la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito
di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi,
concedendo sensibili miglioramenti nel tenore di vita e
sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio
dei singoli.
Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atro-
ci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai let-
tori di tutto il mondo sull'inquietante argomento dei
campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo sco-
po di formulare nuovi capi di accusa; potrà piutto-
sto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni
aspetti dell'animo umano. A molti, individui o po-
poli, può accadere di ritenere, piú o meno consape-
volmente, che « ogni straniero è nemico ». Per lo piú
questa convinzione giace in fondo agli animi come
una infezione latente; si manifesta solo in atti sal-
tuari e incoordinati, e non sta all'origine di un siste-
ma di pensiero. Ma quando questo avviene, quando
il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un
sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager.
Esso è il prodotto di una concezione del mondo
portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza:
finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minac-
ciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe ve-
nire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.
Mi rendo conto e chiedo venia dei difetti struttu-
rali del libro. Se non di fatto, come intenzione e come
concezione esso è nato già fin dai giorni di Lager. Il
bisogno di raccontare agli « altri », di fare gli «altri »
partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazio-
ne e dopo, il carattere di un impulso immediato e vio-
lento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elemen-
tari; il libro è stato scritto per soddisfare a questo bi-
sogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione
interiore. Di qui il suo carattere frammentario: i capi-
toli sono stati scritti non in successione logica, ma per
ordine di urgenza. Il lavoro di raccordo e di fusione è
stato svolto su piano, ed è posteriore.
Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti
è inventato.
PRIMO LEVI

SE QUESTO è UN UOMO
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sí o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza piú forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

IL VIAGGIO.
Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 di-
cembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno,
nessuna esperienza, e una decisa propensione, favo-
rita dal regime di segregazione a cui da quattro anni
le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio
mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi
cartesiani, da sincere amicizie maschili e da amicizie
femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto
senso di ribellione.
Non mi era stato facile scegliere la via della mon-
tagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella
opinione mia e di altri amici di me poco piú esperti,
avrebbe dovuto diventare una banda partigiana affi-
liata a « Giustizia e Libertà ». Mancavano i contatti,
le armi, i quattrini e l'esperienza per procurarseli;
mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece som-
mersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e
in mala fede, che arrivava lassú dalla pianura in cerca
di una organizzazione inesistente, di quadri, di armi,
o anche solo di protezione, di un nascondiglio, di un
fuoco, di un paio di scarpe.
A quel tempo, non mi era stata ancora insegnata la
dottrina che dovevo piú tardi rapidamente imparare
in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell'uomo
è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sba-
glia paga; per cui non posso che considerare conforme
a giustizia il successivo svolgersi dei fatti. Tre centu-
rie della Milizia, partite in piena notte per sorpren-
dere un'altra banda, di noi ben piú potente e perico-
losa, annidata nella valle contigua, irruppero in una
spettrale alba di neve nel nostro rifugio, e mi condus-
sero a valle come persona sospetta.
Negli interrogatori che seguirono, preferii dichia-
rare la mia condizione di «cittadino italiano di razza
ebraica », poiché ritenevo che non sarei riuscito a
giustificare altrimenti la mia presenza in quei luoghi
troppo appartati anche per uno « sfollato », e stimavo
(a torto, come si vide poi) che l'ammettere la mia at-
tività politica avrebbe comportato torture e morte
certa. Come ebreo, venni inviato a Fossoli, presso
Modena, dove un vasto campo di internamento, già
destinato ai prigionieri di guerra inglesi e americani,
andava raccogliendo gli appartenenti alle numerose ca-
tegorie di persone non gradite al neonato governo
fascista repubblicano.
Al momento del mio arrivo, e cioè alla fine del gennaio
1944, gli ebrei italiani nel campo erano centocinquanta
circa, ma entro poche settimane il loro numero
giunse a oltre seicento. Si trattava per lo piú di
intere famiglie, catturate dai fascisti o dai nazisti per
loro imprudenza, o in seguito a delazione. Alcuni po-
chi si erano consegnati spontaneamente, o perché ri-
dotti alla disperazione dalla vita randagia, o perché
privi di mezzi, o per non separarsi da un congiunto
catturato, o anche, assurdamente, per « mettersi in
ordine con la legge ». V'erano inoltre un centinaio di mi-
litari jugoslavi internati, e alcuni altri stranieri consi-
derati politicamente sospetti.
L'arrivo di un piccolo reparto di SS tedesche avreb-
be dovuto far dubitare anche gli ottimisti; si riusci
tuttavia a interpretare variamente questa novità, sen-
za trarne la piú ovvia delle conseguenze, in modo che,
nonostante tutto, l'annuncio della deportazione trovò
gli animi impreparati.
Il giorno 20 febbraio i tedeschi avevano ispezionato
il campo con cura, avevano fatte pubbliche e vivaci
rimostranze al commissario italiano per la difettosa
organizzazione del servizio di cucina e per lo scarso
quantitativo della legna distribuita per il riscalda-
mento; avevano perfino detto che presto un'infermeria
avrebbe dovuto entrare in efficienza. Ma il mattino
del 21 si seppe che l'indomani gli ebrei sarebbero
partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini,
anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sa-
peva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per
ognuno che fosse mancato all'appello, dieci sarebbero
stati fucilati.
Soltanto una mínoranza di ingenui e di illusi si osti-
nò nella speranza: noi avevamo parlato a lungo coi
profughi polacchi e croati, e sapevamo che cosa vo-
leva dire partire.
Nei riguardi dei condannati a morte, la tradizione
prescrive un austero cerimoniale, atto a mettere in
evidenza come ogni passione e ogni collera siano ormai
spente, e come l'atto di giustizia non rappresenti
che un triste dovere verso la società, tale da potere
accompagnarsi a pietà verso la vittima da parte dello
stesso giustiziere. Si evita perciò al condannato ogni
cura estranea, gli si concede la solitudine, e, ove lo
desideri, ogni conforto spirituale, si procura insomma
che egli non senta intorno a sé l'odio o l'arbitrio, ma la
necessità e la giustizia, e, insieme con la punizione, il
perdono.
Ma a noi questo non fu concesso, perché eravamo
troppi, e il tempo era poco, e poi, finalmente, di che
cosa avremmo dovuto pentirci, e di che cosa venir
perdonati? Il commissario italiano dispose dunque
che tutti i servizi continuassero a funzionare fino al-
l'annunzio definitivo; la cucina rimase perciò in effi-
cienza, le corvées di pulizia lavorarono come di con-
sueto, e perfino i maestri e i professori della piccola
scuola tennero lezione a sera, come ogni giorno. Ma
ai bambini quella sera non fu assegnato compito.
E venne la notte, e fu una notte tale, che si conob-
be che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi
e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei
guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di ve-
nire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno
di dover morire.
Ognuno si congedò dalla vita nel modo che piú gli
si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre mi-
sura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione.
Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il
cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i
bagagli, e all'alba i fili spinati erano pieni di bianche-
ria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimen-
ticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento
piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini
hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi al-
trettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro
bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?
Nella baracca 6 A abitava il vecchio Gattegno, con
la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore
operose. Tutti gli uomini erano falegnami; venivano
da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre
avevano portati con sé gli strumenti del mestiere, e
la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per
suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché
erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime
fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silen-
ziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto;
e quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti
legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e di-
sposero al suolo le candele funebri, e le accesero se-
condo il costume dei padri, e sedettero a terra a cer-
chio per la lamentazione, e tutta notte pregarono e
piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro
porta, e ci discese nell'anima, nuovo per noi, il dolore
antico del popoío che non ha terra, il dolore senza spe-
ranza dell'esodo ogni secolo rinnovato.
L'alba ci colse come un tradimento; come se il nuo-
vo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di
distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in
noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza
sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di dispera-
zione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in
una collettiva incontrollata follia. Il tempo di medi-
tare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto
di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui,
dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lam-
po, cosi vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi
buoni delle nostre case.
Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma
di queste è bene che non resti memoria.
Con la assurda precisione a cui avremmo piú tardi
dovuto abituarci, i tedeschi fecero l'appello. Alla fine,
- Wieviel Stück? - domandò il maresciallo; e il capo-
rale salutò di scatto, e rispose che i « pezzi » erano
seicentocinquanta, e che tutto era in ordine; allora ci
caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione
di Carpi. Qui ci attendeva il treno e la scorta per il
viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi: e la cosa fu cosi
nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo
né nell'anima. Soltanto uno stupore profondo: come
si può percuotere un uomo senza collera?
I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel
mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era
un vagone piccolo. Ecco dunque, sotto i nostri occhi,
sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche,
quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e
sempre un poco increduli, avevamo cosi spesso sentito
narrare. Proprio cosi, punto per punto: vagoni merci,
chiusi dall'esterno, e dentro uomini donne bambini,
compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viag-
gio verso il nulla, in viaggio all'ingiú, verso il fondo.
Questa volta dentro siamo noi.
Tutti scoprono, piú o meno presto nella loro vita,
che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si
soffermano invece sulla considerazione opposta: che
tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si
oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-
limite sono della stessa natura: conseguono dalla no-
stra condizione umana, che è nemica di ogni infinito.
Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza
del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza,
e nell'altro, incertezza del domani. Vi si oppone la
sicurezza della morte, che impone un limite a ogni
gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le
inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni
felicità duratura, cosi distolgono assiduamente la no-
stra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne
rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consa-
pevolezza.
Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la
sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una di-
sperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo.
Non già la volontà di vivere, né una cosciente rasse-
gnazione: ché pochi sono gli uomini capaci di questo,
e noi non eravamo che un comune campione di umanità.
Gli sportelli erano stati chiusi subito, ma il treno
non si mosse che a sera. Avevamo appreso con sol-
lievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome prí-
vo di significato, allora e per noi; ma doveva pur cor-
rispondere a un luogo di questa terra.
Il treno viaggiava lentamente, con lunghe soste
snervanti. Dalla feritoia, vedemmo sfilare le alte rupi
pallide della val d'Adige, gli ultimi nomi di città ita-
liane. Passammo il Brennero alle dodici del secondo
giorno, e tutti si alzarono in piedi, ma nessuno disse
parola. Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno, e
crudelmente mi rappresentavo quale avrebbe potuto
essere la inumana gioia di quell'altro passaggio, a por-
tiere aperte, ché nessuno avrebbe desiderato fuggire,
e i primi nomi italiani.., e mi guardai intorno, e pen-
sai quanti, fra quella povera polvere umana, sarebbero
stati toccati dal destino.
Fra le quarantacinque persone del mio vagone, quattro
soltanto hanno rivisto le loro case; e fu di gran
lunga il vagone piú fortunato.
Soffrivamo per la sete e il freddo: a tutte le fer-
mate chiedevamo acqua a gran voce, o almeno un pu-
gno di neve, ma raramente fummo uditi; i soldati
della scorta allontanavano chi tentava di avvicinarsi
al convoglio. Due giovani madri, coi figli ancora al se-
no, gemevano notte e giorno implorando acqua. Meno
tormentose erano per tutti la fame, la fatica e l'inson-
nia, rese meno penose dalla tensione dei nervi: ma le
notti erano incubi senza fine.
Pochi sono gli uomini che sanno andare a morte con
dignità, e spesso non quelli che ti aspetteresti. Pochi
sanno tacere, e rispettare il silenzio altrui. Il nostro
sonno inquieto era interrotto sovente da liti rumo-
rose e futili, da imprecazioni, da calci e pugni vibrati
alla cieca come difesa contro qualche contatto mole-
sto e inevitabile. Allora qualcuno accendeva la lugu-
bre fiammella di una candela, e rivelava, prono sul pa-
vimento, un brulichio fosco, una materia umana con-
fusa e continua, torpida e dolorosa, sollevata qua e
là da convulsioni improvvise subito spente dalla stanchezza.
Dalla feritoia, nomi noti e ignoti di città austriache,
Salisburgo, Vienna; poi cèche, infine polacche. Alla
sera del quarto giorno, il freddo si fece intenso: il tre-
no percorreva interminabili pinete nere, salendo in
modo percettibile. La neve era alta. Doveva essere una
linea secondaria, le stazioni erano piccole e quasi de-
serte. Nessuno tentava piú, durante le soste, di comu-
nicare col mondo esterno: ci sentivamo ormai « dal-
l'altra parte ». Vi fu una lunga sosta in aperta campa-
gna, poi la marcia riprese con estrema lentezza, e il
convoglio si arrestò definitivamente, a notte alta, in
mezzo a una pianura buia e silenziosa.
Si vedevano, da entrambi i lati del binario, file di
lumi bianchi e rossi, a perdita d'occhio; ma nulla
di quel rumorio confuso che denunzia di lontano i
luoghi abitati. Alla luce misera dell'ultima candela,
spento il ritmo delle rotaie, spento ogni suono uma-
no, attendemmo che qualcosa avvenisse.
Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo,
era stata per tutto il viaggio una donna. Ci conosce-
vamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insie-
me, ma poco sapevamo l'uno dell'altra. Ci dicemmo
allora, nell'ora della decisione, cose che non si dicono
fra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò
nell'altro la vita. Non avevamo piú paura.
Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu
aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stra-
nieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando
comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vec-
chia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illumi-
nata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi
tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava
scendere coi bagagli, e depositare questi lungo il tre-
no. In un momento la banchina fu brulicante di ombre:
ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tut-
ti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano,
si chiamavano l'un l'altro, ma timidamente, a mezza voce.
Una decina di SS stavano in disparte, l'aria indiffe-
rente, piantati a gambe larghe. A un certo momento,
penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi
di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per
uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo
qualcuno. « Quanti anni? Sano o malato? » e in base
alla risposta ci indicavano due diverse direzioni.
Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in
certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di
piú apocalittico: sembravano semplici agenti d'ordine.
Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chie-
dere dei bagagli: risposero «bagagli dopo »; qualche
altro non voleva lasciare la moglie: dissero « dopo di
nuovo insieme »; molte madri non volevano separarsi
dai figli: dissero «bene bene, stare con figlio ». Sem-
pre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo uffi-
cio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di
troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e
allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a ter-
ra; era il loro ufficio di ogni giorno.
In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fum-
mo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli
altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non po-
temmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottí,
puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che
in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi
era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente
per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamen-
te di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del
nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove
donne, e che di tutti gli altri, in numero di piú di cin-
quecento, non uno era vivo due giorni piú tardi. Sap-
piamo anche, che non sempre questo pur tenue prin-
cipio di discriminazione in abili e inabili fu seguito,
e che successivamente fu adottato spesso il sistema
piú semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni,
senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati. En-
travano in campo quelli che il caso faceva scendere da
un lato del convoglio; andavano in gas gli altri.
Cosi morí Emilia, che aveva tre anni; poiché ai te-
deschi appariva palese la necessità storica di mettere
a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell'inge-
gner Aldo Levi di Milano, che era una bambina cu-
riosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, du-
rante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la ma-
dre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zin-
co, in acqua tiepida che il degenere macchinista tede-
sco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che
ci trascinava tutti alla morte.
Scomparvero cosi, in un istante, a tradimento, le no-
stre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nes-
suno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po' di
tempo come una massa oscura all'altra estremità della
banchina, poi non vedemmo piú nulla.
Emersero invece nella luce dei fanali due drappelli
di strani individui. Camminavano inquadrati, per tre,
con un curioso passo impacciato, il capo spenzolato
in avanti e le braccia rigide. In capo avevano un buffo
berrettino, ed erano vestiti di una lunga palandrana a
righe, che anche di notte e di lontano si indovinava
sudicia e stracciata. Descrissero un ampio cerchio at-
torno a noi, in modo da non avvicinarci, e, in silenzio,
si diedero ad armeggiare coi nostri bagagli, e a salire
e scendere dai vagoni vuoti.
Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incom-
prensibile e folle, ma una cosa avevamo capito. Que-
sta era la metamorfosi che ci attendeva. Domani anche
noi saremmo diventati cosi.
Senza sapere come, mi trovai caricato su di un auto-
carro con una trentina di altri; l'autocarro parti nel-
la notte a tutta velocità; era coperto e non si poteva
vedere fuori, ma dalle scosse si capiva che la strada
aveva molte curve e cunette. Eravamo senza scorta?
...buttarsi giú? Troppo tardi, troppo tardi, andiamo
tutti « giú ». D'altronde, ci siamo presto accorti che
non siamo senza scorta: è una strana scorta. è un sol-
dato tedesco, irto d'armi: non lo vediamo perché è
buio fitto, ma ne sentiamo il contatto duro ogni volta
che uno scossone del veicolo ci getta tutti in mucchio
a destra o a sinistra. Accende una pila tascabile, e in-
vece di gridare «Guai a voi, anime prave » ci domanda
cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua
franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli: tanto
dopo non ci servono piú. Non è un comando, non
è regolamento questo: si vede bene che è una piccola
iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita
in noi collera e riso e uno strano sollievo.

SUL FONDO.
Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi
l'autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta,
e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo
ancora mi percuote nei sogni): ARBEIT MACHT FREI,
il lavoro rende liberi.
Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera
vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo!
Il debole fruscio dell'acqua nei radiatori ci rende
feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure
c'è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è
proibito bere perché l'acqua è inquinata. Sciocchezze,
a me pare ovvio che il cartello è una beffa, « essi »
sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una
camera, e c'è un rubinetto, e Wassertrinken verboten.
Io bevo, e incito i compagni a farlo; ma devo sputare,
l'acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude.
Questo è l'inferno. Oggi, ai nostri giorni, l'inferno
deve essere cosi, una camera grande e vuota, e noi
stanchi stare in piedi, e c'è un rubinetto che gocciola
e l'acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa
di certamente terribile e non succede niente e continua
a non succedere niente. Come pensare? Non si può piú
pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per
terra. Il tempo passa goccia a goccia.
Non siamo morti; la porta si è aperta ed è entrata
una SS, sta fumando. Ci guarda senza fretta, chiede:
- Wer kann Deutsch? - Si fa avanti uno fra noi che
non ho mai visto, si chiama Flesch; sarà lui il nostro
interprete. La SS fa un lungo discorso pacato: l'inter-
prete traduce. Bisogna mettersi in fila per cinque, a in-
tervalli di due metri fra uomo e uomo; poi bisogna
spogliarsi e fare un fagotto degli abiti in un certo modo,
gli indumenti di lana da una parte e tutto il resto
dall'altra, togliersi le scarpe ma far molta attenzione di
non farcele rubare.
Rubare da chi? perché ci dovrebbero rubare le scarpe?
e i nostri documenti, il poco che abbiamo in ta-
sca, gli orologi? Tutti guardiamo l'interprete, e l'in-
terprete interrogò il tedesco, e il tedesco fumava e lo
guardò da parte a parte come se fosse stato trasparente,
come se nessuno avesse parlato.
Non avevo mai visto uomini anziani nudi. Il signor
Bergmann portava il cinto erniario, e chiese all'inter-
prete se doveva posarlo, e l'interprete esitò. Ma il te-
desco comprese, e parlò seriamente all'interprete indi-
cando qualcuno; abbiamo visto l'interprete trangugiare,
e poi ha detto: - Il maresciallo dice di deporre il
cinto, e che le sarà dato quello del signor Coen -. Si
vedevano le parole uscire amare dalla bocca di Flesch,
quello era il modo di ridere del tedesco.
Poi viene un altro tedesco, e dice di mettere le scarpe
in un certo angolo, e noi le mettiamo, perché ormai
è finito e ci sentiamo fuori del mondo e l'unica
cosa è obbedire. Viene uno con la scopa e scopa via
tutte le scarpe, via fuori dalla porta in un mucchio.
è matto, le mescola tutte, novantasei paia, poi saran-
no spaiate. La porta dà all'esterno, entra un vento
gelido e noi siamo nudi e ci copriamo il ventre con
le braccia. Il vento sbatte e richiude la porta; il tede-
sco la riapre, e sta a vedere con aria assorta come ci
contorciamo per ripararci dal vento uno dietro l'altro;
poi se ne va e la richiude.
Adesso è il secondo atto. Entrano con violenza quat-
tro con rasoi, pennelli e tosatrici, hanno pantaloni e
giacche a righe, un numero cucito sul petto; forse sono
della specie di quegli altri di stasera (stasera o ieri sera?);
ma questi sono robusti e floridi. Noi facciamo
molte domande, loro invece ci agguantano e in un
momento ci troviamo rasi e tosati. Che facce goffe abbia-
mo senza capelli! I quattro parlano una lingua che non
sembra di questo mondo, certo non è tedesco, io un
poco il tedesco lo capisco.
Finalmente si apre un'altra porta: eccoci tutti chiu-
si, nudi tosati e in piedi, coi piedi nell'acqua, è una
sala di docce. Siamo soli, a poco a poco lo stupore sí
scioglie e parliamo, e tutti domandano e nessuno ri-
sponde. Se siamo nudi in una sala di docce, vuol dire
che faremo la doccia. Se faremo la doccia, è perché
non ci ammazzano ancora. E allora perché ci fanno
stare in piedi, e non ci dànno da bere, e nessuno ci
spiega niente, e non abbiamo né scarpe né vestiti ma
siamo tutti nudi coi piedi nell'acqua, e fa freddo ed è
cinque giorni che viaggiamo e non possiamo neppure
sederci.
E le nostre donne?
L'ingegner Levi mi chiede se penso che anche le
nostre donne siano cosi come noi in questo momento,
e dove sono, e se le potremo rivedere. Io rispondo
che sí, perché lui è sposato e ha una bambina; certo
le rivedremo. Ma ormai la mia idea è che tutto que-
sto è una grande macchina per ridere di noi e vilipen-
derci, e poi è chiaro che ci uccidono, chi crede di vi-
vere è pazzo, vuol dire che ci è cascato, io no, io ho
capito che presto sarà finita, forse in questa stessa ca-
mera, quando si saranno annoiati di vederci nudi, bal-
lare da un piede all'altro e provare ogni tanto a sederci
sul pavimento, ma ci sono tre dita d'acqua fredda e
non ci possiamo sedere.
Andiamo in su e in giú senza costrutto, e parliamo,
ciascuno parla con tutti gli altri, questo fa molto
chiasso. Si apre la porta, entra un tedesco, è il
maresciallo di prima; parla breve, l'interprete traduce.
- Il maresciallo dice che dovete fare silenzio, perché
questa non è una scuola rabbinica -. Si vedono
le parole non sue, le parole cattive, torcergli la bocca
uscendo, come se sputasse un boccone disgustoso. Lo
preghiamo di chiedergli che cosa aspettiamo, quanto
tempo ancora staremo qui, delle nostre donne, tutto:
ma lui dice di no, che non vuol chiedere. Questo
Flesch, che si adatta molto a malincuore a tradurre in
italiano frasi tedesche piene di gelo, e rifiuta di vol-
gere in tedesco le nostre domande perché sa che è
inutile, è un ebreo tedesco sulla cinquantina, che porta
in viso la grossa cicatrice di una ferita riportata
combattendo contro gli italiani sul Piave. è un uomo
chiuso e taciturno, per il quale provo un istintivo
rispetto perché sento che ha cominciato a soffrire prima di noi.
Il tedesco se ne va, e noi adesso stiamo zitti, quan-
tunque ci vergogniamo un poco di stare zitti. Era an-
cora notte, ci chiedevamo se mai sarebbe venuto il
giorno. Di nuovo si apri la porta, ed entrò uno vestito
a righe. Era diverso dagli altri, piú anziano, cogli oc-
chiali, un viso piú civile, ed era molto meno robusto.
Ci parla, e parla italiano.
Oramai siamo stanchi di stupirci. Ci pare di assi-
stere a qualche dramma pazzo, di quei drammi in cui
vengono sulla scena le streghe, lo Spirito Santo e il
demonio. Parla italiano malamente, con un forte ac-
cento straniero. Ha fatto un lungo discorso, è molto
cortese, cerca di rispondere a tutte le nostre domande.
Noi siamo a Monowitz, vicino ad Auschwitz, in
Alta Slesia: una regione abitata promiscuamente da
tedeschi e polacchi. Questo campo è un campo di la-
voro, in tedesco si dice Arbeitslager; tutti i prigionieri
(sono circa diecimila) lavorano ad una fabbrica di gom-
ma che si chiama la Buna, perciò il campo stesso si chiama Buna.
Riceveremo scarpe e vestiti, no, non i nostri: altre
scarpe, altri vestiti, come i suoi. Ora siamo nudi perché
aspettiamo la doccia e la disinfezione, le quali
avranno luogo subito dopo la sveglia, perché in campo
non si entra se non si fa la disinfezione.
Certo, ci sarà da lavorare, tutti qui devono lavo-
rare. Ma c'è lavoro e lavoro: lui, per esempio, fa il
medico, è un medico ungherese che ha studiato in
Italia; è il dentista del Lager. è in Lager da quattro
anni (non in questo: la Buna esiste da un anno e mez-
zo soltanto), eppure, possiamo vederlo, sta bene, non
è molto magro. Perché è in Lager? è ebreo come noi?
- No, - dice lui con semplicità, - io sono un criminale.
Noi gli facciamo molte domande, lui qualche volta
ride, risponde ad alcune e non ad altre, si vede bene
che evita certi argomenti. Delle donne non parla: dice
che stanno bene, che presto le rivedremo, ma non
dice né come né dove. Invece ci racconta altro, cose
strane e folli, forse anche lui si fa gioco di noi. Forse
è matto: in Lager si diventa matti. Dice che tutte le
domeniche ci sono concerti e partite di calcio. Dice
che chi tira bene di boxe può diventare cuoco. Dice
che chi lavora bene riceve buoni-premio con cui ci
si può comprare tabacco e sapone. Dice che vera-
mente l'acqua non è potabile, e che invece ogni gior-
no si distribuisce un surrogato di caffè, ma general-
mente nessuno lo beve, perché la zuppa stessa è
acquosa quanto basta per soddisfare la sete. Noi lo
preghiamo di procurarci qualcosa da bere, ma lui dice
che non può, che è venuto a vederci di nascosto, contro
il divieto delle SS, perché noi siamo ancora da
disinfettare, e deve andarsene subito; è venuto perché
gli sono simpatici gli italiani, e perché, dice, «ha
un po' di cuore». Noi gli chiediamo ancora se ci sono
altri italiani in campo, e lui dice che ce n'è qualcuno,
pochi, non sa quanti, e subito cambia discorso. In
quel mentre ha suonato una campana, e lui è subito
fuggito, e ci ha lasciati attoniti e sconcertati. Qualcu-
no si sente rinfrancato, io no, io continuo a pensare
che anche questo dentista, questo individuo incom-
prensibile, ha voluto divertirsi a nostre spese, e non
voglio credere una parola di quanto ha detto.
Alla campana, si è sentito il campo buio ridestarsi.
Improvvisamente l'acqua è scaturita bollente. dalle
docce, cinque minuti di beatitudine; ma subito dopo
irrompono quattro (forse sono i barbieri) che, bagnati
e fumanti, ci cacciano con urla e spintoni nella camera
attigua, che è gelida; qui altra gente urlante ci butta
addosso non so che stracci, e ci schiaccia in mano
un paio di scarpacce a suola di legno, non abbiamo
tempo di comprendere e già ci troviamo all'aperto,
sulla neve azzurra e gelida dell'alba, e, scalzi e nudi,
con tutto il corredo in mano, dobbiamo correre fino
ad un'altra baracca a un centinaio di metri. Qui ci è
concesso di vestirci.
Quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo
angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l'uno sul-
l'altro. Non c'è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto
ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pu-
pazzi miserabili e sordidi. Eccoci trasformati nei fan-
tasmi intravisti ieri sera.
Allora per la prima volta ci siamo accorti che la no-
stra lingua manca di parole per esprimere questa offe-
sa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con
intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata:
siamo arrivati al fondo. Piú giú di cosi non si può an-
dare: condizione umana piú misera non c'è, e non è
pensabile. Nulla piú è nostro: ci hanno tolto gli abiti,
le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascol-
teranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci
toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo,
dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare si che
dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali
eravamo, rimanga.
Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo
compresi, ed è bene che cosi sia. Ma consideri ognu-
no, quanto valore, quanto significato è racchiuso an-
che nelle piú piccole nostre abitudini quotidiane, nei
cento oggetti nostri che il piú umile mendicante pos-
siede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia
di una persona cara. Queste cose sono parte di noi,
quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile
di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne
ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti
che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di me-
morie nostre.
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le per-
sone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini,
i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto
possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e
bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché
accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se
stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero deci-
dere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso
di affinità umana; nel caso piú fortunato, in base ad
un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il
duplice significato del termine «Campo di annientamento »,
e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere
con questa frase: giacere sul fondo.
Häftling: ho imparato che io sono uno Häftling. Il
mio nome è 174517 siamo stati battezzati, portere-
mo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro.
L'operazione è stata lievemente dolorosa, e straor-
dinariamente rapida: ci hanno messi tutti in fila, e ad
uno ad uno, secondo l'ordine alfabetico dei nostri nomi,
siamo passati davanti a un abile funzionario munito
di una specie di punteruolo dall'ago cortissimo.
Pare che questa sia l'iniziazione vera e propria: solo
«mostrando il numero» si riceve il pane e la zuppa.
Sono occorsi vari giorni, e non pochi schiaffi e pugni,
perché ci abituassimo a mostrare il numero pronta-
mente, in modo da non intralciare le quotidiane ope-
razioni annonarie di distribuzione; ci son voluti setti-
mane e mesi perché ne apprendessimo il suono in lingua
tedesca. E per molti giorni, quando l'abitudine
dei giorni liberi mi spinge a cercare l'ora sull'orologio
a polso, mi appare invece ironicamente il mio nuovo
nome, il numero trapunto in segni azzurrognoli sotto l'epidermide.
Solo molto piú tardi, e a poco a poco, alcuni di noi
hanno poi imparato qualcosa della funerea scienza dei
numeri di Auschwitz, in cui si compendiano le tappe
della distruzione dell'ebraismo d'Europa. Ai vecchi
del campo, il numero dice tutto: l'epoca di ingresso
al campo, il convoglio di cui si faceva parte, e di con-
seguenza la nazionalità. Ognuno tratterà con rispetto
i numeri dal 30000 all'80000: non sono piú che
qualche centinaio, e contrassegnano i pochi superstiti
dei ghetti polacchi. Conviene aprire bene gli occhi
quando si entra in relazioni commerciali con un
116000 o 117000: sono ridotti ormai a una quarantina,
ma si tratta dei greci di Salonicco, non bisogna
lasciarsi mettere nel sacco. Quanto ai numeri grossi,
essi comportano una nota di essenziale comicità, come
avviene per i termini «matricola » o «coscritto» nel-
la vita normale: il grosso numero tipico è un indivi-
duo panciuto, docile e scemo, a cui puoi far credere
che all'infermeria distribuiscono scarpe di cuoio per
individui dai piedi delicati, e convincerlo a correrví e
a lasciarti la sua gamella di zuppa « in custodia »; gli
puoi vendere un cucchiaio per tre razioni di pane;
lo puoi mandare dal piú feroce dei Kapos, a chiedergli
(è successo a me!) se è vero che il suo è il Kartoffelschälkommando,
il Kommando Pelatura Patate, e se è possibile esservi arruolati.
D'altronde, l'intero processo di inserimento in que-
sto ordine per noi nuovo avviene in chiave grottesca
e sarcastica. Finita l'operazione di tatuaggio, ci hanno
chiusi in una baracca dove non c'è nessuno. Le cuc-
cette sono rifatte, ma ci hanno severamente proibito
di toccarle e di sedervi sopra: cosi ci aggiriamo senza
scopo per metà della giornata nel breve spazio dispo-
nibile, ancora tormentati dalla sete furiosa del viag-
gio. Poi la porta si è aperta, ed è entrato un ragazzo
dal vestito a righe, dall'aria abbastanza civile, piccolo,
magro e biondo. Questo parla francese, e gli siamo addosso
in molti, tempestandolo di tutte le domande che
finora ci siamo rivolti l'un l'altro inutilmente.
Ma non parla volentieri: nessuno qui parla volen-
tieri. Siamo nuovi, non abbiamo niente e non sappiamo
niente; a che scopo perdere tempo con noi? Ci
spiega di malavoglia che tutti gli altri sono fuori a la-
vorare, e torneranno a sera. Lui è uscito stamane
dall'infermeria, per oggi è esente dal lavoro. Io gli ho
chiesto (con un'ingenuità che solo pochi giorni dopo
già doveva parermi favolosa) se ci avrebbero restituito
almeno gli spazzolini da denti; lui non ha riso, ma
col viso atteggiato a intenso disprezzo mi ha gettato:
- Vous n'étes pas à la maison -. Ed è questo il ritor-
nello che da tutti ci sentiamo ripetere: non siete piú
a casa, questo non è un sanatorio, di qui non si esce
che per il Camino (cosa vorrà dire? lo impareremo
bene piú tardi).
E infatti: spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di
una finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho
aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito
si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava
là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. - Warum?-
gli ho chiesto nel mio povero tedesco. - Hier ist
kein Warum, - (qui non c'è perché), mi ha risposto,
ricacciandomi dentro con uno spintone.
La spiegazione è ripugnante ma semplice: in questo
luogo è proibito tutto, non già per riposte ragioni,
ma perché a tale scopo il campo è stato creato. Se vor-
remo viverci, bisognerà capirlo presto e bene:
...Qui non ha luogo il Santo Volto,
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Ora dopo ora, questa prima lunghissima giornata
di antinferno volge al termine. Mentre il sole tramon-
ta in un vortice di truci nubi sanguigne, ci fanno final-
mente uscire dalla baracca. Ci daranno da bere? No,
ci mettono ancora una volta in fila, ci conducono in
un vasto piazzale che occupa il centro del campo, e ci
dispongono meticolosamente inquadrati. Poi non ac-
cade piú nulla per un'altra ora: sembra che si aspetti
qualcuno.
Una fanfara incomincia a suonare, accanto alla por-
ta del campo: suona Rosamunda, la ben nota canzo-
netta sentimentale, e questo ci appare talmente stra-
no che ci guardiamo l'un l'altro sogghignando; nasce
in noi un'ombra di sollievo, forse tutte queste ceri-
monie non costituiscono che una colossale buffonata
di gusto teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda,
continua a suonare altre marce, una dopo l'altra, ed
ecco apparire i drappelli dei nostri compagni, che ri-
tornano dal lavoro. Camminano in colonna per cin-
que: camminano con un'andatura strana, innaturale,
dura, come fantocci rigidi fatti solo di ossa: ma cam-
minano seguendo scrupolosamente il tempo della fanfara.
Anche loro si dispongono come noi, secondo un or-
dine minuzioso, nella vasta piazza; quando l'ultimo
drappello è rientrato, ci contano e ci ricontano per
piú di un'ora, avvengono lunghi controlli che sem-
brano tutti fare capo a un tale vestito a righe, il quale
ne rende conto a un gruppetto di SS in pieno assetto
di guerra.
Finalmente (è ormai buio, ma il campo è fortemente
illuminato da fanali e riflettori) si sente gridare
« Absperre! », al che tútte le squadre si disfano in un
viavai confuso e turbolento. Adesso non camminano
piú rigidi e impettiti come prima: ciascuno si trascina
con sforzo evidente. Noto che tutti portano in mano
o appesa alla cintura una scodella di lamiera grande
quasi come un catino.
Anche noi nuovi arrivati ci aggiriamo tra la folla,
alla ricerca di una voce, di un viso amico, di una gui-
da. Contro la parete di legno di una baracca stanno
seduti a terra due ragazzi: sembrano giovanissimi, sui
sedici anni al massimo, tutti e due hanno il viso e le
mani sporche di fuliggine. Uno dei due, mentre pas-
siamo, mi chiama, e mi pone in tedesco alcune domande
che non capisco; poi mi chiede da dove veniamo.
- Italien, - rispondo; vorrei domandargli molte
cose, ma il mio frasario tedesco è limitatissimo.
- Sei ebreo? - gli chiedo.
- Si, ebreo polacco.
- Da quanto sei in Lager?
- Tre anni, - e leva tre dita. Deve essere entrato
bambino, penso con orrore; d'altronde, questo signi-
fica che almeno qualcuno qui può vivere.
- Qual è il tuo lavoro?
- Schlosser, - risponde. Non capisco: - Eisen;
Feuer, - (ferro, fuoco) insiste lui, e fa cenno colle mani
come di chi batta col martello su di un'incudine.
è un fabbro, dunque.
- Ich Chemiker, - dichiaro io; e lui accenna grave-
mente col capo, - Chemiker gut -. Ma tutto questo
riguarda il futuro lontano: ciò che mi tormenta, in
questo momento, è la sete.
- Bere, acqua. Noi niente acqua, - gli dico. Lui mi
guarda con un viso serio, quasi severo, e scandisce:
- Non bere acqua, compagno, - e poi altre parole che
non capisco.
- Warum?
- Geschwollen, - risponde lui telegraficamente: io
crollo il capo, non ho capito. - Gonfio, - mi fa capire,
enfiando le gote e abbozzando colle mani una mo-
struosa tumescenza del viso e del ventre. - Warten
bis heute abend -. « Aspettare fino oggi sera », traduco
io parola per parola.
Poi mi dice: - Ich Schlome. Du? - Gli dico il mio
nome, e lui mi chiede: - Dove tua madre? - In Italia -.
Schlome si stupisce: - Ebrea in Italia? - Si,
spiego io del mio meglio, - nascosta, nessuno conosce,
scappare, non parlare, nessuno vedere -. Ha capito;
ora si alza, mi si avvicina e mi abbraccia timidamente.
L'avventura è finita, e mi sento pieno di una tristezza
serena che è quasi gioia. Non ho piú rivisto Schlome,
ma non ho dimenticato il suo volto grave e mite
di fanciullo, che mi ha accolto sulla soglia della casa dei morti.
Moltissime cose ci restano da imparare, ma molte
le abbiamo già imparate. Già abbiamo una certa idea
della topografia del Lager; questo nostro Lager è un
quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da
due reticolati di filo spinato, il piú interno dei quali
è percorso da corrente ad alta tensione. è costituito
da sessanta baracche in legno, che qui si chiamano
Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste vanno
aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura;
una fattoria sperimentale, gestita da un distaccamento
di Häftlinge privilegiati; le baracche delle docce e
delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei
od otto Blocks. Di piú, alcuni Blocks sono adibiti a
scopi particolari. Innanzitutto, un gruppo di otto,
all'estremità est del campo, costituisce l'infermeria e
l'ambulatorio; v'è poi il Block 24 che è il Krätze-
block, riservato agli scabbiosi; il Block 7, in cui nessun
comune Häftling è mai entrato, riservato alla
«Prominenz », cioè all'aristocrazia, agli internati che
ricoprono le cariche supreme; il Block 47 riservato
ai Reichsdeutsche (gli ariani tedeschi, politici o crimi-
nali); il Block 49 per soli Kapos; il Block 12, una
metà del quale, ad uso dei Reichsdeutsche e Kapos,
funge da Kantine, cioè da distributorio di tabacco,
polvere insetticida, e occasionalmente altri articoli; il
Block 37, che contiene la Fureria centrale e l'Ufficio
del lavoro; e infine il Block 29, che ha le finestre sempre
chiuse perché è il Frauenblock, il postribolo del
campo, servito da ragazze Häftlinge polacche, e riservato
ai Reichsdeutsche.
I comuni Blocks di abitazione sono divisi in due
locali; in uno (Tagesraum) vive il capo-baracca con i
suoi amici: v'è un lungo tavolo, sedie, panche; ovun-
que una quantità di strani oggetti dai colori vivaci,
fotografie, ritagli di riviste, disegni, fiori finti, so-
prammobili; sulle pareti, grandi scritte, proverbi e
poesiole inneggianti all'ordine, alla disciplina, all'igiene;
in un angolo, una vetrina con gli attrezzi del
Blockfrisör (barbiere autorizzato), i mestoli per di-
stribuire la zuppa e due nerbi di gomma, quello pieno
e quello vuoto, per mantenere la disciplina medesima.
L'altro locale è il dormitorio; non vi sono che cento-
quarantotto cuccette a tre piani, disposte fittamente,
come celle di alveare, in modo da utilizzare senza re-
sidui tutta la cubatura del vano, fino al tetto, e divise
da tre corridoi; qui vivono i comuni Häftlinge, in nu-
mero di duecento-duecentocinquanta per baracca, due
quindi in buona parte delle cuccette, le quali sono di
tavole di legno mobili, provviste di un sottile sacco a
paglia e di due coperte ciascuna. I corridoi di disim-
pegno sono cosi stretti che a stento ci si passa in due;
la superficie totale di pavimento è cosi poca che gli
abitanti di uno stesso Block non vi possono soggior-
nare tutti contemporaneamente se almeno la metà non
sono coricati nelle cuccette. Di qui il divieto di entrare
in un Block a cui non si appartiene.
In mezzo al Lager è la piazza dell'Appello, vastis-
sima, dove ci si raduna al mattino per costituire le
squadre di lavoro, e alla sera per venire contati. Di
fronte alla piazza dell'Appello c'è una aiuola dall'erba
accuratamente rasa, dove si montano le forche quando occorre.
Abbiamo ben presto imparato che gli ospiti del Lager
sono distinti in tre categorie: i criminali, i politici
e gli ebrei. Tutti sono vestiti a righe, sono tutti
Häftlinge, ma i criminali portano accanto al numero,
cucito sulla giacca, un triangolo verde; i politici un
triangolo rosso; gli ebrei, che costituiscono la grande
maggioranza, portano la stella ebraica, rossa e gialla.
Le SS ci sono si, ma poche, e fuori del campo, e si
vedono relativamente di rado: i nostri padroni effet-
tivi sono i triangoli verdi, i quali hanno mano libe-
ra su di noi, e inoltre quelli fra le due altre catego-
rie che si prestano ad assecondarli: i quali non sono pochi.
Ed altro ancora abbiamo imparato, piú o meno rapi-
damente, a seconda del carattere di ciascuno; a rispon-
dere «Jawohl », a non fare mai domande, a fingere
sempre di avere capito. Abbiamo appreso il valore degli
alimenti; ora anche noi raschiamo diligentemente
il fondo della gamella dopo il rancio, e la teniamo sotto
il mento quando mangiamo il pane per non disper-
derne le briciole. Anche noi adesso sappiamo che non
è la stessa cosa ricevere il mestolo di zuppa prelevato
dalla superficie o dal fondo del mastello, e siamo già
in grado di calcolare, in base alla capacità dei vari ma-
stelli, quale sia il posto piú conveniente a cui aspirare
quando ci si mette in coda.
Abbiamo imparato che tutto serve; il fil di ferro,
per legarsi íe scarpe; gli stracci, per ricavarne pezze
da piedi; la carta, per imbottirsi (abusivamente) la
giacca contro il freddo. Abbiamo imparato che d'al-
tronde tutto può venire rubato, anzi, viene automati-
camente rubato non appena l'attenzione si rilassa; e
per evitarlo abbiamo dovuto apprendere l'arte di dor-
mire col capo su un fagotto fatto con la giacca, e con-
tenente tutto il nostro avere, dalla gamella alle scarpe.
Conosciamo già in buona parte il regolamento del
campo, che è favolosamente complicato. Innumere-
voli sono le proibizioni: avvicinarsi a meno di due
metri dal filo spinato; dormire con la giacca, o senza
mutande, o col cappello in testa; servirsi di partico-
lari lavatoi e latrine che sono «nur für Kapos» o
«nur für Reichsdeutsche» non andare alla doccia
nei giorni prescritti, e andarvi nei giorni non prescritti;
uscire di baracca con la giacca sbottonata, o
col bavero rialzato; portare sotto gli abiti carta o pa-
glia contro il freddo; lavarsi altrimenti che a torso nudo.
Infiniti e insensati sono i riti da compiersi: ogni
giorno al mattino bisogna fare «il letto», perfetta-
mente piano e liscio; spalmarsi gli zoccoli fangosi e
repellenti con l'apposito grasso da macchina, raschia-
re via dagli abiti le macchie di fango (le macchie di
vernice, di grasso e di ruggine sono invece ammesse);
alla sera, bisogna sottoporsi al controllo dei pidocchi
e al controllo della lavatura dei piedi; al sabato farsi
radere la barba e i capelli, rammendarsi o farsi ram-
mendare gli stracci; alla domenica, sottoporsi al con-
trollo generale della scabbia, e al controllo dei bottoni
della giacca, che devono essere cinque.
Di piú, ci sono innumerevoli circostanze, normal-
mente irrilevanti, che qui diventano problemi. Quando
le unghie si allungano, bisogna accorciarle, il che
non si può fare altrimenti che coi denti (per le unghie
dei piedi basta l'attrito delle scarpe); se si perde un
bottone bisogna saperselo riattaccare con un filo di
ferro; se si va alla latrina o al lavatoio, bisogna por-
tarsi dietro tutto, sempre e dovunque, e mentre ci si
lavano gli occhi, tenere il fagotto degli abiti stretto
fra le ginocchia: in qualunque altro modo, esso in
quell'attimo verrebbe rubato. Se una scarpa fa male
bisogna presentarsi alla sera alla cerimonia del cambio
delle scarpe: qui si mette alla prova la perizia
dell'individuo, in mezzo alla calca incredibile bisogna
saper scegliere con un colpo d'occhio una (non un paio:
una) scarpa che si adatti, perché, fatta la scelta, un
secondo cambio non è concesso.
Né si creda che le scarpe, nella vita del Lager, co-
stituiscano un fattore d'importanza secondaria. La
morte incomincia dalle scarpe: esse si sono rivelate,
per la maggior parte di noi, veri arnesi di tortura, che
dopo poche ore di marcia davano luogo a piaghe do-
lorose che fatalmente si infettavano. Chi ne è colpito,
è costretto a camminare come se avesse una palla al
piede (ecco il perché della strana andatura dell'eser-
cito di larve che ogni sera rientra in parata); arriva
ultimo dappertutto, e dappertutto riceve botte; non
può scappare se lo inseguono; i suoi piedi si gonfiano,
e piú si gonfiano, piú l'attrito con il legno e la tela
delle scarpe diventa insopportabile. Allora non resta
che l'ospedale: ma entrare in ospedale con la diagnosi
di « dicke Füsse» (piedi gonfi) è estremamente peri-
coloso, perché è ben noto a tutti, ed alle SS in ispecie,
che di questo male, qui, non si può guarire.
E in tutto questo, non abbiamo ancora accennato al
lavoro, il quale è a sua volta un groviglio di leggi, di
tabú e di problemi.
Tutti lavoriamo, tranne i malati (farsi riconoscere
come malato comporta di per sé un imponente bagaglio
di cognizioni e di esperienze). Tutte le mattine
usciamo inquadrati dal campo alla Buna; tutte le sere,
inquadrati, rientriamo. Per quanto concerne il lavoro,
siamo suddivisi in circa duecento Kommandos, ognu-
no dei quali conta da quindici a centocinquanta uomini
ed è comandato da un Kapo. Vi sono Kommandos buoni
e cattivi: per la maggior parte sono adibiti
a trasporti, e il lavoro vi è assai duro, specialmente
d'inverno, se non altro perché si svolge sempre all'a-
perto. Vi sono anche Kommandos di specialisti (elet-
tricisti, fabbri, muratori, saldatori, meccanici, cemen-
tisti, eccetera), ciascuno addetto a una certa officina o re-
parto della Buna, e dipendenti in modo piú diretto
da Meister civili, per lo piú tedeschi e polacchi; que-
sto avviene naturalmente solo nelle ore di lavoro: nel
resto della giornata, gli specialisti (non sono piú di
tre o quattrocento in tutto) non hanno trattamento
diverso dai lavoratori comuni. All'assegnazione dei
singoli ai vari Kommandos sovrintende uno speciale
ufficio del Lager, l'Arbeitsdienst, che è in continuo
contatto con la direzione civile della Buna. L'Arbeitsdienst
decide in base a criteri sconosciuti, spesso pa-
lesemente in base a protezioni e corruzioni, in modo
che, se qualcuno riesce a procurarsi da mangiare, è
anche praticamente sicuro di ottenere un buon posto in Buna.
L'orario di lavoro è variabile con la stagione. Tutte
le ore di luce sono ore lavorative: perciò si va da un
orario minimo invernale (ore 8-12 e 12,30-16) a uno
massimo estivo (ore 6,30-12 e 13-18). Per nessuna
ragione gli Häftlinge possono trovarsi al lavoro nelle
ore di oscurità o quando c'è nebbia fitta, mentre si
lavora regolarmente anche se piove o nevica o (caso
assai frequente) soffia il vento feroce dei Carpazi; que-
sto in relazione al fatto che il buio o la nebbia potreb-
bero dare occasione a tentativi di fuga.
Una domenica ogni due è regolare giorno lavorativo;
nelle domeniche cosiddette festive, invece di lavorare in
Buna si lavora di solito alla manutenzione
del Lager, in modo che i giorni di effettivo riposo sono
estremamente rari.
Tale sarà la nostra vita. Ogni giorno, secondo il
ritmo prestabilito, Ausrückcn ed Einrücken, uscire e
rientrare; lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi,
guarire o morire.
E fino a quando? Ma gli anziani ridono a questa
domanda: a questa domanda si riconoscono i nuovi
arrivati. Ridono e non rispondono: per loro, da mesi,
da anni, il problema del futuro remoto è impallidito,
ha perso ogni acutezza, di fronte ai ben piú urgenti
e concreti problemi del futuro prossimo: quanto si
mangerà oggi, se nevicherà, se ci sarà da scaricare carbone.
Se fossimo ragionevoli, dovremmo rassegnarci a
questa evidenza, che il nostro destino è perfettamente
inconoscibile, che ogni congettura è arbitraria ed esat-
tamente priva di fondamento reale. Ma ragionevoli
gli uomini sono assai raramente, quando è in gioco il
loro proprio destino; essi preferiscono in ogni caso
le posizioni estreme; perciò, a seconda del loro carat-
tere, fra di noi gli uni si sono convinti immediata-
mente che tutto è perduto, che qui non si può vivere
e che la fine è certa e prossima; gli altri, che, per
quanto dura sia la vita che ci attende, la salvezza è
probabile e non lontana, e, se avremo fede e forza,
rivedremo le nostre case e i nostri cari. Le due classi,
dei pessimisti e degli ottimisti, non sono peraltro cosi
ben distinte: non già perché gli agnostici siano molti,
ma perché i piú, senza memoria né coerenza, oscillano
fra le due posizioni-limite, a seconda dell'interlocu-
tore e del momento.
Eccomi dunque sul fondo. A dare un colpo di spu-
gna al passato e al futuro si impara assai presto, se il
bisogno preme. Dopo quindici giorni dall'ingresso,
già ho la fame regolamentare, la fame cronica scono-
sciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e
siede in tutte le membra dei nostri corpi; già ho im-
parato a non lasciarmi derubare, e se anzi trovo in
giro un cucchiaio, uno spago, un bottone di cui mi
possa appropriare senza pericolo di punizione, li inta-
sco e li considero miei di pieno diritto. Già mi sono
apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non
guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco
alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo
non è piú mio: ho il ventre gonfio e le membra stec-
chite, il viso tumido al mattino e incavato a sera;
qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro gri-
gia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni,
stentiamo a riconoscerci l'un l'altro.
Avevamo deciso di trovarci, noi italiani, ogni do-
menica sera in un angolo del Lager; ma abbiamo su-
bito smesso, perché era troppo triste contarci, e tro-
varci ogni volta piú pochi, e piú deformi, e piú squal-
lidi. Ed era cosi faticoso fare quei pochi passi: e poi,
a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era
meglio non farlo.

INIZIAZIONE.
Dopo i primi giorni di capricciosi trasferimenti da
blocco a blocco e da Kommando a Kommando, a sera
tarda, sono stato assegnato al Block 30, e mi viene
indicata una cuccetta in cui già dorme Diena. Diena
si sveglia, e, benché esausto, mi fa posto e mi riceve
amichevolmente.
Io non ho sonno, o per meglio dire il mio sonno è
mascherato da uno stato di tensione e di ansia da cui
non sono ancora riuscito a liberarmi, e perciò parlo e parlo.
Ho troppe cose da chiedere. Ho fame, e quando do-
mani distribuiranno la zuppa, come farò a mangiarla
senza cucchiaio? e come si puo avere un cucchiaio? e
dove mi manderanno a lavorare? Diena ne sa quanto
me, naturalmente, e mi risponde con altre domande.
Ma da sopra, da sotto, da vicino, da lontano, da tutti
gli angoli della baracca ormai buia, voci assonnate e
iraconde mi gridano: - Ruhe, Ruhe!
Capisco che mi si impone il silenzio, ma questa pa-
rola è per me nuova, e poiché non ne conosco il senso
e le implicazioni, la mia inquietudine cresce. La con-
fusione delle lingue è una componente fondamentale
del modo di vivere di quaggiú; si è circondati da una
perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce
in lingue mai prima udite, e guai a chi non afferra a
volo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nes-
suno ti dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istin-
tivamente negli angoli, contro i muri, come fanno le
pecore, per sentirci le spalle materialmente coperte.
Rinuncio dunque a fare domande, e in breve scivolo
in un sonno amaro e teso. Ma non è riposo: mi sento
minacciato, insidiato, ad ogni istante sono pron-
to a contrarmi in uno spasimo di difesa. Sogno, e mi
pare di dormire su una strada, su un ponte, per tra-
verso di una porta per cui va e viene molta gente. Ed
ecco giunge, ahi quanto presto, la sveglia. L'intera
baracca si squassa dalle fondamenta, le luci si accen-
dono, tutti intorno a me si agitano in una repentina
attività frenetica: scuotono íe coperte suscitando nem-
bi di polvere fetida, si vestono con fretta febbrile, cor-
rono fuori nel gelo dell'aria esterna vestiti a mezzo,
si precipitano verso le latrine e il lavatoio; molti, be-
stialmente, orinano correndo per risparmiare tempo,
perché entro cinque minuti inizia la distribuzione del
pane, del pane-Brot-Broit-chleb-pain-lechem-kenyér,
del sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco in
mano del tuo vicino, e piccolo da piangere in mano
tua. è una allucinazione quotidiana, a cui si finisce
col fare l'abitudine: ma nei primi tempi è cosi irresi-
stibile che molti fra noi, dopo lungo discutere a cop-
pie sulla propria palese e costante sfortuna, e sfacciata
fortuna altrui, si scambiano infine le razioni, al che
l'illusione si ripristina invertita lasciando tutti scon-
tenti e frustrati.
Il pane è anche la nostra sola moneta: nei pochi
minuti che intercorrono fra la distribuzione e la con-
sumazione, il Block risuona di richiami, di liti e di fu-
ghe. Sono i creditori di ieri che pretendono il paga-
mento, nei brevi istanti in cui il debitore è solvibile.
Dopo di che, subentra una relativa quiete, e molti ne
approfittano per recarsi nuovamente alle latrine a fumare
mezza sigaretta, o al lavatoio per lavarsi veramente.
Il lavatoio è un locale poco invitante. è male illu-
minato, pieno di correnti d'aria, e il pavimento di
mattoni è coperto da uno strato di fanghiglia; l'acqua
non è potabile, ha un odore disgustoso e spesso manca
per molte ore. Le pareti sono decorate da curiosi
affreschi didascalici: vi si vede ad esempio lo Häftling
buono, effigiato nudo fino alla cintola, in atto di insa-
ponarsi diligentemente il cranio ben tosato e roseo, e
lo Häftling cattivo, dal naso fortemente semitico e dal
colorito verdastro, il quale, tutto infagottato negli
abiti vistosamente macchiati, e col berretto in testa,
immerge cautamente un dito nell'acqua del lavan-
dino. Sotto al primo sta scritto: « So bist du rein»
(cosi sei pulito), e sotto al secondo: «So gehst du
cin» (cosí vai in rovina); e piú in basso, in dubbio
francese ma in caratteri gotici: «La propreté, c'est
la santé ».
Sulla parete opposta campeggia un enorme pidoc-
chio bianco rosso e nero, con la scritta: « Eine Laus,
dein Tod » (un pidocchio è la tua morte), e il distico
ispirato:
Nach dem Abort, vor dem Essen
Hände waschen, nicht vergessen
(dopo la latrina, prima di mangiare, làvati le mani,
non dimenticare).
Per molte settimane, ho considerato questi ammo-
nimenti all'igiene come puri tratti di spirito teuto-
nico, nello stile del dialogo relativo al cinto erniario
con cui eravamo stati accolti al nostro ingresso in Lager.
Ma ho poi capito che i loro ignoti autori, forse
inconsciamente, non erano lontani da alcune impor-
tanti verità. In questo luogo, lavarsi tutti i giorni nell'acqua
torbida del lavandino immondo è praticamente
inutile ai fini della pulizia e della salute; è invece
importantissimo come sintomo di residua vitalità, e
necessario come strumento di sopravvivenza morale.
Devo confessarlo: dopo una sola settimana di pri-
gionia, in me l'istinto della pulizia è sparito. Mi ag-
giro ciondolando per il lavatoio, ed ecco Steinlauf, il
mio amico quasi cinquantenne, a torso nudo, che si
strofina colío e spalle con scarso esito (non ha sapone)
ma con estrema energia. Steinlauf mi vede e mi sa-
luta, e senza ambagi mi domanda severamente perché
non mi lavo. Perché dovrei lavarmi? starei forse me-
glio di quanto sto? piacerei di piú a qualcuno? vivrei
un giorno, un'ora di piú? Vivrei anzi di meno, perché
lavarsi è un lavoro, uno spreco di energia e di calore.
Non sa Steinlauf che dopo mezz'ora ai sacchi di car-
bone ogni differenza fra lui e me sarà scomparsa? Piú
ci penso, e piú mi pare che lavarsi la faccia nelle no-
stre condizioni sia una faccenda insulsa, addirittura
frivola: un'abitudine meccanica, o peggio, una lugu-
bre ripetizione di un rito estinto. Morremo tutti, stia-
mo per morire: se mi avanzano dieci minuti fra la
sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro, a chiu-
dermi in me stesso, a tirare le somme, o magari a
guardare il cielo e a pensare che lo vedo forse per l'ul-
tima volta; o anche solo a lasciarmi vivere, a conce-
dermi il lusso di un minuscolo ozio.
Ma Steinlauf mi dà sulla voce. Ha terminato di la-
varsi, ora si sta asciugando con la giacca di tela che
prima teneva arrotolata fra le ginocchia e che poi infilerà,
e senza interrompere l'operazione mi somministra
una lezione in piena regola.
Ho scordato ormai, e me ne duole, le sue parole
diritte e chiare, le parole del già sergente Steinlauf
dell'esercito austro-ungarico, croce di ferro della guerra '14-18.
Me ne duole, perché dovrò tradurre il suo
italiano incerto e il suo discorso piano di buon sol-
dato nel mio linguaggio di uomo incredulo. Ma que-
sto ne era il senso, non dimenticato allora né poi: che
appunto perché il Lager è una gran macchina per rí-
durci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che
anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si
deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare
testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci
di salvare almeno lo scheletro, l'impalcatura, la for-
ma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni di-
ritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi cer-
ta, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difen-
derla con ogni vigore perché è l'ultima: la facoltà di
negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certa-
mente, lavarci la faccia senza sapone, nell'acqua spor-
ca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero al-
le scarpe, non perché cosi prescrive il regolamento, ma
per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti,
senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio
alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non
cominciare a morire.
Queste cose mi disse Steinlauf, uomo di volontà
buona: strane cose al mio orecchio dissueto, intese e
accettate solo in parte, e mitigate in una piú facile,
duttile e blanda dottrina, quella che da secoli si re-
spira al di qua delle Alpi, e secondo la quale, fra l'altro,
non c'è maggior vanità che sforzarsi di inghiot-
tire interi i sistemi morali elaborati da altri, sotto
altro cielo. No, la saggezza e la virtú di Steinlauf, buone
certamente per lui, a me non bastano. Di fronte
a questo complicato mondo infero, le mie idee sono
confuse; sarà proprio necessario elaborare un sistema
e praticarlo? o non sarà piú salutare prendere coscien-
za di non avere sistema?

Ka-Be.
I giorni si somigliano tutti, e non è facile contarli.
Da non so quanti giorni facciamo la spola, a coppie,
dalla ferrovia al magazzino: un centinaio di metri di
suolo in disgelo. Avanti sotto il carico, indietro colle
braccia pendenti lungo i fianchi, senza parlare.
Intorno, tutto ci è nemico. Sopra di noi, si rincor-
rono le nuvole maligne, per separarci dal sole; da ogni
parte ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I
suoi confini non li abbiamo mai visti, ma sentiamo,
tutto intorno, la presenza cattiva del filo spinato che
ci segrega dal mondo. E sulle impalcature, sui treni
in manovra, nelle strade, negli scavi, negli uffici, uomini
e uomini, schiavi e padroni, i padroni schiavi
essi stessi; la paura muove gli uni e l'odio gli altri, ogni
altra forza tace. Tutti ci sono nemici o rivali.
No, in verità, in questo mio compagno di oggi, aggiogato
oggi con me sotto lo stesso carico, non sento
un nemico né un rivale.
è Null Achtzehn. Non si chiama altrimenti che cosí,
Zero Diciotto, le ultime tre cifre del suo numero di
matricola: come se ognuno si fosse reso conto che
solo un uomo è degno di avere un nome, e che Null
Achtzehn non è piú un uomo. Credo che lui stesso
abbia dimenticato il suo nome, certo si comporta come
se cosí fosse. Quando parla, quando guarda, dà
l'impressione di essere vuoto interiormente, nulla piú
che un involucro, come certe spoglie di insetti che si
trovano in riva agli stagni, attaccate con un filo ai sas-
si, e il vento le scuote.
Null Achtzehn è molto giovane, il che costituisce
un pericolo grave. Non solo perché i ragazzi soppor-
tano peggio degli adulti le fatiche e il digiuno, ma so-
prattutto perché qui, per sopravvivere, occorre un
lungo allenamento alla lotta di ciascuno contro tutti,
che i giovani raramente posseggono. Null Achtzehn
non è neppure particolarmente indebolito, ma tutti
rifuggono dal lavorare con lui. Tutto gli è a tal segno
indifferente che non si cura piú di evitare la fatica e
le percosse e di cercare il cibo. Eseguisce tutti gli
ordini che riceve, ed è prevedibile che, quando lo man-
deranno alla morte, ci andrà con questa stessa totale
indifferenza.
Non possiede la rudimentale astuzia dei cavalli da
traino, che smettono di tirare un po' prima di giun-
gere all'esaurimento: ma tira o porta o spinge finché
le forze glielo permettono, poi cede di schianto, senza
una parola di avvertimento, senza sollevare dal suolo
gli occhi tristi e opachi. Mi ricorda i cani da slitta dei
libri di London, che faticano fino all'ultimo respiro e
muoiono sulla pista.
Ora, poiché noi tutti cerchiamo invece con ogni
mezzo di sottrarci alla fatica, Null Achtzehn è quello
che lavora piú di tutti. Per questo, e perché è un com-
pagno pericoloso, nessuno vuol lavorare con lui; e sic-
come d'altronde nessuno vuol lavorare con me, per-
ché sono debole e maldestro, cosi spesso accade che
ci troviamo accoppiati.
Mentre, a mani vuote, ancora una volta torniamo
strascicando i piedi dal magazzino, una locomotiva
fischia breve e ci taglia la strada. Contenti della inter-
ruzione forzata, Null Achtzehn ed io ci fermiamo:
curvi e laceri, aspettiamo che i vagoni abbiano finito
di sfilarci lentamente davanti.
Deutsche Reichsbahn. Deutsche Reichsbahn.
SNCF. Due giganteschi vagoni russi, con la falce e il
martello mal cancellati. Deutsche Reichsbahn. Poi,
Cavalli 8, Uomini 40, Tara, Portata: un vagone ita-
liano... Salirvi dentro, in un angolo, ben nascosto
sotto il carbone, e stare fermo e zitto, al buio, ad ascol-
tare senza fine il ritmo delle rotaie, piú forte della
fame e della stanchezza; finché, a un certo momento,
il treno si fermerebbe, e sentirei l'aria tiepida e odore
di fieno, e potrei uscire fuori, nel sole: allora mi cori-
cherei a terra, a baciare la terra, come si legge nei li-
bri: col viso nell'erba. E passerebbe una donna, e mi
chiederebbe « Chi sei?» in italiano, e io le racconte-
rei, in italiano, e lei capirebbe, e mi darebbe da man-
giare e da dormire. E non crederebbe alle cose che io
dico, e io le farei vedere il numero che ho sul braccio,
e allora crederebbe...
è finito. L'ultimo vagone è passato, e, come al
sollevarsi di un sipario, ci sta davanti agli occhi la ca-
tasta dei supporti di ghisa, il Kapo in piedi sulla cata-
sta con una verga in mano, i compagni sparuti, a coppie,
che vengono e vanno.
Guai a sognare: il momento di coscienza che accom-
pagna il risveglio è la sofferenza piú acuta. Ma non ci
capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo
che bestie stanche.
Ancora una volta siamo ai piedi della catasta. Mischa
e il Galiziano alzano un supporto e ce lo posano
con malgarbo sulle spalle. Il loro posto è il meno fa-
ticoso, perciò essi fanno sfoggio di zelo per conservarlo:
chiamano i compagni che indugiano, incitano, esor-
tano, impongono al lavoro un ritmo insostenibile.
Questo mi riempie di sdegno, pure già so ormai che è
nel normale ordine delle cose che i privilegiati oppri-
mano i non privilegiati: su questa legge umana si regge
la struttura sociale del campo.
Questa volta tocca a me camminare davanti. Il sup-
porto è pesante ma molto corto, per cui a ogni passo
sento, dietro di me, i piedi di Null Achtzehn che ince-
spicano contro i miei, poiché egli non è capace, o non
si cura, di seguire il mio passo.
Venti passi, siamo arrivati al binario, c'è un cavo
da scavalcare. Il carico è mal messo, qualcosa non va,
tende a scivolare dalla spalla. Cinquanta passi, sessanta.
La porta del magazzino; ancora altrettanto cam-
mino e lo deporremo. Basta, è impossibile andare oltre,
il carico mi grava ormai interamente sul braccio;
non posso sopportare piú a lungo il dolore e la fatica,
grido, cerco di voltarmi: appena in tempo per vedere
Null Achtzehn inciampare e buttare tutto.
Se avessi avuto la mia agilità di un tempo, avrei po-
tuto balzare indietro: invece eccomi a terra, con tutti
i muscoli contratti, il piede colpito stretto fra le mani,
cieco di dolore. Lo spigolo di ghisa mi ha colpito di
taglio il dorso del piede sinistro.
Per un minuto, tutto si annulla nella vertigine della
sofferenza. Quando mi posso guardare attorno, Null
Achtzehn è ancora là in piedi, non si è mosso, colle
mani infilate nelle maniche, senza dire una parola, mi
guarda senza espressione. Arrivano Mischa e il Gali-
ziano, parlano fra di loro in yiddisch, mi dànno non
so che consigli. Arrivano Templer e David e tutti gli
altri: approfittano del diversivo per sospendere il la-
voro. Arriva il Kapo, distribuisce pedate, pugni e im-
properi, i compagni si disperdono come pula al vento;
Null Achtzehn si porta una mano al naso e se la guar-
da àtono sporca di sangue. A me non toccano che due
schiaffi al capo, di quelli che non fanno male perché
stordiscono.
L'incidente è chiuso. Constato che, bene o male, mi
posso reggere in piedi, l'osso non deve essere rotto.
Non oso togliere la scarpa per paura di risvegliare il
dolore, e anche perché so che poi il piede gonfierà e
non potrò piú rimetterla.
Il Kapo mi manda a sostituire il Galiziano alla ca-
tasta, e questi, guardandomi torvo, va a prendere il
suo posto accanto a Null Achtzehn; ma ormai già pas-
sano i prigionieri inglesi, sarà presto ora di rientrare al campo.
Durante la marcia faccio del mio meglio per cam-
minare svelto, ma non riesco a tenere il passo; il Kapo
designa Null Achtzehn e Finder perché mi sostengano
fino al passaggio davanti alle SS, e finalmente (fortu-
natamente stasera non c'è appello) sono in baracca e
mi posso buttare sulla cuccetta e respirare.
Forse è il calore, forse la fatica della marcia, ma il
dolore si è risvegliato, assieme a una strana sensazione
di umidità al piede ferito. Tolgo la scarpa: è piena
di sangue, ormai rappreso e impastato con il fango e
coi brandelli del cencio che ho trovato un mese fa e
che adopero come pezza da piedi, un giorno a destra,
un giorno a sinistra.
Stasera, subito dopo la zuppa, andrò in Ka-Be.
Ka-Be è abbreviazione di Krankenbau, l'infermeria.
Sono otto baracche, simili in tutto alle altre del cam-
po, ma separate da un reticolato. Contengono perma-
nentemente un decimo della popolazione del campo,
ma pochi vi soggiornano piú di due settimane e nes-
suno piú di due mesi: entro questi termini siamo te-
nuti a morire o a guarire. Chi ha tendenza alla guari-
gione, in Ka-Be viene curato; chi ha tendenza ad ag-
gravarsi, dal Ka-Be viene mandato alle camere a gas.
Tutto questo perché noi, per nostra fortuna, appar-
teniamo alla categoria degli « ebrei economicamente utili».
Al Ka-Be non sono mai stato, neppure all'Ambulatorio,
e tutto qui è nuovo per me.
Gli ambulatori sono due, Medico e Chirurgico. Da-
vanti alla porta, nella notte e nel vento, stanno due
lunghe file di ombre. Alcuni hanno bisogno solo di
un bendaggio o di qualche pillola, altri chiedono visita;
qualcuno ha la morte in viso. I primi delle due
file già sono scalzi e pronti a entrare; gli altri, a mano
a mano che il loro turno di ingresso si avvicina, si in-
gegnano, in mezzo alla ressa, di sciogliere i legacci di
fortuna e i fili di ferro delle calzature, e di svolgere,
senza lacerarle, le preziose pezze da piedi; non troppo
presto, per non stare inutilmente nel fango a piedi nudi;
non troppo tardi, per non perdere il turno d'ingresso:
poiché entrare in Ka-Be con le scarpe è rigorosamente
proibito. Chi fa rispettare il divieto è un
gigantesco Häftling francese, il quale risiede nella
guardiola che sta fra le porte dei due ambulatori. è
uno dei pochi funzionari francesi del campo: né si
pensi che il passare la propria giornata fra le scarpe
fangose e sbrindellate costituisca un piccolo privile-
gio. Basta pensare a quanti entrano in Ka-Be colle
scarpe, e ne escono senza averne piú bisogno...
Quando arriva la mia volta, riesco miracolosamente
a togliermi scarpe e stracci senza perdere gli uni né le
altre, senza farmi rubare la gamella né i guanti, e senza
perdere l'equilibrio, pur stringendo sempre in mano il
berretto, che per nessuna ragione si può tenere in capo
quando si entra nelle baracche.
Lascio le scarpe al deposito e ritiro lo scontrino relativo,
dopo di che, scalzo e zoppicante, le mani im-
pedite da tutte le povere mie cose che non posso la-
sciare da nessuna parte, sono ammesso all'interno e
mi accodo a una nuova fila che fa capo alla sala delle visite.
In questa fila ci si spoglia progressivamente, e quan-
do si arriva verso la testa, bisogna essere nudi perché
un infermiere ci infila il termometro sotto l'ascella; se
qualcuno è vestito, perde il turno e ritorna ad acco-
darsi. Tutti devono ricevere il termometro, anche se
hanno soltanto la scabbia o il mal di denti.
In questo modo si è sicuri che chi non è seriamente
malato non si sobbarcherà per capriccio a questo com-
plicato rituale.
Arriva finalmente la mia volta: sono ammesso da-
vanti al medico, l'infermiere mi toglie il termometro e
mi annuncia: -Nummer 174 517, kein Fieber -. Per
me non occorre una visita a fondo: sono immediata-
mente dichiarato Arztvormelder, che cosa voglia dire
non so, non è certo questo il posto di domandare spie-
gazioni. Mi trovo espulso, ricupero le scarpe e ritorno
in baracca.
Chajim si felicita con me: ho una buona ferita, non
pare pericolosa e mi garantisce un discreto periodo di
riposo. Passerò la notte in baracca con gli altri, ma
domani mattina, invece di andare. al lavoro, mi debbo
ripresentare ai medici per la visita definitiva: questo
vuol dire Arztvormelder. Chajim è pratico di queste
cose, e pensa che probabilmente domani verrò ammesso
al Ka-Be. Chajim è il mio compagno di letto, ed io
ho in lui una fiducia cieca. è un polacco, ebreo pio,
studioso della Legge. Ha press'a poco la mia età, è di
mestiere orologiaio, e qui in Buna fa il meccanico di
precisione; è perciò fra i pochi che conservino la dignità
e la sicurezza di sé che nascono dall'esercitare un'arte
per cui si è preparati.
Cosi è stato. Dopo la sveglia e il pane, mi hanno
chiamato fuori con altri tre della mia baracca. Ci han-
no portati in un angolo della piazza dell'Appello, do-
ve c'era una lunga fila, tutti gli Arztvormelder di oggi;
è venuto un tale e mi ha portato via gamella cucchiaio
berretto e guanti. Gli altri hanno riso, non sapevo che
dovevo nasconderli o affidarli a qualcuno, o meglio
che tutto venderli, e che in Ka-Be non si possono por-
tare? Poi guardano il mio numero e scuotono il capo:
da uno che ha un numero cosi alto ci si può aspettare
qualunque sciocchezza.
Poi ci hanno contati, ci hanno fatti spogliare fuori
al freddo, ci hanno tolto le scarpe, ci hanno di nuovo
contati, ci hanno rasa la barba i capelli e i peli, ci han-
no contati ancora, e ci hanno fatto fare una doccia; poi
è venuta una SS, ci ha guardati senza interesse, si è
soffermata davanti a uno che ha un grosso idrocele, e
lo ha fatto mettere da parte. Dopo di che ci hanno
contati ancora una volta e ci hanno fatto fare un'altra
doccia, benché fossimo ancora bagnati della prima e
alcuni tremassero di febbre.
Ora siamo pronti per la visita definitiva. Fuori dalla
finestra si vede il cielo bianco, e qualche volta il
sole; in questo paese lo si può guardare fisso, attra-
verso le nuvole, come attraverso un vetro affumica-
to. A giudicare dalla sua posizione, debbono essere le
quattordici passate: addio zuppa ormai, e siamo in pie-
di da dieci ore e nudi da sei.
Anche questa seconda visita medica è straordina-
riamente rapida: il medico (ha il vestito a righe come
noi, ma sopra indossa un camice bianco, ed ha il nu-
mero cucito sul camice, ed è molto piú grasso di noi)
guarda e palpa il mio piede gonfio e sanguinante, al
che io grido di dolore, poi dice: - Aufgenommen,
Block 23 -. Io resto lí a bocca aperta, in attesa di qual-
che altra indicazione, ma qualcuno mi tira brutalmen-
te indietro, mi getta un mantello sulle spalle nude,
mi porge un paio di sandali e mi caccia all'aperto.
A un centinaio di metri c'è il Block 23; sopra c'è
scritto « Schonungsblock»: chissà cosa vorrà dire?
Dentro, mi tolgono mantello e sandali, e io mi trovo
ancora una volta nudo e ultimo di una fila di scheletri
nudi: i ricoverati di oggi.
Da molto tempo ho smesso di cercare di capire. Per
quanto mi riguarda, sono ormai cosi stanco di regger-
mi sul piede ferito e non ancora medicato, cosi affa-
mato e pieno di freddo, che nulla piú mi interessa.
Questo può benissimo essere l'ultimo dei miei giorni,
e questa camera la camera dei gas di cui tutti parlano,
che ci potrei fare? Tanto vale appoggiarsi al muro e
chiudere gli occhi e aspettare.
Il mio vicino non deve essere ebreo. Non è circon-
ciso, e poi (questa è una delle poche cose che ho im-
parato finora) una pelle cosí bionda, un viso e una
corporatura cosi massicci sono caratteristici dei polacchi
non ebrei. è piú alto di me di tutta la testa, ma ha
una fisionomia abbastanza cordiale, come l'hanno solo
coloro che non soffrono la fame.
Ho provato a chiedergli se sa quando ci faranno
entrare. Lui si è voltato all'infermiere, che gli somi-
glia come un gemello e sta in un angolo a fumare; hanno
parlato e riso insieme senza rispondere, come se
io non ci fossi: poi uno di loro mi ha preso il braccio
e ha guardato il numero, e allora hanno riso piú forte.
Tutti sanno che i centosettantaquattromila sono gli
ebrei italiani: i ben noti ebrei italiani, arrivati due
mesi fa, tutti avvocati, tutti dottori, erano piú di cento
e già non sono che quaranta, quelli che non sanno
lavorare e si lasciano rubare il pane e prendono schiaffi
dal mattino alla sera; i tedeschi li chiamano « zweí
linke Hände» (due mani sinistre), e perfino gli ebrei
polacchi li disprezzano perché non sanno parlare yiddisch.
L'infermiere indica all'altro le mie costole, come se
io fossi un cadavere in sala anatomica; accenna alle
palpebre e alle guance gonfie e al collo sottile, si curva
e preme coll'indice sulla mia tibia e fa notare all'altro
la profonda incavatura che il dito lascia nella carne
pallida, come nella cera.
Vorrei non aver mai rivolto la parola al polacco:
mm pare di non avere mai, in tutta la mia vita, subito
un affronto piú atroce di questo. L'infermiere intanto
pare abbia finito la sua dimostrazione, nella sua lingua
che io non capisco e che mi suona terribile; si rivolge
a me, e in quasi-tedesco, caritatevolmente, me ne for-
nisce il compendio: - Du Jude kaputt. Du schnell
Krematorium fertig - (tu ebreo spacciato, tu presto
crematorio, finito).
Qualche altra ora è passata prima che tutti i ricove-
rati venissero presi in forza, ricevessero la camicia e
fosse compilata la loro scheda. Io, come al solito, sono
stato l'ultimo; un tale, col vestito a rigoni nuovo fiam-
mante, mi ha chiesto dove sono nato, che mestiere facevo
« da civile», se avevo figli, quali malattie ho avu-
to, una quantità di domande, a che cosa possono mai
servire, questa è una complicata messinscena per farsi
beffe di noi. Sarebbe questo l'ospedale? Ci fanno stare
nudi in piedi e ci fanno delle domande.
Finalmente anche per me si è aperta la porta, e ho
potuto entrare nel dormitorio.
Anche qui, come dappertutto, cuccette a tre piani,
in tre file per tutta la baracca, separate da due corridoi
strettissimi. Le cuccette sono centocinquanta, i malati
circa duecentocinquanta: due quindi in quasi tutte le
cuccette. I malati delle cuccette superiori, schiacciati
contro il soffitto, non possono quasi stare seduti; si
sporgono curiosi a vedere i nuovi arrivati di oggi, è il
momento piú interessante della giornata, si trova sempre
qualche conoscente. Io sono stato assegnato alla
cuccetta 10; miracolo! è vuota. Mi distendo con deli-
zia, è la prima volta, da che sono in campo, che ho una
cuccetta tutta per me. Nonostante la fame, non passano
dieci minuti che sono addormentato.
La vita del Ka-Be è vita di limbo. I disagi materiali
sono relativamente pochi, a parte la fame e le soffe-
renze inerenti alle malattie. Non fa freddo, non si la-
vora, e, a meno di commettere qualche grave mancan-
za, non si viene percossi.
La sveglia è alle quattro, anche per i malati; bisogna
rifare il letto e lavarsi, ma non c'è molta fretta né mol-
to rigore. Alle cinque e mezzo distribuiscono il pane,
e si può tagliarlo comodamente a fette sottili, e man-
giare sdraiati con tutta calma; poi ci si può riaddor-
mentare, fino alla distribuzione del brodo di mezzo-
giorno. Fin verso le sedici è Mittagsruhe, riposo po-
meridiano; a quest'ora c'è sovente la visita medica e
la medicazione, bisogna scendere dalle cuccette, to-
gliersi la camicia e fare la fila davanti al medico. An-
che il rancio serale viene distribuito nei letti; dopo
di che, alle ventuno, tutte íe luci si spengono, tranne
la lampadina velata della guardia di notte, ed è il silenzio.
...E per la prima volta da che sono in campo, la sveglia
mi coglie nel sonno profondo, e il risveglio è un
ritorno dal nulla. Alla distribuzione del pane si sente
lontano, fuori delle finestre, nell'aria buia, la banda
che incomincia a suonare: sono i compagni sani che
escono inquadrati al lavoro.
Dal Ka-Be la musica non si sente bene: arriva as-
siduo e monotono il martellare della grancassa e dei
piatti, ma su questa trama le frasi musicali si disegna-
no solo a intervalli, col capriccio del vento. Noi ci
guardiamo l'un l'altro dai nostri letti, perché tutti sen-
tiamo che questa musica è infernale.
I motivi sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli
stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care
a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre men-
ti, saranno l'ultima cosa del Lager che dimenticheremo:
sono la voce del Lager, l'espressione sensibile
della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di
annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente.
Quando questa musica suona, noi sappiamo che i
compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come
automi; le loro anime sono morte e la musica li so-
spinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce
alla loro volontà. Non c'è piú volontà: ogni pulsazione
diventa un passo, una contrazione riflessa dei muscoli
sfatti. I tedeschi sono riusciti a questo. Sono dieci-
mila, e sono una sola grigia macchina, sono esatta-
mente determinati; non pensano e non vogliono, camminano.
Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai
le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere
a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli
uomini spenti, squadra dopo squadra, via dalla neb-
bia verso la nebbia? quale prova piú concreta della
loro vittoria?
Anche quelli del Ka-Be conoscono questo uscire e
rientrare dal lavoro, l'ipnosi del ritmo interminabile,
che uccide il pensiero e attutisce il dolore; l'hanno
provato e lo riproveranno. Ma bisognava uscire
dall'incantamento, sentire la musica dal di fuori, come
accadeva in Ka-Be e come ora la ripensiamo, dopo la
liberazione e la rinascita, senza obbedirvi, senza su-
birla, per capire che cosa era; per capire per quale
meditata ragione i tedeschi avevano creato questo rito
mostruoso, e perché, oggi ancora, quando la memoria
ci restituisce qualcuna di quelle innocenti canzoni,
il sangue ci si ferma nelle vene, e siamo consci che
essere ritornati da Auschwitz non è stata piccola ventura.
Ho due vicini di cuccetta. Giacciono tutto il giorno
e tutta la notte fianco a fianco, pelle contro pelle,
incrociati come i Pesci dello zodiaco, in modo che
ciascuno ha i piedi dell'altro accanto al capo.
Uno è Walter Bonn, un olandese civile e abbastanza
colto. Vede che non ho nulla per tagliare il pane, mi
impresta il suo coltello, poi si offre di vendermelo per
mezza razione di pane. Io discuto sul prezzo, indi ri-
nuncio, penso che qui in Ka-Be ne troverò sempre
qualcuno in prestito, e fuori costano solo un terzo di
razione. Non per questo Walter vien meno alla sua
cortesia, e a mezzogiorno, mangiata la sua zuppa, for-
bisce colle labbra il cucchiaio (il che è buona norma
prima di imprestarlo, per ripulirlo e per non mandare
sprecate le tracce di zuppa che vi aderiscono) e me lo
offre spontaneamente.
- Che malattia hai, Walter? - « Körperschwäche»,
- deperimento organico. La peggiore malattia: non la
si può curare, ed è molto pericoloso entrare in Ka-Be
con questa diagnosi. Se non fosse stato dell'edema alle
caviglie (e me le mostra) che gli impedisce di uscire
al lavoro, si sarebbe ben guardato dal farsi ricoverare.
Su questo genere di pericoli io ho ancora idee assai
confuse. Tutti ne parlano indirettamente, per allusioni,
e quando io faccio qualche domanda mi guardano e tacciono.
è dunque vero quello che si sente dire, di selezioni,
di gas, di crematorio?
Crematorio. L'altro, il vicino di Walter, si sveglia
di soprassalto, si rizza a sedere: chi parla di crematorio?
che avviene? non si può lasciare in pace chi dorme?
è un ebreo polacco, albino, dal viso scarno e
bonario, non piú giovane. Si chiama Schmulek, è fabbro.
Walter lo ragguaglia brevemente.
Cosí, «der Italeyner» non crede alle selezioni?
Schmulek vorrebbe parlare tedesco ma parla yiddisch;
lo capisco a stento, solo perché lui vuole farsi capire.
Fa tacere Walter con un cenno, ci penserà lui a farmi
persuaso:
- Mostrami il tuo numero: tu sei il 174 517. Que-
sta numerazione è incominciata diciotto mesi fa, e vale
per Auschwitz e per i campi dipendenti. Noi siamo
ora diecimila qui a Buna-Monowitz; forse trentamila
fra Auschwitz e Birkenau. Wo sind die Andere? dove
sono gli altri?
- Forse trasferiti in altri campi...? - propongo io.
Schmulek crolla il capo, si rivolge a Walter:
- Er will nix verstayen, - non vuole capire.
Ma era destino che presto mi inducessi a capire, e
Schmulek stesso ne facesse le spese. A sera si è aperta
la porta della baracca, una voce ha gridato - Achtung!-
e ogni rumore si è spento e si è sentito un silenzio
di piombo.
Sono entrate due SS (uno dei due ha molti gradi,
forse è un ufficiale?), si sentivano i loro passi nella
baracca come se fosse vuota; hanno parlato col medico
capo, questi ha mostrato loro un registro indicando
qua e là. L'ufficiale ha preso nota su un libretto.
Schmulek mi tocca le ginocchia: - Pass' auf, pass'
auf, - fa' attenzione.
L'ufficiale, seguito dal medico, gira in silenzio e con
noncuranza fra le cuccette; ha in mano un frustino,
frusta un lembo di coperta che pende da una cuccetta
alta, il malato si precipita a riassettarla. L'ufficiale
passa oltre.
Un altro ha il viso giallo; l'ufficiale gli strappa via
le coperte, quello trasalisce, l'ufficiale gli palpa il ventre,
dice: - Gut, gut, - poi passa oltre.
Ecco, ha posato lo sguardo su Schmulek; tira fuori
il libretto, controlla il numero del letto e il numero
del tatuaggio. Io vedo tutto bene, dall'alto: ha fatto
una crocetta accanto al numero di Schmulek. Poi è
passato oltre.
Io guardo ora Schmulek, e dietro di lui ho visto gli
occhi di Walter, e allora non ho fatto domande.
Il giorno dopo, invece del solito gruppo di guariti,
sono stati messi in uscita due gruppi distinti. I primi
sono stati rasi e tosati e hanno fatto la doccia. I secondi
sono usciti cosi, con le barbe lunghe e le medicazioni
non rinnovate, senza doccia. Nessuno ha salutato questi
ultimi, nessuno li ha incaricati di messaggi per i
compagni sani.
Di questi faceva parte Schmulek.
In questo modo discreto e composto, senza apparato
e senza collera, per íe baracche del Ka-Be si aggira
ogni giorno la strage, e tocca questo o quello. Quando
Schmulek è partito, mi ha lasciato cucchiaio e coltello;
Walter e io abbiamo evitato di guardarci e siamo
rimasti a lungo silenziosi. Poi Walter mi ha chiesto
come posso conservare cosi a lungo la mia razione di
pane, e mi ha spiegato che lui di solito taglia la sua
per il lungo, in modo da avere fette piú larghe su cui
è piú agevole spalmare la margarina.
Walter mi spiega molte cose: Schonungsblock vuol
dire baracca di riposo, qui ci sono solo malati leggeri,
o convalescenti, o non bisognosi di cure. Fra questi,
almeno una cinquantina di dissenterici piú o meno gravi.
Costoro vengono controllati ogni terzo giorno. Si
mettono in fila lungo il corridoio; all'estremità stanno
due bacinelle di latta e l'infermiere, con registro,
orologio e matita. A due per volta, i malati si presen-
tano, e devono dimostrare, sul posto e subito, che la
loro diarrea persiste; a tale scopo viene loro concesso
un minuto esatto. Dopo di che presentano il risultato
all'infermiere, il quale osserva e giudica; lavano rapi-
damente le bacinelle in una apposita tinozza, e suben-
trano i due successivi.
Fra coloro che attendono, alcuni si torcono nello
spasimo di trattenere la preziosa testimonianza ancora
venti, ancora dieci minuti; altri, privi di risorse
in quel momento, tendono vene e muscoli nello sforzo
opposto. L'infermiere assiste impassibile, mordic-
chiando la matita, uno sguardo all'orologio, uno sguar-
do ai campioni che gli vengono via via presentati. Nei
casi dubbi, parte con la bacinella e va a sottoporla al medico.
...Ho ricevuto una visita: è Piero Sonnino, il romano.
- Hai visto come l'ho buscherato? -: Piero ha
una enterite assai leggera, è qui da venti giorni, e ci
sta bene, si riposa e ingrassa, se ne infischia delle se-
lezioni e ha deciso di restare in Ka-Be fino alla fine
dell'inverno, a ogni costo. Il suo metodo consiste nel
mettersi in fila dietro a qualche dissenterico auten-
tico, che offra garanzia di successo; quando viene il
suo turno gli domanda la sua collaborazione (da
rímunerarsi con zuppa o pane), e se quello ci sta, e
l'infermiere ha un momento di disattenzione, scambia le
bacinelle in mezzo alla ressa e il colpo è fatto. Piero
sa quello che rischia, ma finora gli è sempre andata bene.
Ma la vita del Ka-Be non è questa. Non sono gli at-
timi cruciali delle selezioni, non sono gli episodi grot-
teschi dei controlli della diarrea e dei pidocchi, non
sono neppure le malattie.
Il Ka-Be è il Lager a meno del disagio fisico. Per-
ciò, chi ancora ha seme di coscienza, vi riprende co-
scienza; perciò, nelle lunghissime giornate vuote, vi
si parla di altro che di fame e di lavoro, e ci accade di
considerare che cosa ci hanno fatti diventare, quanto
ci è stato tolto, che cosa è questa vita. In questo Ka-Be,
parentesi di relativa pace, abbiamo imparato che
la nostra personalità è fragile, è molto piú in pericolo
che non la nostra vita; e i savi antichi, invece di am-
monirci « ricordati che devi morire », meglio avreb-
bero fatto a ricordarci questo maggior pericolo che ci
minaccia. Se dall'interno dei Lager un messaggio aves-
se potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato
questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a
noi viene inflitto qui.
Quando si lavora, si soffre e non si ha tempo di pen-
sare: le nostre case sono meno di un ricordo. Ma qui
il tempo è per noi: da cuccetta a cuccetta, nonostante
il divieto, ci scambiamo visite, e parliamo e parliamo.
La baracca di legno, stipata di umanità dolente, è pie-
na di parole, di ricordi e di un altro dolore. « Heimweh»
si chiama in tedesco questo dolore; è una bella
parola, vuol dire « dolore della casa».
Sappiamo donde veniamo: i ricordi del mondo di
fuori popolano i nostri sonni e le nostre veglie, ci ac-
corgiamo con stupore che nulla abbiamo dimenticato,
ogni memoria evocata ci sorge davanti dolorosamente nitida.
Ma dove andiamo non sappiamo. Potremo forse
sopravvivere alle malattie e sfuggire alle scelte, forse an-
che resistere al lavoro e alla fame che ci consumano:
e dopo? Qui, lontani momentaneamente dalle bestem-
mie e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e me-
ditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo.
Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati;
noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne
e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo mar-
ciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta,
spenti nell'anima prima che dalla morte anonima. Noi
non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che po-
trebbe portare al mondo, insieme col segno impresso
nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz,
è bastato animo all'uomo di fare dell'uomo.

Le nostre notti.
Dopo venti giorni di Ka-Be, essendosi la mia ferita
praticamente rimarginata, con mio vivo dispiacere sono
stato messo in uscita.
La cerimonia è semplice, ma comporta un doloroso
e pericoloso periodo di riassestamento. Chi non di-
spone di particolari appoggi, all'uscita dal Ka-Be non
viene restituito al suo Block e al suo Kommando di
prima, ma è arruolato, in base a criteri a me scono-
sciuti, in una qualsiasi altra baracca e avviato a un
qualsiasi altro lavoro. Di piú, dal Ka-Be si esce nudi;
si ricevono vestiti e scarpe « nuovi » (intendo dire, non
quelli lasciati all'ingresso), intorno a cui bisogna ado-
perarsi con rapidità e diligenza per adattarli alla pro-
pria persona, il che comporta fatica e spese. Occorre
procurarsi daccapo cucchiaio e coltello; infine, e que-
sta è la circostanza piú grave, ci si trova intrusi in un
ambiente sconosciuto, fra compagni mai visti e ostili,
con capi di cui non si conosce il carattere e da cui
quindi è difficile guardarsi.
La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secer-
nere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera
di difesa, anche in circostanze apparentemente dispe-
rate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio appro-
fondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamen-
to, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo: di
piantare un chiodo sopra la cuccetta per appendervi
le scarpe di notte; di stipulare taciti patti di non ag-
gressione coi vicini; di intuire e accettare le consue-
tudini e le leggi del singolo Kommando e del singolo
Block. In virtú di questo lavoro, dopo qualche set-
timana si riesce a raggiungere un certo equilibrio, un
certo grado di sicurezza di fronte agli imprevisti; ci
si è fatto un nido, il trauma del travasamento è superato.
Ma l'uomo che esce dal Ka-Be, nudo e quasi sempre
insufficientemente ristabilito, si sente proiettato nel
buio e nel gelo dello spazio siderale. I pantaloni gli
cascano di dosso, le scarpe gli fanno male, la camicia
non ha bottoni. Cerca un contatto umano, e non trova
che schiene voltate. è inerme e vulnerabile come un
neonato, eppure al mattino dovrà marciare al lavoro.
In queste condizioni mi trovo io quando l'infer-
miere, dopo i vari riti amministrativi prescritti, mi ha
affidato alle cure del Blockältester del Block. Ma
subito un pensiero mi colma di gioia: ho avuto fortuna,
questo è il Block di Alberto!
Alberto è il mio migliore amico. Non ha che venti-
due anni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani
ha dimostrato capacità di adattamento simili alle sue.
Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager
illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che que-
sta vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha
perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli
altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo. Lo
sostengono intelligenza e istinto: ragiona giusto, spesso
non ragiona ed è ugualmente nel giusto. Intende tutto
a volo: non sa che poco francese, e capisce quanto
gli dicono tedeschi e polacchi. Risponde in italiano e
a gesti, si fa capire e subito riesce simpatico. Lotta per
la sua vita, eppure è amico di tutti. «Sa » chi bisogna
corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosi-
re, a chi si deve resistere.
Eppure (e per questa sua virtú oggi ancora la sua
memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo.
Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura
dell'uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi
della notte.
Non sono però riuscito a ottenere di dormire in cuccetta
con lui, e neppure Alberto ci è riuscito, quantunque
nel Block 45 egli goda ormai di una certa popola-
rità. è peccato, perché avere un compagno di letto di
cui fidarsi, o con cui almeno ci si possa intendere, è
un inestimabile vantaggio; e inoltre, adesso è inverno,
e le notti sono lunghe, e dal momento che siamo co-
stretti a scambiare sudore, odore e calore con qual-
cuno, sotto la stessa coperta e in settanta centimetri
di larghezza, è assai desiderabile che si tratti di un amico.
D'inverno le notti sono lunghe, e ci è concesso per
il sonno un intervallo di tempo considerevole.
Si spegne a poco a poco il tumulto del Block; da piú
di un'ora è terminata la distribuzione del rancio sera-
le, e soltanto qualche ostinato persiste a grattare il
fondo ormai lucido della gamella, rigirandola minu-
ziosamente sotto la lampada, con la fronte corrugata
per l'attenzione. L'ingegner Kardos gira per le cuc-
cette a medicare i piedi feriti ed i calli suppurati, questa
è la sua industria; non c'è chi non rinunzi volen-
tieri ad una fetta di pane, pur che gli venga alleviato
il tormento delle piaghe torpide, che sanguinano ad
ogni passo per tutta la giornata, ed in questo modo,
onestamente, l'ingegner Kardos ha risolto il problema di vivere.
Dalla porticina posteriore, di nascosto e guardan-
dosi attorno con cautela, è entrato il cantastorie. Si è
seduto sulla cuccetta di Wachsmann, e subito gli sí
è raccolta attorno una piccola folla attenta e silen-
ziosa. Lui canta una interminabile rapsodia yiddisch,
sempre la stessa, in quartine rimate, di una melanco-
nia rassegnata e penetrante (o forse tale la ricordo
perché allora ed in quel luogo l'ho udita?); dalle po-
che parole che capisco, dev'essere una canzone da lui
stesso composta, dove ha racchiuso tutta la vita del
Lager, nei piú minuti particolari. Qualcuno è gene-
roso, e rimunera il cantastorie con un pizzico di tabacco
o una gugliata di filo; altri ascoltano assorti, ma non
dànno nulla.
Risuona ancora improvviso il richiamo per l'ultima
funzione della giornata: - Wer hat kaputt die
Schube? - (chi ha íe scarpe rotte?) e subito si sca-
tena il fragore dei quaranta o cinquanta pretendenti
al cambio, i quali si precipitano verso il Tagesraum
con furia disperata, ben sapendo che soltanto i dieci
primi arrivati, nella migliore delle ipotesi, saranno
soddisfatti.
Poi è la quiete. La luce si spegne una prima volta,
per pochi secondi, per avvisare i sarti di riporre il pre-
ziosissimo ago e il filo; poi suona lontano la campana, e
allora si insedia la guardia di notte e tutte le luci si
spengono definitivamente. Non ci resta che spogliarci e coricarcí.
Non so chi sia il mio vicino; non sono neppure
sicuro che sia sempre la stessa persona, perché non
l'ho mai visto in viso se non per qualche attimo nel
tumulto della sveglia, in modo che molto meglio del
suo viso conosco il suo dorso e i suoi piedi. Non la-
vora nel mio Kommando e viene in cuccetta solo al
momento del silenzio; si avvoltola nella coperta, mi
spinge da parte con un colpo delle anche ossute,
mi volge il dorso e comincia subito a russare. Schiena
contro schiena, io mi adopero per conquistarmi una
superficie ragionevole di pagliericcio; esercito colle
reni una pressione progressiva contro le sue reni, poi
mi rigiro e provo a spingere colle ginocchia, gli prendo
le caviglie e cerco di sistemarle un po' piú in là in
modo da non avere i suoi piedi accanto al viso: ma tutto
è inutile, è molto piú pesante di me e sembra pie-
trificato dal sonno.
Allora io mi adatto a giacere cosi, costretto all'im-
mobilità, per metà sulla sponda di legno. Tuttavia
sono cosi stanco e stordito che in breve scivolo anch'io
nel sonno, e mi pare di dormire sui binari del treno.
Il treno sta per arrivare: si sente ansare la loco-
motiva, la quale è il mio vicino. Non sono ancora
tanto addormentato da non accorgermi della duplice
natura della locomotiva. Si tratta precisamente di
quella locomotiva che rimorchiava oggi in Buna i va-
goni che ci hanno fatto scaricare: la riconosco dal
fatto che anche ora, come quando è passata vicina a
noi, si sente il calore che irradia dal suo fianco nero.
Soffia, è sempre piú vicina, è sempre sul punto di es-
sermi addosso, e invece non arriva mai. Il mio sonno
è molto sottile, è un velo, se voglio lo lacero. Lo
farò, voglio lacerarlo, cosí potrò togliermi dai binari.
Ecco, ho voluto, e ora sono sveglio: ma non proprio
sveglio, soltanto un po' di piú, al gradino superiore
della scala fra l'incoscienza e la coscienza. Ho gli occhi
chiusi, e non li voglio aprire per non lasciar fuggire
il sonno, ma posso percepire i rumori: questo
fischio lontano sono sicuro che è vero, non viene dalla
locomotiva sognata, è risuonato oggettivamente: è il
fischio della Decauville, viene dal cantiere che lavora
anche di notte. Una lunga nota ferma, poi un'altra piú
bassa di un semitono, poi di nuovo la prima, ma breve
e tronca. Questo fischio è una cosa importante, e in
qualche modo essenziale: cosi sovente l'abbiamo udi-
to, associato alla sofferenza del lavoro e del campo,
che ne è divenuto il simbolo, e ne evoca direttamente
la rappresentazione, come accade per certe musiche e
certi odori.
Qui c'è mia sorella, e qualche mio amico non preci-
sato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando,
e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre
note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare,
ma ho paura di svegliarlo perché è piú forte di me.
Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del
controllo dei pidocchi, e del Kapo che mi ha percosso
sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché san-
guinavo. è un godimento intenso, fisico, inesprimi-
bile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere
tante cose da raccontare: ma non posso non accor-
germi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi
sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d'altro
fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi
guarda, si alza e se ne va senza far parola.
Allora nasce in me una pena desolata, come certi
dolori appena ricordati della prima infanzia: è dolore
allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e
dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli
per cui i bambini piangono; ed è meglio per me risa-
lire ancora una volta in superficie, ma questa volta
apro deliberatamente gli occhi, per avere di fronte a
me stesso una garanzia di essere effettivamente sveglio.
Il sogno mi sta davanti, ancora caldo, e io, benché
sveglio, sono tuttora pieno della sua angoscia: e al-
lora mi ricordo che questo non è un sogno qualunque,
ma che da quando sono qui l'ho già sognato, non una
ma molte volte, con poche variazioni di ambiente e di
particolari. Ora sono in piena lucidità, e mi rammento
anche di averlo già raccontato ad Alberto, e che lui mi
ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche
il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti.
Perché questo avviene? perché il dolore di tutti i giorni
si traduce nei nostri sogni cosi costantemente, nella
scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata?
Mentre cosi medito, cerco di profittare dell'inter-
vallo di veglia per scuotermi di dosso i brandelli di
angoscia del sopore precedente, in modo da non com-
promettere la qualità del sonno successivo. Mi rannic-
chio a sedere nel buio, mi guardo intorno e tendo l'orecchio.
Si sentono i dormienti respirare e russare, qualcuno
geme e parla. Molti schioccano le labbra e dimenano
le mascelle. Sognano di mangiare: anche questo è un
sogno collettivo. è un sogno spietato, chi ha creato il
mito di Tantalo doveva conoscerlo. Non si vedono
soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distinti e con-
creti, se ne percepisce l'odore ricco e violento; qual-
cuno ce li avvicina fino a toccare le labbra, poi una
qualche circostanza, ogni volta diversa, fa si che l'atto
non vada a compimento. Allora il sogno si disfa e si
scinde nei suoi elementi, ma si ricompone subito dopo,
e ricomincia simile e mutato: e questo senza tregua,
per ognuno di noi, per ogni notte e per tutta la
durata del sonno.
Devono essere passate le ventitre perché già è in-
tenso l'andirivieni al secchio, accanto alla guardia di
notte. è un tormento osceno e una vergogna indele-
bile: ogni due, ogni tre ore ci dobbiamo alzare, per
smaltire la grossa dose di acqua che di giorno siamo
costretti ad assorbire sotto forma di zuppa, per soddi-
sfare la fame: quella stessa acqua che alla sera ci gon-
fia le caviglie e le occhiaie, impartendo a tutte le fisio-
nomie una deforme rassomiglianza, e la cui elimina-
zione impone ai reni un lavoro sfibrante.
Non si tratta solo della processione al secchio; è
legge che l'ultimo utente del secchio medesimo vada
a vuotarlo alla latrina; è legge altresi, che di notte
non si esca dalla baracca se non in tenuta notturna (camicia
e mutande), e consegnando il proprio numero
alla guardia. Ne segue, prevedibilmente, che la guar-
dia notturna cercherà di esonerare dal servizio i suoi
amici, i suoi connazionali, e i prominenti; si aggiunga
ancora che i vecchi del campo hanno talmente affinato
i loro sensi che, pur restando nelle loro cuccette, sono
miracolosamente in grado di distinguere, soltanto in
base al suono delle pareti del secchio, se il livello è o
no al limite pericoloso, per cui riescono quasi sempre
a sfuggire alla svuotatura. Perciò i candidati al servi-
zio del secchio sono, in ogni baracca, un numero assai
limitato, mentre i litri complessivi da eliminare sono
almeno duecento, e il secchio deve quindi essere vuo-
tato una ventina di volte.
In conclusione, è assai grave il rischio che incombe
su di noi, inesperti e non privilegiati, ogni notte,
quando la necessità ci spinge al secchio. Improvvisa-
mente la guardia di notte balza dal suo angolo e ci
agguanta, si scarabocchia il nostro numero, ci conse-
gna un paio di suole di legno e il secchio, e ci caccia
fuori in mezzo alla neve, tremanti e insonnoliti. A noi
tocca trascinarci fino alla latrina, col secchio che ci urta
i polpacci nudi, disgustosamente caldo; è pieno oltre
ogni limite ragionevole, e inevitabilmente, con le scos-
se, qualcosa ci trabocca sui piedi, talché, per quanto
questa funzione sia ripugnante, è pur sempre preferi-
bile esservi comandati noi stessi piuttosto che il nostro
vicino di cuccetta.
Cosi si trascinano le nostre notti. Il sogno di Tan-
talo e il sogno del racconto si inseriscono in un tes-
suto di immagini piú indistinte: la sofferenza del gior-
no, composta di fame, percosse, freddo, fatica, paura
e promiscuità, si volge di notte in incubi informi di
inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono
solo nelle notti di febbre. Ci si sveglia a ogni istante,
gelidi di terrore, con un sussulto di tutte le membra,
sotto l'impressione di un ordine gridato da una voce
piena di collera, in una lingua incompresa. La proces-
sione del secchio e i tonfi dei calcagni nudi sul legno
del pavimento si mutano in un'altra simbolica pro-
cessione: siamo noi, grigi e identici, piccoli come for-
miche e grandi fino alle stelle, serrati l'uno contro
l'altro, innumerevoli per tutta la pianura fino all'oriz-
zonte; talora fusi in un'unica sostanza, un impasto an-
goscioso in cui ci sentiamo invischiati e soffocati; ta-
lora in marcia a cerchio, senza principio e senza fine,
con vertigine accecante e una marea di nausea che ci
sale dai precordi alla gola; finché la fame, o il freddo,
o la pienezza della vescica non convogliano i sogni en-
tro gli schemi consueti. Cerchiamo invano, quando
l'incubo stesso o il disagio ci svegliano, di districarne
gli elementi, e di ricacciarli separatamente fuori dal
campo dell'attenzione attuale, in modo da difendere
il sonno dalla loro intrusione: non appena gli occhi si
richiudono, ancora una volta percepiamo il nostro cer-
vello mettersi in moto al di fuori del nostro volere;
picchia e ronza, incapace di riposo, fabbrica fantasmi
e segni terribili, e senza posa li disegna e li agita in
nebbia grigia sullo schermo dei sogni.
Ma per tutta la durata della notte, attraverso tutte
le alternanze di sonno, di veglia e di incubo, vigila
l'attesa e il terrore del momento della sveglia: me-
diante la misteriosa facoltà che molti conoscono, noi
siamo in grado, pur senza orologi, di prevederne lo
scoccare con grande approssimazione. All'ora della
sveglia, che varia da stagione a stagione ma cade sem-
pre assai prima dell'alba, suona a lungo la campanella
del campo, e allora in ogni baracca la guardia di notte
smonta: accende le luci, si alza, si stira, e pronunzia
la condanna di ogni giorno: - Aufstehen, - o piú spes-
so, in polacco: - Wstawac.
Pochissimi attendono dormendo lo Wstawac: è un
momento di pena troppo acuta perché il sonno piú du-
ro non si sciolga al suo approssimarsi. La guardia not-
turna lo sa, ed è per questo che non lo pronunzia con
tono di comando, ma con voce piana e sommessa, co-
me di chi sa che l'annunzio troverà tutte le orecchie
tese, e sarà udito e obbedito.
La parola straniera cade come una pietra sul fondo
di tutti gli animi. « Alzarsi »: l'illusoria barriera delle
coperte calde, l'esile corazza del sonno, la pur tormen-
tosa evasione notturna, cadono a pezzi intorno a noi,
e ci ritroviamo desti senza remissione, esposti all'of-
fesa, atrocemente nudi e vulnerabili. Incomincia un
giorno come ogni giorno, lungo a tal segno da non
potersene ragionevolmente concepire la fine, tanto
freddo, tanta fame, tanta fatica ce ne separano: per
cui è meglio concentrare l'attenzione e il desiderio sul
blocchetto di pane grigio, che è piccolo, ma fra un'ora
sarà certamente nostro, e per cinque minuti, finché
non l'avremo divorato, costituirà tutto quanto la legge
del luogo ci consente di possedere.
Allo Wstawac si rimette in moto la bufera. L'intera
baracca entra senza transizione in attività frenetica:
ognuno si arrampica su e giú, rifà la cuccetta e cerca
contemporaneamente di vestirsi, in modo da non lasciare
nessuno dei suoi oggetti incustodito; l'atmosfera
si riempie di polvere fino a diventare opaca; i piú
svelti fendono a gomitate la calca per recarsi al lava-
toio e alla latrina prima che vi si costituisca la coda.
Immediatamente entrano in scena gli scopini, e cacciano
tutti fuori, picchiando e urlando.
Quando io ho rifatto la cuccia e mi sono vestito,
scendo sul pavimento e mi infilo le scarpe. Allora mi
si riaprono le piaghe dei piedi, e incomincia una nuova giornata.

Il lavoro.
Prima di Resnyk, con me dormiva un polacco di cui
tutti ignoravano il nome; era mite e silenzioso , aveva
due vecchie piaghe alle tibie e di notte emanava un
odore squallido di malattia; era anche debole di ve-
scica, e perciò si svegliava e mi svegliava otto o dieci
volte per notte.
Una sera mi ha lasciato i guanti in consegna ed è entrato
in ospedale. Io ho sperato per mezz'ora che il furiere
dimenticasse che ero rimasto solo occupante della
mia cuccetta, ma, quando già era suonato il silenzio,
la cuccetta ha tremato e un tipo lungo e rosso, con il
numero dei francesi di Drancy, si è arrampicato accanto a me.
Avere un compagno di letto di statura alta è una
sciagura, vuol dire perdere ore di sonno; e a me toc-
cano proprio sempre compagni alti, perché io sono
piccolo e due alti insieme non possono dormire. Ma
invece si è visto subito che Resnyk, malgrado ciò, non
era un cattivo compagno. Parlava poco e cortesemen-
te, era pulito, non russava, non si alzava che due o tre
volte per notte e sempre con molta delicatezza. Al
mattino si è offerto di fare lui il letto (questa è una
operazione complicata e penosa, e inoltre comporta
una notevole responsabilità perché quelli che rifanno
male il letto, gli « schlechte Bettenbauer », vengono di-
ligentemente puniti), e lo ha fatto rapidamente e bene;
in modo che ho provato un certo fugace piacere nel ve-
dere, piú tardi in piazza dell'Appello, che è stato ag-
gregato al mio Kommando.
Nella marcia verso il lavoro, vacillanti nei grossi zoc-
coli sulla neve gelata, abbiamo scambiato qualche pa-
rola, e ho saputo che Resnyk è polacco; ha vissuto
vent'anni a Parigi, ma parla un francese incredibile.
Ha trent'anni, ma, come a tutti noi, gliene potresti da-
re da diciassette a cinquanta. Mi ha raccontato la sua
storia, e oggi l'ho dimenticata, ma era certo una sto-
ria dolorosa, crudele e commovente; ché tali sono tut-
te le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte
diverse e tutte piene di una tragica sorprendente ne-
cessità. Ce le raccontiamo a vicenda a sera, e sono
avvenute in Norvegia, in Italia, in Algeria, in Ucraina,
e sono semplici e incomprensibili come le storie
della Bibbia. Ma non sono anch'esse storie di una
nuova Bibbia?
Quando siamo arrivati al cantiere, ci hanno con-
dotti alla Eisenröhreplatz, che è la spianata dove si
scaricano i túbi dí ferro, e poi hanno cominciato ad
avvenire le solite cose. Il Kapo ha rifatto l'appello,
ha preso brevemente atto del nuovo acquisto, si è ac-
cordato col Meister civile sul lavoro di oggi. Poi ci
ha affidati al Vorarbeiter e se ne è andato a dormire
nella capanna degli attrezzi, vicino alla stufa; questo
non è un Kapo che dia noia, perché non è ebreo e non
ha paura di perdere il posto. Il Vorarbeiter ha distri-
buito le leve di ferro a noi e le binde ai suoi amici;
è avvenuta la solita piccola lotta per conquistare le
leve piú leggere, e oggi a me è andata male, la mia
è quella storta, che pesa forse quindici chili; so che,
se anche la dovessi adoperare a vuoto, dopo mezz'ora
sarò morto di fatica.
Poi ce ne siamo andati, ciascuno con la sua leva, zop-
picando nella neve in disgelo. A ogni passo, un po' di
neve e di fango aderiscono alle nostre suole di legno,
finché si cammina instabili su due pesanti ammassi in-
formi di cui non ci si riesce a liberare; a un tratto uno
si stacca, e allora è come se una gamba fosse un palmo
piú corta dell'altra.
Oggi bisogna scaricare dal vagone un enorme cilin-
dro di ghisa: credo che sia un tubo di sintesi, peserà
parecchie tonnellate. Per noi è meglio cosi, perché
notoriamente si fatica di meno coi grandi carichi che coi
piccoli; infatti il lavoro è piú suddiviso e ci vengono
concessi attrezzi adeguati; però siamo in pericolo, non
bisogna mai distrarsi, basta una svista di un attimo e si
può essere travolti.
Meister Nogalla in persona, il capomastro polacco,
rigido serio e taciturno, ha sorvegliato l'operazione di
scarico. Ora il cilindro giace al suolo e Meister Nogalla
dice: - Bohlen holen.
A noi si svuota il cuore. Vuol dire « portare traversine»
per costruire nel fango molle la via su cui il ci-
lindro verrà sospinto colle leve fin dentro la fabbrica.
Ma le traversine sono incastrate nel terreno, e pesano
ottanta chili; sono all'incirca al limite delle nostre
forze. I piú robusti di noi possono, lavorando in cop-
pia, portare traversine per qualche ora; per me è una
tortura, il carico mi storpia l'osso della spalla, dopo il
primo viaggio sono sordo e quasi cieco per lo sforzo,
e commetterei qualunque bassezza per sottrarmi al secondo.
Proverò a mettermi in coppia con Resnyk, che pare
un buon lavoratore, e inoltre, essendo di alta statura,
verrà a sopportare la maggior parte del peso. So che
è nell'ordine delle cose che Resnyk mi rifiuti con di-
sprezzo, e si metta in coppia con un altro individuo
robusto; e allora io chiederò di andare alla latrina, e
ci starò il piú a lungo possibile, e poi cercherò di
nascondermi con la certezza di essere immediatamente
rintracciato, deriso e percosso; ma tutto è meglio di
questo lavoro.
Invece no: Resnyk accetta, non solo, ma solleva da
solo la traversina e me l'appoggia sulla spalla destra
con precauzione; poi alza l'altra estremità, vi pone sotto
la spalla sinistra e partiamo.
La traversina è incrostata di neve e di fango, a ogni
passo mi batte contro l'orecchio e la neve mi scivola
nel collo. Dopo una cinquantina di passi sono al li-
mite di quanto si suole chiamare la normale soppor-
tazione: le ginocchia si piegano, la spalla duole come
stretta in una morsa, l'equilibrio è in pericolo. A ogni
passo sento le scarpe succhiate dal fango avido, da questo
fango polacco onnipresente il cui orrore monotono
riempie le nostre giornate.
Mi mordo profondamente le labbra: a noi è noto
che il procurarsi un piccolo dolore estraneo serve co-
me stimolante per mobilitare le estreme riserve di
energia. Anche i Kapos lo sanno: alcuni ci percuoto-
no per pura bestialità e violenza, ma ve ne sono altri
che ci percuotono quando siamo sotto il carico, quasi
amorevolmente, accompagnando le percosse con esor-
tazioni e incoraggiamenti, come fanno i carrettieri coi
cavalli volenterosi.
Arrivati al cilindro, scarichiamo a terra la traversina,
e io resto impalato, cogli occhi vuoti, la bocca
aperta e le braccia penzoloni, immerso nella estasi ef-
fimera e negativa della cessazione del dolore. In un
crepuscolo di esaurimento, attendo lo spintone che
mi costringerà a riprendere il lavoro, e cerco di pro-
fittare di ogni secondo dell'attesa per ricuperare qual-
che energia.
Ma lo spintone non viene; Resnyk mi tocca il gomito,
il piú lentamente possibile ritorniamo alle tra-
versine. Là si aggirano gli altri, a coppie, cercando tutti
di indugiare quanto piú possono prima di sottoporsi
al carico.
- Allons, petit, attrape -. Questa traversina è
asciutta e un po' piú leggera, ma alla fine del secondo
viaggio mi presento al Vorarbeiter e chiedo di andare
alla latrina.
Noi abbiamo il vantaggio che la nostra latrina è piut-
tosto lontana; questo ci autorizza, una volta al gior-
no, a una assenza un po' piú lunga che di norma, e
inoltre, poiché è proibito recarvisi da soli, ne è seguito
che Wachsmann, il piú debole e maldestro del Kommando,
è stato investito della carica di Scheissbegleiter,
«accompagnatore alle latrine »; Wachsmann, per
virtú di tale nomina, è responsabile di un nostro ipo-
tetico (risibile ipotesi!) tentativo di fuga, e, piú reali-
sticamente, di ogni nostro ritardo.
Poiché la mia domanda è stata accettata, me ne parto
nel fango, nella neve grigia e tra i rottami metal-
lici, scortato dal piccolo Wachsmann. Con questo non
riesco a intendermi, perché non abbiamo alcuna lingua
in comune; ma i suoi compagni mi hanno detto
che è rabbino, è anzi un Melamed, un dotto della
Thorà, e inoltre, al suo paese, in Galizia, aveva fama
di guaritore e di taumaturgo. Né sono lontano dal
crederlo, pensando come, cosi esile e fragile e mite,
riesca da due anni a lavorare senza ammalarsi e senza
morire, acceso invece di una stupefacente vitalità di
sguardo e di parola, per cui passa lunghe sere a discutere
di questioni talmudiche, incomprensibilmente,
in yiddisch e in ebraico, con Mendi che è rabbino modernista.
La latrina è un'oasi di pace. una latrina provviso-
ria, che i tedeschi non hanno ancora provveduto delle
consuete tramezze in legno che separano i vari scom-
partimenti: « Nur für Engländer », « Nur für Polen »,
«Nur für Ukrainische Frauen» e cosi via, e, un po'
in disparte, «Nur fur Haftlinge ». All'interno, spalla
a spalla, siedono quattro Häftlinge famelici; un vec-
chio barbuto operaio russo con la fascia azzurra OST
sul braccio sinistro; un ragazzo polacco, con una grande P
bianca sulla schiena e sul petto; un prigioniero
militare inglese, dal viso splendidamente rasato e roseo,
con la divisa kaki nitida, stirata e pulita, a parte
il grosso marchio KG (Kriegsgefangener) sul dorso.
Un quinto Häftling sta sulla porta, e ad ogni civile
che entra sfilandosi la cintola, chiede paziente e monotono:
- Etes-vous francais?
Quando ritorno al lavoro, si vedono passare gli autocarri
del rancio, il che vuol dire che sono le dieci,
e questa è già un'ora rispettabile, tale che la pausa di
mezzogiorno già si profila nella nebbia del futuro re-
moto e noi possiamo cominciare ad attingere energia
dall'attesa.
Faccio con Resnyk ancora due o tre viaggi, cercando
con ogni cura, anche spingendoci a cataste lontane,
di trovare traversine piú leggere, ma ormai tutte le
migliori sono già state trasportate, e non restano che
le altre, atroci, dagli spigoli vivi, pesanti di fango e
ghiaccio, con inchiodate le piastre metalliche per adat-
tarvi le rotaie.
Quando viene Franz a chiamare Wachsmann perché
vada con lui a ritirare il rancio, vuol dire che sono
le undici, e il mattino è quasi passato, e al pomerig-
gio nessuno pensa. Poi c'è il ritorno della corvée, alle
undici e mezzo, e l'interrogatorio stereotipo, quanta
zuppa oggi, e di che qualità, e se ci è toccata dal prin-
cipio o dal fondo del mastello; io mi sforzo di non
farle, queste domande, ma non posso impedirmi di
tendere avidamente l'orecchio alle risposte, e il naso
al fumo che viene col vento dalla cucina.
E finalmente, come una meteora celeste, sovrumana
e impersonale come un segno divino, la sirena di
mezzogiorno esplode a esaudire le nostre stanchezze
e le nostre fami anonime e concordi. E di nuovo acca-
dono le cose solite: tutti accorriamo alla baracca, e ci
mettiamo in fila colle gamelle tese, e tutti abbiamo
una fretta animalesca di perfonderci i visceri con l'in-
truglio caldo, ma nessuno vuol essere il primo, perché
al primo tocca la razione piú liquida. Come al solito,
il Kapo ci irride e ci insulta per la nostra voracità, e si
guarda bene dal rimescolare la marmitta, perché il
fondo spetta notoriamente a lui. Poi viene la beatitu-
dine (positiva questa, e viscerale) della distensione e
del calore nel ventre e nella capanna intorno alla stufa
rombante. I fumatori, con gesti avari e pii, si arroto-
lano una magra sigaretta, e gli abiti di tutti, madidi
di fango e di neve, fumano densi alla vampa della stufa,
con odore di canile e di gregge.
Una tacita convenzione vuole che nessuno parli: in
un minuto tutti dormono, serrati gomito a gomito,
cascando improvvisi in avanti e riprendendosi con un
irrigidirsi del dorso. Di dietro alle palpebre appena
chiuse, erompono i sogni con violenza, e anche questi
sono i soliti sogni. Di essere a casa nostra, in un me-
raviglioso bagno caldo. Di essere a casa nostra seduti
a tavola. Di essere a casa e raccontare questo nostro
lavorare senza speranza, questo nostro aver fame sem-
pre, questo nostro dormire di schiavi.
Poi, in seno ai vapori delle digestioni torpide, un
nucleo doloroso si condensa, e ci punge, e cresce fino
a varcare le soglie della coscienza, e ci toglie la gioia
del sonno. « Es wird bald ein Uhr sein»: è quasi la
una. Come un cancro rapido e vorace, fa morire il
nostro sonno e ci stringe di angoscia preventiva: ten-
diamo l'orecchio al vento che fischia fuori e al leggero
fruscio della neve contro il vetro, « es wird schnell
ein Uhr sein ». Mentre ognuno si aggrappa al sonno
perché non ci abbandoni, tutti i sensi sono tesi nel rac-
capriccio del segnale che sta per venire, che è fuori
della porta, che è qui...
Eccolo. Un tonfo al vetro, Meister Nogalla ha lan-
ciato contro la finestrella una palla di neve, ed ora sta
rigido in piedi fuori, e tiene l'orologio col quadrante
rivolto verso di noi. Il Kapo si alza in piedi, si stira,
e dice, sommesso come chi non dubita di essere obbedito:
- Alles heraus, - tutti fuori.
Oh poter piangere! Oh poter affrontare il vento co-
me un tempo facevamo, da pari a pari, e non come qui,
come vermi vuoti di anima!
Siamo fuori, e ciascuno riprende la sua leva. Resnyk
insacca la testa fra le spalle, si calca il berretto sugli
orecchi, e leva il viso al cielo basso e grigio da cui tur-
bina la neve inesorabile: - Si j'avey une chien, je ne
le chasse pas dehors.

Una buona giornata.
La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata
in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza
umana. Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti
nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono:
ma per noi la questione è piú semplice.
Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a prima-
vera. Di altro, ora, non ci curiamo. Dietro a questa
meta non c'è, ora, altra meta. Al mattino, quando, in
fila in piazza dell'Appello, aspettiamo senza fine l'ora
di partire per il lavoro, e ogni soffio di vento penetra
sotto le vesti e corre in brividi violenti per i nostri
corpi indifesi, e tutto è grigio intorno, e noi siamo
grigi; al mattino, quando è ancor buio, tutti scrutia-
mo il cielo a oriente a spiare i primi indizi della sta-
gione mite, e il levare del sole viene ogni giorno com-
mentato: oggi un po' prima di ieri; oggi un po' piú
caldo di ieri; fra due mesi, fra un mese, il freddo ci
darà tregua, e avremo un nemico di meno.
Oggi per la prima volta il sole è sorto vivo e nitido
fuori dell'orizzonte di fango. è un sole polacco freddo
bianco e lontano, e non riscalda che l'epidermide,
ma quando si è sciolto dalle ultime brume un mormo-
rio è corso sulla nostra moltitudine senza colore, e
quando io pure ho sentito il tepore attraverso i panni,
ho compreso come sí possa adorare il sole.
- Das Schlimmste ist vorüber, - dice Ziegler ten-
dendo al sole le spalle aguzze: il peggio è passato.
Accanto a noi è un gruppo di greci, di questi ammirevoli
e terribili ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e
solidali, cosi determinati a vivere e cosi spietati av-
versari nella lotta per la vita; di quei greci che hanno
prevalso, nelle cucine e in cantiere, e che perfino i te-
deschi rispettano e i polacchi temono. Sono al loro
terzo anno di campo, e nessuno sa meglio di loro che
cosa è il campo; ora stanno stretti in cerchio, spalla a
spalla, e cantano una delle loro interminabili cantilene.
Felicio il greco mi conosce: - L'année prochaine à
la maison! - mi grida; ed aggiunge: - ... à la maison
par la Cheminée! - Felicio è stato a Birkenau. E con-
tinuano a cantare, e battono i piedi in cadenza, e si
ubriacano di canzoni.
Quando siamo finalmente usciti dalla grande porta
del campo, il sole era discretamente alto e il cielo se-
reno. Si vedevano a mezzogiorno le montagne; a po-
nente, familiare e incongruo, il campanile di Auschwitz
(qui, un campanile!) e tutto intorno i palloni fre-
nati dello sbarramento. I fumi della Buna ristagna-
vano nell'aria fredda, e si vedeva anche una fila di
colline basse, verdi di foreste: e a noi si è stretto il
cuore, perché tutti sappiamo che là è Birkenau, che
là sono finite le nostre donne, e presto anche noi vi
finiremo: ma non siamo abituati a vederlo.
Per la prima volta ci siamo accorti che, ai due lati
della strada, anche qui i prati sono verdi: perché, se
non c'è sole, un prato è come se non fosse verde.
La Buna no: la Buna è disperatamente ed essenzial-
mente opaca e grigia. Questo sterminato intrico di
ferro, di cemento, di fango e di fumo è la negazione
della bellezza. Le sue strade e i suoi edifici si chiamano
come noi, con numeri o lettere, o con nomi disu-
mani e sinistri. Dentro al suo recinto non cresce un
filo d'erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi
del carbone e del petrolio, e nulla è vivo se non mac-
chine e schiavi: e piú quelle di questi.
La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre
ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stra-
nieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti
gli stranieri abitano in vari Lager, che alla Buna fanno
corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi, il
Lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi
volontari, e altri che noi non conosciamo. Il nostro
Lager (Judenlager, Vernichtungslager, Kazett) fornisce
da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le
nazioni d'Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi,
a cui tutti possono comandare, e il nostro nome è
il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto.
La Torre del Carburo, che sorge in mezzo alla Buna
e la cui sommità è raramente visibile in mezzo alla
nebbia, siamo noi che l'abbiamo costruita. I suoi mat-
toni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli,
kamenny, bricks, téglak, e l'odio li ha cementati;
l'odio e la discordia, come la Torre di Babele, e cosi
noi la chiamiamo: Babelturm, Bobelturm; e odiamo
in essa il sogno demente di grandezza dei nostri pa-
droni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.
E oggi ancora, cosí come nella favola antica, noi tutti
sentiamo, e i tedeschi stessi sentono, che una male-
dizione, non trascendente e divina, ma immanente e
storica, pende sulla insolente compagine, fondata sulla
confusione dei linguaggi ed eretta a sfida del cielo come
una bestemmia di pietra.
Come diremo, dalla fabbrica di Buna, attorno a cui
per quattro anni i tedeschi si adoperarono, e in cui noi
soffrimmo e morimmo innumerevoli, non uscí mai un
chilogrammo di gomma sintetica.
Ma oggi le eterne pozzanghere, su cui trema un velo
iridato di petrolio, riflettono il cielo sereno. Tubi,
travi, caldaie, ancora freddi del gelo della notte, sono
grondanti di rugiada. La terra smossa degli scavi, i
mucchi di carbone, i blocchi di cemento, esalano in
lieve nebbia l'umidità dell'inverno.
Oggi è una buona giornata. Ci guardiamo intorno,
come ciechi che riacquistino la vista, e ci guardiamo
l'un l'altro. Non ci eravamo mai visti al sole: qualcuno
sorride. Se non fosse della fame!
Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori
simultaneamente sofferti non si sommano per intero
nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori
dietro i maggiori, secondo una legge prospettica defi-
nita. Questo è provvidenziale, e ci permette di vivere
in campo. Ed è anche questa la ragione per cui cosí
spesso, nella vita libera, si sente dire che l'uomo è
incontentabile: mentre, piuttosto che di una incapa-
cità umana per uno stato di benessere assoluto, si trat-
ta di una sempre insufficiente conoscenza della natu-
ra complessa dello stato di infelicità, per cui alle sue
cause, che sono molteplici e gerarchicamente dispo-
ste, si dà un solo nome, quello della causa maggiore;
fino a che questa abbia eventualmente a venir meno,
e allora ci si stupisce dolorosamente al vedere che die-
tro ve n'è un'altra; e in realtà, una serie di altre.
Perciò, non appena il freddo, che per tutto l'inver-
no ci era parso l'unico nemico, è cessato, noi ci siamo
accorti di avere fame: e, ripetendo lo stesso errore,
cosí oggi diciamo: « Se non fosse della fame!...»
Ma come si potrebbe pensare di non aver fame?
il Lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente.
Al di là della strada lavora una draga. La benna,
sospesa ai cavi, spalanca le mascelle dentate, si libra
un attimo come esitante nella scelta, poi si avventa
alla terra argillosa e morbida, e azzanna vorace, men-
tre dalla cabina di comando sale uno sbuffo soddi-
sfatto di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa un mezzo
giro, vomita a tergo il boccone di cui è grave, e ricomincia.
Appoggiati alle nostre pale, noi stiamo a guardare
affascinati. A ogni morso della benna, le bocche si
socchiudono, i pomi d'Adamo danzano in su e poi in
giú, miseramente visibili sotto la pelle floscia. Non riusciamo
a svincolarci dallo spettacolo del pasto della draga.
Sigi ha diciassette anni, ed ha piú fame di tutti quan-
tunque riceva ogni sera un po' di zuppa da un suo
protettore, verosimilmente non disinteressato. Aveva
cominciato col parlare della sua casa di Vienna e di
sua madre, ma poi è scivolato nel tema della cucina,
e ora racconta senza fine di non so che pranzo nuziale,
e ricorda, con genuino rimpianto, di non aver finito
il terzo piatto di zuppa di fagioli. E tutti lo fanno ta-
cere, e non passano dieci minuti, che Béla ci descrive
la sua campagna ungherese, e i campi di granoturco,
e una ricetta per fare la polenta dolce, con la meliga
tostata, e il lardo, e le spezie, e... e viene maledetto,
insultato, e comincia un terzo a raccontare...
Come è debole la nostra carne! Io mi rendo conto
appieno di quanto siano vane queste fantasie di fame,
ma non mi posso sottrarre alla legge comune, e mi
danza davanti agli occhi la pasta asciutta che avevamo
appena cucinata, Vanda, Luciana, Franco ed io, in
Italia al campo di smistamento, quando ci è giunta a
un tratto la notizia che all'indomani saremmo partiti
per venire qui; e stavamo mangiandola (era cosi buona,
gialla, solida) e abbiamo smesso, noi sciocchi, noi
insensati: se avessimo saputo! E se ci dovesse succe-
dere un'altra volta... Assurdo; se una cosa è certa al
mondo, è bene questa: che non ci succederà un'altra volta.
Fischer, l'ultimo arrivato, cava di tasca un involto,
confezionato con la minuzia degli ungheresi, e dentro
c'è mezza razione di pane: la metà del pane di stamattina.
è ben noto che solo i Grossi Numeri conservano
in tasca il loro pane; nessuno di noi anziani è in grado
di serbare il pane per un'ora. Varie teorie circolano
per giustificare questa nostra incapacità: il pane man-
giato a poco per volta non si assimila del tutto; la ten-
sione nervosa necessaria per conservare il pane, avendo
fame, senza intaccarlo, è nociva e debilitante in
alto grado; il pane che diviene raffermo perde rapida-
mente il suo valore alimentare, per cui, quanto pri-
ma viene ingerito, tanto piú risulta nutriente; Alberto
dice che la fame e il pane in tasca sono addendi di se-
gno contrario, che si elidono automaticamente a vicen-
da e non possono coesistere nello stesso individuo; i
piú, infine, affermano giustamente che lo stomaco è
la cassaforte piú sicura contro i furti e le estorsioni.
- Moi, on m'a jamais volé mon pain! - ringhia David
battendosi lo stomaco concavo: ma non può distrarre
gli occhi da Fischer che mastica lento e metodico, dal
«fortunato» che possiede ancora mezza razione alle
dieci del mattino: - ... sacré veinard, va!
Ma non soltanto a causa del sole oggi è giorno di
gioia: a mezzogiorno una sorpresa ci attende. Oltre
al rancio normale del mattino, troviamo nella baracca
una meravigliosa marmitta da cinquanta litri, di quel-
le della Cucina di Fabbrica, quasi piena. Templer ci
guarda trionfante: questa « organizzazione» è opera sua.
Templer è l'organizzatore ufficiale del nostro Kommando:
ha per la zuppa dei Civili una sensibilità squi-
sita, come íe api per i fiori. Il nostro Kapo, che non
è un cattivo Kapo, gli lascia mano libera, e con ragione:
Templer parte seguendo piste impercettibili,
come un segugio, e ritorna con la preziosa notizia che
gli operai polacchi del Metanolo, a due chilometri di
qui, hanno avanzato quaranta litri di zuppa perché sapeva
di rancido, o che un vagone di rape sta incusto-
dito sul binario morto della Cucina di Fabbrica.
Oggi i litri sono cinquanta, e noi siamo quindici,
Kapo e Vorarbeiter compresi. Sono tre litri a testa;
uno lo avremo a mezzogiorno, oltre al rancio norma-
le, e per gli altri due, andremo a turno nel pomerig-
gio alla baracca, e ci saranno eccezionalmente concessi
cinque minuti di sospensione del lavoro per fare il pieno.
Che si potrebbe desiderare di piú? Anche il lavoro
ci pare leggero, con la prospettiva dei due litri densi
e caldi che ci attendono nella baracca. Periodicamente
viene il Kapo fra noi, e chiama: - Wer hat noch zu fressen?
Questo non già per derisione o per scherno, ma per-
ché realmente questo nostro mangiare in piedi, furio-
samente, scottandoci la bocca e la gola, senza il tempo
di respirare, è « fressen », il mangiare delle bestie, e
non certo « essen », il mangiare degli uomini, seduti
davanti a un tavolo, religiosamente. « Fressen » è il vo-
cabolo proprio, quello comunemente usato fra noi.
Meister Nogalla assiste, e chiude un occhio sul no-
stro assentarci dal lavoro. Anche Meister Nogalla ha
l'aria di aver fame, e se non fosse delle convenienze
sociali, forse non rifiuterebbe un litro della nostra broda calda.
Viene il turno di Templer, a cui, con plebiscitario
consenso, sono stati destinati cinque litri, prelevati
dal fondo della marmitta. Ché Templer, oltre a essere
un buon organizzatore, è un eccezionale mangiatore
di zuppa, e, cosa unica, è in grado di svuotare l'inte-
stino, volontariamente e preventivamente, in vista di
un pasto voluminoso: il che contribuisce alla sua ca-
pacità gastrica stupefacente.
Di questo suo dono egli va giustamente fiero, e tut-
ti, anche Meister Nogalla, ne sono a conoscenza. Ac-
compagnato dalla gratitudine di tutti, il benefattore
Templer si chiude pochi istanti nella latrina, esce ra-
dioso e pronto, e si avvia, fra la generale benevolenza,
a godere il frutto della sua opera:
- Nu, Templer, hast du Platz genug für die Suppe gemacht?
Al tramonto, suona la sirena del Feierabend, della
fine del lavoro; e poiché siamo tutti, almeno per qual-
che ora, sazi, cosi non sorgono litigi, ci sentiamo buo-
ni, il Kapo non si induce a picchiarci, e siamo capaci di
pensare alle nostre madri e alle nostre mogli, il che
di solito non accade. Per qualche ora, possiamo essere
infelici alla maniera degli uomini liberi.

Al di qua del bene e del male
Avevamo una incorreggibile tendenza a vedere in
ogni avvenimento un simbolo e un segno. Da ormai
settanta giorni si faceva attendere il Wäschetauschen,
che è la cerimonia del cambio della biancheria, e già
circolava insistente la voce che mancava biancheria
di ricambio perché, a causa dell'avanzare del fronte,
era preclusa ai tedeschi la possibilità di fare affluire
ad Auschwitz nuovi trasporti, e « perciò » la liberazione
era prossima; e parallelamente, la interpretazione
opposta, che il ritardo nel cambio era segno sicuro di
una prossima integrale liquidazione del campo. Invece
il cambio venne, e, come al solito, la direzione del
Lager pose ogni cura perché avvenisse improvvisa-
mente, e ad un tempo in tutte le baracche.
Bisogna sapere infatti che in Lager la stoffa manca,
ed è preziosa; e che l'unico modo che noi abbiamo di
procurarci uno straccio per nettarci il naso, o una pez-
za da piedi, è appunto quello di tagliare un lembo di
camicia al momento del cambio. Se la camicia ha le
maniche lunghe, si tagliano le maniche; se no, ci si
accontenta di un rettangolo dal fondo, o si scuce una
delle numerose rappezzature. In ogni caso, occorre
un certo tempo per procurarsi ago e filo, e per ese-
guire l'operazione con qualche arte, in modo che il
guasto non sia troppo evidente all'atto della conse-
gna. La biancheria sporca e lacera passa alla rinfusa
alla Sartoria del campo, dove viene sommariamente
rappezzata, indi alla disinfezione a vapore (non al lavaggio!)
e viene poi ridistribuita; da ciò, per salva-
guardare la biancheria usata dalle accennate mutila-
zioni, la necessità di fare avvenire i cambi nel modo
piú improvviso.
Ma, sempre come al solito, non si è potuto evitare
che qualche sguardo sagace penetrasse sotto il telone
del carro che usciva dalla disinfezione, in modo che
in pochi minuti il campo ha saputo dell'imminenza di
un Wäschetauschen, e per giunta, che questa volta si
trattava di camicie nuove, provenienti da un trasporto
di ungheresi arrivato tre giorni fa.
La notizia ha avuto immediata risonanza. Tutti i
detentori abusivi di seconde camicie, rubate od orga-
nizzate, o magari onestamente comperate con pane
per ripararsi dal freddo o per investire capitale in un
momento di prosperità, si sono precipitati alla Borsa,
sperando di arrivare in tempo a riscambiare con generi
di consumo la loro camicia di riserva prima che
l'ondata delle camicie nuove, o la certezza del loro
arrivo, svalutassero irreparabilmente il prezzo dell'articolo.
La Borsa è attivissima sempre. Benché ogni scam-
bio (anzi, ogni forma di possesso) sia esplicitamente
proibito, e benché frequenti rastrellamenti di Kapos
o Blockälteste travolgano a intervalli in un'unica fuga
mercanti, clienti e curiosi, tuttavia, nell'angolo nord-est
del Lager (significativamente, l'angolo piú lontano
dalle baracche delle SS), non appena le squadre sono
rientrate dal lavoro, siede in permanenza un assem-
bramento tumultuoso, all'aperto d'estate, dentro un
lavatoio d'inverno.
Qui si aggirano a decine, colle labbra socchiuse e gli
occhi rilucenti, i disperati della fame, che un istinto
fallace spinge colà dove le mercanzie esibite rendono
piú acre il rodimento dello stomaco, e piú assidua la
salivazione. Sono muniti, nel migliore dei casi, della
misera mezza razione di pane che, con sforzo doloroso,
hanno risparmiato fin dal mattino, nella speranza
insensata che si presenti l'occasione di un baratto
vantaggioso con qualche ingenuo, ignaro delle
quotazioni del momento. Alcuni di questi, con selvaggia
pazienza, acquistano colla mezza razione un litro
di zuppa, che, appartatisi, sottopongono alla metodica
estrazione dei pochi pezzi di patata giacenti sul fon-
do; ciò fatto, la riscambiano con pane, e il pane con
un nuovo litro da denaturare, e questo fino a esauri-
mento dei nervi, o fino a che qualche danneggiato,
coltili sul fatto, non infligga loro una severa lezione,
esponendoli alla derisione pubblica. Alla stessa specie
appartengono coloro che vengono in Borsa a vendere
la loro unica camicia; essi ben sanno quello che accadrà,
alla prossima occasione, quando il Kapo consta-
terà che sono nudi sotto la giacca. Il Kapo chiederà
loro che cosa hanno fatto della camicia; è una pura
domanda retorica, una formalità utile soltanto per en-
trare in argomento. Loro risponderanno che la camicia
è stata rubata nel lavatoio; anche questa risposta è di
prammatica, e non pretende di essere creduta; infatti
anche le pietre del Lager sanno che, novantanove volte
su cento, chi non ha camicia se la è venduta per
fame, e che del resto della propria camicia si è respon-
sabili, perché essa appartiene al Lager. Allora il Kapo
li percuoterà, verrà loro assegnata un'altra camicia, e
presto o tardi ricominceranno.
Ciascuno nel suo angolo consueto, stazionano in
Borsa i mercanti di professione; primi fra questi i greci,
immobili e silenziosi come sfingi, accovacciati a
terra dietro alle gamelle di zuppa densa, frutto del
loro lavoro, delle loro combinazioni e della loro soli-
darietà nazionale. I greci sono ormai ridotti a pochis-
simi, ma hanno portato un contributo di prim'ordine
alla fisionomia del campo, ed al gergo internazionale
che vi circola. Tutti sanno che « caravana» è la ga-
mella, e che «la comedera es buena » vuol dire che
la zuppa è buona; il vocabolo che esprime l'idea gene-
rica di furto è « klepsi-klepsi », di evidente origine
greca. Questi pochi superstiti della colonia ebraica di
Salonicco, dal duplice linguaggio, spagnolo ed elle-
nico, e dalle molteplici attività, sono i depositari di
una concreta, terrena, consapevole saggezza in cui con-
fluiscono le tradizioni di tutte le civiltà mediterranee.
Che questa saggezza si risolva in campo con la pratica
sistematica e scientifica del furto e dell'assalto alle
cariche, e con il monopolio della Borsa dei baratti,
non deve far dimenticare che la loro ripugnanza dalla
brutalità gratuita, la loro stupefacente coscienza del
sussistere di una almeno potenziale dignità umana,
facevano dei greci in Lager il nucleo nazionale piú coerente,
e, sotto questi aspetti, piú civile.
Puoi trovare in Borsa gli specializzati in furti alla
cucina, con le giacche sollevate da misteriosi rigonfi.
Mentre per la zuppa esiste un prezzo pressoché sta-
bile (mezza razione di pane per un litro), la quota-
zione delle rape, carote, patate è estremamente capríc-
ciosa, e dipende fortemente, fra altri fattori, anche
dalla diligenza e dalla corruttibilità dei guardiani di
turno ai magazzini.
Si vende il Mahorca: il Mahorca è un tabacco di
scarto, in forma di schegge legnose, il quale è uffi-
cialmente in vendita alla Kantine, in pacchetti da
cinquanta grammi, contro versamento dei « buoni-
premio» che la Buna dovrebbe distribuire ai migliori
lavoratori. Tale distribuzione avviene irregolarmente,
con grande parsimonia e palese iniquità, in modo che
la massima parte dei buoni finiscono, direttamente o
per abuso di autorità, nelle mani dei Kapos e dei pro-
minenti; tuttavia i buoni-premio della Buna circolano
sul mercato del Lager in funzione di moneta, e il loro
valore è variabile in stretta obbedienza alle leggi
dell'economia classica.
Ci sono stati periodi in cui per il buono-premio si
è pagata una razione di pane, poi una e un quarto,
anche una e un terzo; un giorno è stato quotato una
razione e mezza, ma poi è venuto meno il riforni-
mento di Mahorca alla Kantine, e allora, mancando
la copertura, la moneta è precipitata di colpo a un
quarto di razione. è successo un altro periodo di rial-
zo dovuto a una singolare ragione: il cambio della
guardia al Frauenblock, con arrivo di un contingente
di robuste ragazze polacche. Infatti, poiché il buono-premio
è valido (per i criminali e i politici: non per
gli ebrei, i quali d'altronde non soffrono della limita-
zione) per un ingresso al Frauenblock, gli interessati
ne hanno fatta attiva e rapida incetta: donde la riva-
lutazione, che per altro non ebbe lunga durata.
Fra i comuni Häftlinge, non sono molti quelli che
ricercano il Mahorca per fumarlo personalmente; per
lo piú, esso esce dal campo, e finisce ai lavoratori ci-
vili della Buna. è questo uno schema di «kombinacja»
assai diffuso: lo Häftling, economizzata in qual-
che modo una razione di pane, la investe in Mahorca;
si mette cautamente in contatto con un «amatore»
civile, che acquista il Mahorca effettuando il paga-
mento a contanti, con una dose di pane superiore a
quella inizialmente stanziata. Lo Häftling si mangia
il margine di guadagno, e rimette in ciclo la razione
che avanza. Speculazioni di questo genere stabiliscono
un legame fra l'economia interna del Lager e la vita
economica del mondo esterno: quando è venuta acci-
dentalmente a mancare la distribuzione del tabacco
alla popolazione civile di Cracovia, il fatto, superando
la barriera di filo spinato che ci segrega dal consorzio
umano, ha avuto immediata ripercussione in campo,
provocando un netto rialzo della quotazione del Mahorca,
e quindi del buono-premio.
Il caso sopra delineato non è che il piú schematico:
un altro già piú complesso è il seguente. Lo Häftling
acquista mediante Mahorca o pane, o magari ottiene
in dono, da un civile, un qualunque abominevole, la-
cero, sporco cencio di camicia, il quale sia però tut-
tora provvisto di tre fori adatti a passarvi bene o male
le braccia e il capo. Purché non porti che segni di
usura, e non di mutilazioni artificiosamente fatte, un
tale oggetto, all'atto del Wäschetauschen, è valido
come camicia, e dà diritto al cambio; tutt'al piú colui
che lo esibisce potrà ricevere un'adeguata dose di colpi
per aver posto cosi poca cura nel conservare gli in-
dumenti di ordinanza.
Perciò, all'interno del Lager, non v'è grande diffe-
renza di valore fra una camicia degna di tal nome e
uno straccio pieno di toppe; lo Häftling di cui sopra
non avrà difficoltà a trovare un compagno in possesso
di una camicia in stato commerciabile, e che non possa
valorizzarla perché, per ragioni di ubicazione di
lavoro, o di linguaggio, o di intrinseca incapacità, non
è in relazione con lavoratori civili. Quest'ultimo si
accontenterà di un modesto quantitativo di pane per
accettare il cambio; infatti il prossimo Wäschetauschen
ristabilirà in certo modo il livellamento, ripar-
tendo biancheria buona o cattiva in maniera perfet-
tamente casuale. Ma il primo Häftling potrà contrab-
bandare in Buna la camicia buona, e venderla al civile
di prima (o ad un altro qualunque) per quattro, sei,
fino a dieci razioni di pane. Questo cosí elevato mar-
gine di guadagno rispecchia la gravità del rischio di
uscire dal campo con piú di una camicia indosso, o
di rientrarvi senza camicia.
Molte sono le variazioni su questo tema. C'è chi
non esita a farsi estrarre le coperture d'oro dei denti
per venderle in Buna contro pane o tabacco; ma è piú
comune il caso che tale traffico abbia luogo per inter-
posta persona. Un « grosso numero», vale a dire un
nuovo arrivato, giunto da poco ma già a sufficienza
abbrutito dalla fame e dalla tensione estrema della
vita in campo, viene notato da un « piccolo numero »
per qualche sua ricca protesi dentaria; il « piccolo »
offre al « grosso» tre o quattro razioni di pane in con-
tanti per sottoporsi all'estrazione. Se il grosso accetta,
il piccolo paga, si porta l'oro in Buna, e, se è in con-
tatto con un civile di fiducia, dal quale non ci siano
da temere delazioni o raggiri, può realizzare senz'altro
un guadagno di dieci fino a venti e piú razioni, che gli
vengono corrisposte gradualmente, una o due al giorno.
Notiamo a tale proposito che, contrariamente a
quanto avviene in Buna, quattro razioni di pane co-
stituiscono l'importo massimo degli affari che si con-
cludono entro il campo, perché quivi sarebbe prati-
camente impossibile sia stipulare contratti a credito,
sia preservare dalla cupidigia altrui e dalla fame pro-
pria una quantità superiore di pane.
Il traffico coi civili è un elemento caratteristico del-
l'Arbeitslager, e, come si è visto, ne determina la vita
economica. è d'altronde un reato, esplicitamente con-
templato dal regolamento del campo e assimilato ai
reati « politici »; viene perciò punito con particolare
severità. Lo Häftling convinto di « Handel mit Zivilisten »,
se non dispone di appoggi influenti, finisce
a Gleiwitz III, a Janina, a Heidebreck alle miniere di
carbone; il che significa la morte per esaurimento nel
giro di poche settimane. Inoltre, lo stesso lavoratore
civile suo complice può venire denunziato alla com-
petente autorità tedesca, e condannato a trascorrere
in Vernichtungslager, nelle stesse nostre condizioni,
un periodo variabile, a quanto mi consta, dai quindici
giorni agli otto mesi. Gli operai a cui viene applicato
questo genere di contrappasso, vengono come noi spo-
gliati all'ingresso, ma i loro effetti personali vengo-
no conservati in un apposito magazzino. Non vengono
tatuati e conservano i loro capelli, il che li rende facil-
mente riconoscibili, ma per tutta la durata della puni-
zione sono sottoposti allo stesso nostro lavoro e alla
nostra disciplina: escluse beninteso le selezioni.
Lavorano in Kommandos particolari, e non hanno
contatti di alcun genere con i comuni Häftlinge. Infatti
per loro il Lager costituisce una punizione, ed essi,
se non morranno di fatica o di malattia, hanno mol-
te probabilità di ritornare fra gli uomini; se potessero
comunicare con noi, ciò costituirebbe una breccia nel
muro che ci rende morti al mondo, ed uno spiraglio
sul mistero che regna fra gli uomini liberi intorno alla
nostra condizione. Per noi invece il Lager non è una
punizione; per noi non è previsto un termine, e il Lager
altro non è che il genere di esistenza a noi assegnato,
senza limiti di tempo, in seno all'organismo sociale germanico.
Una sezione del nostro stesso campo è destinata appunto
ai lavoratori civili, di tutte le nazionalità, che
devono soggiornarvi per un tempo piú o meno lungo
in espiazione dei loro rapporti illeciti con Häftlinge.
Tale sezione è separata dal resto del campo mediante
un filo spinato, e si chiama E-Lager, ed E-Häftlinge
se ne chiamano gli ospiti. « E» è l'iniziale di « Erziehung »,
che significa « educazione».
Tutte le combinazioni finora delineate sono fondate
sul contrabbando di materiale appartenente al Lager.
Per questo le SS sono cosí rigorose nel reprimerlo:
l'oro stesso dei nostri denti è di loro proprietà, poiché,
strappato dalle mascelle dei vivi o dei morti, tutto
finisce presto o tardi nelle loro mani. è dunque naturale
che esse si adoperino affinché l'oro non esca dal campo.
Ma contro il furto in sé, la direzione del campo non
ha alcuna prevenzione. Lo dimostra l'atteggiamento
di ampia connivenza, manifestato dalle SS nei riguardi
del contrabbando inverso.
Qui le cose generalmente sono piú semplici. Si trat-
ta di rubare o ricettare qualcuno degli svariati attrezzi,
utensili, materiali, prodotti eccetera, coi quali veniamo
quotidianamente in contatto in Buna per ragioni di
lavoro; introdurlo in campo la sera, trovare il cliente,
ed effettuare il baratto contro pane o zuppa. Questo
traffico è intensissimo: per certi articoli, che pure sono
necessari alla vita normale del Lager, questa, del
furto in Buna, è l'unica e regolare via di approvvigio-
namento. Tipici i casi delle scope, della vernice, del
filo elettrico, del grasso da scarpe. Valga come esempio
il traffico di quest'ultima merce.
Come abbiamo altrove accennato, il regolamento
del campo prescrive che ogni mattina le scarpe ven-
gano unte e lucidate, e ogni Blockältester è responsa-
bile di fronte alle SS dell'ottemperanza alla disposi-
zione da parte di tutti gli uomini della sua baracca. Si
potrebbe quindi pensare che ogni baracca goda di una
periodica assegnazione di grasso da scarpe, ma cosi
non è: il meccanismo è un altro. Occorre premettere
che ogni baracca riceve, a sera, un'assegnazione di
zuppa che è alquanto piú alta della somma delle ra-
zioni regolamentari; il di piú viene ripartito secondo
l'arbitrio del Blockältester, il quale ne ricava, in pri-
mo luogo, gli omaggi per i suoi amici e protetti, in
secondo, i compensi dovuti agli scopini, alle guardie
notturne, ai controllori dei pidocchi e a tutti gli altri
funzionari-prominenti della baracca. Quello che an-
cora avanza (e ogni accorto Blockältester fa sí che sem-
pre ne avanzi) serve precisamente per gli acquisti.
Il resto si intende: quegli Häftlinge a cui capita in
Buna l'occasione di riempirsi la gamella di grasso od
olio da macchina (o anche altro: qualunque sostanza
nerastra e untuosa si considera rispondente allo sco-
po), giunti alla sera in campo, fanno sistematicamente
il giro delle baracche, finché trovano il Blockältester
che è sprovvisto dell'articolo o intende farne scorta.
Del resto ogni baracca ha per lo piú il suo fornitore
abituale, col quale è stato pattuito un compenso fisso
giornaliero, a condizione che egli fornisca il grasso
ogni volta che la riserva stia per esaurirsi.
Tutte le sere, accanto alle porte dei Tagesräume, sta-
zionano pazientemente i capannelli dei fornitori: fer-
mi in piedi per ore e ore sotto la pioggia o la neve,
parlano concitatamente sottovoce di questioni relative
alle variazioni dei prezzi e del valore del buono-premio.
Ogni tanto qualcuno si stacca dal gruppo, fa una
breve visita in Borsa, e torna con le ultime notizie.
Oltre a quelli già nominati, innumerevoli sono gli
articoli reperibili in Buna che possono essere utili al
Block, o graditi al Blockältester, o suscitare l'interes-
se o la curiosità dei prominenti. Lampadine, spazzole,
sapone comune e per barba, lime, pinze, sacchi, chio-
di; si smercia l'alcool metilico, buono per farne beve-
raggi, e la benzina, buona per i rudimentali acciariní,
prodigi dell'industria segreta degli artigiani del Lager.
In questa complessa rete di furti e controfurti, ali-
mentati dalla sorda ostilità fra i comandi SS e le
autorità civili della Buna, una funzione di prim'ordine
è esplicata dal Ka-Be. Il Ka-Be è il luogo di minor re-
sistenza, la valvola da cui piú facilmente si possono
evadere i regolamenti ed eludere la sorveglianza dei
capi. Tutti sanno che sono gli infermieri stessi quelli
che rilanciano sul mercato, a basso prezzo, gli indu-
menti e le scarpe dei morti, e dei selezionati che par-
tono nudi per Birkenau; sono gli infermieri e i medici
che esportano in Buna i sulfamidici di assegnazione,
vendendoli ai civili contro generi alimentari.
Gli infermieri poi traggono ingente guadagno dal
traffico dei cucchiai. Il Lager non fornisce cucchiaio
ai nuovi arrivati, benché la zuppa semiliquida non
possa venir consumata altrimenti. I cucchiai vengono
fabbricati in Buna, di nascosto e nei ritagli di tempo,
dagli Häftlinge che lavorano come specializzati in
Kommandos di fabbri e lattonieri: si tratta di rozzi e
massicci arnesi, ricavati da lamiere lavorate a mar-
tello, spesso col manico affilato, in modo che serva in
pari tempo da coltello per affettare il pane. I fabbri-
canti stessi li vendono direttamente ai nuovi arrivati:
un cucchiaio semplice vale mezza razione, un cucchiaio-coltello
tre quarti di razione di pane. Ora, è legge che
in Ka-Be si possa entrare col cucchiaio, non
però uscirne. Ai guariti, all'atto del rilascio e prima
della vestizione, il cucchiaio viene sequestrato dagli
infermieri, e da loro rimesso in vendita sulla Borsa.
Aggiungendo ai cucchiai dei guariti quelli dei morti
e dei selezionati, gli infermieri vengono a percepire
ogni giorno il ricavato della vendita di una cinquantina
di cucchiai. Per contro, i degenti rilasciati sono co-
stretti a rientrare al lavoro collo svantaggio iniziale
di mezza razione di pane da stanziarsi per l'acquisto di
un nuovo cucchiaio.
Infine, il Ka-Be è il principale cliente e ricettatore
dei furti consumati in Buna: della zuppa destinata al
Ka-Be, ben venti litri ogni giorno sono preventivati
come fondo-furti per l'acquisto dagli specialisti degli
articoli piú svariati. C'è chi ruba tubo sottile di gomma,
che viene utilizzato in Ka-Be per gli enteroclismi
e le sonde gastriche; chi viene a offrire matite e
inchiostri colorati, richiesti per la complicata contabi-
lità della fureria del Ka-Be; e termometri, e vetreria,
e reagenti chimici, che escono dai magazzini della Buna
nelle tasche degli Häftlinge e trovano impiego nel-
l'infermeria come materiale sanitario.
E non vorrei peccare di immodestia aggiungendo
che è stata nostra, di Alberto e mia, l'idea di rubare i
rotoli di carta millimetrata dei termografi del Reparto
Essiccazione, e di offrirli al Medico Capo del Ka-Be,
suggerendogli di impiegarli sotto forma di moduli per
i diagrammi polso-temperatura.
In conclusione: il furto in Buna, punito dalla Dire-
zione civile, è autorizzato e incoraggiato dalle SS; il
furto in campo, represso severamente dalle SS, è con-
siderato dai civili una normale operazione di scambio;
il furto fra Häftlinge viene generalmente punito, ma
la punizione colpisce con uguale gravità il ladro e il
derubato. Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere,
che cosa potessero significare in Lager le nostre parole
« bene » e « male », « giusto » e « ingiusto »; giudichi
ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli
esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo
morale potesse sussistere al di qua del filo spinato.

I sommersi e i salvati.
Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita am-
bigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul
fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni,
ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per
cui ci si potrà forse domandare se proprio metta con-
to, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione
umana rimanga una qualche memoria.
A questa domanda ci sentiamo di rispondere affer-
mativamente. Noi siamo infatti persuasi che nessuna
umana esperienza sia vuota di senso e indegna di ana-
lisi, e che anzi valori fondamentali, anche se non sem-
pre positivi, si possano trarre da questo particolare
mondo di cui narriamo. Vorremmo far considerare
come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una
gigantesca esperienza biologica e sociale.
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui
diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e
costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita
costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a
tutti i bisogni: è quanto di piú rigoroso uno sperimen-
tatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa
sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento
dell'animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.
Noi non crediamo alla piú ovvia e facile deduzione:
che l'uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e
stolto come si comporta quando ogni sovrastruttura
civile sia tolta, e che lo «Häftling» non sia dunque
che l'uomo senza inibizioni. Noi pensiamo piuttosto
che, quanto a questo, null'altro si può concludere, se
non che di fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti,
molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio.
Ci pare invece degno di attenzione questo fatto:
viene in luce che esistono fra gli uomini due categorie
particolarmente ben distinte: i salvati e i sommersi.
Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli
stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati)
sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e
soprattutto ammettono gradazioni intermedie piú nu-
merose e complesse.
Questa divisione è molto meno evidente nella vita
comune; in questa non accade spesso che un uomo sí
perda, perché normalmente l'uomo non è solo, e, nel
suo salire e nel suo discendere, è legato al destino dei
suoi vicini; per cui è eccezionale che qualcuno cresca
senza limiti in potenza, o discenda con continuità di
sconfitta in sconfitta fino alla rovina. Inoltre ognuno
possiede di solito riserve tali, spirituali, fisiche e
anche pecuniarie, che l'evento di un naufragio, di una
insufficienza davanti alla vita, assume una anche
minore probabilità. Si aggiunga ancora che una sensi-
bile azione di smorzamento è esercitata dalla legge, e
dal senso morale, che è legge interna; viene infatti
considerato tanto piú civile un paese, quanto piú savie
ed efficienti vi sono quelle leggi che impediscono
al misero di essere troppo misero, e al potente di
essere troppo potente.
Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per
sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è dispe-
ratamente ferocemente solo. Se un qualunque Null
Achtzehn vacilla, non troverà chi gli porga una mano;
bensí qualcuno che lo abbatterà a lato, perché nes-
suno ha interesse a che un « mussulmano»
(Con tale termine, «Muselmann », ignoro per qual ragione, i vecchi
del campo designavano i deboli, gli inetti, i votati alla selezione.)
di piú si trascini ogni giorno al lavoro; e se qualcuno, con un
miracolo di selvaggia pazienza e astuzia, troverà una
nuova combinazione per defilarsi dal lavoro piú duro,
una nuova arte che gli frutti qualche grammo di pane,
cercherà di tenerne segreto il modo, e di questo sarà
stimato e rispettato, e ne trarrà un suo esclusivo per-
sonale giovamento; diventerà piú forte, e perciò sarà
temuto, e chi è temuto è, ipso facto, un candidato a
sopravvivere.
Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere
una legge feroce, che suona « a chi ha, sarà dato; a chi
non ha, a quello sarà tolto ». Nel Lager, dove l'uomo
è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo
primordiale, la legge iniqua è apertamente in vigore,
è riconosciuta da tutti. Con gli adatti, con gli individui
forti e astuti, i capi stessi mantengono volentieri
contatti, talora quasi camerateschi, perché sperano di
poterne trarre forse piú tardi qualche utilità. Ma ai
mussulmani, agli uomini in dissolvimento, non vale
la pena di rivolgere la parola, poiché già si sa che si
lamenterebbero, e racconterebbero quello che man-
giavano a casa loro. Tanto meno vale la pena di farse-
ne degli amici, perché non hanno in campo conoscenze
illustri, non mangiano niente extrarazione, non lavo-
rano in Kommandos vantaggiosi e non conoscono nes-
sun modo segreto di organizzare. E infine, si sa che
sono qui di passaggio, e fra qualche settimana non ne
rimarrà che un pugno di cenere in qualche campo non
lontano, e su un registro un numero di matricola spun-
tato. Benché inglobati e trascinati senza requie dalla
folla innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e
si trascinano in una opaca intima solitudine, e in soli-
tudine muoiono o scompaiono, senza lasciar traccia
nella memoria di nessuno.
Il risultato di questo spietato processo di selezione
naturale si sarebbe potuto leggere nelle statistiche del
movimento dei Lager. Ad Auschwitz, nell'anno 1944,
dei vecchi prigionieri ebrei (degli altri non diremo
qui, ché altre erano le loro condizioni), «kleine Nummer»,
piccoli numeri inferiori al centocinquantamila,
poche centinaia sopravvivevano; nessuno di questi
era un comune Häftling, vegetante nei comuni Kommandos
e pago della normale razione. Restavano solo
i medici, i sarti, i ciabattini, i musicisti, i cuochi,
i giovani attraenti omosessuali, gli amici o compaesani di
qualche autorità del campo; inoltre individui parti-
colarmente spietati, vigorosi e inumani, insediatisi (in
seguito a investitura da parte del comando delle SS,
che in tale scelta dimostravano di possedere una
satanica conoscenza umana) nelle cariche di Kapo, di
Blockältester, o altre; e infine coloro che, pur senza
rivestire particolari funzioni, per la loro astuzia ed
energia fossero sempre riusciti a organizzare con suc-
cesso, ottenendo cosí, oltre al vantaggio materiale e
alla reputazione, anche indulgenza e stima da parte
dei potenti del campo. Chi non sa diventare un Organisator,
Kombinator, Prominent (truce eloquenza dei
termini!) finisce in breve mussulmano. Una terza via
esiste nella vita, dove è anzi la norma; non esiste in
campo di concentramento.
Soccombere è la cosa piú semplice: basta eseguire
tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la
razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo.
L'esperienza ha dimostrato che solo eccezional-
mente si può in questo modo durare piú di tre mesi.
Tutti i mussulmani che vanno in gas hanno la stessa
storia, o, per meglio dire, non hanno storia; hanno seguito
il pendio fino al fondo, naturalmente, come i
ruscelli che vanno al mare. Entrati in campo, per loro
essenziale incapacità, o per sventura, o per un qual-
siasi banale incidente, sono stati sopraffatti prima di
aver potuto adeguarsi; sono battuti sul tempo, non
cominciano a imparare il tedesco e a discernere qual-
cosa nell'infernale groviglio di leggi e di divieti, che
quando il loro corpo è già in sfacelo, e nulla li potrebbe
piú salvare dalla selezione o dalla morte per depe-
rimento. La loro vita è breve ma il loro numero e
sterminato; sono loro, i Muselmänner, i sommersi,
il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continua-
mente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini
che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la
scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramen-
te. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte
la loro morte, davanti a cui essi non temono perché
sono troppo stanchi per comprenderla.
Essi popolano la mia memoria della loro presenza
senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine
tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa
immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla
fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei
cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero.
Se i sommersi non hanno storia, e una sola e ampia
è la via della perdizione, le vie della salvazione sono
invece molte, aspre ed impensate.
La via maestra, come abbiamo accennato, è la Prominenz.
« Prominenten » si chiamano i funzionari del
campo, a partire dal direttore-Häftling (Lagerältester)
ai Kapos, ai cuochi, agli infermieri, alle guardie not-
turne, fino agli scopini delle baracche e agli Scheissminister
e Bademeister (sovraintendenti alle latrine
e alle docce). Piú specialmente interessano qui i pro-
minenti ebrei, poiché, mentre gli altri venivano inve-
stiti degli incarichi automaticamente, al loro ingresso
in campo, in virtú della loro supremazia naturale, gli
ebrei dovevano intrigare e lottare duramente per ottenerli.
I prominenti ebrei costituiscono un triste e note-
vole fenomeno umano. In loro convergono le soffe-
renze presenti, passate e ataviche, e la tradizione e
l'educazione di ostilità verso lo straniero, per farne
mostri di asocialità e di insensibilità.
Essi sono il tipico prodotto della struttura del Lager
tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di
schiavitú una posizione privilegiata, un certo agio e
una buona probabilità di sopravvivere, esigendone in
cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro
compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. Costui
sarà sottratto alla legge comune, e diverrà intan-
gibile; sarà perciò tanto piú odioso e odiato, quanto
maggior potere gli sarà stato concesso. Quando gli
venga affidato il comando di un manipolo di sventu-
rati, con diritto di vita o di morte su di essi, sarà cru-
dele e tirannico, perché capirà che se non lo fosse
abbastanza, un altro, giudicato piú idoneo, subentre-
rebbe al suo posto. Inoltre avverrà che la sua capacità
di odio, rimasta inappagata nella direzione degli op-
pressori, si riverserà, irragionevolmente, sugli oppres-
si: ed egli si troverà soddisfatto quando avrà scaricato
sui suoi sottoposti l'offesa ricevuta dall'alto.
Ci rendiamo conto che tutto questo è lontano dal
quadro che ci si usa fare, degli oppressi che si uni-
scono, se non nel resistere, almeno nel sopportare.
Non escludiamo che ciò possa avvenire quando l'op-
pressione non superi un certo limite, o forse quando
l'oppressore, per inesperienza o per magnanimità, lo
tolleri o lo favorisca. Ma constatiamo che ai nostri
giorni, in tutti i paesi in cui un popolo straniero ha
posto piede da invasore, si è stabilita una analoga si-
tuazione di rivalità e di odio fra gli assoggettati; e ciò,
come molti altri fatti umani, si è potuto cogliere in
Lager con particolare cruda evidenza.
Sui prominenti non ebrei c'è meno da dire, benché
fossero di gran lunga i piú numerosi (nessuno Häftling
«ariano » era privo di una carica, sia pure modesta).
Che siano stati stolidi e bestiali è naturale, a chi
pensi che per lo piú erano criminali comuni, scelti dal-
le carceri tedesche in vista appunto del loro impiego
come sovrintendenti nei campi per ebrei; e riteniamo
che fosse questa una scelta ben accurata, perché ci ri-
fiutiamo di credere che gli squallidi esemplari umani
che noi vedemmo all'opera rappresentino un campione
medio, non che dei tedeschi in genere, anche sol-
tanto dei detenuti tedeschi in specie. è piú difficile
spiegarsi come in Auschwitz i prominenti politici te-
deschi, polacchi e russi, rivaleggiassero in brutalità
con i rei comuni. Ma è noto che in Germania la quali-
fica di reato politico si applicava anche ad atti quali il
traffico clandestino, i rapporti illeciti con ebree, i furti
a danno di funzionari del Partito. I politici « veri »
vivevano e morivano in altri campi, dal nome ormai
tristemente famoso, in condizioni notoriamente durissime,
ma sotto molti aspetti diverse da quelle qui descritte.
Ma oltre ai funzionari propriamente detti, vi è una
vasta categoria di prigionieri che, non favoriti inizial-
mente dal destino, lottano con le sole loro forze per
sopravvivere. Bisogna risalire la corrente; dare bat-
taglia ogni giorno e ogni ora alla fatica, alla fame, al
freddo, e alla inerzia che ne deriva; resistere ai nemici
e non aver pietà per i rivali; aguzzare l'ingegno, indu-
rare la pazienza, tendere la volontà. O anche, strozzare
ogni dignità e spegnere ogni lume di coscienza scen-
dere in campo da bruti contro gli altri bruti, lasciarsi
guidare dalle insospettate forze sotterranee che sor-
reggono le stirpi e gli individui nei tempi crudeli. Mol-
tissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per
non morire: tante quanti sono i caratteri umani. Tutte
comportano una lotta estenuante di ciascuno contro
tutti, e molte una somma non piccola di aberrazioni
e di compromessi. Il sopravvivere senza aver rinun-
ciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti
e diretti interventi della fortuna, non è stato con-
cesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa
dei martiri e dei santi.
In quanti modi si possa dunque raggiungere la sal-
vazione, noi cercheremo di dimostrare raccontando íe
storie di Schepschel, Alfred L., Elias e Henrí.
Schepschel vive in Lager da quattro anni. Si è visti
morire intorno decine di migliaia di suoi simili, a par-
tire dal pogrom che lo ha cacciato dal suo villaggio in
Galizia. Aveva moglie e cinque figli, e un prospero
negozio di sellaio, ma da molto tempo si è disabi-
tuato dal pensare a sé altrimenti che come a un sacco
che deve essere periodicamente riempito. Schepschel
non è molto robusto, né molto coraggioso, né molto
malvagio; non è neppure particolarmente astuto, e
non ha mai trovato una sistemazione che gli conceda
un po' di respiro, ma è ridotto agli espedienti spic-
cioli e saltuari, alle « kombinacje », come qui si chiamano.
Ogni tanto ruba in Buna una scopa e la rivende al
Blockältester; quando riesce a mettere da parte un
po' di capitale-pane, prende in affitto i ferri dal cia-
battino del Block, che è suo compaesano, e lavora
qualche ora in proprio; sa fabbricare bretelle con filo
elettrico intrecciato; Sigi mi ha detto che nella pausa
di mezzogiorno lo ha visto cantare e ballare davanti
alla capanna degli operai slovacchi, che lo ricompen-
sano qualche volta con gli avanzi della loro zuppa.
Ciò detto, ci si può sentire portati a pensare a Schepschel
con indulgente simpatia, come a un meschino il
cui spirito non alberga ormai che umile ed elementare
volontà di vita, e che conduce valorosamente la sua
piccola lotta per non soccombere. Ma Schepschel non
era un'eccezione, e quando l'occasione si presentò,
non esitò a far condannare alla fustigazione Moischí,
che gli era stato complice in un furto alla cucina, nel-
la speranza, malamente fondata, di acquistarsi merito
agli occhi del Blockältester, e di porre la sua candida-
tura al posto di lavatore delle marmitte.
La storia dell'ingegner Alfred L. dimostra, fra le al-
tre cose, quanto sia vano il mito dell'uguaglianza origi-
nale fra gli uomini.
L. dirigeva nel suo paese una importantissima fab-
brica di prodotti chimici, e il suo nome era (ed è) noto
negli ambienti industriali di tutta Europa. Era un uo-
mo robusto sulla cinquantina; non so come fosse stato
arrestato, ma in campo era entrato come tutti entra-
vano: nudo, solo e sconosciuto. Quando io lo conobbi,
era molto deperito, ma conservava sul viso i tratti di
una energia disciplinata e metodica; in quel tempo, i
suoi privilegi si limitavano alla pulitura giornaliera
della marmitta degli operai polacchi; questo lavoro, di
cui egli aveva ottenuto non so come l'esclusività, gli
fruttava mezza gamella di zuppa al giorno. Non bastava
certamente questo a soddisfare la sua fame; tutta-
via nessuno lo aveva mai udito lamentarsi. Anzi, le
poche parole che lasciava cadere erano tali da far pensare
a grandiose risorse segrete, a una «organizzazione »
solida e fruttuosa.
Il che trovava conferma nel suo aspetto. L. aveva
« una linea»: le mani e il viso sempre perfettamente
puliti, aveva la rarissima abnegazione di lavarsi, ogni
quindici giorni, la camicia, senza aspettare il cambio
bimestrale (facciamo qui notare che lavare la camicia
vuoi dire trovare il sapone, trovare il tempo, trovare
lo spazio nel lavatoio sovraffollato; adattarsi a sorve-
gliare attentamente, senza distogliere gli occhi un at-
timo, la camicia bagnata, e indossarla, naturalmente
ancora bagnata, all'ora del silenzio, in cui si spengono
le luci); possedeva un paio di suole di legno per an-
dare alla doccia, e perfino il suo abito a righe era sin-
golarmente adatto alla sua corporatura, pulito e nuovo.
L. si era procurato in sostanza tutto l'aspetto del
prominente assai prima di diventarlo: poiché solo
molto tempo dopo ho saputo che tutta questa osten-
tazione di prosperità, L. se l'era saputa guadagnare
con incredibile tenacia, pagando i singoli acquisti e
servizi col pane della sua stessa razione, e astringen-
dosi cosí a un regime di privazioni supplementari.
Il suo piano era di lungo respiro, il che è tanto piú
notevole, in quanto era stato concepito in un am-
biente in cui dominava la mentalità del provvisorio;
e L. lo attuò con rigida disciplina interiore, senza pie-
tà per sé, né, a maggior ragione, per i compagni che
gli traversassero il cammino. L. sapeva che fra l'es-
sere stimato potente e il divenire effettivamente tale
il passo è breve, e che dovunque, ma particolarmen-
te frammezzo al generale livellamento del Lager, un
aspetto rispettabile è la miglior garanzia di essere ri-
spettato. Egli dedicò ogni cura al non essere confuso
col gregge: lavorava con impegno ostentato, esortando
anche all'occasione i compagni pigri, con tono sua-
dente e deprecatorio; evitava la lotta quotidiana per
il posto migliore nella coda del rancio, e si adattava a
ricevere ogni giorno la prima razione, notoriamente
piú liquida, in modo da essere notato dal Blockältester
per la sua disciplina. A completare il distacco, nei rap-
porti con i compagni si comportava sempre con la
massima cortesia compatibile con il suo egoismo, che
era assoluto.
Quando fu costituito, come diremo, il Kommando
Chimico, L. comprese che la sua ora era giunta: non
occorreva altro che il suo abito nitido e il suo viso
scarno sí, ma rasato, in mezzo alla mandria dei colle-
ghi sordidi e sciatti, per convincere immediatamente
Kapo e Arbeitsdienst che quello era un autentico sal-
vato, un prominente potenziale; per cui (a chi ha,
sarà dato) fu senz'altro promosso « specializzato », no-
minato capotecnico del Kommando, e assunto dalla
Direzione della Buna come analista nel laboratorio
del reparto Stirolo. Fu in seguito incaricato di esami-
nare via via i nuovi acquisti del Kommando Chimico,
per giudicare della loro abilità professionale: il che
egli fece sempre con estremo rigore, specialmente nei
riguardi di coloro in cui subodorava possibili futuri
competitori.
Ignoro il seguito della sua storia; ma ritengo assai
probabile che sia sfuggito alla morte, e viva oggi
la sua vita fredda di dominatore risoluto e senza gioia.
Elias Lindzin, 141565 piovve un giorno, inespli-
cabilmente, nel Kommando Chimico. Era un nano,
non piú alto di un metro e mezzo, ma non ho mai vi-
sto una muscolatura come la sua. Quando è nudo, sí
distingue ogni muscolo lavorare sotto la pelle, potente
e mobile come un animale a sé stante; ingrandito senza
alterarne le proporzioni, il suo corpo sarebbe un
buon modello per un Ercole: ma non bisogna guardare la testa.
Sotto il cuoio capelluto, le suture craniche sporgo-
no smisurate. Il cranio è massiccio, e dà l'impressione
di essere di metallo o di pietra; si vede il limite
nero dei capelli rasi appena un dito sopra le soprac-
ciglia. Il naso, il mento, la fronte, gli zigomi sono duri
e compatti, l'intero viso sembra una testa d'ariete,
uno strumento adatto a percuotere. Dalla sua persona
emana un senso di vigore bestiale.
Veder lavorare Elias è uno spettacolo sconcertante;
i Meister polacchi, i tedeschi stessi talvolta si soffer-
mano ad ammirare Elias all'opera. Pare che a lui nulla
sia impossibile. Mentre noi portiamo a stento un sacco
di cemento, Elias ne porta due, poi tre, poi quattro,
mantenendoli in equilibrio non si sa come, e mentre
cammina fitto fitto sulle gambe corte e tozze, fa smor-
fie di sotto il carico, ride, impreca, urla e canta senza
requie, come se avesse polmoni di bronzo. Elias,
nonostante le suole di legno, si arrampica come una scim-
mia su per le impalcature, e corre sicuro su travi so-
spese nel vuoto; porta sei mattoni per volta in bilico
sul capo; sa farsi un cucchiaio con un pezzo di lamiera,
e un coltello con un rottame di acciaio; trova ovunque
carta, legna e carbone asciutti e sa accendere in pochi
istanti un fuoco anche sotto la pioggia. Sa fare il sarto,
il falegname, il ciabattino, il barbiere; sputa a distanze
incredibili; canta, con voce di basso non sgradevole,
canzoni polacche e yiddisch mai prima sentite; può
ingerire sei, otto, dieci litri di zuppa senza vomitare e
senza avere diarrea, e riprendere il lavoro subito dopo.
Sa farsi uscire fra le spalle una grossa gobba, e va attorno
per la baracca sbilenco e contraffatto, strillando
e declamando incomprensibile, fra la gioia dei potenti
del campo. L'ho visto lottare con un polacco piú alto
di lui di tutto il capo, e atterrarlo con un colpo del
cranio nello stomaco, potente e preciso come una ca-
tapulta. Non l'ho mai visto riposare, non l'ho mai visto
zitto o fermo, non l'ho mai saputo ferito o ammalato.
Della sua vita di uomo libero, nessuno sa nulla; del
resto, rappresentarsi Elias in veste di uomo libero esi-
ge un profondo sforzo della fantasia e dell'induzione.
Non parla che polacco, e l'yiddisch torvo e deforme di
Varsavia; inoltre, è impossibile indurlo a un discorso
coerente. Potrebbe avere venti o quarant'anni; di so-
lito dice di averne trentatre, e di avere procreato di-
ciassette figli: il che non è inverosimile. Parla conti-
nuamente, degli argomenti piú disparati; sempre con
voce tonante, con accento oratorio, con una mimica
violenta da dissociato. Come se sempre si rivolgesse a
un folto pubblico: e, come è naturale, il pubblico non
gli manca mai. Quelli che capiscono il suo linguaggio
bevono le sue declamazioni torcendosi dalle risa, gli
battono le spalle dure entusiasti, lo stimolano a pro-
seguire; mentre lui, feroce e aggrondato, si rigira co-
me una belva entro la cerchia degli ascoltatori, apo-
strofando ora questo ora quello; a un tratto ghermisce
uno per il petto con la sua piccola zampa adunca, lo
attrae a sé irresistibile, gli vomita sul viso attonito
una incomprensibile invettiva, poi lo scaglia indietro
come un fuscello, e, fra gli applausi e le risa, le braccia
tese al cielo come un piccolo mostro profetante, pro-
segue nel suo dire furibondo e dissennato.
La sua fama di lavoratore d'eccezione si diffuse assai
presto, e, per l'assurda legge del Lager, da allora
smise praticamente di lavorare. La sua opera veniva
richiesta direttamente dai Meister, per quei lavori
soltanto ove occorressero perizia e vigore particolari.
A parte queste prestazioni, sovrintendeva insolente e
violento al nostro piatto faticare quotidiano, eclissan-
dosi di frequente per misteriose visite e avventure in
chissà quali recessi del cantiere, di dove ritornava con
grossi rigonfi nelle tasche e spesso con lo stomaco
visibilmente ripieno.
Elias è naturalmente e innocentemente ladro: ma-
nifesta in questo l'istintiva astuzia degli animali sel-
vaggi. Non viene mai colto sul fatto, perché non ruba
che quando si presenta un'occasione sicura: ma quan-
do questa si presenta, Elias ruba, fatalmente e preve-
dibilmente, cosí come cade una pietra abbandonata.
A parte il fatto che è difficile sorprenderlo, è chiaro
che a nulla servirebbe punirlo dei suoi furti: essi rap-
presentano per lui un atto vitale qualsiasi, come respi-
rare e dormire.
Ci si può ora domandare chi è questo uomo Elias.
Se è un pazzo, incomprensibile ed extraumano, finito
in Lager per caso. Se è un atavismo, eterogeneo dal
nostro mondo moderno, e meglio adatto alle primor-
diali condizioni di vita del campo. O se non è invece
un prodotto del campo, quello che tutti noi diverremo,
se in campo non morremo, e se il campo stesso non finirà prima.
C'è del vero nelle tre supposizioni. Elias è soprav-
vissuto alla distruzione dal di fuori, perché è fisica-
mente indistruttibile; ha resistito all'annientamento
dal di dentro, perché è demente. è dunque in primo
luogo un superstite: è il piú adatto, l'esemplare umano
piú idoneo a questo modo di vivere.
Se Elias riacquisterà la libertà, si troverà confinato
in margine del consorzio umano, in un carcere o in un
manicomio. Ma qui, in Lager, non vi sono criminali
né pazzi: non criminali, perché non v'è legge morale
a cui contravvenire, non pazzi, perché siamo deter-
minati, e ogni nostra azione è, a tempo e luogo, sen-
sibilmente l'unica possibile.
In Lager, Elias prospera e trionfa. è un buon lavo-
ratore e un buon organizzatore, e per tale duplice ra-
gione è al sicuro dalle selezioni e rispettato da capi e
compagni. Per chi non abbia salde risorse interne, per
chi non sappia trarre dalla coscienza di sé la forza ne-
cessaria per ancorarsi alla vita, la sola strada di sal-
vezza conduce a Elias: alla demenza e alla bestialità
subdola. Tutte le altre strade non hanno sbocco.
Ciò detto, qualcuno sarebbe forse tentato di trarre
conclusioni, e magari anche norme, per la nostra vita
quotidiana. Non esistono attorno a noi degli Elias, piú
o meno realizzati? Non vediamo noi vivere individui
ignari di scopo, e negati a ogni forma di autocontrollo
e di coscienza? ed essi non già vivono malgrado queste
loro lacune, ma precisamente, come Elias, in fun-
zione di esse.
La questione è grave, e non sarà ulteriormente svolta,
perché queste vogliono essere storie del Lager, e
sull'uomo fuori del Lager molto si è già scritto. Ma
una cosa ancora vorremmo aggiungere: Elias, per
quanto ci è possibile giudicare dal di fuori, e per quan-
to la frase può avere di significato, Elias era verosí-
milmente un individuo felice.
Henri è invece eminentemente civile e consapevole,
e sui modi di sopravvivere in Lager possiede una teoria
completa e organica. Non ha che ventidue anni;
è intelligentissimo, parla francese, tedesco, inglese e
russo, ha un'ottima cultura scientifica e classica.
Suo fratello è morto in Buna nell'ultimo inverno,
e da quel giorno Henri ha reciso ogni vincolo di affetti;
si è chiuso in sé come in una corazza, e lotta per
vivere senza distrarsi, con tutte le risorse che può
trarre dal suo intelletto pronto e dalla sua educazione
raffinata. Secondo la teoria di Henri, per sfuggire
all'annientamento, tre sono i metodi che l'uomo può
applicare rimanendo degno del nome di uomo: l'organizzazione,
la pietà e il furto.
Lui stesso li pratica tutti e tre. Nessuno è miglior
stratega di Henri nel circuire (« coltivare », dice lui)
i prigionieri di guerra inglesi. Essi diventano, nelle
sue mani, vere galline dalle uova d'oro: si pensi che,
dal baratto di una sola sigaretta inglese, in Lager si
ricava di che sfamarsi per un giorno. Henri è stato
visto una volta in atto di mangiare un autentico uovo sodo.
Il traffico della merce di provenienza inglese è
monopolio di Henri, e fin qui si tratta di organizzazione;
ma il suo strumento di penetrazione, presso gli inglesi
e gli altri, è la pietà. Henri ha il corpo e il viso deli-
cati e sottilmente perversi del San Sebastiano del Sodoma:
i suoi occhi sono neri e profondi, non ha an-
cora barba, si muove con languida naturale eleganza
(quantunque all'occorrenza sappia correre e saltare
come un gatto, e la capacità del suo stomaco sia appena
inferiore a quella di Elias). Di queste sue doti na-
turali Henri è perfettamente a conoscenza, e le met-
te a profitto con la fredda competenza di chi manovra
uno strumento scientifico: i risultati sono sorprendenti.
Si tratta in sostanza di una scoperta: Henri ha sco-
perto che la pietà, essendo un sentimento primario e
irriflesso, alligna assai bene, se abilmente instillata,
proprio negli animi primitivi dei bruti che ci coman-
dano, di quelli stessi che non hanno ritegno ad abbat-
terci a pugni senza perché, e a calpestarci una volta
a terra, e non gli è sfuggita la grande portata pratica
di questa scoperta, sulla quale egli ha inserito la sua
industria personale.
Come l'icneumone paralizza i grossi bruchi pelosi,
ferendoli nel loro unico ganglio vulnerabile, cosi Henri
valuta con un'occhiata il soggetto, « son type »; gli
parla brevemente, a ciascuno con il linguaggio appro-
priato, e il « type» è conquistato: ascolta con cre-
scente simpatia, si commuove sulla sorte del giovane
sventurato, e non occorre molto tempo perché incominci a rendere.
Non c'è anima cosí indurita su cui Henri non riesca
a far breccia, se ci si mette seriamente. In Lager, e
anche in Buna, i suoi protettori sono numerosissimi:
soldati inglesi, operai civili francesi, ucraini, polacchi;
« politici » tedeschi; almeno quattro Blockälteste, un
cuoco, perfino una SS. Ma il suo campo preferito è il
Ka-Be; in Ka-Be Henri ha ingresso libero, il dottor
Citron e il dottor Weiss sono, piú che suoi protettori,
suoi amici, e lo ricoverano quando vuole, e con la dia-
gnosi che vuole. Ciò avviene specialmente in vista
delle selezioni, e nei periodi di lavoro piú gravoso: a
«svernare», dice lui.
Disponendo di cosí cospicue amicizie, è naturale che
raramente Henri sia ridotto alla terza via, al furto;
d'altronde, si comprende che su questo argomento
non si confidi volentieri.
è molto gradevole discorrere con Henri, nei mo-
menti di riposo. è anche utile: non c'è cosa del cam-
po che egli non conosca, e su cui non abbia ragionato,
nella sua maniera serrata e coerente. Delle sue conqui-
ste, parla con educata modestia, come di prede di poco
conto, ma si dilunga volentieri a esporre il calcolo che
l'ha condotto ad avvicinare Hans chiedendogli del figlio
al fronte, e invece Otto mostrandogli le cicatrici
che ha sugli stinchi.
Parlare con Henri è utile e gradevole; accade anche,
qualche volta, di sentirlo caldo e vicino, pare possi-
bile una comunicazione, forse perfino un affetto; sembra
di percepire il fondo umano, dolente e consape-
vole della sua non comune personalità. Ma il momento
appresso il suo sorriso triste si raggela in una smorfia
fredda che pare studiata allo specchio; Henri doman-
da cortesemente scusa (« ... j'ai quelque chose à faire »,
« ... j'ai quelqu'un à voir »), ed eccolo di nuovo tutto
alla sua caccia e alla sua lotta: duro e lontano, chiu-
so nella sua corazza, nemico di tutti, inumanamente
scaltro e incomprensibile come il Serpente della Genesi.
Da tutti i colloqui con Henri, anche dai piú cordiali,
sono sempre uscito con un leggero sapore di sconfitta;
col sospetto confuso di essere stato anch'io, in qualche
modo inavvertito, non un uomo di fronte a lui, ma
uno strumento nelle sue mani.
Oggi so che Henri è vivo. Darei molto per conoscere
la sua vita di uomo libero, ma non desidero rivederlo.

Esame di chimica.
Il Kommando 98, detto Kommando Chimico, avreb-
be dovuto essere un reparto di specialisti.
Il giorno in cui fu dato l'annuncio ufficiale della sua
costituzione, uno sparuto gruppo di quindici Häftlinge
si radunò intorno al nuovo Kapo, in piazza dell'Appello,
nel grigiore dell'alba.
Fu la prima delusione: era ancora un «triangolo verde»,
un delinquente professionale, l'Arbeitsdienst
non aveva giudicato necessario che il Kapo del Kommando
Chimico fosse un chimico. Inutile sprecare il
fiato a fargli domande, non avrebbe risposto, o risposto
a urli e pedate. Peraltro rassicurava il suo aspetto
non troppo robusto e la statura inferiore alla media.
Fece un breve discorso in sguaiato tedesco da ca-
serma, e la delusione fu confermata. Quelli erano
dunque i chimici: bene, lui era Alex, e se loro pen-
savano di essere entrati in paradiso sbagliavano. In
primo luogo, fino al giorno dell'inizio della produ-
zione, il Kommando 98 non sarebbe stato che un co-
mune Kommando-trasporti addetto al magazzino del
Cloruro di Magnesio. Poi, se credevano, per essere
degli Intelligenten, degli intellettuali, di farsi gioco
di lui, Alex, un Reichsdeutscher, ebbene, Herrgottsacrament,
gli avrebbe fatto vedere lui, gli avrebbe... (e,
il pugno chiuso e l'indice teso, tagliava l'aria di tra-
verso nel gesto di minaccia dei tedeschi); e finalmente,
non dovevano pensare di ingannare nessuno, se qual-
cuno si era presentato come chimico senza esserlo; un
esame, sissignori, in uno dei prossimi giorni; un esame
di chimica, davanti al triumvirato del Reparto Polimerizzazione:
il Doktor Hagen, il Doktor Probst, il Doktor Ingenieur Pannwitz.
Col che, meine Herren, si era già perso abbastanza
tempo, i Kommandos 96 e 97 si erano già avviati,
avanti marsch, e, per cominciare, chi non avesse cam-
minato al passo e allineato avrebbe avuto a che fare
con lui.
Era un Kapo come tutti gli altri Kapos.
Uscendo dal Lager, davanti alla banda musicale e al
posto di conta delle SS, si marcia per cinque, col ber-
retto in mano, le braccia immobili lungo i fianchi e il
collo rigido, e non si deve parlare. Poi ci si mette per
tre, e allora si può tentare di scambiare qualche pa-
rola attraverso l'acciottolio delle diecimila paia di
zoccoli di legno.
Chi sono questi miei compagni chimici? Vicino a me
cammina Alberto, è studente del terzo anno, anche
questa volta siamo riusciti a non separarci. Il terzo alla
mia sinistra non l'ho mai visto, sembra molto giovane,
è pallido come la cera, ha il numero degli olandesi. Anche
le tre schiene davanti a me sono nuove. Indietro è
pericoloso voltarsi, potrei perdere il passo o inciam-
pare; pure provo per un attimo, ho visto la faccia di
Iss Clausner.
Finché si cammina non c'è tempo di pensare, biso-
gna badare di non togliere gli zoccoli a quello che
zoppica davanti e di non farseli togliere da quello
che zoppica dietro; ogni tanto c'è un cavo da scaval-
care, una pozzanghera viscida da evitare. So dove siamo,
di qui sono già passato col mio Kommando precedente,
è la H-Strasse, la strada dei magazzini. Lo dico
ad Alberto: si va veramente al Cloruro di Magnesio,
almeno questa non è stata una storia.
Siamo arrivati, scendiamo in un vasto interrato umi-
do e pieno di correnti d'aria; è questa la sede del Kommando,
quella che qui si chiama Bude. Il Kapo ci divide in
tre squadre; quattro a scaricare i sacchi dal
vagone, sette a trasportarli giú, quattro a impilarli nel
magazzino. Questi siamo io con Alberto, Iss e l'olandese.
Finalmente si può parlare, e a ciascuno di noi quello
che Alex ha detto sembra il sogno di un pazzo.
Con queste nostre facce vuote, con questi crani tosati,
con questi abiti di vergogna, fare un esame di
chimica. E sarà in tedesco, evidentemente; e dovremo
comparire davanti a un qualche biondo Ario Doktor
sperando che non dovremo soffiarci il naso, perché
forse lui non saprà che noi non possediamo fazzolet-
to, e non si potrà certo spiegarglielo. E avremo ad-
dosso la nostra vecchia compagna fame, e stenteremo
a stare immobili sulle ginocchia, e lui sentirà certa-
mente questo nostro odore, a cui ora siamo avvezzi,
ma che ci perseguitava i primi giorni: l'odore delle rape
e dei cavoli crudi cotti e digeriti.
Cosí è, conferma Clausner. Hanno dunque i tedeschi
tanto bisogno di chimici? O è un nuovo trucco,
una nuova macchina « pour faire chier les Juifs? » Si
rendono conto della prova grottesca e assurda che ci
viene richiesta, a noi non piú vivi, noi già per metà de-
menti nella squallida attesa del niente?
Clausner mi mostra il fondo della sua gamella. Là
dove gli altri incidono il loro numero, e Alberto ed io
abbiamo inciso il nostro nome, Clausner ha scritto:
« Ne pas chercher à comprendre ».
Benché noi ci pensiamo non piú di qualche minuto
al giorno, e anche allora in uno strano modo staccato
ed esterno, noi sappiamo bene che finiremo in selezione.
Io so che non sono della stoffa di quelli che resisto-
no, sono troppo civile, penso ancora troppo, mi consu-
mo al lavoro. Ed ora so anche che mi salverò se diventerò
Specialista, e diventerò Specialista se supererò un
esame di chimica.
Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo
e scrivo, io stesso non sono convinto che queste
cose sono realmente accadute.
Passarono tre giorni, tre dei soliti immemorabili
giorni, cosí lunghi mentre passavano e cosi brevi dopo
che erano passati, e già tutti si erano stancati di credere
all'esame di chimica.
Il Kommando era ridotto a dodici uomini: tre erano
scomparsi nel modo consueto di laggiú, forse nella
baracca accanto, forse cancellati dal mondo. Dei dodici,
cinque non erano chimici; tutti e cinque avevano
subito chiesto ad Alex di ritornare ai loro precedenti
Kommandos. Non evitarono le percosse, ma inaspet-
tatamente, e da chissà quale autorità, fu deciso che
rimanessero, aggregati come ausiliari al Kommando Chimico.
Venne Alex nella cantina del Clormagnesio e chiamò
fuori noi sette, per andare a sostenere l'esame.
Ecco noi, come sette goffi pulcini dietro la chioccia,
seguire Alex su per la scaletta del Polymerisations-Büro.
Siamo sul pianerottolo, una targhetta sulla porta con
i tre nomi famosi. Alex bussa rispettosamente, si cava
il berretto, entra; si sente una voce pacata; Alex rie-.
sce: - Ruhe, jetzt. Warten -. Aspettare in silenzio.
Di questo siamo contenti. Quando si aspetta, il tem-
po cammina liscio senza che si debba intervenire per
cacciarlo avanti, mentre invece quando si lavora ogni
minuto ci percorre faticosamente e deve venire labo-
riosamente espulso. Noi siamo sempre contenti di
aspettare, siamo capaci di aspettare per ore con la com-
pleta ottusa inerzia dei ragni nelle vecchie tele.
Alex è nervoso, passeggia su e giú, e noi ogni volta
ci scostiamo al suo passaggio. Anche noi, ciascuno a
suo modo, siamo inquieti; solo Mendi non lo è. Mendi
è rabbino; è della Russia Subcarpatica, di quel gro-
viglio di popoli in cui ciascuno parla almeno tre lingue,
e Mendi ne parla sette. Sa moltissime cose, oltre
che rabbino è sionista militante, glottologo, è stato
partigiano ed è dottore in legge; non è chimico ma vuol
tentare ugualmente, è un piccolo uomo tenace, coraggioso e acuto.
Bálla ha una matita e tutti gli stanno addosso. Non
siamo sicuri se saremo ancora capaci di scrivere, vorremmo provare.
Kohlenwasserstoffe, Massenwirkungsgesetz. Mi af-
fiorano i nomi tedeschi dei composti e delle leggi:
provo gratitudine verso il mio cervello, non mi sono
piú occupato molto di lui eppure mi serve ancora cosí bene.
Ecco Alex. Io sono un chimico: che ho a che fare
con questo Alex? Si pianta sui piedi davanti a me,
mi riassetta ruvidamente il colletto della giacca, mi
cava il berretto e me lo ricalca in capo, poi fa un
passo indietro, squadra il risultato con aria disgustata
e volta le spalle bofonchiando: - Was für ein Muselmann Zugang! - che
nuovo acquisto scalcinato!
La porta si è aperta. I tre dottori hanno deciso che
sei candidati passeranno in mattinata. Il settimo no.
Il settimo sono io, ho il numero di matricola piú elevato,
mi tocca ritornare al lavoro. Solo nel pomeriggio
viene Alex a prelevarmi; che disdetta, non potrò neppure
comunicare cogli altri per sapere «che domande fanno».
Questa volta ci siamo proprio. Per le scale, Alex mi
guarda torvo, si sente in qualche modo responsabile
del mio aspetto miserevole. Mi vuol male perché sono
italiano, perché sono ebreo e perché, fra tutti, sono
quello che piú si scosta dal suo caporalesco ideale virile.
Per analogia, pur senza capirne nulla, e di questa
sua incompetenza essendo fiero, ostenta una profonda
sfiducia nelle mie probabilità per l'esame.
Siamo entrati. C'è solo il Doktor Pannwitz, Alex,
col berretto in mano, gli parla a mezza voce: - ... un
italiano, in Lager da tre mesi soltanto, già mezzo kaputt...
...Er sagt er ist Chemiker... - ma lui Alex sembra su
questo faccia le sue riserve.
Alex viene brevemente congedato e relegato da
parte, ed io mi sento come Edipo davanti alla Sfinge.
Le mie idee sono chiare, e mi rendo conto anche in
questo momento che la posta in gioco è grossa; eppure
provo un folle impulso a scomparire, a sottrarmi alla prova.
Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i ca-
pelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli, e
siede formidabilmente dietro una complicata scrivania.
Io, Häftling 174 517, sto in piedi nel suo studio
che è un vero studio, lucido pulito e ordinato, e mi
pare che lascerei una macchia sporca dovunque dovessi toccare.
Quando ebbe finito di scrivere, alzò gli occhi e mi guardò.
Da quel giorno, io ho pensato al Doktor Pannwitz
molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale
fosse il suo intimo funzionamento di uomo; come
riempisse il suo tempo, all'infuori della Polimerizzazione
e della coscienza indogermanica; soprattutto,
quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho de-
siderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta,
ma solo per una mia curiosita dell'anima umana.
Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e
se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo,
scambiato come attraverso la parete di vetro di
un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi,
avrei anche spiegato l'essenza della grande follia della
terza Germania.
Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e di-
cevamo si percepí in quel momento in modo imme-
diato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi
azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo
qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è
ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso partico-
lare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche
elemento utilizzabile». E nel mio capo, come semi
in una zucca vuota: « Gli occhi azzurri e i capelli
biondi sono essenzialmente malvagi. Nessuna comu-
nicazione possibile. Sono specializzato in chimica mineraria.
Sono specializzato in sintesi organiche. Sono
specializzato... »
Ed incominciò l'interrogatorio, mentre nel suo angolo
sbadigliava e digrignava Alex, terzo esemplare zoologico.
- Wo sind Sie geboren? - mi dà del Sie, del lei: il
Doktor Ingenieur Pannwitz non ha il senso dell'umo-
rismo. Che sia maledetto, non fa il minimo sforzo per
parlare un tedesco un po' comprensibile.
- Mi sono laureato a Torino nel 1941, summa cum
laude, - e, mentre lo dico, ho la precisa sensazione di
non esser creduto, a dire il vero non ci credo io stesso,
basta guardare le mie mani sporche e piagate, i
pantaloni da forzato incrostati di fango. Eppure sono
proprio io, il laureato di Torino, anzi, particolarmente
in questo momento è impossibile dubitare della
mia identità con lui, infatti il serbatoio dei ricordi di
chimica organica, pur dopo la lunga inerzia, risponde
alla richiesta con inaspettata docilità; e ancora, questa
ebrietà lucida, questa esaltazione che mi sento
calda per le vene, come la riconosco, è la febbre degli
esami, la mia febbre dei miei esami, quella spontanea
mobilitazione di tutte le facoltà logiche e di tutte le
nozioni che i miei compagni di scuola tanto mi invidiavano.
L'esame sta andando bene. A mano a mano che me
ne rendo conto, mi pare di crescere di statura. Ora
mi chiede su quale argomento ho fatto la tesi di laurea.
Devo fare uno sforzo violento per suscitare queste
sequenze di ricordi cosi profondamente lontane:
è come se cercassi di ricordare gli avvenimenti di una
incarnazione anteriore.
Qualcosa mi protegge. Le mie povere vecchie Misure di
costanti dielettriche interessano particolarmente
questo ariano biondo dalla esistenza sicura: mi
chiede se so l'inglese, mi mostra il testo del Gattermann,
e anche questo è assurdo e inverosimile, che
quaggiú, dall'altra parte del filo spinato, esista un
Gattermann in tutto identico a quello su cui studiavo
in Italia, in quarto anno, a casa mia.
Adesso è finito: l'eccitazione che mi ha sostenuto
lungo tutta la prova cede d'un tratto ed io contemplo
istupidito e atono la mano di pelle bionda che, in segni
incomprensibili, scrive il mio destino sulla pagina bianca.
- Los, ab! - Alex rientra in scena, io sono di nuovo
sotto la sua giurisdizione. Saluta Pannwitz sbattendo
i tacchi, e ne ottiene in cambio un lievissimo
cenno delle palpebre. Io brancolo per un attimo nella
ricerca di una formula di congedo appropriata: invano,
in tedesco so dire mangiare, lavorare, rubare, mo-
rire; so anche dire acido solforico, pressione atmosfe-
rica e generatore di onde corte, ma non so proprio come
si può salutare una persona di riguardo.
Eccoci di nuovo per le scale. Alex vola gli scalini:
ha le scarpe di cuoio perché non è ebreo, è leggero sui
piedi come i diavoli di Malebolge. Si volge dal basso
a guardarmi torvo, mentre io discendo impacciato e
rumoroso nei miei zoccoli spaiati ed enormi, aggrap-
pandomi alla ringhiera come un vecchio.
Pare che sia andata bene, ma sarebbe insensato farci
conto. Conosco già abbastanza il Lager per sapere
che non si devono mai fare previsioni, specie se otti-
mistiche. Quello che è certo, è che ho passato una
giornata senza lavorare, e quindi stanotte avrò un po'
meno fame, e questo è un vantaggio concreto e acquisito.
Per rientrare alla Bude, bisogna attraversare uno
spiazzo ingombro di travi e di tralicci metallici acca-
tastati. Il cavo d'acciaio di un argano taglia la strada,
Alex lo afferra per scavalcarlo, Donnerwetter, ecco si
guarda la mano nera di grasso viscido. Frattanto io
l'ho raggiunto: senza odio e senza scherno, Alex stro-
fina la mano sulla mia spalla, il palmo e il dorso, per
nettarla, e sarebbe assai stupito, l'innocente bruto
Alex, se qualcuno gli dicesse che alla stregua di questo
suo atto io oggi lo giudico, lui e Pannwitz e gli
innumerevoli che furono come lui, grandi e piccoli, in
Auschwitz e ovunque.

Il canto di Ulisse.
Eravamo sei a raschiare e pulire l'interno di una ci-
sterna interrata; la luce del giorno ci giungeva soltan-
to attraverso il piccolo portello d'ingresso. Era un la-
voro di lusso, perché nessuno ci controllava; però fa-
ceva freddo e umido. La polvere di ruggine ci bruciava
sotto le palpebre e ci impastava la gola e la bocca con
un sapore quasi di sangue.
Oscillò la scaletta di corda che pendeva dal portello:
qualcuno veniva. Deutsch spense la sigaretta, Goldner
svegliò Sivadjan; tutti ci rimettemmo a raschiare vigo-
rosamente la parete sonora di lamiera.
Non era il Vorarbeiter, era solo Jean, il Pikolo del
nostro Kommando. Jean era uno studente alsaziano;
benché avesse già ventiquattr'anni, era il piú giovane
Häftling del Kommando Chimico. Era perciò toccata
a lui la carica di Pikolo, vale a dire di fattorino-scrit-
turale, addetto alla pulizia della baracca, alle consegne
degli attrezzi, alla lavatura delle gamelle, alla contabi-
lità delle ore di lavoro del Kommando.
Jean parlava correntemente francese e tedesco: appena
si riconobbero le sue scarpe sul gradino piú alto
della scaletta, tutti smisero di raschiare:
- Also, Pikolo, was gibt es Neues?
- Qu'est-ce qu'il y a comme soupe aujourd'hui?
...di che umore era il Kapo? E la faccenda delle
venticinque frustate a Stern? Che tempo faceva fuori?
Aveva letto il giornale? Che odore c'era alla cucina
civile? Che ora era?
Jean era molto benvoluto al Kommando. Bisogna
sapere che la carica di Pikolo costituisce un gradino
già assai elevato nella gerarchia delle Prominenze: il
Pikolo (che di solito non ha piú di diciassette anni)
non lavora manualmente, ha mano libera sui fondi
della marmitta del rancio e può stare tutto il giorno
vicino alla stufa: «perciò » ha diritto a mezza razione
supplementare, ed ha buone probabilità di divenire
amico e confidente del Kapo, dal quale riceve ufficial-
mente gli abiti e le scarpe smesse. Ora, Jean era un
Pikolo eccezionale. Era scaltro e fisicamente robusto,
e insieme mite e amichevole: pur conducendo con
tenacia e coraggio la sua segreta lotta individuale contro
il campo e contro la morte, non trascurava di mante-
nere rapporti umani coi compagni meno privilegiati;
d'altra parte, era stato tanto abile e perseverante da
affermarsi nella fiducia di Alex, il Kapo.
Alex aveva mantenuto tutte le sue promesse. Si era
dimostrato un bestione violento e infido, corazzato di
solida e compatta ignoranza e stupidità, eccezion fatta
per il suo fiuto e la sua tecnica di aguzzino esperto e
consumato. Non perdeva occasione di proclamarsi fiero
del suo sangue puro e del suo triangolo verde, e
ostentava un altero disprezzo per i suoi chimici cen-
ciosi e affamati: - Ihr Doktoren! Ihr Intelligenten! -
sghignazzava ogni giorno vedendoli accalcarsi colle
gamelle tese alla distribuzione del rancio. Nei riguardi
dei Meister civili era estremamente arrendevole e
servile, e con le SS manteneva vincoli di cordiale amicizia.
Era palesemente intimidito dal registro di Kommando
e dal rapportino quotidiano delle prestazioni,
e questa era stata la via che Pikolo aveva scelta per
renderglisi necessario. Era stata un'opera lenta cauta
e sottile, che l'intero Kommando aveva seguita per un
mese a fiato sospeso; ma alla fine la difesa dell'istrice
fu penetrata, e Pikolo confermato nella carica, con
soddisfazione di tutti gli interessati.
Per quanto Jean non abusasse della sua posizione,
già avevamo potuto constatare che una sua parola,
detta nel tono giusto e al momento giusto, aveva grande
potere; già piú volte era valsa a salvare qualcuno
di noi dalla frusta o dalla denunzia alle SS. Da una set-
timana eravamo amici: ci eravamo scoperti nella ecce-
zionale occasione di un allarme aereo, ma poi, presi dal
ritmo feroce del Lager, non avevamo potuto che salu-
tarci di sfuggita, alle latrine, al lavatoio.
Appeso con una mano alla scala oscillante, mi indicò:
- Aujourd'hui c'est Primo qui viendra avec moi
chercher la soupe.
Fino al giorno prima era stato Stern, il transilvano
strabico; ora questi era caduto in disgrazia per non
so che storia di scope rubate in magazzino, e Pikolo
era riuscito ad appoggiare la mia candidatura come
aiuto nell'« Essenholen », nella corvée quotidiana del rancio.
Si arrampicò fuori, ed io lo seguii, sbattendo le ci-
glia nello splendore del giorno. Faceva tiepido fuori,
il sole sollevava dalla terra grassa un leggero odore di
vernice e di catrame che mi ricordava una qualche
spiaggia estiva della mia infanzia. Pikolo mi diede una
delle due stanghe, e ci incamminammo sotto un chiaro
cielo di giugno.
Cominciavo a ringraziarlo, ma mi interruppe, non
occorreva. Si vedevano i Carpazi coperti di neve. Re-
spirai l'aria fresca, mi sentivo insolitamente leggero.
- Tu es fou de marcher si vite. On a le temps, tu sais -.
Il rancio si ritirava a un chilometro di distanza;
bisognava poi ritornare con la marmitta di cinquanta
chili infilata nelle stanghe. Era un lavoro abbastanza
faticoso, però comportava una gradevole marcia di an-
data senza carico, e l'occasione sempre desiderabile di
avvicinarsi alle cucine.
Rallentammo il passo. Pikolo era esperto, aveva
scelto accortamente la via in modo che avremmo fatto
un lungo giro, camminando almeno un'ora, senza de-
stare sospetti. Parlavamo delle nostre case, di Strasburgo
e di Torino, delle nostre letture, dei nostri studi.
Delle nostre madri: come si somigliano tutte le madri!
Anche sua madre lo rimproverava di non saper
mai quanto denaro aveva in tasca; anche sua madre si
sarebbe stupita se avesse potuto sapere che se l'era
cavata, che giorno per giorno se la cavava.
Passò una SS in bicicletta. è Rudi, il Blockführer.
Alt, sull'attenti, togliersi il berretto. - Sale brute,
celui-là. Ein ganz gemeiner Hund -. Per lui è indifferente
parlare francese o tedesco? è indifferente, può
pensare in entrambe le lingue. è stato in Liguria un
mese, gli piace l'Italia, vorrebbe imparare l'italiano.
Io sarei contento di insegnargli l'italiano: non possiamo
farlo? Possiamo. Anche subito, una cosa vale l'altra,
l'importante è di non perdere tempo, di non sprecare quest'ora.
Passa Limentani, il romano, strascicando i piedi,
con una gamella nascosta sotto la giacca. Pikolo sta attento,
coglie qualche parola del nostro dialogo e la ripete
ridendo: - Zup-pa, cam-po, ac-qua.
Passa Frenkel, la spia. Accelerare il passo, non si sa
mai, quello fa il male per il male.
...Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è ve-
nuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere,
quest'ora già non è piú un'ora. Se Jean è intelligente
capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.
...Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sen-
sazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spie-
gare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è
distribuito l'Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è
la Ragione, Beatrice è la Teologia.
Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse: Quando...
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante
e povero francese! Tuttavia l'esperienza
pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine
della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato
per rendere « antica ».
E dopo « Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria.
« Prima che sí Enea la nominasse ». Altro buco.
Viene a galla qualche frammento non utilizzabile:
«...la piéta Del vecchio padre, né '1 debito amore Che
doveva Penelope far lieta... » sarà poi esatto?
Ma misi me per l'alto mare aperto.
Di questo sí, di questo sono sicuro, sono in grado
di spiegare a Pikolo, di distinguere perché « misi me»
non è «je me mis », è molto piú forte e piú audace,
è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di
una barriera, noi conosciamo bene questo impulso.
L'alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa
cosa vuol dire, è quando l'orizzonte si chiude su se
stesso, libero diritto e semplice, e non c'è ormai che
odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kom-
mando dei posacavi. Ci dev'essere l'ingegner Levi.
Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi
fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non
l'ho mai visto giú di morale, non parla mai di mangiare.
«Mare aperto ». «Mare aperto ». So che rima con
« diserto»: «...quella compagna Picciola, dalla qual
non fui diserto », ma non rammento piú se viene prima
o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio
al di là delle colonne d'Ercole, che tristezza, sono
costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho
salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
...Acciò che l'uom piú oltre non si metta.
«Si metta »: dovevo venire in Lager per accorgermi
che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma
non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una
osservazione importante. Quante altre cose ci sareb-
bero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino.
Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho
bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch'io lo sentissi per la prima volta: come
uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un
momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo,
si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qual-
cosa di piú: forse, nonostante la traduzione scialba e
il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il mes-
saggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli
uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi
due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe
della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec'io sí acuti...
e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose
vuoi dire questo «acuti ». Qui ancora una lacuna,
questa volta irreparabile. « ... Lo lume era di sotto
della luna » o qualcosa di simile; ma prima?... Nes-
suna idea, « keine Ahnung» come si dice qui. Che
Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
- Ca ne fait rien, vas-y tout de même.
Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sí, sí, « alta tanto », non « molto alta », proposizione
consecutiva. E le montagne, quando si vedono di
lontano... le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di' qual-
cosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne,
che comparivano nel bruno della sera quando tornavo
in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si
pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Darei la zuppa di oggi per saper saldare « non ne
avevo alcuna » col finale. Mi sforzo di ricostruire per
mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita:
ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo
altri versi: «...la terra lagrimosa diede vento...»
no, è un'altra cosa. è tardi, è tardi, siamo arrivati alla
cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe' girar con tutte l'acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giú, come altrui piacque...
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente
che ascolti, che comprenda questo «come altrui
piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io
possiamo essere morti, o non vederci mai piú, devo
dirgli, spiegargli del Medioevo, del cosí umano e
necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora,
qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora
soltanto, nell'intuizione di un attimo, forse il perché
del nostro destino, del nostro essere oggi qui...
Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla
folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri
Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle.
- Kraut und Rüben? - Kraut und Rüben -. Si annunzia
ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape:
- Choux et navets. - Kaposzta és répak.
Infin che 'l mar fu sopra noi rinchiuso.

I fatti dell'estate.
Durante tutta la primavera erano arrivati trasporti
dall'Ungheria; un prigioniero ogni due era ungherese,
l'ungherese era diventato, dopo l'yiddisch, la seconda
lingua del campo.
Nel mese di agosto 1944, noi, entrati cinque mesi
prima, contavamo ormai fra gli anziani. Come tali,
noi del Kommando 98 non ci eravamo stupiti che le
promesse fatteci e l'esame di chimica superato non
avessero portato a conseguenze: né stupiti, né rattri-
stati oltre misura: in fondo, avevamo tutti un certo
timore dei cambiamenti: « Quando si cambia, si cambia
in peggio», diceva uno dei proverbi del campo.
Piú in generale, l'esperienza ci aveva già dimostrato
infinite volte la vanità di ogni previsione: a che scopo
travagliarsi per prevedere l'avvenire, quando nessun
nostro atto, nessuna nostra parola lo avrebbe potuto
minimamente influenzare? Eravamo dei vecchi Häftlinge:
la nostra saggezza era il « non cercar di capire »,
non rappresentarsi il futuro, non tormentarsi sul come
e sul quando tutto sarebbe finito: non porre e non porsi domande.
Conservavamo i ricordi della nostra vita anteriore,
ma velati e lontani, e perciò profondamente dolci e
tristi, come sono per ognuno i ricordi della prima in-
fanzia e di tutte le cose finite; mentre per ognuno il
momento dell'ingresso al campo stava all'origine di
una diversa sequenza di ricordi, vicini e duri questi,
continuamente confermati dalla esperienza presente,
come ferite ogni giorno riaperte.
Le notizie, apprese in cantiere, dello sbarco alleato
in Normandia, dell'offensiva russa e del fallito atten-
tato a Hitler, avevano sollevato ondate di speranza
violente ma effimere. Ognuno sentiva, giorno per giorno,
le forze fuggire, la volontà di vivere sciogliersi,
la mente ottenebrarsi; e la Normandia e la Russia era-
no cosí lontane, e l'inverno cosí vicino; cosí concrete
la fame e la desolazione, e cosí irreale tutto il resto, che
non pareva possibile che veramente esistesse un mondo
e un tempo, se non il nostro mondo di fango, e il
nostro tempo sterile e stagnante a cui eravamo oramai
incapaci di immaginare una fine.
Per gli uomini vivi le unità del tempo hanno sem-
pre un valore, il quale è tanto maggiore, quanto piú
elevate sono íe risorse interne di chi le percorre; ma
per noi, ore, giorni e mesi si riversavano torpidi dal
futuro nel passato, sempre troppo lenti, materia vile
e superflua di cui cercavamo di disfarci al piú presto.
Conchiuso il tempo in cui i giorni si inseguivano vivaci,
preziosi e irreparabili, il futuro ci stava davanti
grigio e inarticolato, come una barriera invincibile.
Per noi, la storia si era fermata.
Ma nell'agosto '44 incominciarono i bombardamenti
sull'Alta Slesia, e si prolungarono, con pause e riprese
irregolari, per tutta l'estate e l'autunno fino alla crisi
definitiva.
Il mostruoso concorde travaglio di gestazione della
Buna si arrestò bruscamente, e subito degenerò in una
attività slegata, frenetica e parossistica. Il giorno in
cui la produzione della gomma sintetica avrebbe dovuto
incominciare, che nell'agosto pareva imminente,
fu via via rimandato, e i tedeschi finirono col non parlarne piú.
Il lavoro costruttivo cessò; la potenza dello stermi-
nato gregge di schiavi fu rivolta altrove, e si fece di
giorno in giorno piú riottosa e passivamente nemica.
A ogni incursione, c'erano sempre nuovi guasti da ri-
parare; smontare e smobilitare il delicato macchinario
da pochi giorni messo faticosamente in opera; erige-
re frettolosamente rifugi e protezioni che alla prossi-
ma prova si rivelavano ironicamente inconsistenti e vani.
Noi avevamo creduto che ogni cosa sarebbe stata
preferibile alla monotonia delle giornate uguali e
accanitamente lunghe, allo squallore sistematico e ordi-
nato della Buna in opera; ma abbiamo dovuto mutare
pensiero quando la Buna ha cominciato a cadere a
pezzi intorno a noi, come colpita da una maledizione
in cui noi stessi ci sentivamo coinvolti. Abbiamo
dovuto sudare fra la polvere e le macerie roventi, e tre-
mare come bestie, schiacciati a terra sotto la rabbia
degli aerei; tornavamo la sera in campo, rotti di fatica
e asciugati dalla sete, nelle sere lunghissime e ventose
dell'estate polacca, e trovavamo il campo sconvolto,
niente acqua per bere e lavarsi, niente zuppa per le
vene vuote, niente luce per difendere il pezzo di pane
l'uno dalla fame dell'altro, e per ritrovare, al mattino,
le scarpe e gli abiti nella bolgia buia e urlante del Block.
Nella Buna imperversavano i civili tedeschi, nel furore
dell'uomo sicuro che si desta da un lungo sogno
di dominio, e vede la sua rovina e non la sa compren-
dere. Anche i Reichsdeutsche del Lager, politici compresi,
nell'ora del pericolo risentirono il legame del
sangue e del suolo. Il fatto nuovo riportò l'intrico
degli odii e delle incomprensioni ai suoi termini elemen-
tari, e ridivise i due campi: i politici, insieme con i
triangoli verdi e le SS vedevano, o credevano di ve-
dere, in ognuno dei nostri visi, lo scherno della rivin-
cita e la trista gioia della vendetta. Essi trovarono con-
cordia in questo, e la loro ferocia raddoppiò.
Nessun tedesco poteva ormai dimenticare che noi
eravamo dall'altra parte: dalla parte dei terribili semi-
natori che solcavano il cielo tedesco da padroni, al di
sopra di ogni sbarramento, e torcevano il ferro vivo
delle loro opere, portando ogni giorno la strage fin
dentro alle loro case, nelle case mai prima violate del
popolo tedesco.
Quanto a noi, eravamo troppo distrutti per temere
veramente. I pochi che ancora sapessero rettamente
giudicare e sentire, trassero dai bombardamenti nuo-
va forza e speranza; coloro che la fame non aveva an-
cora ridotto all'inerzia definitiva, profittarono spesso
dei momenti di panico generale per intraprendere
spedizioni doppiamente temerarie (poiché, oltre al rischio
diretto delle incursioni, il furto consumato in
condizioni di emergenza era punito con l'impiccagione)
alla cucina di fabbrica e ai magazzini. Ma la maggior
parte sopportò il nuovo pericolo e il nuovo di-
sagio con immutata indifferenza: non era rassegna-
zione cosciente, ma il torpore opaco delle bestie do-
mate con le percosse, a cui non dolgono piú le percosse.
A noi l'accesso ai rifugi corazzati era vietato. Quando
la terra cominciava a tremare, ci trascinavamo, storditi
e zoppicanti, attraverso i fumi corrosivi dei nebbiogeni,
fino alle vaste aree incolte, sordide e sterili,
racchiuse nel recinto della Buna; là giacevamo inerti,
ammonticchiati gli uni sugli altri come morti, sensi-
bili tuttavia alla momentanea dolcezza delle membra
in riposo. Guardavamo con occhi atoni le colonne di
fumo e di fuoco prorompere intorno a noi: nei mo-
menti di tregua, pieni del lieve ronzio minaccioso che
ogni europeo conosce, sceglievamo dal suolo cento volte
calpestato le cicorie e le camomille stente, e le masti-
cavamo a lungo in silenzio.
Ad allarme finito, ritornavamo da ogni parte ai no-
stri posti, gregge muto innumerevole, assueto all'ira
degli uomini e delle cose; e riprendevamo quel nostro
lavoro di sempre, odiato come sempre, e inoltre ormai
palesemente inutile e insensato.
In questo mondo scosso ogni giorno piú profonda-
mente dai fremiti della fine vicina, fra nuovi terrori e
speranze e intervalli di schiavitú esacerbata, mi accadde
di incontrare Lorenzo.
La storia della mia relazione con Lorenzo è insieme
lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia
di un tempo e di una condizione ormai cancellati da
ogni realtà presente, e perciò non credo che potrà essere
compresa altrimenti di come si comprendono oggi
i fatti della leggenda e della storia piú remota.
In termini concreti, essa si riduce a poca cosa: un
operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli
avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò
una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in
Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per
tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso,
perché era buono e semplice, e non pensava che si
dovesse fare il bene per un compenso.
Tutto questo non deve sembrare poco. Il mio caso
non è stato il solo; come già si è detto, altri fra noi
avevano rapporti di vario genere con civili, e ne traevano
di che sopravvivere: ma erano rapporti di diversa natura.
I nostri compagni ne parlavano con lo stesso
tono ambiguo e pieno di sottintesi con cui gli
uomini di mondo parlano delle loro relazioni femminili:
e cioè come di avventure di cui si può a buon
diritto andare orgogliosi e di cui si desidera essere
invidiati, le quali però, anche per le coscienze piú pa-
gane, rimangono pur sempre al margine del lecito e
dell'onesto; per cui sarebbe scorretto e sconveniente
parlarne con troppa compiacenza. Cosi gli Häftlinge
raccontano dei loro «protettori » e « amici » civili:
con ostentata discrezione, senza far nomi, per non
comprometterli e anche e soprattutto per non crearsi
indesiderabili rivali. I piú consumati, i seduttori di
professione come Henri, non ne parlano affatto; essi
circondano i loro successi di un'aura di equivoco mi-
stero, e si limitano agli accenni e alle allusioni, calco-
late in modo da suscitare negli ascoltatori la leggenda
confusa e inquietante che essi godano delle buone gra-
zie di civili illimitatamente potenti e generosi. Questo
in vista di un preciso scopo: la fama di fortuna,
come altrove abbiamo detto, si dimostra di fondamentale
utilità a chi sa circondarsene.
La fama di seduttore, di « organizzato », suscita in-
sieme invidia, scherno, disprezzo e ammirazione. Chi
si lascia vedere in atto di mangiare roba « organizzata »
viene giudicato assai severamente; è questa una
grave mancanza di pudore e di tatto, oltre che una
evidente stoltezza. Altrettanto stolto e impertinente
sarebbe domandare «chi te l'ha dato? dove l'hai trovato?
come hai fatto? » Solo i Grossi Numeri, sciocchi
inutili e indifesi, che nulla sanno delle regole del Lager,
fanno di queste domande; a queste domande non
si risponde, o si risponde «Verschwinde, Mensch! »,
«Hau' ab », « Uciekaj », «Schiess' in den Wind »,
«Va chier »; con uno insomma dei moltissimi equivalenti
di «Lévati di torno » di cui è ricco il gergo del campo.
C'è anche chi si specializza in complesse e pazienti
campagne di spionaggio, per individuare qual è il ci-
vile o il gruppo di civili a cui il tale fa capo, e cerca
poi in vari modi di soppiantarlo. Ne nascono inter-
minabili controversie di priorità, rese piú amare per
il perdente dal fatto che un civile già «sgrossato » e
quasi sempre piú redditizio, e soprattutto piú sicuro,
di un civile al suo primo contatto con noi. è un civile
che vale molto di piú, per evidenti ragioni sentimen-
tali e tecniche: conosce già i fondamenti dell'« orga-
nizzazione», le sue regole e i suoi pericoli, e inoltre
ha dimostrato di essere in grado di superare la barriera di casta.
Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili,
piú o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature
che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pen-
sano che, per essere stati condannati a questa nostra
vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi
dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa
gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse,
che essi non comprendono, e che suonano loro
grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente
asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni
giorno percossi, ogni giorno piú abietti, e mai leggono
nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di
fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e
affamati, e, confondendo l'effetto con la causa, ci giu-
dicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe
distinguere i nostri visi? per loro noi siamo « Kazett »,
neutro singolare.
Naturalmente questo non impedisce a molti di loro
di gettarci qualche volta un pezzo di pane o una pa-
tata, o di affidarci, dopo la distribuzione della « Zivilsuppe»
in cantiere, le loro gamelle da raschiare e re-
stituire lavate. Essi vi si inducono per togliersi di
torno qualche importuno sguardo famelico, o per un
momentaneo impulso di umanità, o per la semplice
curiosità di vederci accorrere da ogni parte a conten-
derci il boccone l'un l'altro, bestialmente e senza rite-
gno, finché il piú forte lo ingozza, e allora tutti gli altri
se ne vanno scornati e zoppicanti.
Ora, tra me e Lorenzo non avvenne nulla di tutto
questo. Per quanto di senso può avere il voler preci-
sare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia
di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io
credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi;
e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per
avermi costantemente rammentato, con la sua presenza,
con il suo modo cosí piano e facile di essere buono,
che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del
nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero,
di non corrotto e non selvaggio, estraneo all'odio e
alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota
possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi.
I personaggi di queste pagine non sono uomini. La
loro umanità è sepolta, o essi stessi l'hanno sepolta,
sotto l'offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e
stolide, i Kapos, i politici, i criminali, i prominenti
grandi e piccoli, fino agli Häftlinge indifferenziati e
schiavi, tutti i gradini della insana gerarchia voluta dai
tedeschi, sono paradossalmente accomunatí in una unitaria
desolazione interna.
Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura
e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo
di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non
dimenticare di essere io stesso un uomo.

Ottobre 1944.
Con tutte le nostre forze abbiamo lottato perché l'in-
verno non venisse. Ci siamo aggrappati a tutte le ore
tiepide, a ogni tramonto abbiamo cercato di trattene-
re il soíe in cielo ancora un poco, ma tutto è stato inu-
tile. Ieri sera il sole si è coricato irrevocabilmente in
un intrico di nebbia sporca, di ciminiere e di fili, e sta-
mattina è inverno.
Noi sappiamo che cosa vuol dire, perché eravamo
qui l'inverno scorso, e gli altri lo impareranno pre-
sto. Vuol dire che, nel corso di questi mesi, dall'ottobre
all'aprile, su dieci di noi, sette morranno. Chi non
morrà, soffrirà minuto per minuto, per ogni giorno,
per tutti i giorni: dal mattino avanti l'alba fino alla
distribuzione della zuppa serale dovrà tenere costan-
temente i muscoli tesi, danzare da un piede all'altro,
sbattersi le braccia sotto le ascelle per resistere al
freddo. Dovrà spendere pane per procurarsi guanti,
e perdere ore di sonno per ripararli quando saranno
scuciti. Poiché non si potrà piú mangiare all'aperto,
dovremo consumare i nostri pasti nella baracca, in
piedi, disponendo ciascuno di un palmo di pavimento,
e appoggiarsi sulle cuccette è proibito. A tutti si apri-
ranno ferite sulle mani, e per ottenere un bendaggio
bisognerà attendere ogni sera per ore in piedi nella
neve e nel vento.
Come questa nostra fame non è la sensazione di chi
ha saltato un pasto, cosí il nostro modo di aver freddo
esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame »,
diciamo «stanchezza », «paura », e « dolore », dicia-
mo «inverno », e sono altre cose. Sono parole libere,
create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo
e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero du-
rati piú a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe
nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa
è faticare l'intera giornata nel vento, sotto zero, con
solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela,
e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene.
In quel modo con cui si vede finire una speranza,
cosí stamattina è stato inverno. Ce ne siamo accorti
quando siamo usciti dalla baracca per andarci a la-
vare: non c'erano stelle, l'aria buia e fredda aveva
odore di neve. In piazza dell'Appello, nella prima lu-
ce, alla adunata per il lavoro, nessuno ha parlato.
Quando abbiamo visto i primi fiocchi di neve, abbia-
mo pensato che, se l'anno scorso a quest'epoca ci aves-
sero detto che avremmo visto ancora un inverno in
Lager, saremmo andati a toccare il reticolato elettrico;
e che anche adesso ci andremmo, se fossimo logici, se
non fosse di questo insensato pazzo residuo di
speranza inconfessabile.
Perché « inverno» vuol dire altro ancora.
La primavera scorsa, i tedeschi hanno costruito due
enormi tende in uno spiazzo del nostro Lager. Ciascuna
per tutta la buona stagione ha ospitato piú di
mille uomini; ora le tende sono state smontate, e duemila
ospiti in soprannumero affollano le nostre baracche.
Noi vecchi prigionieri sappiamo che queste
irregolarità non piacciono ai tedeschi, e che presto
qualcosa succederà perché il nostro numero venga ridotto.
Le selezioni si sentono arrivare. « Selekcja »: la ibri-
da parola latina e polacca si sente una volta, due vol-
te, molte volte, intercalata in discorsi stranieri; dap-
prima non la si individua, poi si impone all'attenzio-
ne, infine ci perseguita.
Stamattina i polacchi dicono « Selekcja ». I polacchi
sono i primi a sapere le notizie, e cercano in genere
di non lasciarle diffondere, perché sapere qual-
cosa mentre gli altri non la sanno ancora può sempre
essere vantaggioso. Quando tutti sapranno che la se-
lezione è imminente, il pochissimo che qualcuno po-
trebbe tentare per defilarsi (corrompere con pane o
con tabacco qualche medico o qualche prominente;
passare dalla baracca in Ka-Be o viceversa, al momento
esatto, in modo da incrociare la commissione) sarà
già monopolio loro.
Nei giorni che seguono, l'atmosfera del Lager e del
cantiere è satura di « Selekcja »: nessuno sa nulla di
preciso e tutti ne parlano, perfino gli operai liberi,
polacchi, italiani, francesi, che di nascosto vediamo sul
lavoro. Non si può dire che ne risulti un'ondata di
abbattimento. Il nostro morale collettivo è troppo
inarticolato e piatto per essere instabile. La lotta contro
la fame, il freddo e il lavoro lascia poco margine
per il pensiero, anche se si tratta di questo pensiero.
Ciascuno reagisce a suo modo, ma quasi nessuno con
quegli atteggiamenti che sembrerebbero piú plausibili
perché sono realistici, e cioè con la rassegnazione o
con la disperazione.
Chi può provvedere provvede; ma sono i meno, per-
ché sottrarsi alla selezione è molto difficile, i tedeschi
fanno queste cose con grande serietà e diligenza.
Chi non può provvedere materialmente cerca difesa
altrimenti. Ai gabinetti, al lavatoio, noi ci mostriamo
l'un l'altro il torace, le natiche, le cosce, e i compagni
ci rassicurano: - Puoi essere tranquillo, non sarà certo
la tua volta, ... du bist kein Muselmann... io piuttosto
invece... - e a loro volta si calano le brache e
sollevano la camicia.
Nessuno nega altrui questa elemosina: nessuno è
cosí sicuro della propria sorte da avere animo di con-
dannare altri. Anch'io ho sfacciatamente mentito al
vecchio Wertheimer; gli ho detto che, se lo interro-
gheranno, risponda di avere quarantacinque anni, e
che non trascuri di farsi radere la sera prima, anche
a costo di rimetterci un quarto di pane; che, a parte
ciò, non deve nutrire timori, e che d'altronde non è
per nulla certo che si tratti di una selezione per il gas:
non ha sentito dal Blockältester che i prescelti andranno
a Jaworszno al campo di convalescenza?
è assurdo che Wertheimer speri: dimostra sessant'anni,
ha enormi varici, non sente quasi neppur piú
la fame. Eppure se ne va in cuccetta sereno e tran-
quillo, e, a chi gli fa domande, risponde con le mie
parole; sono la parola d'ordine del campo in questi
giorni: io stesso le ho ripetute come, a meno di parti-
colari, me le sono sentite recitare da Chajim, che è in
Lager da tre anni, e siccome è forte e robusto, è mirabilmente
sicuro di sé; e io l'ho creduto.
Su questa esigua base anch'io ho attraversato la
grande selezione dell'ottobre 1944 con inconcepibile
tranquillità. Ero tranquillo perché ero riuscito a mentirmi
quanto era bastato. Il fatto che io non sia stato
scelto è dipeso soprattutto dal caso e non dimostra
che la mia fiducia fosse ben fondata.
Anche Monsieur Pinkert è, a priori, un condanna-
to: basta vedere i suoi occhi. Mi chiama con un cen-
no, e con aria confidenziale mi racconta che ha sapu-
to, da qual fonte non mi può dire, che effettivamente
questa volta c'è del nuovo: la Santa Sede, per mezzo
della Croce Rossa Internazionale... ...infine, garanti-
sce lui personalmente che, sia per sé che per me, nel
modo piú assoluto, è escluso ogni pericolo: da civile
lui era, come è noto, addetto all'ambasciata belga di Varsavia.
In vari modi dunque, anche questi giorni di vigilia,
che raccontati sembra dovessero essere tormentosi al
di là di ogni limite umano, passano non molto diver-
samente dagli altri giorni.
La disciplina del Lager e della Buna non sono in alcun
modo allentate, il lavoro, il freddo e la fame sono
sufficienti a impegnare senza residui le nostre attenzioni.
Oggi è domenica lavorativa, Arbeitssonntag: si la-
vora fino alle tredici, poi si ritorna in campo per la
doccia, la rasatura e il controllo generale della scabbia
e dei pidocchi, e in cantiere, misteriosamente, tutti
abbiamo saputo che la selezione sarà oggi.
La notizia è giunta, come sempre, circondata da un
alone di particolari contraddittori e sospetti: stamat-
tina stessa c'è stata selezione in infermeria; la percen-
tuale è stata del sette per cento del totale, del trenta,
del cinquanta per cento dei malati. A Birkenau il camino
del Crematorio fuma da dieci giorni. Deve essere fatto
posto per un enorme trasporto in arrivo dal ghetto di Posen.
I giovani dicono ai giovani che saranno scelti tutti i vecchi.
I sani dicono ai sani che saranno scelti solo i malati.
Saranno esclusi gli specialisti.
Saranno esclusi gli ebrei tedeschi. Saranno esclusi i
Piccoli Numeri. Sarai scelto tu. Sarò escluso io.
Regolarmente, a partire dalle tredici in punto, il
cantiere si svuota e la schiera grigia interminabile sfila
per due ore davanti alle due stazioni di controllo, dove
come ogni giorno veniamo contati e ricontati, e
davanti all'orchestra che, per due ore senza interruzione,
suona come ogni giorno le marce sulle quali dob-
biamo, all'entrata e all'uscita, sincronizzare i nostri passi.
Sembra che tutto vada come ogni giorno, il camino
delle cucine fuma come di consueto, già si comincia
la distribuzione della zuppa. Ma poi si è udita la
campana, e allora si è capito che ci siamo.
Perché questa campana suona sempre all'alba, e allora
è la sveglia, ma quando suona a metà giornata
vuol dire «Blocksperre », clausura in baracca, e que-
sto avviene quando c'è selezione, perché nessuno vi
si sottragga, e quando i selezionati partono per il gas,
perché nessuno li veda partire.
Il nostro Blockältester conosce il suo mestiere. Si è
accertato che tutti siano rientrati, ha fatto chiudere la
porta a chiave, ha distribuito a ciascuno la scheda che
porta la matricola, il nome, la professione, l'età e la
nazionalità, e ha dato ordine che ognuno si spogli
completamente, conservando solo le scarpe. In questo
modo, nudi e con la scheda in mano, attenderemo che
la commissione arrivi alla nostra baracca. Noi siamo
la baracca 48, ma non si può prevedere se si comin-
cerà dalla baracca 1 o dalla 60. In ogni modo, per
almeno un'ora possiamo stare tranquilli, e non c'è
ragione che non ci mettiamo sotto le coperte delle cuc-
cette per riscaldarci.
Già molti sonnecchiano, quando uno scatenarsi di
comandi, di bestemmie e di colpi indica che la com-
missione è in arrivo. Il Blockältester e i suoi aiutanti,
a pugni e a urli, a partire dal fondo del dormitorio, si
cacciano davanti la turba dei nudi spaventati, e li sti-
pano dentro il Tagesraum, che è la Direzione-Fureria.
Il Tagesraum è una cameretta di sette metri per quattro:
quando la caccia è finita, dentro il Tagesraum è
compressa una compagine umana calda e compatta,
che invade e riempie perfettamente tutti gli angoli ed
esercita sulle pareti di legno una pressione tale da
farle scricchiolare.
Ora siamo tutti nel Tagesraum, e, oltre che non es-
serci tempo, non c'è neppure posto per avere paura.
La sensazione della carne calda che preme tutto in-
torno è singolare e non spiacevole. Bisogna aver cura
di tener alto il naso per trovare aria, e di non spiegaz-
zare o perdere la scheda che teniamo in mano.
Il Blockältester ha chiuso la porta Tagesraum-dormitorio
e ha aperto le altre due che dal Tagesraum e
dal dormitorio dànno all'esterno. Qui, davanti alle
due porte, sta l'arbitro del nostro destino, che è un
sottufficiale delle SS. Ha a destra il Blockältester, a
sinistra il furiere della baracca. Ognuno di noi, che
esce nudo dal Tagesraum nel freddo dell'aria di ottobre,
deve fare di corsa i pochi passi fra le due porte
davanti ai tre, consegnare la scheda alla SS e rientrare
per la porta del dormitorio. La SS, nella frazione di
secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo
di faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e
consegna a sua volta la scheda all'uomo alla sua destra
o all'uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la
morte di ciascuno di noi. In tre o quattro minuti una
baracca di duecento uomini è «fatta », e nel pomeriggio
l'intero campo di dodicimila uomini.
Io confitto nel carnaio del Tagesraum ho sentito
gradualmente allentarsi la pressione umana intorno a
me, e in breve è stata la mia volta. Come tutti, sono
passato con passo energico ed elastico, cercando di
tenere la testa alta, il petto in fuori e i muscoli con-
tratti e rilevati. Con la coda dell'occhio ho cercato di
vedere alle mie spalle, e mi è parso che la mia scheda
sia finita a destra.
A mano a mano che rientriamo nel dormitorio, possiamo
rivestirci. Nessuno conosce ancora con sicurezza il
proprio destino, bisogna anzitutto stabilire se
le schede condannate sono quelle passate a destra o a
sinistra. Ormai non è piú il caso di risparmiarsi l'un
l'altro e di avere scrupoli superstiziosi. Tutti si accalcano
intorno ai piú vecchi, ai piú denutriti, ai piú
«mussulmani »; se le loro schede sono andate a sinistra,
la sinistra è certamente il lato dei condannati.
Prima ancora che la selezione sia terminata, tutti
già sanno che la sinistra è stata effettivamente la
«schlechte Seite », il lato infausto. Ci sono natural-
mente delle irregolarità: René per esempio, cosi giovane
e robusto, è finito a sinistra: forse perché ha gli
occhiali, forse perché cammina un po' curvo come i
miopi, ma piú probabilmente per una semplice svista:
René è passato davanti alla commissione immediatamente
prima di me, e potrebbe essere avvenuto uno scambio
di schede. Ci ripenso, ne parlo con Alberto,
e conveniamo che l'ipotesi è verosimile: non so cosa
ne penserò domani e poi; oggi essa non desta in me
alcuna emozione precisa.
Parimenti di un errore deve essersi trattato per Sattler,
un massiccio contadino transilvano che venti giorni
fa era ancora a casa sua; Sattler non capisce il tedesco,
non ha compreso nulla di quel che è successo
e sta in un angolo a rattopparsi la camicia. Devo andargli
a dire che non gli servirà piú la camicia?
Non c'è da stupirsi di queste sviste: l'esame è molto
rapido e sommario, e d'altronde, per l'amministrazione
del Lager, l'importante non è tanto che vengano
eliminati proprio i piú inutili, quanto che si rendano
speditamente liberi posti in una certa percentuale prestabilita.
Nella nostra baracca la selezione è ormai finita, però
continua nelle altre, per cui siamo ancora sotto
clausura. Ma poiché frattanto i bidoni della zuppa sono
arrivati, il Blockältester decide di procedere senz'altro
alla distribuzione. Ai selezionati verrà distri-
buita doppia razione. Non ho mai saputo se questa
fosse un'iniziativa assurdamente pietosa dei Blockälteste
od un'esplicita disposizione delle SS, ma di fatto,
nell'intervallo di due o tre giorni (talora anche
molto piú lungo) fra la selezione e la partenza, le vittime
a Monowitz-Auschwitz godevano di questo privilegio.
Ziegler presenta la gamella, riscuote la normale razione,
poi resta lí in attesa. - Che vuoi ancora? - chiede il
Blockältester: non gli risulta che a Ziegler spetti
il supplemento, lo caccia via con una spinta, ma Ziegler
ritorna e insiste umilmente: è stato proprio messo
a sinistra, tutti l'hanno visto, vada il Blockältester
a consultare le schede: ha diritto alla doppia razione.
Quando l'ha ottenuta, se ne va quieto in cuccetta a mangiare.
Adesso ciascuno sta grattando attentamente col cucchiaio
il fondo della gamella per ricavarne íe ultime
briciole di zuppa, e ne nasce un tramestio metallico so-
noro il quale vuol dire che la giornata è finita. A poco
a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta
che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio
Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e
dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio
perché non è stato scelto.
Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto,
Beppo il greco che ha vent'anni, e dopodomani
andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso
la lampadina senza dire niente e senza pensare piú
niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua
volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio
che nessuna preghiera propiziatoria, nessun per-
dono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insom-
ma che sia in potere dell'uomo di fare, potrà risanare
mai piú?
Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn.

Kraus.
Quando piove si vorrebbe poter piangere. è novembre, piove
già da dieci giorni, e la terra è come il fondo di una palude.
Ogni cosa di legno ha odore di funghi.
Se potessi fare dieci passi a sinistra, c'è la tettoia,
sarei al riparo; mi basterebbe anche un sacco per co-
prirmi le spalle, o solamente la speranza di un fuoco
dove asciugarmi; o magari un cencio asciutto da met-
termi fra la camicia e la schiena. Ci penso, fra un colpo
di pala e l'altro, e credo proprio che avere un cencio
asciutto sarebbe felicità positiva.
Ormai piú bagnati non si può diventare; solo bi-
sogna cercare di muoversi il meno possibile, e soprat-
tutto di non fare movimenti nuovi, perché non accada
che qualche altra porzione di pelle venga senza neces-
sità a contatto con gli abiti zuppi e gelidi.
è fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche
modo si ha sempre l'impressione di essere fortu-
nati, che una qualche circostanza, magari infinitesima,
ci trattenga sull'orlo della disperazione e ci conceda
di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure, piove e
tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento
di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar
sera. O ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e
allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non ti
sentissi piú altro nel cuore che sofferenza e noia, come
a volte succede, che pare veramente di giacere sul fon-
do; ebbene, anche allora noi pensiamo che se vogliamo,
in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a
toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i
treni in manovra, e allora finirebbe di piovere.
Da stamattina stiamo confitti nella melma, a gambe
larghe, senza mai muovere i piedi dalle due buche che
si sono scavati nel terreno vischioso; oscillando sulle
anche a ogni colpo di pala. Io sono a metà dello scavo,
Kraus e Clausner sono sul fondo, Gounan sopra di
me, a livello del suoío. Solo Gounan può guardarsi
intorno, e a monosillabi avvisa ogni tanto Kraus
dell'opportunità di accelerare il ritmo, o eventualmente
di riposarsi, a seconda di chi passa per la strada. Clausner
piccona, Kraus alza la terra a me palata per palata,
e io a mano a mano la alzo a Gounan che la ammucchia
a lato. Altri fanno la spola con íe carriole e portano la
terra chissà dove, non ci interessa, oggi il nostro mondo
è questa buca di fango.
Kraus ha sbagliato un colpo, un pacchetto di mota
vola e mi si spiaccica sulle ginocchia. Non è la prima
volta che succede, senza molta fiducia lo ammonisco
di fare attenzione: è ungherese, capisce assai male il
tedesco, e non sa una parola di francese. è lungo lungo,
ha gli occhiali e una curiosa faccia piccola e storta;
quando ride sembra un bambino, e ride spesso. Lavora
troppo, e troppo vigorosamente: non ha ancora
imparato la nostra arte sotterranea di fare economia
di tutto, di fiato, di movimenti, perfino di pensiero.
Non sa ancora che è meglio farsi picchiare, perché di
botte in genere non si muore, ma di fatica si, e mala-
mente, e quando uno se ne accorge è già troppo tardi.
Pensa ancora... oh no, povero Kraus, non è ragiona-
mento il suo, è solo la sua sciocca onestà di piccolo
impiegato, se la è portata fin qui dentro, e ora gli pare
che sia come fuori, dove lavorare è onesto e logico, e
inoltre conveniente, perché, a quanto tutti dicono,
quanto piú uno lavora, tanto piú guadagna e mangia.
- Regardez-moi ca!... Pas si vite, idiot! - impreca
Gounan dall'alto; poi si ricorda di tradurre in tedesco:
- Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden? -;
Kraus può anche ammazzarsi di fatica, se crede,
ma non oggi, che lavoriamo in catena e il ritmo
del nostro lavoro è condizionato dal suo.
Ecco, questa è la sirena del Carburo, adesso i pri-
gionieri inglesi se ne vanno, sono le quattro e mezzo.
Poi passeranno le ragazze ucraine, e allora saranno le
cinque, potremo raddrizzare la schiena, e ormai solo
la marcia di ritorno, l'appello e il controllo dei pidocchi
ci divideranno dal riposo.
è l'adunata, «Antreten» da tutte le parti; da tutte
le parti strisciano fuori i fantocci di fango, stirano le
membra aggranchite, riportano gli attrezzi nelle
baracche. Noi estraiamo i piedi dal fosso, cautamente
per non lasciarvi succhiati gli zoccoli, e ce ne andiamo,
ciondolanti e grondanti, a inquadrarci per la marcia di
rientro. « Zu dreien », per tre. Ho cercato di mettermi
vicino ad Alberto, oggi abbiamo lavorato separati,
abbiamo da chiederci a vicenda come è andata: ma qual-
cuno mi ha dato una manata sullo stomaco, sono finito
dietro, guarda, proprio vicino a Kraus.
Ora partiamo. Il Kapo scandisce il passo con voce
dura: - Links, links, links -; dapprima si ha male ai
piedi, poi a poco a poco ci si riscalda e i nervi si disten-
dono. Anche oggi, anche questo oggi che stamattina
pareva invincibile ed eterno, l'abbiamo perforato
attraverso tutti i suoi minuti; adesso giace conchiuso
ed è subito dimenticato, già non è piú un giorno, non
ha lasciato traccia nella memoria di nessuno. Lo sap-
piamo, che domani sarà come oggi: forse pioverà un
po' di piú o un po' di meno, o forse invece di scavar
terra andremo al Carburo a scaricar mattoni. O domani
può anche finire la guerra, o noi essere tutti uccisi,
o trasferiti in un altro campo, o capitare qualcuno
di quei grandi rinnovamenti che, da che Lager è Lager,
vengono infaticabilmente pronosticati imminenti
e sicuri. Ma chi mai potrebbe seriamente pensare a domani?
La memoria è uno strumento curioso: finché sono
stato in campo, mi hanno danzato per il capo due versi
che ha scritto un mio amico molto tempo fa:
...infin che un giorno
senso non avrà piú dire: domani.
Qui è cosi. Sapete come si dice «mai» nel gergo del
campo? « Morgen früh », domani mattina.
Adesso è l'ora di «links, links, links und links »,
l'ora in cui non bisogna sbagliare passo. Kraus è mal-
destro, si è già preso un calcio dal Kapo perché non
sa camminare allineato: ed ecco, incomincia a gestico-
lare e a masticare un tedesco miserevole, odi odi, mi
vuole chiedere scusa della palata di fango, non ha an-
cora capito dove siamo, bisogna proprio dire che gli
ungheresi sono gente singolare.
Andare al passo e fare un discorso complicato in te-
desco, è ben troppo, questa volta sono io che lo
avverto che ha il passo sbagliato, e lo ho guardato, e ho
visto i suoi occhi, dietro le gocciole di pioggia degli
occhiali, e sono stati gli occhi dell'uomo Kraus.
Allora avvenne un fatto importante, e mette conto
di raccontarlo adesso, forse per la stessa ragione per
cui metteva conto che avvenisse allora. Mi accadde di
fare un lungo discorso a Kraus: in cattivo tedesco, ma
lento e staccato, sincerandomi, dopo ogni frase, che
lui l'avesse capita.
Gli raccontai che avevo sognato di essere a casa mia,
nella casa dove ero nato, seduto con la mia famiglia,
con le gambe sotto il tavolo, e sopra molta, moltissima
roba da mangiare. Ed era d'estate, ed era in Italia: a
Napoli? ... ma sí, a Napoli, non è il caso di sottilizzare.
Ed ecco, a un tratto suonava il campanello, e io mi al-
zavo pieno di ansia, e andavo ad aprire, e chi si vedeva?
Lui, il qui presente Kraus Páli, coi capelli, pulito
e grasso, e vestito da uomo libero, e in mano una pa-
gnotta. Da due chili, ancora calda. Allora « Servus,
Páli, wie geht's? » e mi sentivo pieno di gioia, e lo
facevo entrare e spiegavo ai miei chi era, e che veniva
da Budapest, e perché era cosi bagnato: perché era bagnato,
cosí, come adesso. E gli davo da mangiare e da
bere, e poi un buon letto per dormire, ed era notte,
ma c'era un meraviglioso tepore per cui in un momento
eravamo tutti asciutti (sí, perché anch'io ero molto bagnato).
Che buon ragazzo doveva essere Kraus da borghe-
se: non vivrà a lungo qui dentro, questo si vede al
primo sguardo e si dimostra come un teorema. Mi
dispiace non sapere l'ungherese, ecco che la sua
commozione ha rotto gli argini, ed erompe in una marea
di bislacche parole magiare. Non ho potuto capire altro
che il mio nome, ma dai gesti solenni si direbbe
che giura ed augura.
Povero sciocco Kraus. Se sapesse che non è vero,
che non ho sognato proprio niente di lui, che per me
anche lui è niente, fuorché in un breve momento, niente
come tutto è niente quaggiú, se non la fame dentro,
e il freddo e la pioggia intorno.

Die drei Leute vom Labor.
Quanti mesi sono passati dal nostro ingresso in campo?
Quanti dal giorno in cui sono stato dimesso dal
Ka-Be? E dal giorno dell'esame di chimica? E dalla
selezione di ottobre?
Alberto ed io ci poniamo spesso queste domande,
e molte altre ancora. Eravamo novantasei quando siamo
entrati, noi, gli italiani del convoglio centosettan-
taquattromila; ventinove soltanto fra noi hanno so-
pravvissuto fino all'ottobre, e di questi, otto sono an-
dati in selezione. Ora siamo ventuno, e l'inverno è
appena incominciato. Quanti fra noi giungeranno vivi
al nuovo anno? Quanti alla primavera?
Da parecchie settimane ormai le incursioni sono ces-
sate; la pioggia di novembre si è mutata in neve, e la
neve ha ricoperto le rovine. I tedeschi e i polacchi ven-
gono al lavoro cogli stivaloni di gomma, i copriorecchi
di pelo e le tute imbottite, i prigionieri inglesi con
i loro meravigliosi giubbetti di pelliccia. Nel nostro
Lager non hanno distribuito cappotti se non a qualche
privilegiato; noi siamo un Kommando specializzato, il
quale, in teoria, non lavora che al coperto: perciò noi
siamo rimasti in tenuta estiva.
Noi siamo i chimici, e perciò lavoriamo ai sacchi di
fenilbeta. Abbiamo sgomberato il magazzino dopo le
prime incursioni, nel colmo dell'estate: la fenilbeta ci
si incollava sotto gli abiti alle membra sudate e ci ro-
deva come una lebbra; la pelle si staccava dai nostri
visi in grosse squame bruciate. Poi le incursioni si sono
interrotte, e noi abbiamo riportato i sacchi nel ma-
gazzino. Poi il magazzino è stato colpito, e noi abbia-
mo ricoverato i sacchi nella cantina del Reparto Stirolo.
Ora il magazzino è stato riparato, e bisogna
accatastarvi i sacchi ancora una volta. L'odore acuto
della fenilbeta impregna il nostro unico abito, e ci ac-
compagna giorno e notte come la nostra ombra. Fi-
nora, i vantaggi di essere nel Kommando Chimico si
sono limitati a questi: gli altri hanno ricevuto i cappotti
e noi no; gli altri portano sacchi di cinquanta
chili di cemento, e noi sacchi di sessanta chili di fenilbeta.
Come pensare ancora all'esame di chimica e alle
illusioni di allora? Almeno quattro volte, durante l'estate,
si è parlato del laboratorio del Doktor Pannwitz nel
Bau 939 ed è corsa la voce che sarebbero stati scelti
fra noi gli analisti per il reparto Polimerizzazione.
Adesso basta, adesso è finito. è l'ultimo atto: l'in-
verno è incominciato, e con lui la nostra ultima batta-
glia. Non è piú dato dubitare che non sia l'ultima. In
qualunque momento del giorno ci accada di prestare
ascolto alla voce dei nostri corpi, di interrogare íe no-
stre membra, la risposta è una: le forze non ci baste-
ranno. Tutto intorno a noi parla di disfacimento e di
fine. Metà del Bau 939 è un ammasso di lamiere con-
torte e di calcinacci; dalle condutture enormi dove pri-
ma ruggiva il vapore surriscaldato, pendono ora fino
al suolo deformi ghiaccioli azzurri grossi come pila-
stri. La Buna è silenziosa adesso, e quando il vento è
propizio, se si tende l'orecchio, si sente un continuo
sordo fremito sotterraneo, il quale è il fronte che si
avvicina. Sono arrivati in Lager trecento prigionieri
del ghetto di Lodz, che i tedeschi hanno trasferiti
davanti all'avanzata dei russi: hanno portato fino a noi
la voce della lotta leggendaria nel ghetto di Varsavia,
e ci hanno raccontato di come, già un anno fa, i tedeschi
hanno liquidato il campo di Lublino: quattro mitragliatrici
agli angoli e le baracche incendiate; il mondo civile
non lo saprà mai. A quando la nostra volta?
Stamane il Kapo ha fatto come al solito la divisione
delle squadre. I dieci del Clormagnesio, al Clormagnesio:
e quelli partono, strascicando i piedi, il piú
lentamente possibile, perché il Clormagnesio è un
lavoro durissimo: si sta tutto il giorno fino alle cavi-
glie nell'acqua salmastra e gelata, che macera le scar-
pe, gli abiti e la pelle. Il Kapo afferra un mattone e lo
scaglia nel mucchio: quelli si scansano goffamente ma
non accelerano il passo. è questa quasi una consuetu-
dine, avviene tutte le mattine, e non sempre suppone
nel Kapo un preciso proposito di nuocere.
I quattro del Scheisshaus, al loro lavoro: e partono
i quattro addetti alla costruzione della nuova latrina.
Bisogna infatti sapere che, da quando, coll'arrivo dei
convogli di Lodz e di Transilvania, noi abbiamo su-
perato l'effettivo di cinquanta Häftlinge, il misterioso
burocrate tedesco che sovrintende a queste cose ci
ha autorizzato alla erezione di uno « Zweiplatziges
Kommandoscheisshaus », vale a dire di un cesso a due
posti riservato al nostro Kommando. Noi non siamo
insensibili a questo segno di distinzione, che fa del
nostro uno dei pochi Kommandos a cui sia vanto
l'appartenere: è però evidente che viene cosí a mancare
il piú semplice dei pretesti per assentarsi dal lavoro
e per intessere combinazioni coi civili.
- Noblesse oblige, - dice Henri, il quale ha altre corde al suo arco.
I dodici dei mattoni. I cinque di Meister Dahm. I
due delle cisterne. Quanti assenti? Tre assenti. Homolka
entrato stamane in Ka-Be, il Fabbro morto ieri,
Francois trasferito chissà dove e chissà perché. Il conto
torna; il Kapo registra ed è soddisfatto. Non restiamo
ormai che noi diciotto della fenilbeta, oltre ai prominenti
del Kommando. Ed ecco l'imprevedibile.
Il Kapo dice: - Il Doktor Pannwitz ha comunicato
all'Arbeitsdienst che tre Häftlinge sono stati scelti
per il Laboratorio. 169 509, Brackier; 175 633, Kandel;
174 517, Levi -. Per un istante íe orecchie mi
ronzano e la Buna mi gira intorno. Siamo tre Levi nel
Kommando 98, ma Hundert Vierundsiebzig Fünf
Hundert Siebzehn sono io, non c'è dubbio possibile.
Io sono uno dei tre eletti.
Il Kapo ci squadra con un riso astioso. Un belga,
un rumeno e un italiano: tre «Franzosen », insomma.
Possibile che dovessero proprio essere tre Franzosen
gli eletti per il paradiso del laboratorio?
Molti compagni si congratulano; primo fra tutti Alberto,
con genuina gioia, senza ombra d'invidia. Alberto non
trova nulla a ridire sulla fortuna che mi è
toccata, e ne è anzi ben lieto, sia per amicizia, sia perché
ne trarrà lui pure dei vantaggi: infatti noi due
siamo ormai legati da uno strettissimo patto di alleanza,
per cui ogni boccone « organizzato » viene diviso
in due parti rigorosamente uguali. Non ha motivo di
invidiarmi, poiché entrare in Laboratorio non rien-
trava né nelle sue speranze, né pure nei suoi desideri.
Il sangue delle sue vene è troppo libero perché Alberto,
il mio amico non domato, pensi di adagiarsi in
un sistema; il suo istinto lo porta altrove, verso altre
soluzioni, verso l'imprevisto, l'estemporaneo, il nuovo.
A un buon impiego, Alberto preferisce senza esitare
gli incerti e le battaglie della « libera professione ».
Ho in tasca un biglietto dell'Arbeitsdienst, dove è
scritto che lo Häftling 174 517, come operaio specia-
lizzato, ha diritto a camicia e mutande nuove, e deve
essere sbarbato ogni mercoledí.
La Buna dilaniata giace sotto la prima neve, silen-
ziosa e rigida come uno smisurato cadavere; ogni giorno
abbaiano le sirene del Fliegeralarm; i russi sono a
ottanta chilometri. La centrale elettrica è ferma, le
colonne del Metanolo non esistono piú, tre dei quattro
gasometri dell'acetilene sono saltati. Nel nostro
Lager affluiscono ogni giorno alla rinfusa i prigionieri
«recuperati » da tutti i campi della Polonia orientale;
i meno vanno al lavoro, i piú proseguono senz'altro
per Birkenau e per il Camino. La razione è stata ancora
ridotta. Il Ka-Be rigurgita, gli E-Häftlinge hanno
portato in campo la scarlattina, la difterite e il tifo
petecchiale.
Ma lo Häftling 174 517 è stato promosso specialista,
e ha diritto a camicia e mutande nuove e deve essere
raso ogni mercoledí. Nessuno può vantarsi di comprendere i tedeschi.
Siamo entrati in laboratorio timidi, sospettosi e di-
sorientati come tre bestie selvagge che si addentrino
in una grande città. Come è liscio e pulito il pavimento!
Questo è un laboratorio sorprendentemente simile
a qualunque altro laboratorio. Tre lunghi banchi di lavoro
carichi di centinaia di oggetti familiari. La vetreria in
un angolo a sgocciolare, la bilancia analitica,
una stufa Heraeus, un termostato Höppler. L'odore
mi fa trasalire come una frustata: il debole odore aro-
matico dei laboratori di chimica organica. Per un attimo,
evocata con violenza brutale e subito svanita, la
grande sala semibuia dell'università, il quarto anno,
l'aria mite del maggio in Italia.
Herr Stawinoga ci assegna i posti di lavoro. Stawinoga è
un tedesco-polacco ancor giovane, dal viso energico
ma insieme triste e stanco. è anche lui Doktor:
non in chimica, bensí (ne pas chercher à comprendre)
in glottologia; tuttavia è lui il capo-laboratorio. Con
noi non parla volentieri, ma non sembra mal disposto.
Ci chiama «Monsieur», il che è ridicolo e sconcertante.
In laboratorio la temperatura è meravigliosa: il ter-
mometro segna 24. Noi pensiamo che ci possono anche
mettere a lavare la vetreria, o a scopare il pavi-
mento, o a trasportare le bombole di idrogeno, qua-
lunque cosa pur di restare qui dentro, e il problema
dell'inverno per noi sarà risolto. E poi, a un secondo
esame, anche il problema della fame non dovrebbe
essere difficile a risolversi. Vorranno proprio perqui-
sirci ogni giorno all'uscita? O quando anche cosi fosse,
ogni volta che domanderemo di andare alla latrina?
Evidentemente no. E qui c'è sapone, c'è benzina, c'è
alcool. Mi cucirò una tasca segreta nell'interno della
giacca, farò una combinazione con l'inglese che lavora
in officina e commercia in benzina. Vedremo quanto
severa sarà la sorveglianza: ma ormai ho un anno di
Lager, e so che se uno vuole rubare, e ci si dedica
seriamente, non esiste sorveglianza e non esistono
perquisizioni che glielo possano impedire.
A quanto pare dunque, la sorte, battendo strade in-
sospettate, ha fatto sí che noi tre, oggetto di invidia
per i diecimila condannati, non avremo quest'inverno
né freddo né fame. Questo vuol dire forti probabilità
di non ammalarsi gravemente, di salvarsi dai congela-
menti, di superare le selezioni. In queste condizioni,
persone meno esperte di noi delle cose del Lager po-
trebbero anche essere tentate dalla speranza di soprav-
vivere e dal pensiero della libertà. Noi no, noi sappiamo
come vanno queste faccende; tutto questo è un dono
del destino, che come tale va goduto il piú intensa-
mente possibile, e subito: ma del domani non v'è
certezza. Al primo vetro che romperò, al primo errore
di misura, alla prima disattenzione, ritornerò a consu-
marmi nella neve e nel vento, fino a che sarò anch'io
pronto per il Camino. E inoltre, chi può sapere che
cosa accadrà quando i russi verranno?
Perché i russi verranno. Il suolo trema notte e giorno
sotto i nostri piedi; nel vuoto silenzio della Buna
il fragore sommesso e sordo delle artiglierie risuona
ormai ininterrotto. Si respira un'aria tesa, un'aria di
risoluzione. I polacchi non lavorano piú, i francesi
camminano di nuovo a testa alta. Gli inglesi ci striz-
zano l'occhio, e ci salutano di nascosto con la « V »
dell'indice e del medio; e non sempre di nascosto.
Ma i tedeschi sono sordi e ciechi, chiusi in una
corazza di ostinazione e di deliberata sconoscenza.
Ancora una volta hanno fissato la data dell'inizio della
produzione di gomma sintetica: sarà per il 1 febbraio
1945. Fabbricano rifugi e trincee, riparano i danni,
costruiscono, combattono, comandano, organizzano e
uccidono. Che altro potrebbero fare? Sono tedeschi:
questo loro agire non è meditato e deliberato, ma segue
dalla loro natura e dal destino che si sono scelti.
Non potrebbero fare altrimenti: se si ferisce il corpo
di un agonizzante, la ferita incomincia tuttavia a cica-
trizzare, anche se l'intero corpo morrà fra un giorno.
Adesso, ogni mattina, alla divisione delle squadre,
il Kapo chiama prima di tutti gli altri noi tre del
Laboratorio, «die drei Leute vom Labor ». In campo,
alla sera e al mattino, nulla mi distingue dal gregge,
ma di giorno, al lavoro, io sto al coperto e al caldo, e
nessuno mi picchia; rubo e vendo sapone e benzina,
senza serio rischio, e forse avrò un buono per le scarpe
di cuoio. Inoltre, si può chiamare lavoro questo mio?
Lavorare è spingere vagoni, portare travi, spac-
care pietre, spalare terra, stringere con le mani nude
il ribrezzo del ferro gelato. Io invece sto seduto tutto
il giorno, ho un quaderno e una matita, e mi hanno
perfino dato un libro per rinfrescarmi la memoria sui
metodi analitici. Ho un cassetto dove posso riporre
berretto e guanti, e quando voglio uscire basta che
avvisi Herr Stawinoga, il quale non dice mai di no e
se ritardo non fa domande; ha l'aria di soffrire nella
sua carne per la rovina che lo circonda.
I compagni del Kommando mi invidiano, e hanno
ragione; non dovrei forse dirmi contento? Ma non appena,
al mattino, io mi sottraggo alla rabbia del vento
e varco la soglia del laboratorio, ecco al mio fianco la
compagna di tutti i momenti di tregua, del Ka-Be e
delle domeniche di riposo: la pena del ricordarsi, il
vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo, che mi
assalta come un cane all'istante in cui la coscienza esce
dal buio. Allora prendo la matita e il quaderno, e scrivo
quello che non saprei dire a nessuno.
Poi ci sono le donne. Da quanti mesi non vedevo
una donna? Non di rado si incontravano in Buna le
operaie ucraine e polacche, in pantaloni e giubba di
cuoio, massicce e violente come i loro uomini. Erano
sudate e scarmigliate d'estate, imbottite di abiti spessi
d'inverno; lavoravano di pala e di piccone, e non sí
sentivano accanto come donne.
Qui è diverso. Di fronte alle ragazze del laboratorio,
noi tre ci sentiamo sprofondare di vergogna e di
imbarazzo. Noi sappiamo qual è il nostro aspetto: ci
vediamo l'un l'altro, e talora ci accade di specchiarci
in un vetro terso. Siamo ridicoli e ripugnanti. Il nostro
cranio è calvo il lunedí, e coperto di una corta
muffa brunastra il sabato. Abbiamo il viso gonfio e
giallo, segnato in permanenza dai tagli del barbiere
frettoloso, e spesso da lividure e piaghe torpide; abbiamo
il collo lungo e nodoso come polli spennati. I
nostri abiti sono incredibilmente sudici, macchiati di
fango, sangue e untume; le brache di Kandel gli arrivano
a metà polpacci, rivelando le caviglie ossute e
pelose; la mia giacca mi spiove dalle spalle come da un
attaccapanni di legno. Siamo pieni di pulci, e spesso ci
grattiamo spudoratamente; siamo costretti a domandare
di andare alla latrina con umiliante frequenza.
I nostri zoccoli di legno sono insopportabilmente
rumorosi, e incrostati di strati alterni di fango e del
grasso regolamentare.
E poi, al nostro odore noi siamo ormai avvezzi, ma
le ragazze no, e non perdono occasione per manife-
starcelo. Non è l'odore generico di mal lavato, ma
l'odore di Häftling, scialbo e dolciastro, che ci ha
accolti al nostro arrivo in Lager ed esala tenace dai
dormitori, dalle cucine, dai lavatoi e dai cessi del Lager.
Lo si acquista subito e non lo si perde piú: «cosi
giovane e già puzzi! », cosí si usa accogliere fra noi i
nuovi arrivati.
A noi queste ragazze sembrano creature ultraterrene.
Sono tre giovani tedesche, piú Fraülein Liczba,
polacca, che è la magazziniera, e Frau Mayer che è la
segretaria. Hanno la pelle liscia e rosea, begli abiti
colorati, puliti e caldi, i capelli biondi, lunghi e ben
ravviati; parlano con molta grazia e compostezza, e
invece di tenere il laboratorio ordinato e pulito, come
dovrebbero, fumano negli angoli, mangiano pubblica-
mente tartine di pane e marmellata, si limano le unghie,
rompono molta vetreria e poi cercano di darne
a noi la colpa; quando scopano ci scopano i piedi. Con
noi non parlano, e arricciano il naso quando ci vedono
trascinarci per il laboratorio, squallidi e sudici, disa-
datti e malfermi sugli zoccoli. Una volta ho chiesto
una informazione a Fraülein Liczba, e lei non mi ha
risposto, ma si è volta a Stawinoga con viso infastí-
dito e gli ha parlato rapidamente. Non ho inteso la
frase, ma «Stinkjude» l'ho percepito chiaramente, e
mi si sono strette íe vene. Stawinoga mi ha detto che,
per ogni questione di lavoro, ci dobbiamo rivolgere a
lui direttamente.
Queste ragazze cantano, come cantano tutte le
ragazze di tutti i laboratori del mondo, e questo ci rende
profondamente infelici. Discorrono fra loro: parlano
del tesseramento, dei loro fidanzati, delle loro
case, delle feste prossime...
- Domenica vai a casa? Io no: è cosí scomodo viaggiare!
- Io andrò a Natale. Due settimane soltanto, e poi
sarà ancora Natale: non sembra vero, quest'anno è
passato cosí presto!
Quest'anno è passato presto. L'anno scorso a
quest'ora io ero un uomo libero: fuori legge ma libero,
avevo un nome e una famiglia, possedevo una
mente avida e inquieta e un corpo agile e sano. Pen-
savo a molte lontanissime cose: al mio lavoro, alla fine
della guerra, al bene e al male, alla natura delle cose
e alle leggi che governano l'agire umano; e inoltre alle
montagne, a cantare, all'amore, alla musica, alla poesia.
Avevo una enorme, radicata, sciocca fiducia nella
benevolenza del destino, e uccidere e morire mi pare-
vano cose estranee e letterarie. I miei giorni erano
lieti e tristi, ma tutti li rimpiangevo, tutti erano densi
e positivi; l'avvenire mi stava davanti come una grande
ricchezza. Della mia vita di allora non mi resta oggi
che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non
sono piú abbastanza vivo per sapermi sopprimere.
Se parlassi meglio tedesco, potrei provare a spiegare
tutto questo a Frau Mayer; ma certo non capirebbe, o se
fosse cosí intelligente e cosí buona da capire, non
potrebbe sostenere la mia vicinanza, e mi
fuggirebbe, come si fugge il contatto con un malato
incurabile o con un condannato a morte. O forse mi
regalerebbe un buono per mezzo litro di zuppa civile.
Quest'anno è passato presto.

L'ultimo.
Ormai Natale è vicino. Alberto ed io camminiamo
spalla contro spalla nella lunga schiera grigia, curvi in
avanti per resistere meglio al vento. è notte e nevica;
non è facile mantenersi in piedi, ancora piú difficile
mantenere il passo e l'allineamento: ogni tanto qual-
cuno davanti a noi incespica e rotola nel fango nero,
bisogna stare attenti a evitarlo e a riprendere il nostro
posto nella fila.
Da quando io sono in Laboratorio, Alberto ed io
lavoriamo separati, e, nella marcia di ritorno, abbiamo
sempre molte cose da dirci. Di solito non si tratta
di cose molto elevate: del lavoro, dei compagni, del
pane, del freddo; ma da una settimana c'è qualcosa di
nuovo: Lorenzo ci porta ogni sera tre o quattro litri
della zuppa dei lavoratori civili italiani. Per risolvere
il problema del trasporto, abbiamo dovuto procurarci
ciò che qui si chiama una «menaschka », vale a dire
una gamella fuori serie di lamiera zincata, piuttosto
un secchio che una gamella. Silberlust, il lattoniere,
ce l'ha fabbricata con due pezzi di grondaia, in cambio
di tre razioni di pane: è uno splendido recipiente
solido e capace, dal caratteristico aspetto di arnese
neolitico.
In tutto il campo solo qualche greco possiede una
menaschka piú grande della nostra. Questo, oltre ai
vantaggi materiali, ha comportato un sensibile miglio-
ramento della nostra condizione sociale. Una menaschka
come la nostra è un diploma di nobiltà, è un
segno araldico: Henri sta diventando nostro amico e
parla con noi da pari a pari; L. ha assunto un tono
paterno e condiscendente; quanto a Elias, ci è peren-
nemente alle costole, e mentre da una parte ci spia con
tenacia per scoprire il segreto della nostra « organisacja »,
dall'altra ci subissa di incomprensibili dichiara-
zioni di solidarietà e di affetto, e ci introna con una
litania di portentose oscenità e bestemmie italiane e
francesi che ha imparate chissà dove, e con le quali
intende palesemente onorarcí.
Quanto all'aspetto morale del nuovo stato di cose,
Alberto e io abbiamo dovuto convenire che non c'è
di che andare molto fieri; ma è cosi facile trovarsi
delle giustificazioni! D'altronde, questo stesso fatto di
avere nuove cose di cui parlare, non è un vantaggio trascurabile.
Parliamo del disegno di comperarci una seconda menaschka
per fare la rotazione con la prima, in modo
che ci basti una sola spedizione al giorno all'angolo
remoto del cantiere dove ora lavora Lorenzo. Parliamo
di Lorenzo, e del modo di compensarlo; dopo, se
ritorneremo, sí, certamente, faremo tutto quanto potremo
per lui; ma a che pro parlare di questo? sia lui
che noi, sappiamo bene che è difficile che noi torniamo.
Bisognerebbe fare qualcosa subito; potremmo
provare a fargli riparare le scarpe nella calzoleria del
nostro Lager, dove le riparazioni sono gratuite (sembra
un paradosso, ma ufficialmente, nei campi di annientamento,
è tutto gratuito). Alberto proverà: è amico del ciabattino
capo, forse basterà qualche litro di zuppa.
Parliamo di tre nuovissime nostre imprese, e ci tro-
viamo d'accordo nel deplorare che evidenti ragioni di
segreto professionale sconsiglino di spiattellarle in giro:
peccato, il nostro prestigio personale ne trarrebbe
un grande vantaggio.
Della prima, è mia la paternità. ho saputo che il
Blockältester del 44 è a corto di scope, e ne ho rubata
una in cantiere: e fin qui non c'è nulla di straordinario.
La difficoltà era quella di contrabbandare la scopa
in Lager durante la marcia di ritorno, e io l'ho risolta
in un modo che credo inedito, smembrando la refurtiva
in saggina e manico, segando quest'ultimo in
due pezzi, portando in campo i vari articoli separata-
mente (i due tronconi di manico legati alle cosce, den-
tro i pantaloni), e ricostituendo il tutto in Lager, per
il che ho dovuto trovare un pezzo di lamiera, martello
e chiodi per risaldare i due legni. Il travaso ha richiesto
quattro soli giorni.
Contrariamente a quanto temevo, il committente
non solo non ha svalutata la mia scopa, ma l'ha mostrata
come una curiosità a parecchi suoi amici, i quali
mi hanno passato regolare ordinazione per altre due
scope «dello stesso modello ».
Ma Alberto ha ben altro in pentola. In primo luogo,
ha messo a punto l'« operazione lima », e l'ha già ese-
guita due volte con successo. Alberto si presenta al
magazzino attrezzi, chiede una lima, e ne sceglie una
piuttosto grossa. Il magazziniere scrive «una lima »
accanto al suo numero di matricola, e Alberto se ne va.
Va difilato da un civile sicuro (un fior di furfante
triestino, che ne sa una piú del diavolo e aiuta Alberto
piú per amor dell'arte che per interesse o per filantropia),
il quale non ha difficoltà a cambiare sul libero
mercato la lima grossa contro due piccole di valore
uguale o minore. Alberto rende «una lima » al magazzino
e vende l'altra.
E infine, ha coronato in questi giorni il suo capola-
voro, una combinazione audace, nuova, e di singolare
eleganza. Bisogna sapere che da qualche settimana ad
Alberto è stata affidata una mansione speciale: al mat-
tino, in cantiere, gli viene consegnato un secchio con
pinze, cacciavite, e parecchie centinaia di targhette di
celluloide di colori diversi, le quali egli deve montare
mediante appositi supportini per contraddistinguere
le numerose e lunghe tubazioni di acqua fredda e calda,
vapore, aria compressa, gas, nafta, vuoto eccetera, che
percorrono in tutti i sensi il Reparto Polimerizzazione.
Bisogna sapere inoltre (e sembra che non c'entri affatto:
ma l'ingegno non consiste forse nel trovare o creare
relazioni fra ordini dí idee apparentemente
estranei?) che per tutti noi Häftlinge la doccia è una
faccenda assai sgradevole per molte ragioni (l'acqua
è scarsa e fredda, o addirittura bollente, non c'è spo-
gliatoio, non abbiamo asciugamani, non abbiamo sapone,
e durante la forzata assenza è facile essere derubati).
Poiché la doccia è obbligatoria, occorre ai
Blockälteste un sistema di controllo che permetta di
applicare sanzioni a chi vi si sottrae: per lo piú, un
fiduciario del Block si installa sulla porta, e tasta come
Polifemo chi esce per sentire se è bagnato; chi lo è,
riceve uno scontrino, chi è asciutto riceve cinque nerbate.
Solo presentando lo scontrino si può riscuotere
il pane al mattino seguente.
L'attenzione di Alberto si è appuntata sugli scontrini.
In genere, non sono altro che miseri biglietti di
carta, che vengono riconsegnati umidi, spiegazzati e
irriconoscibili. Alberto conosce i tedeschi, e i Blockälteste
sono tutti tedeschi o di scuola tedesca: amano
l'ordine, il sistema, la burocrazia; inoltre, pur essendo
dei tangheri maneschi e iracondi, nutrono un amore
infantile per gli oggetti luccicanti e variopinti.
Cosí impostato il tema, eccone il brillante svolgi-
mento. Alberto ha sottratto sistematicamente una serie
di targhette dello stesso colore; da ognuna, ha
ricavato tre dischetti (lo strumento necessario, un
foratappi, l'ho organizzato io in Laboratorio): quando
sono stati pronti duecento dischetti, sufficienti per un
Block, si è presentato al Blockältester, e gli ha offerto
la « Spezialität » per la folle quotazione di dieci razioni
di pane, a consegna scalare. Il cliente ha accettato
con entusiasmo, e ora Alberto dispone di un portentoso
articolo di moda da offrire a colpo sicuro in
tutte íe baracche, un colore per baracca (nessun Blockältester
vorrà passare per taccagno o misoneista), e,
quel che piú conta, non ha da temere concorrenti, perché
lui solo ha accesso alla materia prima. Non è ben studiato?
Di queste cose parliamo, incespicando da una poz-
zanghera all'altra, fra il nero del cielo e il fango della
strada. Parliamo e camminiamo. Io porto le due gamelle
vuote, Alberto il peso della menaschka dolce-
mente piena. Ancora una volta la musica della banda,
la cerimonia del «Mützen ab», giú i berretti di scatto
davanti alle SS; ancora una volta Arbeit Macht Frei,
e l'annunzio del Kapo: - Kommando 98, zwei und
sechzig Häftlinge, Stärke stimmt, sessantadue prigionieri,
il conto torna. Ma la colonna non si è sciolta,
ci hanno fatto marciare fino in piazza dell'Appello. Ci
sarà appello? Non è l'appello. Abbiamo visto la luce
cruda del faro, e il profilo ben noto della forca.
Ancora per piú di un'ora le squadre hanno continuato
a rientrare, col trepestio duro delle suole di legno
sulla neve gelata. Quando poi tutti i Kommandos
sono ritornati, la banda ha taciuto a un tratto, e una
rauca voce tedesca ha imposto il silenzio. Nell'improvvisa
quiete, si è levata un'altra voce tedesca, e nell'aria
buia e nemica ha parlato a lungo con collera.
Infine il condannato è stato introdotto nel fascio di
luce del faro.
Tutto questo apparato, e questo accanito cerimo-
niale, non sono nuovi per noi. Da quando io sono in
campo, ho già dovuto assistere a tredici púbbliche
impiccagioni; ma le altre volte si trattava di comuni
reati, furti alla cucina, sabotaggi, tentativi di fuga.
Oggi si tratta di altro.
Il mese scorso, uno dei crematori di Birkenau è
stato fatto saltare. Nessuno di noi sa (e forse nessuno
saprà mai) come esattamente l'impresa sia stata com-
piuta: si parla del Sonderkommando, del Kommando
Speciale addetto alle camere a gas e ai forni, che viene
esso stesso periodicamente sterminato, e che viene tenuto
scrupolosamente segregato dal resto del campo.
Resta il fatto che a Birkenau qualche centinaio di uomini,
di schiavi inermi e spossati come noi, hanno trovato in
se stessi la forza di agire, di maturare i frutti del loro odio.
L'uomo che morrà oggi davanti a noi ha preso parte
in qualche modo alla rivolta. Si dice che avesse rela-
zioni cogli insorti di Birkenau, che abbia portato armi
nel nostro campo, che stesse tramando un ammutinamento
simultaneo anche tra noi. Morrà oggi sotto i nostri occhi:
e forse i tedeschi non comprenderanno che la morte solitaria,
la morte di uomo che gli è stata riservata, gli frutterà
gloria e non infamia.
Quando finí il discorso del tedesco, che nessuno poté
intendere, di nuovo si levò la prima voce rauca:
- Habt ihr verstanden? -(Avete capito?)
Chi rispose «Jawohl»? Tutti e nessuno: fu come
se la nostra maledetta rassegnazione prendesse corpo
di per sé, si facesse voce collettivamente al di sopra
dei nostri capi. Ma tutti udirono il grido del morente,
esso penetrò le grosse antiche barriere di inerzia
e di remissione, percosse il centro vivo dell'uomo in
ciascuno dí noi:
- Kameraden, ich bin der Letzte! - (Compagni, io sono l'ultimo!)
Vorrei poter raccontare che di fra noi, gregge abietto,
una voce si fosse levata, un mormorio, un segno
di assenso. Ma nulla è avvenuto. Siamo rimasti in piedi,
curvi e grigi, a capo chino, e non ci siamo scoperta
la testa che quando il tedesco ce l'ha ordinato. La botola
si è aperta, il corpo ha guizzato atroce; la banda
ha ripreso a suonare, e noi, nuovamente ordinati in
colonna, abbiamo sfilato davanti agli ultimi fremiti del morente.
Ai piedi della forca, le SS ci guardano passare con
occhi indifferenti: la loro opera è compiuta, e ben
compiuta. I russi possono ormai venire: non vi sono
piú uomini forti fra noi, l'ultimo pende ora sopra i
nostri capi, e per gli altri, pochi capestri sono bastati.
Possono venire i russi: non troveranno che noi domati,
noi spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende.
Distruggere l'uomo è difficile, quasi quanto crearlo:
non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti,
tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da
parte nostra nulla piú avete a temere: non atti dí rívolta,
non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.
Alberto ed io siamo rientrati in baracca, e non abbiamo
potuto guardarci in viso. Quell'uomo doveva essere duro,
doveva essere di un altro metallo del nostro, se questa
condizione, da cui noi siamo stati rotti, non ha potuto piegarlo.
Perché, anche noi siamo rotti, vinti: anche se abbiamo
saputo adattarci, anche se abbiamo finalmente imparato a trovare
il nostro cibo e a reggere alla fatica e al freddo, anche se ritorneremo.
Abbiamo issato la menaschka sulla cuccetta, abbiamo fatto
la ripartizione, abbiamo soddisfatto la rabbia quotidiana
della fame, e ora ci opprime la vergogna.

Storia di dieci giorni.
Già da molti mesi ormai si sentiva a intervalli il
rombo dei cannoni russi, quando, l'11 gennaio 1945,
mi ammalai di scarlattina e fui nuovamente ricoverato
in Ka-Be. «Infektionsabteilung»: vale a dire una
cameretta, per verità assai pulita, con dieci cuccette
su due piani; un armadio; tre sgabelli, e la seggetta
col secchio per i bisogni corporali. Il tutto in tre metri per cinque.
Sulle cuccette superiori era disagevole salire, non
c'era scala; perciò quando un malato si aggravava
veniva trasferito alle cuccette inferiori.
Quando io entrai, fui il tredicesimo: degli altri do-
dici, quattro avevano la scarlattina, due francesi
« politici » e due ragazzi ebrei ungheresi; c'erano poi tre
difterici, due tifosi, e uno affetto da una ributtante
risipola facciale. I due rimanenti avevano piú di una
malattia ed erano incredibilmente deperiti.
Avevo febbre alta. Ebbi la fortuna di avere una
cuccetta tutta per me; mi coricai con sollievo, sapevo
di avere diritto a quaranta giorni di isolamento e
quindi di riposo, e mi ritenevo abbastanza ben conservato
da non dover temere le conseguenze della scarlattina
da una parte, e le selezioni dall'altra.
Grazie alla mia ormai lunga esperienza delle cose
del campo, ero riuscito a portare con me le mie cose
personali: una cintura di fili elettrici intrecciati; il
cucchiaio-coltello; un ago con tre gugliate; cinque bot-
toni; e infine, diciotto pietrine per acciarino che avevo
rubato in Laboratorio. Da ognuna di queste, assotti-
gliandola pazientemente col coltello, si potevano ricavare
tre pietrine piú piccole, del calibro adatto a un
normale accendisigaro. Erano state valutate sei o sette
razioni di pane.
Passai quattro giorni tranquilli. Fuori nevicava e
faceva molto freddo, ma la baracca era riscaldata. Ricevevo
forti dosi di sulfamidico, soffrivo di una nausea
intensa e stentavo a mangiare; non avevo voglia
di attaccare discorso.
I due francesi con la scarlattina erano simpatici.
Erano due provinciali dei Vosgi, entrati in campo da
pochi giorni con un grosso trasporto di civili rastrel-
lati dai tedeschi in ritirata dalla Lorena. Il piú anziano
sí chiamava Arthur, era contadino, piccolo e magro.
L'altro, suo compagno di cuccetta, si chiamava Charles,
era maestro di scuola e aveva trentadue anni; invece
della camicia gli era toccata una canottiera estiva
comicamente corta.
Il quinto giorno venne il barbiere. Era un greco di
Salonicco; parlava solo il bello spagnolo della sua
gente, ma capiva qualche parola di tutte le lingue che
si parlavano in campo. Si chiamava Askenazi, ed era
in campo da quasi tre anni; non so come avesse potuto
ottenere la carica di « Frisör » del Ka-Be: infatti
non parlava tedesco né polacco e non era eccessiva-
mente brutale. Prima che entrasse, lo avevo sentito
parlare a lungo concitatamente nel corridoio col medico,
che era suo compatriota. Mi parve che avesse
una espressione insolita, ma poiché la mimica dei levantini
non corrisponde alla nostra, non comprendevo
se fosse spaventato, o lieto, o emozionato. Mi conosceva,
o almeno sapeva che io ero italiano.
Quando fu il mio turno, scesi laboriosamente dalla
cuccetta. Gli chiesi in italiano se c'era qualcosa di nuovo:
egli interruppe la rasatura, strizzò gli occhi in
modo solenne e allusivo, indicò la finestra col mento,
poi fece colla mano un gesto ampio verso ponente:
- Morgen, alle Kamarad weg.
Mi guardò un momento cogli occhi spalancati, come
in attesa del mio stupore, poi aggiunse: - Todos todos, - e
riprese il lavoro. Sapeva delle mie pietrine,
perciò mi rase con una certa delicatezza.
La notizia non provocò in me alcuna emozione diretta.
Da molti mesi non conoscevo piú il dolore, la
gioia, il timore, se non in quel modo staccato e lon-
tano che è caratteristico del Lager, e che si potrebbe
chiamare condizionale: se avessi ora - pensavo - la
mia sensibilità di prima, questo sarebbe un momento
estremamente emozionante.
Avevo le idee perfettamente chiare; da molto tempo
Alberto ed io avevamo previsto i pericoli che avrebbero
accompagnato il momento della evacuazione del campo
e della liberazione. Del resto la notizia portata
da Askenazi non era che la conferma di una
voce che circolava già da vari giorni: che i russi erano
a Czenstochowa, cento chilometri a nord; che erano a
Zakopane, cento chilometri a sud; che in Buna i
tedeschi già preparavano le mine di sabotaggio.
Guardai uno per uno i visi dei miei compagni di
camera: era chiaro che non metteva conto di parlarne
con nessuno di loro. Mi avrebbero risposto: « Ebbene? »
e tutto sarebbe finito lí. I francesi erano diversi,
erano ancora freschi.
- Sapete? - dissi loro: - Domani si evacua il campo.
Mi coprirono di domande: - Verso dove? A piedi?... e anche
i malati? quelli che non possono camminare? -
Sapevano che ero un vecchio prigioniero e
che capivo il tedesco: ne concludevano che sapessi
sull'argomento molto piú di quanto non volessi ammettere.
Non sapevo altro: lo dissi, ma quelli continuarono
colle domande. Che seccatura. Ma già, erano in Lager
da qualche settimana, non avevano ancora imparato
che in Lager non si fanno domande.
Nel pomeriggio venne il medico greco. Disse che,
anche fra i malati, tutti quelli che potevano camminare
sarebbero stati forniti di scarpe e di abiti, e sarebbero
partiti il giorno dopo, con i sani, per una marcia di
venti chilometri. Gli altri sarebbero rimasti in Ka-Be,
con personale di assistenza scelto fra i malati meno gravi.
Il medico era insolitamente ilare, sembrava ubriaco.
Lo conoscevo, era un uomo colto, intelligente,
egoista e calcolatore. Disse ancora che tutti indistin-
tamente avrebbero ricevuto tripla razione di pane, al
che i malati si rallegrarono visibilmente. Gli facemmo
qualche domanda su che cosa sarebbe stato di noi.
Rispose che probabilmente i tedeschi ci avrebbero
abbandonati al nostro destino: no, non credeva che ci
avrebbero uccisi. Non metteva molto impegno a
nascondere che pensava il contrario, la sua stessa allegria
era significativa.
Era già equipaggiato per la marcia; appena fu uscito,
i due ragazzi ungheresi presero a parlare concitata-
mente fra di loro. Erano in avanzata convalescenza,
ma molto deperiti. Si capiva che avevano paura di
restare coi malati, deliberavano di partire coi sani. Non
si trattava di un ragionamento: è probabile che anche
io, se non mi fossi sentito cosi debole, avrei seguito
l'istinto del gregge; il terrore è eminentemente con-
tagioso, e l'individuo atterrito cerca in primo luogo la fuga.
Fuori della baracca si sentiva il campo in insolita
agitazione. Uno dei due ungheresi si alzò, usci e tornò
dopo mezz'ora carico di stracci immondi. Doveva
averli sottratti al magazzino degli effetti da passare
alla disinfezione. Lui e il suo compagno si vestirono
febbrilmente, indossando stracci su stracci. Si vedeva
che avevano fretta di mettersi davanti al fatto compiuto,
prima che la paura stessa li facesse recedere. Era
insensato pensare di fare anche solo un'ora di cammino
deboli come erano, e per di piú nella neve, e con
quelle scarpe rotte trovate all'ultimo momento. Tentai
di spiegarlo, ma mi guardarono senza rispondere.
Avevano gli occhi come le bestie impaurite.
Solo per un attimo mi passò per il capo che pote-
vano anche aver ragione loro. Uscirono maldestri dalla
finestra, li vidi, fagotti informi, barcollare fuori nella
notte. Non sono tornati; ho saputo molto piú tardi
che, non potendo proseguire, furono abbattuti dalle SS poche
ore dopo l'inizio della marcia.
Anche per me ci voleva un paio di scarpe: era chiaro.
Pure ci volle forse un'ora perché riuscissi a vincere
la nausea, la febbre e l'inerzia. Ne trovai un paio nel
corridoio (i sani avevano saccheggiato il deposito delle
scarpe dei ricoverati, e si erano prese le migliori: le
piú scadenti, sfondate e spaiate, giacevano in tutti i
canti). Proprio là incontrai Kosman, un alsaziano. Era,
da civile, corrispondente della «Reuter » a Clermont-Ferrand:
anche lui eccitato ed euforico. Disse: - Se dovessi tu ritornare
prima di me, scrivi al sindaco di Metz che io sto per rientrare.
Kosman aveva notoriamente conoscenze fra i Prominenti,
perciò il suo ottimismo mi parve buon indizio e lo
utilizzai per giustificare davanti a me stesso la
mia inerzia. Nascosi le scarpe e ritornai a letto.
A tarda notte venne ancora il medico greco, con un
sacco sulle spalle e un passamontagna. Gettò sulla mia
cuccetta un romanzo francese: - Tieni, leggi, italiano.
Me lo renderai quando ci rivedremo -. Ancora oggi lo
odio per questa sua frase. Sapeva che noi eravamo condannati.
E venne finalmente Alberto, sfidando il divieto, a
salutarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi
eravamo «í due italiani », e per lo piú i compagni stra-
nieri confondevano i nostri nomi. Da sei mesi divide-
vamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato
extra-razione; ma lui aveva superata la scarlattina da
bambino, e io non avevo quindi potuto contagiarlo.
Perciò lui partí e io rimasi. Ci salutammo, non occor-
revano molte parole, ci eravamo dette tutte le nostre
cose già infinite volte. Non credevamo che saremmo
rimasti a lungo separati. Aveva trovato grosse scarpe
di cuoio, in discreto stato: era uno di quelli che tro-
vano subito tutto ciò di cui hanno bisogno.
Anche lui era allegro e fiducioso, come tutti quelli
che partivano. Era comprensibile: stava per accadere
qualcosa di grande e di nuovo: si sentiva finalmente
intorno una forza che non era quella della Germania,
sí sentiva materialmente scricchiolare tutto quel nostro
mondo maledetto. O almeno, questo sentivano i
sani, che, per quanto stanchi e affamati, avevano modo
di muoversi; ma è indiscutibile che chi è troppo debole,
o nudo, o scalzo, pensa e sente in un altro modo,
e ciò che dominava le nostre menti era la sensazione
paralizzante di essere totalmente inermi e in mano alla sorte.
Tutti i sani (tranne qualche ben consigliato che
all'ultimo istante si spogliò e si cacciò in qualche cuccetta
di infermeria) partirono nella notte sul 18 gennaio 1945.
Dovevano essere circa ventimila, provenienti da vari campi.
Nella quasi totalità, essi scomparvero durante la marcia
di evacuazione: Alberto è fra questi. Qualcuno scriverà
forse un giorno la loro storia.
Noi restammo dunque nei nostri giacigli, soli con le
nostre malattie, e con la nostra inerzia piú forte della paura.
Nell'intero Ka-Be eravamo forse ottocento. Nella
nostra camera eravamo rimasti undici, ciascuno in una
cuccetta, tranne Charles e Arthur che dormivano insieme.
Spento il ritmo della grande macchina del Lager, incominciarono
per noi i dieci giorni fuori del mondo e del tempo.
18 gennaio. Nella notte dell'evacuazione le cucine
del campo avevano ancora funzionato, e il mattino se-
guente fu fatta nell'infermeria l'ultima distribuzione
di zuppa. L'impianto centrale di riscaldamento era
stato abbandonato; nelle baracche ristagnava ancora
un po' di calore, ma a ogni ora che passava, la tempe-
ratura sí andava abbassando, e si comprendeva che in
breve avremmo sofferto il freddo. Fuori ci dovevano
essere almeno 20 gradi sotto lo zero; la maggior parte dei
malati non aveva che la camicia, e alcuni nemmeno quella.
Nessuno sapeva quale fosse la nostra condizione.
Alcune SS erano rimaste, alcune torrette di guardia
erano ancora occupate.
Verso mezzogiorno un maresciallo delle SS fece il
giro delle baracche. Nominò in ognuna un capo-baracca
scegliendolo fra i non-ebrei rimasti, e dispose che
fosse immediatamente fatto un elenco dei malati,
distinti in ebrei e non-ebrei. La cosa pareva chiara. Nessuno
si stupí che i tedeschi conservassero fino all'ultimo
il loro amore nazionale per le classificazioni, e,
nessun ebreo pensò piú seriamente di vivere fino al
giorno successivo.
I due francesi non avevano capito ed erano spaventati.
Tradussi loro di malavoglia il discorso della SS;
trovavo irritante che avessero paura: non avevano ancora
un mese di Lager, non avevano quasi ancora fame,
non erano neppure ebrei, e avevano paura.
Fu fatta ancora una distribuzione di pane. Passai il
pomeriggio a leggere il libro lasciato dal medico: era
molto interessante e lo ricordo con bizzarra precisio-
ne. Feci anche una visita al reparto accanto, in cerca
di coperte: di là molti malati erano stati messi in uscita,
le loro coperte erano rimaste libere. Ne presi con
me alcune abbastanza calde.
Quando seppe che venivano dal Reparto Dissenteria
Arthur arricciò il naso: - Y-avait point besoin de
le dire -; infatti erano macchiate. Io pensavo che in
ogni modo, dato ciò che ci aspettava, sarebbe stato
meglio dormire ben coperti.
Fu presto notte, ma la luce elettrica funzionava ancora.
Vedemmo con tranquillo spavento che all'angolo della
baracca stava una SS armata. Non avevo voglia di parlare,
e non provavo timore se non nel modo esterno e condizionale
che ho detto. Continuai a leggere fino a tarda ora.
Non vi erano orologi, ma dovevano essere le ventitre
quando tutte le luci si spensero, anche quelle dei
riflettori sulle torrette di guardia. Si vedevano lontano
i fasci dei fotoelettrici. Fiori in cielo un grappolo
di luci intense, che si mantennero immobili illumi-
nando crudamente il terreno. Si sentiva il rombo degli
apparecchi.
Poi cominciò il bombardamento. Non era cosa nuova,
scesi a terra, infilai i piedi nudi nelle scarpe e attesi.
Sembrava lontano, forse su Auschwitz.
Ma ecco un'esplosione vicina, e, prima di poter formulare
un pensiero, una seconda e una terza da sfondare le orecchie.
Si sentirono vetri rovinare, la baracca oscillò,
cadde a terra il cucchiaio che tenevo infisso in
una commessura della parete di legno.
Poi parve finito. Cagnolati, un giovane contadino,
egli pure dei Vosgi, non doveva aver mai visto una
incursione: era uscito nudo dal letto, si era appiattato
in un angolo e urlava.
Dopo pochi minuti fu evidente che il campo era
stato colpito. Due baracche bruciavano con violenza,
altre due erano state polverizzate, ma erano tutte baracche
vuote. Arrivarono decine di malati, nudi e miserabili,
da una baracca minacciata dal fuoco: chiedevano ricovero.
Impossibile accoglierli. Insistettero, supplicando e
minacciando in molte lingue: dovemmo barricare la porta.
Si trascinarono altrove, illuminati dalle fiamme,
scalzi nella neve in fusione. A molti pendevano dietro
i bendaggi disfatti. Per la nostra baracca non pareva
ci fosse pericolo, a meno che il vento non girasse.
I tedeschi non c'erano piú. Le torrette erano vuote.
Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un
Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni
parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell'ora
il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme
passò come un vento per tutti gli animi.
Non si poteva dormire; un vetro era rotto e faceva
molto freddo. Pensavo che avremmo dovuto cercare
una stufa da installare, e procurarci carbone, legna e
viveri. Sapevo che tutto questo era necessario, ma
senza l'appoggio di qualcuno non avrei mai avuto l'energia
di metterlo in atto. Ne parlai coi due francesi.
19 gennaio. I francesi furono d'accordo. Ci alzammo
all'alba, noi tre. Mi sentivo malato e inerme, avevo
freddo e paura.
Gli altri malati ci guardarono con curiosità rispettosa:
non sapevamo che ai malati non era permesso uscire dal Ka-Be?
E se i tedeschi non erano ancora tutti partiti?
Ma non dissero nulla, erano contenti che ci
fosse qualcuno per fare la prova.
I francesi non avevano alcuna idea della topografia
del Lager, ma Charles era coraggioso e robusto, e Arthur
era sagace e aveva un buon senso pratico di contadino.
Uscimmo nel vento di una gelida giornata di
nebbia, malamente avvolti in coperte.
Quello che vedemmo non assomiglia a nessuno spettacolo
che io abbia mai visto né sentito descrivere.
Il Lager, appena morto, appariva già decomposto.
Niente piú acqua ed elettricità: finestre e porte sfondate
sbattevano nel vento, stridevano le lamiere sconnesse
dei tetti, e le ceneri dell'incendio volavano alto
e lontano. All'opera delle bombe si aggiungeva l'opera
degli uomini: cenciosi, cadenti, scheletrici, i malati in
grado di muoversi si trascinavano per ogni dove, come
una invasione di vermi, sul terreno indurito dal gelo.
Avevano rovistato tutte le baracche vuote in cerca di
alimenti e di legna; avevano violato con furia insen-
sata le camere degli odiati Blockälteste, grottescamente
adorne, precluse fino al giorno prima ai comuni
Häftlinge; non piú padroni dei propri visceri, aveva-
no insozzato dovunque, inquinando la preziosa neve,
unica sorgente d'acqua ormai per l'intero campo.
Attorno alle rovine fumanti delle baracche bruciate,
gruppi di malati stavano applicati al suolo, per succhiarne
l'ultimo calore. Altri avevano trovato patate
da qualche parte, e le arrostivano sulle braci dell'in-
cendio, guardandosi intorno con occhi feroci. Pochi
avevano avuto la forza di accendersi un vero fuoco, e
vi facevano fondere la neve in recipienti di fortuna.
Ci dirigemmo alle cucine piú in fretta che potemmo,
ma le patate erano già quasi finite. Ne riempimmo
due sacchi, e li lasciammo in custodia ad Arthur. Tra
le macerie del Prominenzblock, Charles ed io trovam-
mo finalmente quanto cercavamo: una pesante stufa
di ghisa, con tubi ancora utilizzabili: Charles accorse
con una carriola e caricammo; poi lasciò a me l'inca-
rico di portarla in baracca e corse ai sacchi. Là trovò
Arthur svenuto per il freddo; Charles si caricò entrambi
i sacchi e li portò al sicuro, poi si occupò dell'amico.
Intanto io, reggendomi a stento, cercavo di mano-
vrare del mio meglio la pesante carriola. Si udí un
fremito di motore, ed ecco, una SS in motocicletta
entrò nel campo. Come sempre, quando vedevamo i
loro visi duri, mi sentii sommergere di terrore e di
odio. Era troppo tardi per scomparire, e non volevo
abbandonare la stufa. Il regolamento del Lager pre-
scriveva di mettersi sull'attenti e di scoprirsi il capo.
Io non avevo cappello ed ero impacciato dalla coperta.
Mi allontanai qualche passo dalla carriola e feci una
specie di goffo inchino. Il tedesco passò oltre senza
vedermi, svoltò attorno a una baracca e se ne andò.
Seppi piú tardi quale pericolo avevo corso.
Raggiunsi finalmente la soglia della nostra baracca,
e sbarcai la stufa nelle mani di Charles. Ero senza fiato
per lo sforzo, vedevo danzare grandi macchie nere.
Si trattava di metterla in opera. Avevamo tutti e tre
le mani paralizzate, e il metallo gelido si incollava alla
pelle delle dita, ma era urgente che la stufa funzionasse,
per scaldarci e per bollire le patate. Avevamo trovato
legna e carbone, e anche brace proveniente dalle
baracche bruciate.
Quando fu riparata la finestra sfondata, e la stufa
cominciò a diffondere calore, parve che in ognuno
qualcosa si distendesse, e allora avvenne che Towarowski
(un franco-polacco di ventitre anni, tifoso) propose
agli altri malati di offrire ciascuno una fetta di
pane a noi tre che lavoravamo, e la cosa fu accettata.
Soltanto un giorno prima un simile avvenimento
non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager di-
ceva: « mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo
vicino », e non lasciava posto per la gratitudine. Voleva
ben dire che il Lager era morto.
Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi.
Credo che si potrebbe fissare a quel momento l'inizio
del processo per cui, noi che non siamo morti, da Häftlinge
siamo lentamente ridiventati uomini.
Arthur si era ripreso abbastanza bene, ma da allora
evitò sempre di esporsi al freddo; si assunse la manutenzione
della stufa, la cottura delle patate, la pulizia
della camera e l'assistenza ai malati. Charles ed io ci
dividemmo i vari servizi all'esterno. C'era ancora
un'ora di luce: una sortita ci fruttò mezzo litro di spirito
e un barattolo di lievito di birra, buttato nella
neve da chissà chi; facemmo una distribuzione di patate
bollite e di un cucchiaio a testa di lievito. Pensavo
vagamente che potesse giovare contro l'avitaminosí.
Venne l'oscurità; di tutto il campo la nostra era
l'unica camera munita di stufa, del che eravamo assai
fieri. Molti malati di altre sezioni si accalcavano alla
porta, ma la statura imponente di Charles li teneva a
bada. Nessuno, né noi né loro, pensava che la promi-
scuità inevitabile coi nostri malati rendeva pericolo-
sissimo il soggiorno nella nostra camera, e che ammalarsi
di difterite in quelle condizioni era piú sicura-
mente mortale che saltare da un terzo piano.
Io stesso, che ne ero conscio, non mi soffermavo
troppo su questa idea: da troppo tempo mi ero abi-
tuato a pensare alla morte per malattia come ad un
evento possibile, e in tal caso ineluttabile, e comunque
al di fuori di ogni possibile nostro intervento. E
neppure mi passava per il capo che avrei potuto stabi-
lirmi in un'altra camera, in un'altra baracca con minor
pericolo di contagio; qui era la stufa, opera nostra, che
diffondeva un meraviglioso tepore; e qui avevo un
letto; e infine, ormai, un legame ci univa, noi, gli undici
malati della Infektionsabteilung.
Si sentiva di rado un fragore vicino e lontano di
artiglieria, e a intervalli, un crepitio di fucili automatici.
Nell'oscurità rotta solo dal rosseggiare della brace,
Charles, Arthur ed io sedevamo fumando sigarette
di erbe aromatiche trovate in cucina, e parlando di
molte cose passate e future. In mezzo alla sterminata
pianura piena di gelo e di guerra, nella cameretta buia
pullulante di germi, ci sentivamo in pace con noi e col
mondo. Eravamo rotti di fatica, ma ci pareva, dopo
tanto tempo, di avere finalmente fatto qualcosa di
utile; forse come Dio dopo il primo giorno della creazione.
20 gennaio. Giunse l'alba, ed ero io di turno per
l'accensione della stufa. Oltre alla debolezza generale,
le articolazioni dolenti mi ricordavano a ogni momen-
to che la mia scarlattina era lungi dall'essere scomparsa.
Il pensiero di dovermi tuffare nell'aria gelida in
cerca di fuoco per le altre baracche mi faceva tremare
di ribrezzo.
Mi rammentai delle pietrine; cosparsi di spirito un
foglietto di carta, e con pazienza da una pietrina vi raschiai
sopra un mucchietto di polvere nera, poi presi
a raschiare piú forte la pietrina col coltello. Ed ecco:
dopo qualche scintilla il mucchietto deflagrò, e dalla
carta si levò la fiammella pallida dell'alcool.
Arthur discese entusiasta dal letto e fece scaldare tre
patate a testa fra quelle bollite il giorno avanti; dopo
di che, affamati e pieni di brividi, Charles ed io partimmo
nuovamente in perlustrazione per il campo in sfacelo.
Ci restavano viveri (e cioè patate) per due giorni
soltanto; per l'acqua eravamo ridotti a fondere la neve,
operazione penosa per la mancanza di grandi recipienti,
da cui si otteneva un liquido nerastro e torbido
che era necessario filtrare.
Il campo era silenzioso. Altri spettri affamati si
aggiravano come noi in esplorazione: barbe ormai lunghe,
occhi incavati, membra scheletrite e giallastre
fra i cenci. Malfermi sulle gambe, entravano e usci-
vano dalle baracche deserte, asportandone gli oggetti
píu vari: scuri, secchi, mestoli, chiodi; tutto poteva
servire, e i piú lungimiranti già meditavano fruttuosi
mercati con i polacchi della campagna circostante.
Nella cucina, due si accapigliavano per le ultime decine
di patate putride. Si erano afferrati per gli stracci
e si percuotevano con curiosi gesti lenti e incerti, vitu-
perandosi in yiddisch fra íe labbra gelate.
Nel cortile del magazzino stavano due grandi mucchi
di cavoli e di rape (le grosse rape insipide, base
della nostra alimentazione). Erano cosí gelati che non
sí potevano staccare se non col piccone. Charles ed io
ci avvicendammo, tendendo tutte le nostre energie
per ogni colpo, e ne estraemmo una cinquantina di
chili. Vi fu anche altro: Charles trovò un pacco di sale
e (« une fameuse trouvaille! ») un bidone d'acqua di
forse mezzo ettolitro, allo stato di ghiaccio massiccio.
Caricammo ogni cosa su di un carrettino (servivano
prima per distribuire il rancio alle baracche: ve n'era
un gran numero abbandonati ovunque), e rientrammo
spingendolo faticosamente sulla neve.
Per quel giorno ci accontentammo ancora di patate
bollite e fette di rapa arrostite sulla stufa, ma per
l'indomani Arthur ci promise importanti innovazioni.
Nel pomeriggio andai all'ex ambulatorio, in cerca
di qualcosa di utile. Ero stato preceduto: tutto era
stato manomesso da saccheggiatori inesperti. Non piú
una bottiglia intera, sul pavimento uno strato di stracci,
sterco e materiale di medicazione, un cadavere
nudo e contorto. Ma ecco qualcosa che ai miei prede-
cessori era sfuggito: una batteria da autocarro. Toccai
i poli coí coltello: una piccola scintilla. Era carica.
A sera la nostra camera aveva la luce.
Stando a letto, vedevo dalla finestra un lungo tratto
di strada: vi passava a ondate, già da tre giorni, la
Wehrmacht in fuga. Autoblinde, carri « tigre» mimetizzati
in bianco, tedeschi a cavallo, tedeschi in bicicletta,
tedeschi a piedi, armati e disarmati. Si udiva
nella notte il fracasso dei cingoli molto prima che i
carri fossero visibili.
Chiedeva Charles: - Ca roule encore?
- Ca roule toujours.
Sembrava non dovesse mai finire.
21 gennaio. Invece finí. Coll'alba del 21 la pianura
ci apparve deserta e rigida, bianca a perdita d'occhio
sotto il volo dei corvi, mortalmente triste.
Avrei quasi preferito vedere ancora qualcosa in mo-
vimento. Anche i civili polacchi erano scomparsi,
appiattati chissà dove. Pareva che perfino il vento si fosse
arrestato. Avrei desiderato una cosa soltanto: restare
a letto sotto le coperte, abbandonarmi alla stanchezza
totale di muscoli, nervi e volontà; aspettare che
finisse, o che non finisse, era la stessa cosa, come un morto.
Ma già Charles aveva acceso la stufa, l'uomo Charles
alacre, fiducioso e amico, e mi chiamava al lavoro:
- Vas-y, Primo, descends-toi de là-haut; il y a Jules
à attraper par les oreilles...
«Jules » era il secchio della latrina, che ogni mattina
bisognava afferrare per i manici, portare all'esterno
e rovesciare nel pozzo nero: era questa la prima bisogna
della giornata, e se si pensa che non era possibile
lavarsi le mani, e che tre dei nostri erano ammalati di
tifo, si comprende che non era un lavoro gradevole.
Dovevamo inaugurare i cavoli e le rape. Mentre io
andavo a cercare legna, e Charles a raccogliere neve
da sciogliere, Arthur mobilitò i malati che potevano
star seduti, perché collaborassero nella mondatura.
Towarowski, Sertelet, Alcalai e Schenck risposero all'appello.
Anche Sertelet era un contadino dei Vosgi, di vent'anni;
pareva in buone condizioni, ma di giorno in
giorno la sua voce andava assumendo un sinistro timbro
nasale, a ricordarci che la difterite raramente perdona.
Alcalai era un vetraio ebreo di Tolosa; era molto
tranquillo e assennato, soffriva di risipola al viso.
Schenck era un commerciante slovacco, ebreo: convalescente
di tifo, aveva un formidabile appetito. Cosí pure
Towarowski, ebreo franco-polacco, sciocco e
ciarliero, ma utile alla nostra comunità per il suo
comunicativo ottimismo.
Mentre dunque i malati lavoravano di coltello, cia-
scuno seduto sulla sua cuccetta, Charles ed io ci dedicammo
alla ricerca di una sede possibile per le operazioni di cucina.
Una indescrivibile sporcizia aveva invaso ogni reparto
del campo. Colmate tutte le latrine, della cui
manutenzione naturalmente nessuno piú si curava, i
dissenterici (erano piú di un centinaio) avevano insoz-
zato ogni angolo del Ka-Be, riempito tutti i secchi,
tutti i bidoni già destinati al rancio, tutte le gamelle.
Non si poteva muovere un passo senza sorvegliare il
piede; al buio era impossibile spostarsi. Pur soffrendo
per il freddo, che si manteneva acuto, pensavamo con
raccapriccio a quello che sarebbe accaduto se fosse
sopraggiunto il disgelo: le infezioni avrebbero dilagato
senza riparo, il fetore si sarebbe fatto soffocante, e
inoltre, sciolta la neve, saremmo rimasti definitivamente senz'acqua.
Dopo una lunga ricerca, trovammo infine, in un locale
già adibito a lavatoio, pochi palmi di pavimento
non eccessivamente imbrattato. Vi accendemmo un
fuoco vivo, poi, per risparmiare tempo e complicazioni,
ci disinfettammo le mani frizionandole con doramina mista a neve.
La notizia che una zuppa era in cottura si sparse
rapidamente fra la folla dei semivivi; si formò sulla porta
un assembramento di visi famelici. Charles, il mestolo
levato, tenne loro un vigoroso breve discorso
che, pur essendo in francese, non abbisognava di traduzione.
I piú si dispersero, ma uno si fece avanti: era un
parigino, sarto di classe (diceva lui), ammalato di polmoni.
In cambio di un litro di zuppa si sarebbe messo
a nostra disposizione per tagliarci abiti dalle numerose
coperte rimaste in campo.
Maxime si dimostrò veramente abile. Il giorno dopo
Charles ed io possedevamo giacca, brache e guantoni
di ruvido tessuto a colori vistosi.
A sera, dopo la prima zuppa distribuita con entu-
siasmo e divorata con avidità, il grande silenzio della
pianura fu rotto. Dalle nostre cuccette, troppo stanchi
per essere profondamente inquieti, tendevamo l'orecchio
agli scoppi di misteriose artiglierie, che pare-
vano localizzate in tutti i punti dell'orizzonte, e ai si-
bili dei proiettili sui nostri capi.
Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora
stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato
lasciarsi sommergere adesso. Svegliai quelli tra i malati
che sonnecchiavano, e quando fui sicuro che tutti
ascoltavano, dissi loro, in francese prima, nel mio migliore
tedesco poi, che tutti dovevano pensare ormai
di ritornare a casa, e che, per quanto dipendeva da
noi, alcune cose era necessario fare, altre necessario
evitare. Che ognuno conservasse attentamente la sua
propria gamella e il cucchiaio; che nessuno offrisse ad
altri la zuppa che eventualmente gli fosse avanzata;
nessuno scendesse dal letto se non per andare alla latrina;
chi avesse bisogno di un qualsiasi servizio, non
si rivolgesse ad altri che a noi tre; Arthur particolarmente
era incaricato di vigilare sulla disciplina e sull'igiene,
e doveva ricordare che era meglio lasciare gamelle e
cucchiai sporchi, piuttosto che lavarli col pericolo
di scambiare quelli di un difterico con quelli di un tifoso.
Ebbi l'impressione che i malati fossero ormai troppo
indifferenti a ogni cosa per curarsi di quanto avevo
detto; ma avevo molta fiducia nella diligenza di Arthur.
22 gennaio. Se è coraggioso chi affronta a cuor leggero
un grave pericolo, Charles ed io quel mattino
fummo coraggiosi. Estendemmo le nostre esplorazioni
al campo delle SS, subito fuori del reticolato elettrico.
Le guardie del campo dovevano essere partite con
molta fretta. Trovammo sui tavoli piatti pieni per
metà di minestra ormai congelata, che divorammo con
intenso godimento; boccali ancor colmi di birra tra-
sformata in ghiaccio giallastro, una scacchiera con una
partita incominciata. Nelle camerate, una quantità di
roba preziosa.
Ci caricammo una bottiglia di vodka, medicinali
vari, giornali e riviste e quattro ottime coperte imbot-
tite, una delle quali è oggi nella mia casa di Torino.
Lieti e incoscienti, riportammo nella cameretta il frutto
della sortita, affidandolo all'amministrazione di Arthur.
Solo a sera si seppe quanto era successo forse mezz'ora piú tardi.
Alcune SS, forse disperse, ma armate, penetrarono
nel campo abbandonato. Trovarono che diciotto francesi
si erano stabiliti nel refettorio della SS-Waffe. Li
uccisero tutti metodicamente, con un colpo alla nuca,
allineando poi i corpi contorti sulla neve della strada;
indi se ne andarono. I diciotto cadaveri restarono esposti
fino all'arrivo dei russi; nessuno ebbe la forza
di dar loro sepoltura.
D'altronde, in tutte le baracche v'erano ormai letti
occupati da cadaveri, rigidi come legno, che nessuno
si curava piú di rimuovere. La terra era troppo gelata
perché vi si potessero scavare fosse; molti cadaveri
furono accatastati in una trincea, ma già fin dai primi
giorni il mucchio emergeva dallo scavo ed era turpe-
mente visibile dalla nostra finestra.
Solo una parete di legno ci separava dal reparto dei
dissenterici. Qui molti erano i moribondi, molti i morti.
Il pavimento era ricoperto da uno strato di escre-
menti congelati. Nessuno aveva piú forza di uscire
dalle coperte per cercare cibo, e chi prima lo aveva
fatto non era ritornato a soccorrere i compagni. In
uno stesso letto, avvinghiati per resistere meglio al
freddo, proprio accanto alla parete divisoria, stavano
due italiani: li sentivo spesso parlare, ma poiché io
invece non parlavo che francese, per molto tempo non
sí accorsero della mia presenza. Udirono quel giorno
per caso il mio nome, pronunziato all'italiana da Charles,
e da allora non smisero di gemere e di implorare.
Naturalmente avrei voluto aiutarli, avendone i mezzi
e la forza; se non altro per far smettere l'ossessione
delle loro grida. A sera, quando tutti i lavori furono
finiti, vincendo la fatica e il ribrezzo, mi trascinai a
tentoni per il corridoio lercio e buio, fino al loro
reparto, con una gamella d'acqua e gli avanzi della nostra
zuppa del giorno. Il risultato fu che da allora, attraverso
la sottile parete, l'intera sezione diarrea chiamò
giorno e notte il mio nome, con le inflessioni di
tutte le lingue d'Europa, accompagnato da preghiere
incomprensibili, senza che io potessi comunque porvi
riparo. Mi sentivo prossimo a piangere, li avrei maledetti.
La notte riservò brutte sorprese.
Lakmaker, della cuccetta sotto la mia, era uno scia-
gurato rottame umano. Era (od era stato) un ebreo
olandese di diciassette anni, alto, magro e mite. Era
in letto da tre mesi, non so come fosse sfuggito alle
selezioni. Aveva avuto successivamente il tifo e la
scarlattina; intanto gli si era palesato un grave vizio
cardiaco, ed era brutto di piaghe da decubito, tanto
che non poteva ormai giacere che sul ventre. Con tutto
ciò, un appetito feroce; non parlava che olandese, nessuno
di noi era in grado di comprenderlo.
Forse causa di tutto fu la minestra di cavoli e rape,
di cui Lakmaker aveva voluto due razioni. A metà
notte gemette, poi si buttò dal letto. Cercava di
raggiungere la latrina, ma era troppo debole e cadde a
terra, piangendo e gridando forte.
Charles accese la luce (l'accumulatore si dimostrò
provvidenziale) e potemmo constatare la gravità dell'incidente.
Il letto del ragazzo e il pavimento erano
imbrattati. L'odore nel piccolo ambiente diventava
rapidamente insopportabile. Non avevamo che una
minima scorta d'acqua, e non coperte né pagliericci
di ricambio. E il poveretto, tifoso, era un terribile
focolaio di infezione; né si poteva certo lasciarlo tutta la
notte sul pavimento a gemere e tremare di freddo in
mezzo alla lordura.
Charles discese dal letto e si rivestí in silenzio. Mentre
io reggevo il lume, ritagliò col coltello dal pagliericcio
e dalle coperte tutti i punti sporchi; sollevò da
terra Lakmaker colla delicatezza di una madre, lo ripulí
alla meglio con paglia estratta dal saccone, e lo
ripose di peso nel letto rifatto, nell'unica posizione in
cui il disgraziato poteva giacere; raschiò il pavimento
con un pezzo di lamiera; stemperò un po' di cloramina,
e infine cosparse di disinfettante ogni cosa e anche se stesso.
Io misuravo la sua abnegazione dalla stanchezza che
avrei dovuto superare in me per fare quanto lui faceva.
23 gennaio. Le nostre patate erano finite. Circolava
da giorni per le baracche la voce che un enorme
silo di patate fosse situato da qualche parte, fuori del
filo spinato, non lontano dal campo.
Qualche pioniere ignorato deve aver fatto pazienti
ricerche, o qualcuno doveva sapere con precisione il
luogo: di fatto, il mattino del 23 un tratto di filo spinato
era stato abbattuto, e una doppia processione di
miserabili usciva ed entrava dall'apertura.
Charles ed io partimmo, nel vento della pianura livida.
Fummo oltre la barriera abbattuta.
- Dis donc, Primo, on est dehors!
Era cosí: per la prima volta dal giorno del mio arresto,
mi trovavo libero, senza custodi armati, senza
reticolati fra me e la mia casa.
A forse quattrocento metri dal campo, giacevano le
patate: un tesoro. Due fosse lunghissime, piene di patate,
e ricoperte di terra alternata con paglia a difesa
dal gelo. Nessuno sarebbe piú morto di fame.
Ma l'estrazione non era lavoro da nulla. A causa
del gelo, la superficie del terreno era dura come marmo.
Con duro lavoro di piccone si riusciva a perforare
la crosta e a mettere a nudo il deposito; ma i piú preferivano
introdursi nei fori abbandonati da altri, spingendosi
molto profondi e passando le patate ai compagni
che stavano all'esterno.
Un vecchio ungherese era stato sorpreso colà dalla
morte. Giaceva irrigidito nell'atto dell'affamato: capo
e spalle sotto il cumulo di terra, il ventre nella neve,
tendeva le mani alle patate. Chi venne dopo spostò il
cadavere di un metro, e riprese il lavoro attraverso
l'apertura resasi libera.
Da allora il nostro vitto migliorò. Oltre alle patate
bollite e alla zuppa di patate, offrimmo ai nostri malati
frittelle di patate, su ricetta di Arthur: si raschiano
patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela
si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine.
Ma non ne poté godere Sertelet, il cui male progrediva.
Oltre a parlare con timbro sempre piú nasale,
quel giorno non riuscí piú a inghiottire a dovere alcun
alimento: qualcosa gli si era guastato in gola, ogni boccone
minacciava di soffocarlo.
Andai a cercare un medico ungherese rimasto come
malato nella baracca di fronte. Come udí parlare di difterite,
fece tre passi indietro e mi ingiunse di uscire.
Per pure ragioni di propaganda, feci a tutti instillazioni
nasali di olio canforato. Assicurai Sertelet che ne
avrebbe tratto giovamento; io stesso cercavo di convincermene.
24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce
ne dava l'immagine concreta. A porvi mente con atten-
zione voleva dire non piú tedeschi, non piú selezioni,
non lavoro, non botte, non appelli, e forse, piú tardi, il ritorno.
Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno
aveva tempo di goderne. Intorno tutto era distruzione e morte.
Il mucchio di cadaveri, di fronte alla nostra finestra,
rovinava ormai fuori della fossa. Nonostante le patate,
la debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun
ammalato guariva, molti invece si ammalavano
di polmonite e diarrea; quelli che non erano stati in
grado di muoversi, o non avevano avuto l'energia di
farlo, giacevano torpidi nelle cuccette, rigidi dal freddo,
e nessuno si accorgeva di quando morivano.
Gli altri erano tutti spaventosamente stanchi: dopo
mesi e anni di Lager, non sono le patate che possono
rimettere in forza un uomo. Quando, a cottura ulti-
mata, Charles ed io avevamo trascinato i venticinque
litri di zuppa quotidiana dal lavatoio alla camera, do-
vevamo poi gettarci ansanti sulla cuccetta, mentre Arthur,
diligente e domestico, faceva la ripartizione, curando
che avanzassero le tre razioni di « rabiot pour
les travailleurs » e un po' di fondo « pour les italiens
d'à côté ».
Nella seconda camera di Infettivi, anche essa attigua
alla nostra e abitata in maggioranza da tubercolotici,
la situazione era ben diversa. Tutti quelli che lo
avevano potuto, erano andati a stabilirsi in altre baracche.
I compagni piú gravi e piú deboli si spegnevano a
uno a uno in solitudine.
Vi ero entrato un mattino per cercare in prestito
un ago. Un malato rantolava in una delle cuccette superiori.
Mi udí, si sollevò a sedere, poi si spenzolò a
capofitto oltre la sponda, verso di me, col busto e le
braccia rigidi e gli occhi bianchi. Quello della cuccetta
di sotto, automaticamente, tese in alto le braccia per
sostenere quel corpo, si accorse allora che era morto.
Cedette lentamente sotto il peso, l'altro scivolò a terra
e vi rimase. Nessuno sapeva il suo nome.
Ma nella baracca 14 era successo qualcosa di nuovo.
Vi erano ricoverati gli operati, alcuni dei quali in
discrete condizioni. Essi organizzarono una spedizione
al campo degli inglesi prigionieri di guerra, che si pre-
sumeva fosse stato evacuato. Fu una fruttuosa impresa.
Ritornarono vestiti in kaki, con un carretto pieno
di meraviglie mai viste: margarina, polveri per budino,
lardo, farina di soia, acquavite.
A sera, nella baracca 14 si cantava.
Nessuno di noi si sentiva la forza di fare i due chilometri
di strada al campo inglese e ritornare col carico.
Ma, indirettamente, la fortunata spedizione ritornò
di vantaggio a molti. La ineguale ripartizione dei beni
provocò un rifiorire di industria e di commercio. Nella
nostra cameretta dall'atmosfera mortale, nacque
una fabbrica di candele con stoppino imbevuto di acido borico,
colate in forme di cartone. I ricchi della baracca 14 assorbivano
l'intera nostra produzione, pagandoci in lardo e farina.
Io stesso avevo trovato il blocco di cera vergine nell'Elektromagazin;
ricordo l'espressione di disappunto di coloro che me lo videro
portar via, e il dialogo che ne seguí:
- Che te ne vuoi fare?
Non era il caso di svelare un segreto di fabbricazione;
sentii me stesso rispondere con le parole che avevo
spesso udite dai vecchi del campo, e che contengono
il loro vanto preferito: di essere «buoni prigionieri »,
gente adatta, che se la sa sempre cavare; - Ich verstehe
verschiedene Sachen... - (Me ne intendo di varie cose...)
25 gennaio. Fu la volta di Sómogyi. Era un chimico
ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno.
Come l'olandese, era convalescente di tifo e di
scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu
preso da una febbre intensa. Da forse cinque giorni
non aveva detto parola: aprí bocca quel giorno e disse con voce ferma:
- Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividetela
voi tre. Io non mangerò piú.
Non trovammo nulla da dire, ma per allora non toccammo
il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso.
Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro.
Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza
interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo
un ultimo interminabile sogno di remissione
e di schiavitú, prese a mormorare «Jawohl » ad ogni
emissione di respiro; regolare e costante come una
macchina, «Jawohl » ad ogni abbassarsi della povera
rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far
venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno
cambiasse parola.
Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa
la morte di un uomo.
Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi
era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo
a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell'artiglieria.
Tutti si dicevano a vicenda che i russi presto, subito,
sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti
ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serena-
mente capace. Perché nei Lager si perde l'abitudine
di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In
Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono
per lo piú in modo imprevedibile; ed è dannoso, per-
ché mantiene viva una sensibilità che è fonte di do-
lore, e che qualche provvida legge naturale ottunde
quando le sofferenze sorpassano un certo limite.
Come della gioia, della paura, del dolore medesimo,
cosí anche dell'attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio,
rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo
che pure era un mondo, i piú fra noi erano troppo esausti
perfino per attendere.
A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles,
Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo
parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur
sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi,
e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell'armistizio
in Italia, dell'inizio torbido e disperato della resistenza
partigiana, dell'uomo che ci aveva traditi e della nostra
cattura sulle montagne.
Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non
perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano
il francese. Soltanto Sómogyi si accaniva a confermare
alla morte la sua dedizione.
26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti
e di larve. L'ultima traccia di civiltà era sparita intorno
a noi e dentro di noi. L'opera di bestializzazione,
intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata
a compimento dai tedeschi disfatti.
è uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia;
non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il
letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino
finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è,
pur senza sua colpa, piú lontano dal modello dell'uomo
pensante, che il piú rozzo pigmeo e il sadico piú atroce.
Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi
ci accosta: ecco perché è non-umana l'esperienza di
chi ha vissuto giorni in cui l'uomo è stato una cosa
agli occhi dell'uomo. Noi tre ne fummo in gran parte
immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò
la mia amicizia con Charles resisterà al tempo.
Ma a migliaia di metri sopra di noi, negli squarci
fra le nuvole grige, si svolgevano i complicati miracoli
dei duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti inermi, uomini
del nostro tempo cercavano la reciproca morte
coi piú raffinati strumenti. Un loro gesto del dito
poteva provocare la distruzione del campo intero,
annientare migliaia di uomini; mentre la somma di tutte
le nostre energie e volontà non sarebbe bastata a
prolungare di un minuto la vita di uno solo di noi.
La sarabanda cessò a notte, e la camera fu di nuovo
piena del monologo di Sómogyi.
In piena oscurità mi trovai sveglio di soprassalto.
«L'pauv' vieux » taceva: aveva finito. Con l'ultimo
sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta:
ho udito l'urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del capo.
- La mort l'a chassé de son lit, - definí Arthur.
Non potevamo certo portarlo fuori nella notte. Non ci
restava che riaddormentarci.
27 gennaio. L'alba. Sul pavimento, l'infame tumulto
di membra stecchite, la cosa Sómogyi.
Ci sono lavori piú urgenti: non ci si può lavare, non
possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato.
E inoltre, «...rien de si dégoûtant que les débordements »,
dice giustamente Charles; bisogna vuotare la latrina.
I vivi sono piú esigenti; i morti possono attendere.
Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno.
I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo
Sómogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo
la barella sulla neve grigia.
Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere berretto.
Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sómogyi
il solo che morí nei dieci giorni. Sertelet, Cagnolati,
Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest'ultimo
non ho finora parlato; era un industriale francese che,
dopo operato di peritonite, si era ammalato di difterite
nasale), sono morti qualche settimana piú tardi,
nell'infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho incontrato
a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in
buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua
famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di
maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di
poterlo ritrovare un giorno.

Avigliana-Torino, dicembre 1945 - gennaiO 1947.

APPENDICE
Ho scritto questa appendice nel 1976 per l'edizione scolastica di Se
questo è un uomo, per rispondere alle domande che costantemente mi
vengono rivolte dai lettori studenti. Tuttavia, poiché esse coincidono
ampiamente con le domande che ricevo dai lettori adulti, mi è sembrato
opportuno riportare integralmente le mie risposte anche su questa edizione.

Qualcuno, molto tempo fa, ha scritto che anche i libri, come
gli esseri umani, hanno un loro destino, imprevedibile,
diverso da quello che per loro si desiderava e si attendeva.
Anche questo libro ha avuto uno strano destino. Il suo atto
di nascita è lontano: lo potete trovare in una delle sue pagine,
la p. 184 di questa edizione, là dove si legge che «scrivo
quello che non saprei dire a nessuno»: era talmente forte in
noi il bisogno di raccontare, che il libro avevo incominciato a
scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra
e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto
in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla
meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi
fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita.
Ma ho scritto il libro appena sono tornato, nel giro di pochi
mesi: tanto quei ricordi mi bruciavano dentro. Rifiutato
da alcuni grossi editori, il manoscritto è stato accettato nel
1947 da una piccola casa editrice, diretta da Franco Antonicelli:
si stamparono 2500 copie, poi la casa editrice si sciolse
e il libro cadde nell'oblio, anche perché, in quel tempo di
aspro dopoguerra, la gente non aveva molto desiderio di ritor-
nare con la memoria agli anni dolorosi appena terminati. Ha
trovato nuova vita solo nel 1958, quando è stato ristampato
dall'editore Einaudi, e da allora l'interesse del pubblico non
è piú mancato. è stato tradotto in sei lingue, ridotto per la
radio e per il teatro.
è stato accettato dagli studenti e dagli insegnanti con un
favore che ha superato di molto le aspettative dell'editore e
mie. Centinaia di scolaresche, in tutte le regioni d'Italia, mi
hanno invitato a commentare il libro, per iscritto o possibil-
mente di persona: nei limiti dei miei impegni, ho soddisfatto
tutte queste richieste, tanto che ai miei due mestieri ne ho
volentieri aggiunto un terzo, quello di presentatore e com-
mentatore di me stesso, o meglio di quel lontano me stesso
che aveva vissuto l'avventura di Auschwitz e l'aveva raccon-
tata. Nel corso di questi numerosi incontri coi miei lettori stu-
denti mi è accaduto di dover rispondere a molte domande:
ingenue o consapevoli, commosse o provocatorie, superficiali
o fondamentali. Mi sono accorto presto che alcune di queste
domande ricorrevano con costanza, non mancavano mai: dovevano
dunque scaturire da una curiosità motivata e ragionata,
a cui in qualche modo il testo del libro non dava una risposta
soddisfacente. A queste domande mi sono proposto di
rispondere qui.
1. Nel Suo libro non si trovano espressioni di odio nei confronti
dei tedeschi, né rancore, né desiderio di vendetta.
Li ha perdonati?
Come mia indole personale, non sono facile all'odio. Lo ri-
tengo un sentimento animalesco e rozzo, e preferisco che in-
vece le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile,
nascano dalla ragione; per questo motivo, non ho mai colti-
vato entro me stesso l'odio come desiderio primitivo di ri-
valsa, di sofferenza inflitta al mio nemico vero o presunto,
di vendetta privata. Devo aggiungere che, a quanto mi pare di
vedere, l'odio è personale, è rivolto contro una persona, un
nome, un viso: ora, i nostri persecutori di allora non avevano
viso né nome, lo si ricava da queste stesse pagine: erano lon-
tani, invisibili, inaccessibili. Prudentemente, il sistema nazi-
sta faceva sí che i contatti diretti fra gli schiavi e i signori
fossero ridotti al minimo. Avrete notato che, in questo libro,
si descrive un solo incontro dell'autore-protagonista con una
SS (p. 206 ), e non per caso esso ha luogo solo negli ultimi
giorni, nel Lager in disfacimento, quando il sistema è saltato.
Del resto, nei mesi in cui questo libro è stato scritto, e cioè
nel 1946, il nazismo e il fascismo sembravano veramente senza
volto: sembravano ritornati al nulla, svaniti come un sogno
mostruoso, giustamente e meritatamente, cosí come spariscono
i fantasmi al canto del gallo. Come avrei potuto coltivare
rancore, volere vendetta, contro una schiera di fantasmi?
Non molti anni dopo, l'Europa e l'Italia si sono accorti che
questa era una ingenua illusione: il fascismo era ben lontano
dall'essere morto, era soltanto nascosto, incistato; stava fa-
cendo la sua muta, per ricomparire poi in una veste nuova,
un po' meno riconoscibile, un po' piú rispettabile, piú adatta
al nuovo mondo che era uscito dalla catastrofe della seconda
guerra mondiale che il fascismo stesso aveva provocata. Devo
confessare che davanti a certi visi non nuovi, a certe vecchie
bugie, a certe figure in cerca di rispettabilità, a certe indul-
genze, a certe connivenze, la tentazione dell'odio la provo, ed
anche con una certa violenza: ma io non sono un fascista, io
credo nella ragione e nella discussione come supremi strumenti
di progresso, e perciò all'odio antepongo la giustizia. Proprio
per questo motivo, nello scrivere questo libro, ho assunto
deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone,
non quello lamentevole della vittima né quello irato del ven-
dicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto píú
credibile ed utile quanto piú apparisse obiettiva e quanto
meno suonasse appassionata; solo cosí il testimone in giudizio
adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno
al giudice. I giudici siete voi.
Non vorrei tuttavia che questo mio astenermi dal giudizio
esplicito fosse confuso con un perdono indiscriminato. No
non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora
o in avvenire a perdonarne alcuno, a meno che non abbia di-
mostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di
essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fa-
scismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradi-
carli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso
sí, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico
e cristiano di perdonare il mio nemico; ma un nemico che si
ravvede ha cessato di essere un nemico.

2. I tedeschi sapevano? Gli Alleati sapevano? Come è possibile
che il genocidio, lo sterminio di milioni di esseri umani, abbia
potuto compiersi nel cuore dell'Europa senza che nessuno sapesse nulla?

Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti
e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al mondo di ieri
gode di un gigantesco vantaggio tutti possono sapere subito
tutto su tutto. L'informazione è oggi «il quarto potere»: almeno
in teoria, il cronista e il giornalista hanno via libera dap-
pertutto, nessuno può fermarli né allontanarli né farli tacere.
è tutto facile: se vuoi, senti la radio del tuo paese o di qua-
lunque altro paese; vai in edicola e scegli il giornale che prefe-
risci, italiano di qualunque tendenza, o americano, o sovietico,
entro un vasto ventaglio di alternative; compri e leggi i
libri che vuoi, senza pericolo di venire incriminato di «attività
antiitaliane» o di tirarti in casa una perquisizione della
polizia politica. Certo non è agevole sottrarsi a tutti i condi-
zionamenti, ma si può almeno scegliere il condizionamento
che si preferisce.
In uno Stato autoritario non è cosí. La Verità è una sola,
proclamata dall'alto; i giornali sono tutti uguali, tutti ripe-
tono questa stessa unica verità; cosí pure fanno le radiotra-
smittenti, e non puoi ascoltare quelle degli altri paesi, perché
in primo luogo, essendo questo un reato, rischi di finire in pri-
gione; in secondo luogo, le trasmittenti del tuo paese emet-
tono sulle lunghezze d'onda appropriate un segnale di disturbo
che si sovrappone ai messaggi stranieri e ne impedisce l'ascolto.
Quanto ai libri, vengono pubblicati e tradotti solo
quelli graditi allo Stato; gli altri, devi andarteli a cercare al-
l'estero, e introdurli nel tuo paese a tuo rischio, perché sono
considerati piú pericolosi della droga e dell'esplosivo, e se te
li trovano alla frontiera ti vengono sequestrati e tu vieni pu-
nito. Dei libri non graditi, o non piú graditi, di epoche prece-
denti si fanno pubblici falò sulle piazze. Cosí era in Italia fra
il 1924 e il 1945; cosí nella Germania nazionalsocialista; cosí
è tuttora in molti paesi, fra cui duole dover annoverare l'Unione
Sovietica, che pure contro il fascismo ha eroicamente
combattuto. In uno Stato autoritario viene considerato lecito
alterare la verità, riscrivere retrospettivamente la Storia,
distorcere le notizie, sopprimerne di vere, aggiungerne di false:
all'informazione si sostituisce la propaganda. Infatti, in tale
paese tu non sei un cittadino, detentore di diritti, bensí un
suddito, e come tale sei debitore allo Stato (ed al dittatore che
lo impersona) di lealtà fanatica e di obbedienza supina.
è chiaro che in queste condizioni diventa possibile (anche
se non sempre facile: non è mai agevole violentare a fondo
la natura umana) cancellare frammenti anche grossi della realtà.
Nell'Italia fascista riuscí abbastanza bene l'operazione di
assassinare il deputato socialista Matteotti, e di mettere l'impresa
a tacere dopo pochi mesi; Hitler, e il suo ministro della
propaganda Joseph Goebbels, si mostrarono di gran lunga su-
periori a Mussolini in quest'opera di controllo e di maschera-
mento della verità.
Tuttavia, nascondere al popolo tedesco l'esistenza dell'enorme
apparato dei campi di concentramento non era possibile,
ed inoltre non era (dal punto di vista nazista) neppure
desiderabile. Creare ed intrattenere nel paese un'atmosfera di
terrore indefinito faceva parte degli scopi del nazismo: era
bene che il popolo sapesse che opporsi a Hitler era estrema-
mente pericoloso. Infatti, centinaia di migliaia dí tedeschi furono
rinchiusi nei Lager fin dai primi mesi del nazismo: comunisti,
socialdemocratici, liberali, ebrei, protestanti, cattolici,
e tutto il paese lo sapeva, e sapeva che in Lager si soffriva e si moriva.
Ciò non ostante, è vero che la gran massa dei tedeschi ignorò
sempre i particolari piú atroci di quanto avvenne piú tardi
nei Lager: lo sterminio metodico e industrializzato sulla scala
dei milioni, le camere a gas tossico, i forni crematori, l'abietto
sfruttamento dei cadaveri, tutto questo non si doveva sapere,
ed in effetti pochi lo seppero, fino alla fine della guerra. Per
mantenere il segreto, fra le altre precauzioni, nel linguaggio
ufficiale si usavano soltanto cauti e cinici eufemísmí: non sí
scriveva «sterminio» ma «soluzione definitiva», non «deportazione»
ma «trasferimento», non «uccisione col gas» ma
«trattamento speciale», e cosí via. Non senza ragione, Hitler
temeva che queste orrende notizie, se si fossero divulgate,
avrebbero compromesso la fede cieca che il paese gli tributava
ed il morale delle truppe combattenti; inoltre, sarebbero venute
a conoscenza degli Alleati e sfruttate come argomento
propagandistico: il che, del resto, avvenne, ma per la loro
stessa enormità gli orrori dei Lager, descritti piú volte dalle
radio degli Alleati, non furono generalmente creduti.
Il riassunto piú convincente della situazione tedesca di allora
l'ho trovato nel libro Der SS Staat (Lo Stato delle SS) di
Eugen Kogon, già prigioniero a Buchenwald, poi professore
di Scienze Politiche all'Università di Monaco:
Che cosa sapevano i tedeschi dei campi di concentramento?
Oltre alla loro concreta esistenza, quasi niente, ed anche oggi
ne sanno poco. Indubbiamente, il metodo di mantenere rigoro-
samente segreti i particolari del sistema terroristico, rendendo
cosí l'angoscia indeterminata, e quindi tanto piú profonda, si è
rivelato efficace. Come ho detto altrove, perfino molti funzio-
nari della Gestapo ignoravano cosa avveniva all'interno dei Lager,
in cui pure essi inviavano i loro prigionieri; la maggior
parte degli stessi prigionieri avevano un'idea assai imprecisa del
funzionamento del loro campo e dei metodi che vi venivano
impiegati. Come avrebbe potuto conoscerli il popolo tedesco?
Chi ci entrava si trovava davanti ad un universo abissale, per
lui totalmente nuovo: è questa la miglior dimostrazione della
potenza e dell'efficacia della segretezza.
Eppure... eppure, non c'era neanche un tedesco che non sapesse
dell'esistenza dei campi, o che li ritenesse dei sanatori.
Erano pochi i tedeschi che non avessero un parente o un cono-
scente in campo, o almeno che non sapessero che il tale o il tal
altro ci era stato mandato. Tutti i tedeschi erano stati testimoni
della multiforme barbarie antisemitica: milioni fra di loro ave-
vano assistito, con indifferenza, o con curiosità, o con sdegno, o
magari con gioia maligna, all'incendio delle sinagoghe o
all'umiliazione di ebrei ed ebree costretti ad inginocchiarsi nel
fango delle strade. Molti tedeschi avevano saputo qualcosa dalle
radio straniere, e parecchi erano venuti a contatto con prigio-
nieri che lavoravano all'esterno dei Lager. A non pochi tedeschi
era accaduto di incontrare, nelle strade o nelle stazioni ferroviarie,
schiere miserabili di detenuti: in una circolare datata 9 novembre 1941,
e indirizzata dal capo della Polizia e dei Servizi
di Sicurezza a tutti (...) gli uffici di Polizia e ai comandanti dei
Lager, si legge: «In particolare, si è dovuto constatare che du-
rante i trasferimenti a piedi, per esempio dalla stazione al campo,
un numero non trascurabile di prigionieri cadono per via
morti o svenuti per esaurimento... è impossibile impedire che
la popolazione prenda conoscenza di simili avvenimenti». Nep-
pure un tedesco poteva ignorare che le prigioni erano strapiene,
e che in tutto il paese avevano luogo di continuo esecuzioni ca-
pitali; si contavano a migliaia i magistrati e i funzionari di poli-
zia, gli avvocati, i sacerdoti e gli assistenti sociali che sapevano
genericamente che la situazione era assai grave. Erano molti gli
uomini d'affari che avevano rapporti di fornitura con le SS dei
Lager, gli industriali che porgevano domanda d'assunzione di
lavoratori-schiavi agli uffici amministrativi ed economici delle
SS, e gli impiegati degli uffici di assunzione che (...) erano al
corrente del fatto che molte grandi Società sfruttavano mano
d'opera schiava. Non erano pochi i lavoratori che svolgevano
la loro attività in prossimità dei campi di concentramento, o
addirittura entro di essi. Vari professori universitari collabora-
vano coi centri di ricerche mediche istituiti da Himmler, e vari
medici dello Stato e di Istituti privati collaboravano con gli as-
sassini di professione. Un buon numero di membri dell'aviazione
militare erano stati trasferiti alle dipendenze delle SS, e do-
vevano pure essere al corrente di quanto ivi si svolgeva. Erano
molti gli alti ufficiali dell'esercito che sapevano dei massacri in
massa dei prigionieri di guerra russi nei Lager, e moltissimi i
soldati e i membri della Polizia Militare che dovevano sapere
con precisione quali spaventosi orrori venivano commessi
nei campi, nei ghetti, nelle città e nelle campagne dei territori
orientali occupati. è forse falsa una sola di queste affermazioni?
A mio parere, nessuna di queste affermazioni è falsa, ma
un'altra dev'essere aggiunta a completare il quadro: a dispetto
delle varie possibilità d'informazione, la maggior parte dei
tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, per-
ché volevano non sapere. è certamente vero che il terrorismo
di Stato è un'arma fortissima, a cui è ben difficile resistere;
ma è anche vero che il popoío tedesco, nel suo complesso, di
resistere non ha neppure tentato. Nella Germania di Hitler
era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi
non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non
sí rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico con-
quistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una
giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiu-
dendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva
l'illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere
complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta.
Sapere, e far sapere, era un modo (in fondo non poi tanto
pericoloso) di prendere le distanze dal nazismo; penso che il
popolo tedesco, nel suo complesso, non vi abbia fatto ricorso,
e di questa deliberata omissione lo ritengo pienamente colpevole.

3. C'erano prigionieri che fuggivano dai Lager? Come mai non
sono avvenute ribellioni in massa?

Queste sono fra le domande che mi vengono rivolte piú di
frequente, e perciò esse devono nascere da qualche curiosità
o esigenza particolarmente importante. La mia interpretazione
è ottimistica: i giovani di oggi sentono la libertà come un
bene a cui non si può in alcun caso rinunciare, e perciò, per
loro, l'idea della prigionia è legata immediatamente all'idea
della fuga o della rivolta. Del resto, è vero che secondo i co-
dici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è tenuto a
cercare di liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo
posto di combattente, e che secondo la Convenzione dell'Aia
il tentativo di fuga non deve essere punito. Il concetto dell'evasione
come obbligo morale è continuamente ribadito dalla
letteratura romantica (ricordate il conte di Montecristo?), dalla
letteratura popolare e dal cinematografo, in cui l'eroe, in-
giustamente (o magari giustamente) incarcerato, tenta sempre
l'evasione, anche nelle circostanze meno verosimili, e questa
è invariabilmente coronata dal successo.
Forse è bene che la condizione del prigioniero, la non-libertà,
venga sentita come indebita, anormale: come una malattia,
insomma, che deve essere guarita con la fuga o la ribellione.
Però, purtroppo, questo quadro assomiglia assai poco a quello
vero dei campi di concentramento.
I prigionieri che tentarono la fuga, per esempio, da Auschwitz,
furono poche centinaia, e quelli a cui la fuga riuscí qualche
decina. L'evasione era difficile ed estremamente perico-
losa: i prigionieri erano indeboliti, oltre che demoralizzati,
dalla fame e dai maltrattamenti, avevano i capelli rasi, abiti a
strisce subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un
passo rapido e silenzioso; non avevano denaro, e in generale
non parlavano il polacco, che era la lingua locale, né avevano
contatti nella zona, che del resto neppure conoscevano geogra-
ficamente. Inoltre, a reprimere le fughe, si adottavano rappre-
saglie feroci: chi veniva ripreso era impiccato pubblicamente
sulla piazza dell'Appello, spesso dopo torture crudeli; quando
veniva scoperta una fuga, gli amici dell'evaso venivano consi-
derati suoi complici e fatti morire di fame nelle celle della pri-
gione, l'intera baracca veniva fatta stare in piedi per venti-
quattro ore, e talvolta venivano arrestati e deportati nel Lager
i genitori del « colpevole».
Ai militi delle SS che uccidevano un prigioniero nel corso
di un tentativo di fuga veniva concessa una licenza premio:
perciò accadeva sovente che una SS sparasse ad un prigioniero
che non aveva alcuna intenzione di fuggire, solo allo scopo di
conseguire il premio. Questo fatto aumenta artificiosamente il
numero ufficiale dei casi di fuga registrati nelle statistiche;
come ho accennato, il numero effettivo era invece molto piccolo.
Essendo questa la situazione, dai campi di Auschwitz
evasero con successo solo alcuni prigionieri polacchi « ariani »
(cioè non ebrei, nella terminologia di allora), che abitavano
poco lontano dal Lager, e che quindi avevano una meta verso
cui dirigersi e la sicurezza di essere protetti dalla popolazione.
Negli altri campi le cose si svolsero analogamente.
Per quanto riguarda la mancata ribellione, il discorso è un
po' diverso. Prima di tutto occorre ricordare che in alcuni Lager
delle insurrezioni si sono effettivamente verificate: a Treblinka,
a Sobibor, ed anche a Birkenau, uno dei campi dipendenti
da Auschwitz. Non ebbero molto peso numerico: come
l'analoga insurrezione del ghetto di Varsavia, rappresentano
piuttosto esempi di straordinaria forza morale. In tutti i casi,
esse furono disegnate e guidate da prigionieri in qualche modo
privilegiati, e perciò in condizioni fisiche e spirituali
migliori di quelle dei prigionieri comuni. Questo non deve
stupire: solo a prima vista può apparire paradossale che si ribelli
chi soffre meno. Anche fuori dei Lager le lotte raramente
vengono condotte dai sottoproletari. Gli « stracci » non si ribellano.
Nei campi per prigionieri politici, o dove i politici prevale-
vano, l'esperienza cospirativa di questi si dimostrò preziosa, e
si giunse spesso, piú che a rivolte aperte, ad attività di difesa
abbastanza efficienti. A seconda dei Lager e dei tempi, si riu-
scí ad esempio a ricattare o corrompere le SS, raffrenandone i
poteri indiscriminati; a sabotare il lavoro per le industrie di
guerra tedesche; ad organizzare evasioni; a comunicare via
radio con gli Alleati, fornendo loro notizie sulle orrende con-
dizioni dei campi; a migliorare il trattamento dei malati, sosti-
tuendo medici prigionieri ai medici SS; a «pilotare» le sele-
zioni, mandando a morte le spie o i traditori e salvando pri-
gionieri la cui sopravvivenza avesse per qualsiasi motivo
importanza particolare; a prepararsi, anche militarmente, a resi-
stere nel caso che, con l'avvicinarsi del fronte, i nazisti deci-
dessero (come infatti spesso decisero) di liquidare totalmente
i Lager.
Nei campi con prevalenza di ebrei, come quelli della zona
di Auschwitz, una difesa attiva o passiva era particolarmente
difficile. Qui i prigionieri, in generale, erano privi di qualsiasi
esperienza organizzativa o militare; provenivano da tutti i
paesi d'Europa, parlavano lingue diverse, e perciò non si
capivano fra loro; soprattutto, erano piú affamati, piú deboli
e piú stanchi degli altri, perché íe loro condizioni di vita erano
piú dure, e perché spesso avevano già alle spalle una lunga car-
riera di fame, persecuzione e umiliazione nei ghetti. Come ul-
teriore conseguenza, la durata del loro soggiorno in Lager era
tragicamente breve, erano insomma una popolazione fluttuante,
continuamente diradata dalla morte, e rinnovata dagli in-
cessanti arrivi di nuovi convogli. è comprensibile che in un
tessuto umano cosí deteriorato e cosí instabile non attecchisse
facilmente il germe della rivolta.
Ci si può domandare perché non si ribellassero i prigionieri
appena scesi dai treni, che attendevano per ore (talvolta per
giorni!) di entrare nelle camere a gas. Oltre a quanto ho detro,
devo aggiungere qui che i tedeschi avevano perfezionato
per questa impresa di morte collettiva una strategia diabolica-
mente astuta e versatile. Nella maggior parte dei casi, i nuovi
arrivi non sapevano a cosa andavano incontro: venivano accolti
con fredda efficienza ma senza brutalità, invitati a spogliarsi
«per la doccia», talvolta veniva loro dato asciugamano
e sapone, e promesso un caffè caldo dopo il bagno. Le camere
a gas, infatti, erano camuffate come sale di docce, con tuba-
zioni, rubinetti, spogliatoi, attaccapanni, panchine eccetera.
Quando invece i prigionieri davano anche il piú piccolo segno
di sapere o sospettare il loro destino imminente, le SS e i loro
collaboratori agivano di sorpresa, intervenendo con estrema
brutalità, con urla, minacce, calci, spari, e aizzando contro
quella gente perplessa e disperata, macerata da cinque o dieci
giorni di viaggio in vagoni sigillati, i loro cani addestrati a
sbranare uomini.
Stando cosí le cose, appare assurda ed offensiva l'affermazione
che talvolta è stata formulata, che gli ebrei non si siano
ribellati per codardia. Nessuno si ribellava. Basti ricordare
che le camere a gas di Auschwitz furono collaudate su un
gruppo di trecento prigionieri di guerra russi, giovani, allenati
militarmente, politicamente preparati, e non impediti dalla
presenza di donne e bambini; e neppure loro si ribellarono.
Vorrei infine aggiungere una considerazione. La coscienza
radicata che all'oppressione non si deve acconsentire, bensí
resistere, non era molto diffusa nell'Europa fascista, ed era
particolarmente debole in Italia. Era patrimonio di una cer-
chia ristretta di uomini politicamente attivi, ma il fascismo e
il nazismo li avevano isolati, espulsi, terrorizzati o addirittura
distrutti: non bisogna dimenticare che le prime vittime dei
Lager tedeschi, in numero di centinaia di migliaia, furono appunto
i quadri dei partiti politici antinazisti. Essendo venuto
a mancare il loro apporto, la volontà popolare di resistere, di
organizzarsi per resistere, è risorta molto piú tardi, grazie
soprattutto al contributo dei partiti comunisti europei, che si
gettarono nella lotta contro il nazismo dopo che la Germania,
nel giugno 1941, aveva aggredito improvvisamente l'Unione
Sovietica rompendo l'accordo Ribbentrop-Molotov del set-
tembre 1939. In conclusione, rimproverare ai prigionieri la
mancata ribellione rappresenta oltre a tutto un errore di pro-
spettiva storica: significa pretendere da loro una coscienza
politica che oggi è patrimonio pressoché comune, ma allora
apparteneva solo ad una élite.

4. è ritornato ad Auschwitz dopo la liberazione?

Sono ritornato ad Auschwitz nel 1965, in occasione di una
cerimonia commemorativa della liberazione dei campi. Come ho
accennato nei miei libri, l'impero concentrazionario di
Auschwitz non era costituito da un solo Lager, bensí da una
quarantina: il campo di Auschwitz propriamente detto era
costruito alla periferia della cittadina dello stesso nome
(Osviecim in polacco), aveva una capacità di circa ventimila prigio-
nieri, ed era per cosí dire la capitale amministrativa del com-
plesso; c'era poi il Lager (o piú precisamente il gruppo di Lager:
da tre a cinque, a seconda dei momenti) di Birkenau,
che giunse a contenere sessantamila prigionieri, di cui circa
quarantamila donne, ed in cui erano in funzione le camere a
gas ed i forni crematori; ed infine, un numero continuamente
variabile di campi di lavoro, lontani anche centinaia di
chilometri dalla « capitale»: il mio campo, chiamato Mònowitz,
era il piú grande di questi, essendo giunto a contenere circa
dodicimila prigionieri. Era situato a circa sette chilometri ad
est di Auschwitz. L'intera zona si trova attualmente in terrítorio polacco.
Non ho provato grande impressione nel visitare il Campo
Centrale: il governo polacco l'ha trasformato in una specie di
monumento nazionale, le baracche sono state ripulite e verni-
ciate, sono stati piantati alberi, disegnate aiuole. C'è un mu-
seo in cui sono esposti cimeli miserandi: tonnellate di capelli
umani, centinaia di migliaia di occhiali, pettini, pennelli da
barba, bambole, scarpe da bambini; ma è pur sempre un mu-
seo, qualcosa di statico, riordinato, manomesso. Tutto il cam-
po mi è sembrato un museo. Quanto al mio Lager, non esiste
piú; la fabbrica di gomma a cui era annesso, ora in mani po-
lacche, si è talmente ingrandita che ne ha completamente
occupato il territorio.
Ho provato invece un'impressione di angoscia violenta entrando
nel Lager di Birkenau, che non avevo mai visto da pri-
gioniero. Qui niente è cambiato: c'era fango, e c'è ancora fan-
go, o polvere soffocante d'estate; le baracche (quelle che non
sono bruciate durante il passaggio del fronte) sono rimaste
com'erano, basse, sporche, di tavole sconnesse, col pavimento
di terra battuta; non ci sono cuccette ma tavolacci di legno
nudo, fino al soffitto. Qui niente è stato abbellito. Era con me
una mia amica, Giuliana Tedeschi, superstite di Birkenau. Mi
ha fatto vedere che su ogni tavolaccio di metri 1,80 per 2 dormivano
fino a nove donne. Mi ha fatto notare che dalla fine-
strella si vedono le rovine del crematorio; a quel tempo, si
vedeva la fiamma in cima alla ciminiera. Lei aveva chiesto alle
anziane: «Che cosa è quel fuoco?», e le avevano risposto:
« Siamo noi che bruciamo».
Di fronte al triste potere evocativo di quei luoghi, ognuno
di noi reduci si comporta in un modo diverso, ma si possono
delineare due categorie tipiche. Appartengono alla prima cate-
goria quelli che rifiutano di ritornarvi, o addirittura di parlare
di questo argomento; quelli che vorrebbero dimenticare, ma
non ci riescono, e sono tormentati da incubi; quelli che invece
hanno dimenticato, hanno rimosso tutto, ed hanno ricomin-
ciato a vivere da zero. Ho notato che in generale tutti questi
sono individui che sono finiti in Lager «per disgrazia», cioè
senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è sta-
ta una esperienza traumatica ma priva di significato e di inse-
gnamento, come un infortunio o una malattia: il ricordo è
per loro un qualcosa di estraneo, un corpo doloroso intruso
nella loro vita, ed hanno cercato (o ancora cercano) di elimi-
narlo. La seconda categoria è invece costituita dagli ex prigio-
nieri « politici», o comunque in possesso dí una preparazione
politica, o di una convinzione religiosa, o di una forte coscienza
morale. Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non
vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo
dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non
è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente,
un imprevisto della Storia.
I Lager nazisti sono stati l'apice, il coronamento del fascismo
in Europa, la sua manifestazione piú mostruosa; ma il
fascismo c'era prima di Hitler e di Mussolini, ed è sopravvissuto,
in forme palesi o mascherate, alla sconfitta della seconda
guerra mondiale. In tutte le parti del mondo, là dove si comincia
col negare le libertà fondamentali dell'Uomo, e l'uguaglianza
fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario,
ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi. Conosco molti
ex prigionieri che hanno capito bene quale terribile lezione
è contenuta nella loro esperienza, e che ogni anno ritornano
nel « loro » campo guidando pellegrinaggi di giovani: io stesso
lo farei volentieri se il tempo me lo concedesse, e se non sapessi
che raggiungo lo stesso scopo scrivendo libri, ed accettando
di commentarli agli studenti.

5. Perché Lei parla soltanto dei Lager tedeschi, e non anche
di quelli russi?

Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla
parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare
una testimonianza, quella delle cose che ho subite e viste.
I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono
rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo espe-
rienza diretta, escludendo quelli che ho appreso piú tardi da
libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre
del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli
delle camere a gas e dei crematori: infatti non conoscevo
questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo,
quando tutto il mondo li ha appresi.
Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei Lager
russi: per mia fortuna non ci sono stato, e non potrei che ri-
petere le cose che ho letto, cioè quelle che sanno tutti coloro
che a questo argomento si sono interessati. è chiaro che tut-
tavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che
ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un'opinione.
Accanto ad evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager
nazisti mi pare di poter osservare sostanziali differenze.
La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi
costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa
storia dell'umanità: all'antico scopo di eliminare o terrificare
gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mo-
struoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture.
A partire press'a poco dal 1941, essi diventano gigantesche
macchine di morte: camere a gas e crematori erano stati
deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani
sulla scala dei milioni; l'orrendo primato spetta ad Auschwitz,
con 24000 morti in un solo giorno, nell'agosto 1944. I campi
sovietici non erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno
sia gradevole, ma in essi, neppure negli anni piú oscuri dello
stalinismo, la morte dei prigionieri non veniva espressamente
ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con
brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma,
un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infe-
zioni, alla fatica. In questo lugubre confronto fra due modelli
di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi,
in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun
termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici
un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i « colpevoli »
venivano talvolta condannati a pene lunghissime (anche quindici
o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma una sia pur
lieve speranza di libertà sussisteva.
Da questa fondamentale differenza scaturiscono le altre.
I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono
meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo,
parlano la stessa lingua, non sono « superuominí » e «sottouomini»
come sotto il nazismo. I malati, magari male, vengono
curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una
protesta, individuale o collettiva; le punizioni corporali sono
rare e non troppo crudeli; è possibile ricevere da casa lettere
e pacchi con viveri; la personalità umana, insomma, non viene
denegata e non va totalmente perduta. Per contro, almeno per
quanto riguardava gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la
strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti
ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di
migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana.
Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai
diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei
periodi piú duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, ri-
ferito a tutti gli ingressi, e questo è certamente un dato intol-
lerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la mortalità era del
90-98 per cento.
Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo
cui alcuni intellettuali dissenzienti vengono sbrigativamente
dichiarati pazzi, rinchiusi in istituti psichiatrici, e sottoposti
a « cure » che non solo provocano crudeli sofferenze,
ma distorcono ed indeboliscono le funzioni mentali. Ciò di-
mostra che il dissenso viene temuto: non è piú punito, ma si
cerca di demolirlo con i farmaci (o con la paura dei farmaci).
Forse questa tecnica non è molto diffusa (pare che questi rico-
verati politici, nel 1975, non superassero il centinaio), ma è
odiosa, perché comporta un uso abietto della scienza, ed una
prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si pre-
stano cosí servilmente ad assecondare i voleri dell'autorità.
Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto
democratico e le libertà civili.
Per contro, e per quanto riguarda appunto l'aspetto quan-
titativo, resta da notare che, in Unione Sovietica, il fenomeno
Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al
1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di
« Amnesty International » (un'associazione apolitica che si prefigge
di soccorrere tutti i prigionieri politici, in tutti i paesi e
indipendentemente dalle loro opinioni) essi sarebbero oggi
(1976) circa diecimila.
In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre
una manifestazione deplorevole di illegalità e di disumanità.
Essi non hanno nulla a che vedere col socialismo, ed anzi, sul
socialismo sovietico spiccano come una brutta macchia; sono
piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell'assolutismo
zarista, di cui i governi sovietici non hanno saputo o voluto
liberarsi. Chi legge le Memorie di una casa morta, scritte
da Dostoevskij nel 1862, non stenta a riconoscervi gli stessi
lineamenti carcerari descritti da Solzenicyn cento anni dopo.
Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza
Lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo
senza Lager invece non è pensabile.

6. Fra i personaggi di Se questo è un uomo, quali ha rivisto
dopo la liherazione?

La maggior parte dei personaggi che compaiono in queste
pagine sono purtroppo da ritenere scomparsi già nei giorni di
Lager o durante la tremenda marcia di evacuazione di cui si
parla a p. 202; altri sono morti piú tardi per malattie contratte
durante la prigionia, e di altri ancora non sono riuscito a
ritrovare le tracce. Alcuni pochi sopravvivono, ed ho potuto
conservare o ristabilire il contatto con loro.
è vivo, e sta bene, Jean, il «Pikolo» del Canto di Ulisse:
la sua famiglia era stata distrutta, ma si è sposato dopo il ri-
torno, ed ora ha due figli, e conduce una vita molto tranquilla
come farmacista in una cittadina della provincia francese. Ci
incontriamo talvolta in Italia, dove viene per le vacanze; altre
volte sono andato io a trovarlo. Stranamente, ha dimenticato
molto del suo anno di Monowítz: in lui prevalgono i ricordi
atroci del viaggio di evacuazione, nel corso del quale ha visto
morire di estenuazione tutti i suoi amici (fra questi era Alberto).
Vedo anche abbastanza sovente il personaggio che ho chia-
mato Piero Sonnino (p. 72), e che è lo stesso che compare come
«Cesare» in La tregua. Anche lui, dopo un difficile perio-
do di riinserimento, ha trovato un lavoro e si è fatta una fa-
miglia. Vive a Roma. Racconta volentieri, e con grande viva-
cità, le traversie che ha subite in campo e durante il lungo
viaggio di ritorno, ma nelle sue narrazioni, che spesso diven-
tano quasi monologhi teatrali, tende a mettere in evidenza i
fatti avventurosi di cui è stato protagonista piuttosto che
quelli tragici a cui ha assistito passivamente.
Ho rivisto anche Charles. Era stato preso prigioniero sulle
colline dei Vosgi, presso la sua casa, dove era partigiano, solo
nel novembre 1944, ed era stato in Lager soltanto per un mese;
ma questo mese di sofferenza, ed i fatti feroci a cui aveva
assistito, lo avevano segnato profondamente, togliendogli la
gioia di vivere e la volontà di costruirsi un avvenire. Rimpa-
triato dopo un viaggio non molto diverso da quello che io ho
raccontato in La tregua, ha ripreso il suo mestiere di maestro
elementare nella minuscola scuola del suo villaggio, in cui in-
segnava ai bambini anche ad allevare le api e a coltivare un
vivaio di abeti e pini. Da pochi anni è in pensione; ha sposato
di recente una sua collega non giovane, ed insieme si sono co-
struiti una casa nuova, piccola ma comoda e graziosa. Sono andato
a trovarlo due volte, nel 1951 e nel 1974. In quest'ultima
occasione mi ha detto di Arthur, che abita in un villaggio non
molto lontano: è vecchio e ammalato, e non desidera ricevere
visite che possano ridestare in lui antiche angosce.
Drammatico, imprevisto, e pieno di gioia per entrambi, è
stato il ritrovamento di Mendi, il «rabbino modernista» a cui
si accenna in poche righe alle pp. 91 e 138. Ha riconosciuto se
stesso leggendo casualmente nel 1965 la traduzione tedesca di
questo libro: si ricordava di me, e mi ha scritto una lunga
lettera indirizzandola presso la Comunità Israelitica di Torino.
Ci siamo scritti a lungo, informandoci a vicenda dei destini
dei nostri amici comuni. Nel 1967 sono andato a trovarlo
a Dortmund, in Germania Federale, dove allora era rabbino:
è rimasto com'era, « tenace, coraggioso e acuto», ed
inoltre straordinariamente colto. Ha sposato una reduce da
Auschwitz, ed hanno tre figli ormai grandi; l'intera famiglia
ha intenzione di trasferirsi in Israele.
Non ho piú rivisto il Doktor Pannwitz, il chimico che mi
aveva sottoposto ad un gelido « esame di Stato», ma ho avuto
sue notizie da quel Doktor Müller a cui ho dedicato il capi-
tolo Vanadio del mio ultimo libro Il sistema periodico.
Nell'imminenza dell'arrivo dell'Armata Rossa nella fabbrica di
Buna, si è comportato con prepotenza e viltà: ha ordinato ai
suoi collaboratori civili di resistere a oltranza, ha vietato loro
di salire sull'ultimo treno in partenza per le retrovie, ma ci è
salito lui all'ultimo momento approfittando della confusione.
è morto nel 1946 di un tumore al cervello.

7. Come si spiega l'odio fanatico dei nazisti contro gli ebrei?

L'avversione contro gli ebrei, impropriamente detta antisemitismo,
è un caso particolare di un fenomeno piú vasto, e cioè dell'avversione
contro chi è diverso da noi. è indubbio che si tratti, in origine,
di un fatto zoologico: gli animali di una stessa specie, ma
appartenenti a gruppi diversi, manifestano fra di loro fenomeni
di intolleranza. Questo avviene anche fra gli animali
domestici: è noto che una gallina di un certo pollaio, se
viene introdotta in un altro, è respinta a beccate
per vari giorni. Lo stesso avviene fra i topi e le api, e in
genere in tutte le specie di animali sociali. Ora, l'uomo è cer-
tamente un animale sociale (lo aveva già affermato Aristotele):
ma guai se tutte le spinte zoologiche che sopravvivono
nell'uomo dovessero essere tollerate! Le leggi umane servono
appunto a questo: a limitare gli impulsi animaleschi.
L'antisemitismo è un tipico fenomeno d'intolleranza. Perché
una intolleranza insorga, occorre che fra i due gruppi a
contatto esista una differenza percettibile: questa può essere
una differenza fisica (i neri e i bianchi, i bruni e i biondi), ma
la nostra complicata civiltà ci ha resi sensibili a differenze piú
sottili, quali la lingua, o il dialetto, o addirittura l'accento (lo
sanno bene i nostri meridionali costretti ad emigrare al Nord);
la religione, con tutte le sue manifestazioni esteriori e la sua
profonda influenza sul modo di vivere; il modo di vestire o
gesticolare; le abitudini pubbliche e private. La tormentata
storia del popoío ebreo ha fatto sí che quasi ovunque gli ebrei
manifestassero una o piú di queste differenze.
Nell'intrico, estremamente complesso, dei popoli e delle
nazioni in urto fra loro, la storia di questo popolo si presenta
con caratteristiche particolari. Esso era (ed in parte è tuttora)
depositario di un legame interno molto forte, di natura reli-
giosa e tradizionale; di conseguenza, a dispetto della sua infe-
riorità numerica e militare, si oppose con disperato valore alla
conquista da parte dei romani, e fu sconfitto, deportato e di-
sperso, ma quel legame sopravvisse. Le colonie ebraiche che si
andarono formando, su tutte le coste del Mediterraneo dapprima,
e successivamente in Medio Oriente, in Spagna, in Renania,
nella Russia meridionale, in Polonia, in Boemia ed altrove,
rimasero sempre ostinatamente fedeli a questo legame,
che si era andato consolidando sotto la forma di un immenso
corpo di leggi e tradizioni scritte, di una religione minuziosa-
mente codificata, e di un rituale peculiare e vistoso, che per-
vadeva tutti gli atti della giornata. Gli ebrei, in minoranza in
tutti i loro stanziamenti, erano dunque diversi, riconoscibili
come diversi, e spesso orgogliosi (a ragione o a torto) della
loro diversità: tutto questo li rendeva molto vulnerabili, ed
infatti furono duramente perseguitati, in quasi tutti i paesi ed
in quasi tutti i secoli; alle persecuzioni gli ebrei reagirono in
piccola parte assimilandosi, ossia fondendosi con la popola-
zione circostante; in maggior parte, emigrando nuovamente
verso paesi piú ospitali. In tal modo si rinnovava però la loro
«diversità», che li esponeva a nuove restrizioni e persecuzioni.
Sebbene nella sua essenza profonda l'antisemitismo sia un
fenomeno irrazionale di intolleranza, esso, in tntti i paesi cri-
stiani, ed a partire da quando il cristianesimo si andò conso-
lidando come religione di Stato, assunse una veste prevalen-
temente religiosa, anzi teologica. Secondo l'affermazione di
sant'Agostino, gli ebrei sono comndannati alla dispersione da
Dio stesso, e ciò per due motivi: perché in tal modo essi ven-
gono puniti per non aver riconosciuto in Cristo il Messia e
perché la loro presenza in tutti i paesi è necessaria alla Chiesa
cattolica, che essa pure è dappertutto, affinché dappertutto sia
visibile ai fedeli la meritata infelicità degli ebrei. Perciò la di-
spersíone e separazione degli ebrei non dovrà mai avere fine:
essi, con le loro pene, devono testimoniare in eterno del loro
errore, e di conseguenza della verità della fede cristiana. Dunque,
poiché la loro presenza è necessaria, essi devono essere
perseguitati, ma non uccisi.
Tuttavia, non sempre la Chiesa si mostrò cosí moderata:
fin dai primi secoli del cristianesimo fu mossa agli ebrei un'accusa
ben piú grave, quella di essere, collettivamente ed eternamente,
responsabili della crocifissione di Cristo, di essere
insomma il «popolo deicida ». Questa formulazione, che com-
pare nella liturgia pasquale in tempi remoti, ed è stata sop-
pressa solo dal Concilio Vaticano II(1962-1965), sta all'origine
di varie funeste e sempre rinnovate credenze popolari: che gli
ebrei avvelenano i pozzi propagando la peste; che profanano
abitualmente l'Ostia consacrata; che a Pasqua rapiscono bam-
bini cristiani, col cui sangue impastano il pane azzimo. Queste
credenze hanno offerto il pretesto per numerosi e sanguinosi
massacri, e tra l'altro, per l'espulsione in massa degli ebrei
dapprima dalla Francia e dall'Inghilterra, poi (1492-1498) dalla
Spagna e dal Portogallo.
Attraverso una serie mai interrotta di stragi e di migrazioni,
si arriva al secolo 19esimo, contrassegnato dal risveglio gene-
rale delle coscienze nazionali e dal riconoscimento dei diritti
delle minoranze: ad eccezione della Russia zarista, in tutta
l'Europaa cadono le restrizioni legali ai danni degli ebrei, che
erano state invocate dalle Chiese cristiane (a seconda dei luoghi
e dei tempi, l'obbligo di risiedere in ghetti o in zone par-
ticolari, l'obbligo di portare sugli abiti un contrassegno, il divieto
di accedere a determinati mestieri o professioni, il divieto dei
matrimoni misti, eccetera). Sopravvive però l'antisemitismo, vivace
soprattutto nei paesi dove una rozza religiosità
continuava ad additare negli ebrei gli uccisori di Cristo (in
Polonia e in Russia), e dove le rivendicazioni nazionali aveva-
no lasciato uno strascico di generica avversione contro i confi-
nanti e gli stranieri (in Germania; ma anche in Francia, ed
alla fine del 19esimo secolo, i clericali, i nazionalisti ed i militari si
trovano concordi nello scatenare una violenta ondata di antisemitismno,
in occasione della falsa accusa di alto tradimento mossa
contro Alfred Dreyfus, ufficiale ebreo dell'esercito francese).
In Germania, in specie, per tutto il secolo scorso una serie
ínínterrotta di filosofi e di politici avevano insistito in una
teorízzazíone fanatica, secondo cui il popoío tedesco, per troppo
tempo diviso ed umiliato, era depositario del primato in
Europa e forse nel mondo, era erede di remote e nobilissime
tradizioni e civiltà, ed era costituito da individui sostanzial-
mente omogenei per sangue e per razza. I popoli tedeschi
avrebbero dovuto costituirsi in uno Stato forte e guerriero,
egemone in Europa, rivestito di una maestà quasi divina.
Questa idea della missione della Nazione Tedesca sopravvive
alla disfatta della prima guerra mondiale, ed esce anzi
rafforzata dall'umiliazione del trattato di pace di Versailles.
Se ne impadronisce uno dei personaggi piú sinistri ed infausti
della Storia, l'agitatore politico Adolf Hitler. I borghesi e gli
industriali tedeschi porgono orecchio alle sue orazioni infiam-
mate: Hitler promette bene, riuscirà a deviare sugli ebrei
l'avversione che il proletariato tedesco tributa alle classi che
l'hanno condotto alla sconfitta ed al disastro economico. Nel
giro di pochi anni, a partire dal 1933, egli riesce a trarre par-
tito dalla collera di un paese umiliato e dall'orgoglio naziona-
listico suscitato dai profeti che l'hanno preceduto, Lutero,
Fichte, Hegel, Wagner, Gobineau, Chamberlain, Nietzsche:
il suo pensiero ossessivo è quello di una Germania domina-
trice, non nel lontano futuro ma subito; non attraverso una
missione di civiltà, ma con le armi. Tutto ciò che non è ger-
manico gli appare inferiore, anzi detestabile, ed i primi nemi-
ci della Germania sono gli ebrei, per molti motivi che Hitler
enunciava con furore dogmatico: perché hanno « sangue diverso»;
perché sono imparentati con altri ebrei in Inghilterra,
in Russia, in America; perché sono eredi di una cultura in cui
si ragiona e si discute prima di obbedire, ed in cui è vietato
innchinarsi agli idoli, mentre lui stesso aspira ad essere vene-
rato come un idolo, e non esita a proclamare che «dobbiamo
diffidare dell'intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la
nostra fede negli istinti». Infine, molti fra gli ebrei tedeschi
hanno raggiunto posizioni chiave nell'economia, nella finanza,
nelle arti, nella scienza, nella letteratura: Hitler, pittore mancato,
architetto fallito, riversa sugli ebrei il suo risentimento
e la sua invidia di frustrato.
Questo seme d'intolleranza, cadendo su di un terreno già
predisposto, vi attecchisce con incredibile vigore ma in forme
nuove. L'antisemitismo di stampo fascista, quello che il Verbo
bandito da Hitler risveglia nel popoío tedesco, è piú bar-
barico di tutti i precedenti: vi convergono dottrine biologiche
artificiosamente distorte, secondo cui le razze deboli devono
cedere davanti alle forti; le assurde credenze popolari che il
buon senso aveva sepolte da secoli; una propaganda senza soste.
Si toccano estremi mai sentiti prima. L'ebraismo non è
una religione da cui ci si può allontanare col battesimo, né
una tradizione culturale che si può abbandonare per un'altra:
è una sottospecie umana, una razza diversa ed inferiore a tutte
le altre. Gli ebrei sono solo apparentemente esseri umani:
in realtà sono qualcosa di diverso: di abominevole e indefini-
bile, «piú lontani dai tedeschi che le scimmie dagli uomini»;
sono colpevoli di tutto, del rapace capitalismo americano e
del bolscevismo sovietico, della sconfitta del 1918, dell'infla-
zione del 1923; liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo
sono sataniche invenzioni ebraiche, che minacciano la solidità
monolitica dello Stato nazista.
Il passaggio dalla predicazione teorica all'attuazione pratica
è stato rapido e brutale. Nel 1933, solo due mesi dopo che
Hitler ha conquistato il potere, nasce Dachau, il primo Lager.
Nel maggio dello stesso anno si accende il primo rogo di libri
di autori ebrei o nemici del nazismo (ma piú di cento anni
prima Heine, poeta ebreo tedesco, aveva scritto: «Chi brucia
i libri finisce presto o tardi col bruciare uomini»). Nel 1935
l'antisemitismo viene codificato in una monumentale e minu-
ziosissima legislazione, le Leggi di Norimberga. Nel 1938, in
una sola notte di disordini pilotati dall'alto, vengono incen-
diate 191 sinagoghe e distrutti migliaia di negozi di ebrei.
Nel 1939 gli ebrei della Polonia testé occupata vengono rin-
chiusi nei ghetti. Nel 1940 viene aperto il Lager di Auschwitz.
Nel 1941-1942 la macchina dello sterminio è in piena azione: le
vittime saliranno a milioni nel 1944.
Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la
loro realizzazione l'odio e il disprezzo diffusi dalla propaganda
nazista. Qui non c'era solo la morte, ma una folla di dettagli
maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che
gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, ím-
mondezza. Si ricordi il tatuaggio di Auschwitz, che imponeva
agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in
vagoni bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati
(uomini, donne e bambini!) a giacere per giorni nelle proprie
lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome,
la mancata distribuzione di cucchiai (eppure i magazzini di
Auschwitz, alla liberazione, ne contenevano quintali), per cui
i prigionieri avrebbero dovuto lambire la zuppa come cani;
l'empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi
anonima materia prima, da cui si ricavavano l'oro dei denti, i
capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agri-
coli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimen-
tare medicinali per poi sopprimerli.
Lo stesso modo che fu scelto (dopo minuziosi esperimenti)
per lo sterminio era apertamente simbolico. Si doveva usare,
e fu usato, quello stesso gas velenoso che si impiegava per
disinfestare le stive delle navi, ed i locali invasi da cimici o
pidocchi. Sono state escogitate nei secoli morti piú tormentose,
ma nessuna era cosí gravida di dileggio e di disprezzo.
Come è noto, l'opera di sterminio fu condotta molto avanti.
I nazisti, che pure erano impegnati in una durissima guerra,
ormai difensiva, vi manifestarono una fretta inesplicabile:
i convogli delle vittime da portare al gas, o da trasferire dai
Lager prossimi al fronte, avevano la precedenza sulle tradotte
militari. Non fu condotta a termine solo perché la Germania
fu disfatta, ma il testamento politico che Hitler dettò poche
ore prima di uccidersi, coi russi a pochi metri, si concludeva
cosí: «Soprattutto, ordino al governo e al popolo tedesco di
mantenere in pieno vigore le leggi razziali, e di combattere
inesorabilmente l'avvelenatore di tutte le nazioni, l'ebraismo
internazionale».
Riassumendo, si può dunque affermare che l'antisemitismo
è un caso particolare dell'intolleranza; cbe per secoli ha avuto
carattere prevalentemente religioso; che, nel terzo Reich, esso è
stato esacerbato dalla predisposizione nazionalistica e milita-
ristica del popolo tedesco, e dalla peculiare «diversità» del
popolo ebreo; che esso fu facilmente disseminato in tutta la
Germania, e in buona parte dell'Europa, grazie all'efficienza
della propaganda fascista e nazista, a cui occorreva un capro
espiatorio su cui convogliare tutte le colpe e tutti i risenti-
menti; e che il fenomeno fu condotto al parossismo da Hitler,
dittatore maniaco.
Tuttavia devo ammettere che queste spiegazioni, che sono
quelle comunemente accettate, non mi soddisfano: sono
diminutive, non commisurate, non proporzionali ai fatti da spie-
gare. Nel rileggere le cronache del nazismo, dai suoi torbidi
inizi alla sua fine convulsa, non riesco a sottrarmi all'impres-
sione di una generale atmosfera di follia incontrollata che mi
pare unica nella storia. Questa follia collettiva, questo sban-
damento, viene di solito spiegato postulando la combinazione
di molti fattori diversi, insufficienti se presi singolarmente, e
il maggiore di questi fattori sarebbe la personalità stessa di
Hitler, e la sua profonda interazione col popoío tedesco. è
certo che le sue personali ossessioni, la sua capacità d'odio,
la sua predicazione di violenza, trovavano sfrenata risonanza
nella frustrazione del popoío tedesco, e da questo ritornavano
a lui moltiplicate, confermandolo nella sua convinzione deli-
rante di essere lui stesso l'Eroe profetizzato da Nietzsche, il
Superuomo redentore della Germania.
Sull'origine del suo odio contro gli ebrei si è scritto molto.
Si è detto che Hitler riversava sugli ebrei il suo odio contro
l'intero genere umano; che riconosceva negli ebrei alcuni suoi
stessi difetti, e che odiando gli ebrei odiava se stesso; che la
violenza della sua avversione proveniva dal timore di poter
avere « sangue ebreo » nelle vene.
Ancora una volta: non mi sembrano spiegazioni adeguate.
Non mi sembra lecito spiegare un fenomeno storico riversan-
done tutta la colpa su un individuo (gli esecutori di ordini
orrendi non sono innocenti!), ed inoltre è sempre arduo inter-
pretare le motivazioni profonde di un individuo. Le ipotesi
che vengono proposte giustificano i fatti solo in misura par-
ziale, ne spiegano la qualità ma non la quantità. Devo ammet-
tere che preferisco l'umiltà con cui alcuni storici fra i piú seri
(Bullock, Schramm, Bracher) confessano di non comprendere
l'antisemitismo furibondo di Hitler e della Germania dietro di lui.
Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi,
non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giusti-
ficare. Mi spiego: «comprendere» un proponimento o un com-
portamento umano significa (anche etimologicamente) conte-
nerlo, contenerne l'autore, mettersi al suo posto, identificarsi
con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con
Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo
ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desi-
derabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere)
non ci riescano piú comprensibili. Sono parole ed opere
non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a
stento paragonabili alle vicende piú crudeli della lotta biolo-
gica per l'esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la
guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guer-
ra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La
guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in
noi, ha una sua razionalità, la «comprendiamo».
Ma nell'odio nazista non c'è razionalità: è un odio che non
è in noi, è fuori dell'uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco
funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso.
Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove
nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile,
conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritor-
nare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscu-
rate: anche le nostre.
Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di
tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini,
quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi,
ammirati, adorati come dèi. Erano «capi carismatici»,
possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva
dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dice-
vano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro
eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pa-
zientemente esercitata, e appresa. Le idee che proclamavano
non erano sempre le stesse, e in generale erano aberranti, o
sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino
alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che
questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini
disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche ec-
cezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esisto-
no, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi;
sono piú pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a
credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come
Höss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di
Treblinka, come i militari francesi di vent'anni dopo, massa-
cratori in Algeria, come i militari americani di trent'anni dopo,
massacratori in Vietnam.
Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convin-
cerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi cari-
smatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro
giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i
profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti;
è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano
per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo
comode perché si acquistano gratis. è meglio accontentarsi di
altre verità piú modeste e meno entusiasmanti, quelle che si
conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie,
con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono
essere verificate e dimostrate.
è chiaro che questa ricetta è troppo semplice per bastare
in tutti i casi: un nuovo fascismo, col suo strascico di intol-
leranza, di sopraffazione e di servitú, può nascere fuori del
nostro paese ed esservi importato, magari in punta di piedi e
facendosi chiamare con altri nomi; oppure può scatenarsi dal-
l'interno con una violenza tale da sbaragliare tutti i ripari.
Allora i consigli di saggezza non servono piú, e bisogna tro-
vare la forza di resistere: anche in questo, la memoria di
quanto è avvenuto nel cuore dell'Europa, e non molto tempo
addietro, può essere di sostegno e di ammonimento.

8. Che cosa sarebbe Lei oggi, se non fosse stato prigioniero
in Lager? Che cosa prova nel ricordare quel tempo? A quali
fattori attribuisce il fatto di essere sopravvissuto?

Parlando rigorosamente non so e non posso sapere che
cosa sarei oggi se non fossí stato in Lager: nessun uomo co-
nosce il suo futuro, e qui sí tratterebbe appunto di descrivere
un futuro che non c'è stato. Ha un certo significato tentare
previsioni (del resto sempre grossolane) sul comportamento>
di una popolazione ed invece è difficilissimo, o impossibile,
prevedere il comportamento di un singolo, anche sulla scala
dei giorni. Allo stesso modo, il fisico sa pronosticare con grande
esattezza il tempo che imnpiegherà un grammo di radio a
dimezzare la sua attività, ma non sa assolutamente dire quando
si disintegrerà un singolo atomo di quel radio. Se un uomo si
avvia verso un bivio, e non infila la strada di sinistra, è ovvio
che infilerà quella di destra; ma quasi mai le nostre scelte
sono fra due sole alternative: poi, ad ogni scelta ne seguono
altre, tutte multiple, e cosí all'infinito; e infine, il nostro
futuro dipende fortemente anche da fattori esterni, in tutto
estranei alle nostre scelte deliberate, ed anche da fattori inter-
ni, di cui però non siamo coscienti. Per questi notori motivi
non si conosce il proprio avvenire né quello del nostro pros-
simo; per gli stessi motíví nessuno> può dire quale sarebbe
stato il suo passato «se».
Una certa affermazione posso però formularla, ed è questa:
se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente
non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incen-
tivo, per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano
e scadente in storia, mi interessavano di piú la fisica e la chi-
mica, ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che
non aveva niente in comune col mondo della parola scritta.
è stata l'esperienza del Lager a costringermi a scrivere: non
ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile mi
sembravano ridicoli, ho trovato miracolosamente il tempo di
scrivere pur senza mai sottrarre neppure un'ora al mio mestiere
quotidiano: mi pareva, questo libro, di averlo già in
testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere
sulla carta.
Adesso sono passati molti anni: il libro ha avuto molte vi-
cende, e si è curiosamente interposto, come una memoria arti-
ficiale, ma anche come una barriera difensiva, fra il mio nor-
malissimo presente e il feroce passato> di Auschwitz. Lo dico
con esitazíone, perché non vorrei passare per un cinico: nel
ricordare il Lager oggi non provo piú alcuna emozione violenta
o dolorosa. Al contrario: alla mia esperienza breve e tragica
di deportato si è sovrapposta quella molto piú lunga e
complessa di scrittore-testimone e la somma è nettamente po-
sitiva; nella sua globalità, questo passato mi ha reso piú ricco
e piú sicuro. Una mia amica, che era stata deportata giovanissima
al Lager femminile di Ravensbrück, dice che il campo
è stata la sua Università: io credo di poter dire altrettanto, e
cioè che vivendo> e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti,
ho imparato molte cose sugli uomini e su1 mondo.
Devo però affrettarmi a precisare che questo esito positivo
e stata una fortuna toccata a pochissimi: dei deportati italiani,
ad esempio, solo circa il 5 per cento hanno fatto ritorno,
e fra questi, molti hanno perduto la famiglia, gli amici, gli
averi, la salute, l'equilibrio, la giovinezza. Il fatto che io sia
sopravvissuto, e sia ritornato indenne, secondo me è dovuto
principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giocato
fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di
montagna, ed il mio mestiere di chimico, che mi ha concesso
qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. Forse mi ha
aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l'animo
umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune
a molti), ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare
le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate.
E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente
conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni
piú scuri, nei miei co>mpagni e in me stesso, degli uomini e
non delle cose, e di sottrarmi cosí a quella totale umiliazione e
demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale.
PRIMO LEVI

Novembre 1976.

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