lunedì 5 luglio 2010
(dalla 01 alla 50)F.LLI GRIMM:tutte le Novelle,Fiabe,Favole Integrali con Indice Numerico e BIOGRAFIA
Fratelli Grimm
Doppio ritratto dei fratelli Wilhelm (a sinistra) e Jacob Grimm, di Elisabeth Maria Anna Jerichau-Baumann, 1855
Jacob Ludwig Karl Grimm (Hanau, 4 gennaio 1785 – Berlino, 20 settembre 1863) e Wilhelm Karl Grimm (Hanau, 24 febbraio 1786 – Berlino, 16 dicembre 1859) furono due linguisti tedeschi, meglio noti come i fratelli Grimm, ricordati soprattutto per aver raccolto e rielaborato le fiabe della tradizione popolare tedesca nelle opere Fiabe (Kinder und Hausmärchen, 1812-1822) e Saghe germaniche (Deutsche Sagen, 1816-1818). Fra le fiabe più celebri da loro pubblicate vi sono classici del genere come Hansel e Gretel, Cenerentola, Il principe ranocchio, Cappuccetto Rosso e Biancaneve, che presero dagli scrittori di fiabe italiani Giovanni Francesco Straparola e Giambattista Basile.
Biografia
I fratelli Grimm nacquero nel 1785 (Jacob) e nel 1786 (Wilhelm) ad Hanau, vicino a Francoforte. Frequentarono il Friedrichs Gymnasium di Kassel e poi studiarono legge all'Università di Marburgo. Furono allievi del noto giurista tedesco Friedrich Carl von Savigny, del quale rielaborarono il pensiero e gli studi di metodologia della scienza giuridica. Dal 1837 al 1841, si unirono a cinque colleghi professori dell'università di Göttingen per protestare contro l'abrogazione della costituzione liberale dello stato di Hannover da parte del re Ernesto Augusto I. Questo gruppo divenne celebre in tutta la Germania col nome Die Göttinger Sieben (I sette di Göttingen). In seguito alla protesta, tutti e sette i professori furono licenziati dai loro incarichi universitari e alcuni di loro furono persino deportati. L'opinione pubblica e l'accademia tedesche, tuttavia, si schierarono decisamente a favore dei Grimm e dei loro colleghi. Wilhelm morì nel 1859; suo fratello maggiore Jacob nel 1863. Sono sepolti nel cimitero di St.Matthäus Kirchhof a Schöneberg, un quartiere di Berlino. I Grimm contribuirono a formare un'opinione pubblica democratica in Germania e sono considerati progenitori del movimento democratico tedesco, la cui rivolta fu in seguito soppressa nel sangue dal regno di Prussia nel 1848.
L'opera letteraria
I fratelli Grimm sono celebri per aver raccolto ed elaborato moltissime fiabe della tradizione tedesca; l'idea fu di Jacob, professore di lettere e bibliotecario. Nei loro volumi pubblicarono tuttavia anche fiabe francesi, che i Grimm conobbero attraverso un autore ugonotto che costituiva una delle loro principali fonti. Le loro storie non erano concepite per i bambini; oggi, molte delle loro fiabe sono ricordate soprattutto in una forma edulcorata e depurata dei particolari più cruenti, che risale alle traduzioni inglesi della settima edizione delle loro raccolte (1857).
Le storie dei fratelli Grimm hanno spesso un'ambientazione oscura e tenebrosa, fatta di fitte foreste popolate da streghe, goblin, troll e lupi in cui accadono terribili fatti di sangue, così come voleva la tradizione popolare tipica tedesca. L'unica opera di depurazione che sembra essere stata messa consapevolmente in atto dai Grimm riguarda i contenuti sessualmente espliciti, piuttosto comuni nelle fiabe del tempo e ampiamente ridimensionati nella narrazione dei fratelli tedeschi.
Analisi moderna
Gli psicologi e antropologi moderni sostengono che molte delle storie per bambini della cultura popolare occidentale, incluse quelle narrate dai Grimm, sono rappresentazioni simboliche di sensazioni negative quali la paura dell'abbandono, l'abuso da parte dei genitori, e spesso alludono al sesso e allo sviluppo sessuale. Lo psicologo infantile Bruno Bettelheim, nel suo libro Il mondo incantato, sostiene che le fiabe dei Grimm siano rappresentazione di miti freudiani. Secondo altri studiosi, le fiabe dei Grimm conterrebbero il retaggio di miti più antichi e simboli derivati dalla tradizione alchemico-ermetica. Questa lettura a dire il vero si ritrova già presso Alchimisti del Sette e Ottocento. Fra i saggi più recenti (in lingua italiana) che cercano di rintracciare questo particolare filone, troviamo "Alchimia della Fiaba" di Giuseppe Sermonti e "Favole Ermetiche" di Sebastiano B. Brocchi.
I Grimm e la lingua tedesca
All'inizio del XIX secolo il Sacro Romano Impero aveva da poco cessato di esistere, e la Germania era frammentata in centinaia di principati e piccole nazioni, unificate solo dalla lingua tedesca. Una delle motivazioni che spinsero i Grimm a trascrivere le fiabe, altro retaggio culturale comune dei popoli di lingua tedesca, fu il desiderio di aiutare la nascita di una identità germanica.
I fratelli perseguirono questo scopo anche lavorando alla compilazione di un dizionario di tedesco, il Deutsches Wörterbuch. Sebbene meno noto al grande pubblico moderno, il Deutsches Wörterbuch fu un passo essenziale nella definizione della lingua tedesca moderna "standard", probabilmente il più importante dopo la traduzione della Bibbia da parte di Martin Lutero. Il dizionario dei Grimm, in 33 volumi, è ancora oggi considerato la fonte più autorevole per l'etimologia dei vocaboli tedeschi.
Jacob Grimm è soprattutto famoso in linguistica per aver formulato la legge sulla prima mutazione consonantica, legge di Grimm (o erste Lautverschiebung), nelle lingue germaniche rispetto all'indoeuropeo e, più in particolare, sull'evoluzione di alcuni dialetti tedeschi rispetto alle altre lingue germaniche (zweite Lautverschiebung), anticipata dagli studi comparativi del filologo danese Rasmus Rask nel "Saggio sull'origine dell'antico norvegese o islandese" pubblicato nel 1818, ma scritto nel 1814. Grimm è tuttora considerato il più importante tra i fondatori della moderna filologia germanica. Egli approfondì le tematiche studiate da Rask e, nel 1822, le sviluppò nella seconda edizione della Deutsche Grammatik.
Onorificenze
Cavaliere dell'Ordine Pour le Mérite (classe di pace)
— 1842
Cavaliere dell'Ordine di Massimiliano per le Scienze e le Arti
— 1853
Testimonianze nella cultura e nella società moderna
• Un ritratto dei fratelli Grimm appariva sulle banconote da 1000 marchi (le banconote di maggior valore) in corso dal 1990 al 2002 (anno dell'introduzione dell'euro in Germania).
• Appaiono come personaggi di cornice nel film del 1998 La leggenda di un amore - Cinderella.
• Il 26 agosto 2005 è uscito nelle sale il film I fratelli Grimm e l'incantevole strega (The Brothers Grimm), prodotto da New Line Cinema e diretto da Terry Gilliam. La storia era ispirata a varie storie dei Grimm e vedeva gli stessi fratelli Grimm protagonisti; fra gli attori comparivano Matt Damon e Heath Ledger.
Le fiabe più conosciute
• Biancaneve
• Cenerentola
• I musicanti di Brema
• Il cane d'oro
• Il principe ranocchio
• Hänsel e Gretel
• Cappuccetto Rosso
• Il pifferaio di Hamelin
• Raperonzolo
• Scuraterra
• Il Lupo e i sette capretti
• Il ginepro
I fratelli Grimm
Tutte le fiabe, le favole, le novelle
001
Il principe ranocchio o Enrico di Ferro >>>
002
Gatto e topo in società >>>
003
La figlia della Madonna >>>
004
Storia di uno che se ne andò in cerca della paura >>>
005
Il lupo e i sette caprettini >>>
006
Il fedele Giovanni >>>
007
Il buon affare >>>
008
Lo strano violinista >>>
009
I dodici fratelli >>>
010
Gentaglia >>>
011
Fratellino e sorellina >>>
012
Raperonzolo >>>
013
I tre omini del bosco >>>
014
Le tre filatrici >>>
015
Hänsel e Gretel >>>
016
Le tre foglie della serpe >>>
017
La serpe bianca >>>
018
La pagliuzza, il carbone e il fagiolo >>>
019
Il pescatore e sua moglie >>>
020
Il prode piccolo sarto (Sette in un colpo) >>>
021
Cenerentola >>>
022
L'indovinello >>>
023
Il topino, l'uccellino e la salsiccia >>>
024
Madama Holle >>>
025
I sette corvi >>>
026
Cappuccetto Rosso >>>
027
I musicanti di Brema >>>
028
L'osso che canta >>>
029
I tre capelli d'oro del diavolo >>>
030
Pidocchietto e Pulcettina >>>
031
La fanciulla senza mani >>>
032
Gianni testa fina >>>
033
I tre linguaggi >>>
034
La saggia Elsa >>>
035
Il sarto in paradiso >>>
036
Il tavolino magico, l'asino d'oro e il randello castigamatti >>>
037
Pollicino >>>
039
La signora volpe >>>
039
Gli gnomi >>>
040
Il fidanzato brigante >>>
041
Messer Babau >>>
042
Il compare >>>
043
Lo strano invito >>>
044
Comare Morte >>>
045
Il viaggio di Pollicino, il piccolo sarto >>>
046
L'uccello strano >>>
047
Il ginepro >>>
048
Il vecchio Sultano >>>
049
I sei cigni >>>
050
Rosaspina >>>
051
Ucceltrovato >>>
052
Il re Bazza di Tordo >>>
053
Biancaneve >>>
054
Lo zaino, il cappellino e la cornetta >>>
055
Tremotino >>>
056
Il diletto Orlando >>>
057
L'uccello d'oro >>>
058
Il cane e il passero >>>
059
Federico e Caterinella >>>
060
I due fratelli >>>
061
Il contadinello >>>
062
La regina delle api >>>
063
Le tre piume >>>
064
L'oca d'oro >>>
065
Dognipelo >>>
066
La sposa del leprotto >>>
067
I dodici cacciatori >>>
068
Il ladro e il suo maestro >>>
069
Jorinda e Joringhello >>>
070
I tre figli della fortuna >>>
071
I sei che si fanno strada per il mondo >>>
072
Il lupo e l'uomo >>>
073
Il lupo e la volpe >>>
074
La volpe e la comare >>>
075
La volpe e il gatto >>>
076
Il garofano >>>
077
La saggia Ghita >>>
078
Il vecchio nonno e il nipotino >>>
079
L'ondina >>>
080
La morte della gallinella >>>
081
Il Buontempone >>>
082
Il Giocatutto >>>
083
La fortuna di Gianni >>>
084
Gianni si sposa >>>
085
I figli d'oro >>>
086
La volpe e le oche >>>
087
Il ricco e il povero >>>
088
L'allodola che canta e saltella >>>
089
La piccola guardiana di oche >>>
090
Il giovane gigante >>>
091
Lo gnomo >>>
092
Il re del monte d'oro >>>
093
Il corvo >>>
094
La figlia furba del contadino >>>
095
Il vecchio Ildebrando >>>
096
I tre uccelli >>>
097
L'acqua della vita >>>
098
Il dottor Satutto >>>
099
Lo spirito nella bottiglia >>>
100
Il fuligginoso fratello del diavolo >>>
101
La giubba verde del diavolo >>>
102
Il re di macchia e l'orso >>>
103
La pappa dolce >>>
104
I fedeli animali >>>
105
Storie della serpe >>>
106
Il povero garzone e la gattina >>>
107
Le cornacchie >>>
108
Gian Porcospino >>>
109
La camicina da morto >>>
110
L'ebreo nello spineto >>>
111
Il cacciatore provetto >>>
112
La trebbia venuta dal cielo >>>
113
Il principe e la principessa >>>
114
Il saggio piccolo sarto >>>
115
La luce del sole lo rivelerà >>>
116
La luce azzurra >>>
117
Il bambino capriccioso >>>
118
I tre cerusici >>>
119
I sette svevi >>>
120
I tre garzoni >>>
121
Il principe senza paura >>>
122
L'insalata magica >>>
123
La vecchia nel bosco >>>
124
I tre fratelli >>>
125
Il diavolo e sua nonna >>>
126
Fernando fedele e Fernando infedele >>>
127
Il forno >>>
128
La filatrice pigra >>>
129
I quattro fratelli ingegnosi >>>
130
Occhietto, Duocchietti, Treocchietti >>>
131
La bella Caterinella e Pum Pum Fracassino >>>
132
La volpe e il cavallo >>>
133
Le scarpe logorate dal ballo >>>
134
I sei servi >>>
135
La sposa bianca e quella nera >>>
136
L'uomo selvaggio >>>
137
Le tre principesse nere >>>
138
Knoist e i suoi tre figli >>>
139
La ragazza di Brakel >>>
140
Donnette >>>
141
L'agnellino e il pesciolino >>>
142
Il monte Simeli >>>
143
Il giramondo >>>
144
L'asinello >>>
145
Il figlio ingrato >>>
146
La rapa >>>
147
Il fuoco che ringiovanisce >>>
148
Le bestie del Signore e quelle del diavolo >>>
149
La trave del gallo >>>
150
La vecchia mendicante >>>
151
I tre pigri >>>
152
Il pastorello >>>
153
La pioggia di stelle >>>
154
Il centesimo rubato >>>
155
La scelta della sposa >>>
156
Gli scarti >>>
157
Il passero e i suoi quattro figli >>>
158
La favola del paese di Cuccagna >>>
159
Filastrocca di bugie >>>
160
Fiaba indovinello >>>
161
Biancaneve e Rosarossa >>>
179
La guardiana delle oche alla fonte >>>
201
San Giuseppe nel bosco >>>
202
I dodici apostoli >>>
203
La rosa >>>
204
Umiltà e povertà portano in cielo >>>
205
Il cibo di Dio >>>
206
I tre ramoscelli verdi >>>
207
Il bicchierino della Madonna >>>
208
La vecchierella >>>
209
Le nozze celesti >>>
Il principe ranocchio o Enrico di Ferro
tempo: 9'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 001
Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c’era un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c’era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c’era una fontana. Nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente. E quando si annoiava, prendeva una palla d’oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito.
Ora avvenne un giorno che la palla d’oro della principessa non ricadde nella manina ch’essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell’acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d’occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare. E mentre così piangeva, qualcuno le gridò: “Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi.” Lei si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall’acqua la grossa testa deforme. “Ah, sei tu, vecchio ranocchio!” disse, “piango per la mia palla d’oro, che m’è caduta nella fonte.” - “Chétati e non piangere,” rispose il ranocchio, “ci penso io; ma che cosa mi darai, se ti ripesco il tuo palla?” - “Quello che vuoi, caro ranocchio,” disse la principessa, “i miei vestiti, le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d’oro.” Il ranocchio rispose: “Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua corona d’oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò essere il tuo amico e compagno di giochi, seder con te alla tua tavolina, mangiare dal tuo piattino d’oro, bere dal tuo bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo; mi tufferò e ti riporterò la palla d’oro.” - “Ah sì,” disse la principessa, “ti prometto tutto quel che vuoi, purché mi riporti la palla.” Ma pensava: Cosa va blaterando questo stupido ranocchio, che sta nell’acqua a gracidare coi suoi simili, e non può essere il compagno di una creatura umana!
Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott’acqua, si tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in bocca la palla e la buttò sull’erba. La principessa, piena di gioia al vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via. “Aspetta, aspetta!” gridò il ranocchio, “prendimi con te, io non posso correre come fai tu.” Ma a che gli giovò gracidare con quanta fiato aveva in gola! La principessa non l’ascoltò, corse a casa e ben presto aveva dimenticata la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua fonte.
Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col re e tutta la corte, mentre mangiava dal suo piattino d’oro - plitsch platsch, plitsch platsch - qualcosa salì balzelloni la scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e gridò: “Figlia di re, piccina, aprimi!” La principessa corse a vedere chi c’era fuori, ma quando aprì si vide davanti il ranocchio. Allora sbatacchiò precipitosamente la porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il re si accorse che le batteva forte il cuore, e disse: “Di che cosa hai paura, bimba mia? Davanti alla porta c’è forse un gigante che vuol rapirti?” - “Ah no,” disse lei, “non è un gigante, ma un brutto ranocchio.” - “Che cosa vuole da te?” - “Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla fonte, la mia palla d’oro cadde nell’acqua. E perché piangevo tanto, il ranocchio me l’ha ripescata. E perché ad ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da quell’acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me.” Intanto si udì bussare per la seconda volta e gridare:
“Figlia di re, piccina,
aprimi!
Non sai più quel che ieri
m’hai detto vicino
alla fresca fonte?
Figlia di re, piccina,
aprimi!”
Allora il re disse: “Quel che hai promesso, devi mantenerlo; va’ dunque, e apri.” Lei andò e aprì la porta; il ranocchio entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia. Lì si fermò e gridò: “Solleva mi fino a te”. La principessa esitò, ma il re le ordinò di farlo. Appena fu sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e quando fu sul tavolo disse: “Adesso avvicinami il tuo piattino d’oro, perché mangiamo insieme.” La principessa obbedì, ma si vedeva benissimo che lo faceva controvoglia. Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse: “Ho mangiato a sazietà e sono stanco. Adesso portami nella tua cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a dormire”. La principessa si mise a piangere; aveva paura del freddo ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire nel suo bel lettino pulito. Ma il re andò in collera e disse: “Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno”. Allora lei prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la mise in un angolo. Ma quando fu a letto, il ranocchio venne saltelloni e disse: “Sono stanco, voglio dormir bene come te: tirami su, o lo dico a tuo padre.” Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete: “Adesso starai zitto, brutto ranocchio!”
Ma quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti. Per volere del padre, egli era il suo caro compagno e sposo. Le raccontò che era stato stregato da una cattiva maga e nessuno, all’infuori di lei, avrebbe potuto liberarlo. Il giorno dopo sarebbero andati insieme nel suo regno. Poi si addormentarono. La mattina dopo, quando il sole li svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che avevano pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d’oro; e dietro c’era il servo del giovane re, il fedele Enrico. Enrico si era così afflitto, quando il suo padrone era stato trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse dall’angoscia. La carrozza doveva portare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare i due giovani, salì dietro ed era pieno di gioia per la liberazione.
Quando ebbero fatto un tratto di strada, il principe udì uno schianto, come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto. Allora si volse e gridò:
“Enrico, qui va in pezzi la carrozza!”
“No, padrone, non è la carrozza,
Bensì un cerchio del mio cuore,
Ch’era immerso in gran dolore,
Quando dentro alla fontana
Tramutato foste in rana.”
Per due volte ancora si udì uno schianto durante il viaggio; e ogni volta il principe pensò che la carrozza andasse in pezzi; e invece erano soltanto i cerchi, che saltavano via dal cuore del fedele Enrico, perché il suo padrone era libero e felice.
FINE
Gatto e topo in società
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 002
Un gatto aveva fatto conoscenza con un topo e gli aveva tanto vantato il grande amore e l’amicizia che gli portava, che alla fine il topo acconsentì ad abitare con lui; avrebbero governato insieme la casa. “Ma per l’inverno dobbiamo provvedere, altrimenti patiremo al fame,” disse il gatto, “e tu, topolino, non puoi arrischiarti dappertutto sennò finirai col cadermi in trappola!” Il buon consiglio fu seguito e comprarono un pentolino di strutto. Ma non sapevano dove metterlo; finalmente, pensa e ripensa, il gatto disse: “Non so dove potrebbe essere più al sicuro che in chiesa; là nessuno osa commettere un furto: lo mettiamo sotto l’altare e non lo tocchiamo prima di averne bisogno.” Il pentolino fu messo al sicuro ma il gatto non tardò ad avere voglia di strutto, e disse al topo: “Volevo dirti, topolino, che mia cugina mi ha pregato di farle da compare: ha partorito un piccolo, bianco con macchie brune, e devo tenerloa battesimo. Lasciami uscire oggi e sbriga da solo le faccende di casa.” - “Va bene,” rispose il topo, “va pure e se mangi qualcosa di buono pensa a me: un goccio di quel rosso vino puerperale lo berrei volentieri anch’io!” Ma non c’era niente di vero: il gatto non aveva cugine nè l’avevano richiesto come padrino. Andò dritto in chiesa, si avvicino quatto quatto al pentolino di strutto, si mise a lecccare e lecco via la pellicola di grasso. Poi se ne andò a zonzo per i tetti della città per tutto il resto della giornata: si guardò intorno, si mise steso al sole e continuava a leccarsi i baffi ogni qualvolta pensava al pentolino. Non ritornò a casa che alla sera. “Eccoti qua,” disse il topo, “hai di certo passato una giornata allegra. Che nome hanno messo al piccolo?” - “Pellepappata,” rispose il gatto tutto d’un fiato. “Che strano nome,” disse il topo, “è frequente nella vostra famiglia?” - “Che c’è di strano,” rispose il gatto, “non è certo peggio di Rubabriciole, il nome dei tuoi figliocci!”
Poco tempo dopo al gatto tornò la voglia di strutto. Così disse al topo: “Devi farmi un’altra volta il piacere di badare alla casa da solo; mi vogliono di nuovo come padrino e siccome il piccolo stavolta ha un cerchio bianco intorno al collo, non posso rifiutare.” Ancora una volta il topo acconsentì, e di nuovo il gatto corse di soppiatto fino alla chiesa e finì col divorare metà del contenuto del pentolino. “E’ proprio vero: nulla è più gustoso di quello che si mangia da soli” ed era tutto contento della sua giornata quando al tramonto rientrò a casa. Il topo gli chiese della giornata appena trascorsa e poi: “Questo piccolo qui come l’avete chiamato?” - “Mezzopappato,” si lasciò scappare il gatto. “Mezzopappato! che razza di nome,” esclamò il topo, “sono sicuro che non esiste nemmeno sul calendario!”
Ben presto al gatto tornò l’acquolina in bocca e, poichè non c’è due senza tre, disse al topo: “Devo fare di nuovo il padrino. Questa volta il piccolo è tutto nero e ha solo le zampe bianche: in tutto il resto del corpo non ha un solo pelo bianco. Questo capita solo una volta ogni due anni: mi lasci andare?” - “Pellepappata e Mezzopappato,” rimuginò il topo a voce alta, “sono nomi che mi impensieriscono!” - “Tu te ne stai col tuo giubbone grigio scuro e la tua lunga coda tappato in casa, e va a finire che ti monti la testa! Succede così quando non si esce mai!” disse il gatto risentito e uscì. Quel golosone del gatto arrivò in chiesa e ovviamente divorò utto il pentolone di strutto: “Solo quando si è finito tutto si sta in pace!” disse a se stesso e tornò a casa solo a notte fonda e ben pasciuto. Il topo, che nel frattempo aveva sbrigato tutte le faccende e rimesso in ordine la casa, anche questa volta gli chiese che nome avessero dato al terzo piccino. “Beh, non ti piacerà di certo,” disse il gatto, “si chiama Tuttopappato!” - “Tuttopappato, certo che è proprio un nome bizzarro, io non l’ho mai visto scritto. Che vorra mai dire?” ma poichè era stanco scosse il capo, si acciambellò e si addormentò.
Da allora più nessuno chiese al gatto di fare da padrino. Giunto l’inverno, quando ormai fuori non si trovavapiù nulla, il topo si ricordo della loro provvista di strutto e disse: “Vieni gatto, andiamo dove abbiamo messo in serbo il nostro pentolino di grasso, ce la godremo.” - “Certo,” rispose il gatto aggiungendo tra sè e sè “te la godrai come a mangiar aria fritta!” Si missero in cammino e quando arrivarono la pentola era ancora al suo posto, ma completamente vuota. “Ah,” esclamò il topo, “ora capisco quel che è successo, ora mi è tutto chiaro. Bell’amico che sei! Hai divorato tutto quando hai fatto da compare: prima pellepappata, poi mezzopappato poi...” - “Vuoi tacere,” disse il gatto, “ancora una parola e ti mangio!”
“Tuttopappato,” finì di dire in quell’istante il topo. Così il gatto con un balzo l’afferrò e ne fece un sol boccone. Vedi, così va il mondo.
FINE
La figlia della Madonna
tempo: 11'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 003
Davanti a un gran bosco viveva un taglialegna con la moglie e l’unica figlia, una bambina di tre anni. Ma erano così poveri che non tutti i giorni avevano il pane e non sapevano che cosa dare da mangiare alla bimba. Un giorno il taglialegna andò a lavorare nel bosco tutto preoccupato e, mentre tagliava la legna, gli apparve all’improvviso una bella signora d’alta statura, che aveva una corona di stelle lucenti sul capo, e gli disse: “Io sono la Vergine Maria, la madre del Bambino Gesù; tu sei povero e bisognoso: portami la tua bimba; la prenderò con me, sarò la sua mamma e provvederò a lei.” Il taglialegna prese la bimba e la diede alla Vergine Maria che la portò con s‚ in Cielo. Là stava bene: mangiava marzapane, beveva latte dolce, i suoi vestiti erano d’oro e gli angioletti giocavano con lei. Quando ebbe quattordici anni, la Vergine Maria la chiamò a s‚ e disse: “Cara bambina, devo fare un lungo viaggio; prendi in consegna le chiavi delle tredici porte del regno dei Cieli: dodici puoi aprirle e contemplare le meraviglie che custodiscono, ma la tredicesima, per cui si deve usare questa piccola chiave, ti è vietata; guardati dall’aprirla, o sarai infelice.” La ragazza promise di essere ubbidiente e, quando la Vergine Maria se ne fu andata, incominciò a visitare le stanze del regno dei cieli: ogni giorno ne visitava una, fino a quando ne ebbe viste dodici. In ogni stanza c’era un apostolo, e all’intorno un grande splendore. Ella gioiva non avendo mai visto in vita sua tanta magnificenza e grandiosità, e gli angioletti, che l’accompagnavano sempre, gioivano con lei. Ora non rimaneva che la porta proibita; ella provò un gran desiderio di sapere che cosa nascondesse, e disse agli angioletti: “Non voglio aprirla del tutto, ma soltanto un pochino, che si possa vedere attraverso la fessura.” - “Ah, no,” esclamarono gli angioletti, “sarebbe peccato: la Vergine Maria lo ha proibito e potrebbe essere la tua rovina.” Allora ella tacque, ma non tacquero la curiosità e la brama che continuavano a tormentarla in cuor suo. E una volta che gli angioletti erano via, ella pensò: “Ora sono sola: chi può vedermi?” Così prese la chiave, e dopo averla presa la infilò nella serratura, e dopo averla infilata la girò. La porta si spalancò, ed ella vide la Trinità circonfusa di fuoco e splendore. Sfiorò appena quel fulgore con il dito, ed esso si ricoprì d’oro. Allora fu presa dalla paura, chiuse violentemente la porta e corse via. Ma qualsiasi cosa facesse, la paura non passava e il cuore continuava a battere forte, e non si voleva chetare, e anche l’oro rimase sul dito e non se ne andò, per quanto lo lavasse.
Dopo pochi giorni la Vergine Maria ritornò dal suo viaggio. Chiamò la fanciulla e disse: “Ridammi le chiavi del Cielo.” Quando la fanciulla le porse il mazzo, la Vergine la guardò e le chiese: “Non hai forse aperto anche la tredicesima porta?” - “No,” rispose. La Vergine le mise la mano sul cuore, sentì come batteva e capì che ella aveva trasgredito il suo ordine e aveva aperto la porta. Domandò ancora una volta: “Davvero non l’hai fatto?” - “No,” rispose la fanciulla per la seconda volta. Allora la Vergine scorse il dito d’oro, con il quale la fanciulla aveva sfiorato il fuoco divino, vide che aveva peccato e domandò per la terza volta: “Non l’hai fatto?” - “No,” rispose la fanciulla per la terza volta. Allora la Vergine Maria disse: “Non mi hai obbedito, hai mentito: non sei più degna di stare in Cielo.”
La fanciulla cadde in un sonno profondo e, quando si risvegliò, giaceva sulla terra vicino a un albero alto, circondato da una fitta boscaglia impossibile a penetrarsi. La sua bocca era muta e non poteva pronunciare parola. Nell’albero vi era una cavità dov’ella dormiva di notte e si riparava quando pioveva o vi era tempesta. Radici e bacche erano il suo unico nutrimento, le cercava fin dove poteva arrivare. In autunno raccoglieva le foglie dell’albero, le portava nella cavità e, se nevicava o gelava, si copriva con esse. I suoi vestiti si sciuparono e le caddero di dosso e dovette così avvolgersi nelle foglie. Appena il sole splendeva caldo, usciva e si sedeva davanti all’albero, e i suoi lunghi capelli la ricoprivano da ogni parte come un mantello. Così visse a lungo e sentì il dolore e la miseria del mondo.
Un giorno di primavera il re di quella terra cacciava nel bosco inseguendo un capriolo e, siccome la bestia si era addentrata nella boscaglia che circondava l’albero cavo, discese da cavallo, spezzò gli sterpi e si aprì un varco con la spada. Penetrato nel fogliame, vide seduta sotto l’albero una fanciulla bellissima, coperta da una chioma dorata che le arrivava fino ai piedi. Egli si meravigliò e disse: “Come hai potuto arrivare in questo luogo deserto?” Ma essa non rispose, perché‚ non poteva schiudere le labbra. Il re proseguì: “Vuoi venire con me al mio castello?” La fanciulla annuì leggermente con il capo. Il re la prese allora tra le braccia, la mise sul suo cavallo e la portò a casa dove le fece indossare dei vestiti e le diede ogni cosa in abbondanza. E, anche se non poteva parlare, era così bella e leggiadra che egli se ne innamorò e la sposò.
Dopo circa un anno, la regina mise al mondo un bimbo. Di notte, mentre era sola, le apparve la Vergine Maria e disse: “Se dici la verità e ammetti di avere aperto la porta proibita, ti dischiuderò le labbra e ti ridarò la parola, ma se ti ostini a mentire rimanendo nel peccato, allora mi prenderò il bambino appena nato.” La regina pot‚ rispondere questa volta, ma disse: “No, non ho aperto la porta proibita,” e la Vergine Maria prese dalle sue braccia il bambino appena nato e scomparve con lui. Il giorno seguente quando si scoprì che il bambino era sparito, la gente cominciò a mormorare che la regina era un mostro e che aveva ucciso il suo bambino. Ella udiva ogni cosa, ma non poteva replicare nulla. Il re però non credette a niente di tutto ciò, tanto l’amava.
Dopo un anno la regina diede alla luce un altro figlio. Di notte comparve nuovamente la Vergine Maria e disse: “Se ammetti di avere aperto la porta proibita, ti ridarò il tuo bambino e ti scioglierò la lingua, ma se persisti nel peccato e neghi, allora prenderò anche questo neonato con me.” Ma la regina disse nuovamente: “No, non ho aperto la porta proibita,” e la Vergine Maria le prese il bimbo dalle braccia e lo portò con s‚ in Cielo. La mattina, scomparso di nuovo il piccino, la gente disse ad alta voce che la regina lo aveva divorato e i consiglieri del re chiesero che fosse giudicata. Ma il re l’amava tanto che non volle crederlo e ordinò ai consiglieri di non parlarne più, pena la vita.
Dopo un anno la regina partorì una bella figlioletta; la Vergine Maria le apparve nuovamente di notte e disse: “Seguimi.” La prese per mano, la condusse in Cielo e le mostrò i due figli maggiori che le sorridevano e giocavano con la palla del mondo. La regina se ne rallegrò; allora disse la Vergine Maria: “Se ammetti di avere aperto la porta proibita ti ridarò i due figlioletti.” Ma la regina rispose per la terza volta: “No, non ho aperto la porta proibita!” Allora la Vergine la lasciò ricadere sulla terra e le prese anche il terzo bambino.
La mattina dopo, quando la cosa trapelò, la gente gridò a gran voce: “La regina è un mostro e deve essere condannata!” E il re non pot‚ più trattenere i suoi consiglieri. La regina fu giudicata e, poiché‚ non poteva rispondere n‚ difendersi, fu condannata a morire sul rogo. Ammucchiarono la legna e, quando fu legata al palo e il fuoco incominciò ad avvampare intorno a lei, il suo cuore fu mosso dal pentimento ed ella pensò: Potessi confessare, prima di morire, di avere aperto la porta! e gridò: “Oh Maria, sì l’ho fatto!” Come ebbe in cuore questo pensiero, dal cielo incominciò a piovere e l’acqua spense le fiamme, ella fu inondata di luce e la Vergine Maria discese fra i due bambini e con la neonata in braccio. Le disse amorevolmente: “Chi si pente della propria colpa e la confessa è perdonato,” le porse i bambini, le sciolse la bocca e la rese felice per tutta la vita.
FINE
Storia di uno che se ne andò in cerca della paura
tempo: 24'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 004
Un padre aveva due figli. Il maggiore era giudizioso e prudente e sapeva cavarsela in ogni situazione, mentre il minore era stupido, non imparava né‚ capiva nulla e quando la gente lo incontrava diceva: “Sarà un bel peso per il padre!” Se c’era qualcosa da fare, toccava sempre al maggiore; ma se il padre lo mandava a prendere qualcosa di sera o addirittura di notte, e la strada passava vicino al cimitero o a qualche luogo terrificante, egli rispondeva: “Ah, padre mi viene la pelle d’oca!,” poiché‚ era pauroso. Oppure quando di sera, accanto al fuoco, si raccontavano delle storie da far rabbrividire, coloro che ascoltavano dicevano a volte: “Ah mi viene la pelle d’oca!” Il minore se ne stava seduto in un angolo, ascoltava e non capiva che cosa ciò potesse significare. “Dicono sempre: mi viene la pelle d’oca! mi viene la pelle d’oca! A me non viene: sarà anche questa un’arte di cui non capisco niente.”
Un bel giorno il padre gli disse: “Ascolta, tu in quell’angolo diventi grande e grosso, ed è ora che impari a guadagnarti il pane. Guarda come si dà da fare tuo fratello; ma con te è fatica sprecata.” - “Sì padre,” egli rispose, “vorrei imparare qualcosa; anzi, se fosse possibile, mi piacerebbe imparare a farmi venire la pelle d’oca; di questo non so proprio nulla.” Il fratello maggiore rise nell’udirlo e pensò fra s’: “Mio Dio, che stupido è mio fratello, non se ne caverà mai nulla. Il buon giorno si vede dal mattino.” Il padre sbuffò e gli rispose: “La pelle d’oca imparerai ad averla, ma con questo non ti guadagnerai il pane.”
Poco tempo dopo venne a fare loro visita il sagrestano; il padre gli confidò i suoi guai e gli raccontò che il figlio più giovane era maldestro in ogni cosa, non sapeva e non imparava nulla. “Pensate, quando gli ho chiesto in che modo voleva guadagnarsi il pane, ha risposto che voleva imparare a farsi venire la pelle d’oca!” - “Oh!” rispose il sagrestano, “può impararlo da me; affidatemelo, lo sgrosserò.” Il padre era contento perché‚ pensava che il giovane avrebbe messo giudizio. Così il sagrestano se lo portò a casa ed egli dovette suonargli le campane. Un paio di giorni dopo lo svegliò a mezzanotte, gli ordinò di alzarsi, di salire sul campanile e di suonare. “Imparerai che cos’è la pelle d’oca!” pensava e, per fargli prendere un bello spavento, lo precedette di nascosto e si mise davanti allo spiraglio della porta: il giovane doveva credere che fosse un fantasma. Questi salì tranquillamente fino in cima al campanile, e quando fu sopra vide una figura nello spiraglio. “Chi è là?” gridò, ma la figura non rispose n‚ si mosse. Allora gli disse: “Che vuoi qui di notte? Vattene o ti butto giù.” Il sagrestano pensò: “Non avrà intenzioni così malvagie,” tacque e restò immobile. Il giovane lo interpellò per la terza volta e, siccome non ottenne nessuna risposta, prese la rincorsa e buttò giù il fantasma che si ruppe le gambe e il collo. Suonò poi le campane e, subito dopo, discese e si rimise a dormire senza dire una parola. La moglie del sagrestano attese a lungo il marito, ma quello non veniva mai. Alla fine si spaventò, svegliò il giovane e disse: “Non sai dov’è mio marito? E’ salito con te sul campani le.” - “No,” rispose il ragazzo, “ma c’era un tale nello spiraglio, e siccome non se ne andava e non voleva rispondermi, l’ho buttato giù. Andate a vedere se è lui.” La donna corse al camposanto, piena di paura, e trovò il marito che giaceva per terra, morto.
Allora si recò urlando dal padre del ragazzo, lo svegliò e disse: “Ah, che sciagura ha causato il vostro fannullone! Ha buttato giù mio marito dal campanile, e ora giace morto al camposanto.” Il padre si spaventò, corse dal ragazzo e gli disse, rimproverandolo aspramente: “Queste empietà deve avertele ispirate il Maligno!” - “Ah padre!” rispose egli, “sono innocente: se ne stava là di notte, come uno che ha cattive intenzioni. Io non sapevo chi fosse e gliel’ho domandato tre volte; perché‚ non se n’è andato?” - “Ah,” disse il padre, “da te ho soltanto dei dispiaceri, togliti dai piedi, non ti voglio più vedere.” - “Sì padre, volentieri, aspetta solo che faccia giorno e me ne andrò, e imparerò che cosa sia avere la pelle d’oca, così conoscerò un’arte che mi darà da mangiare.” - “Impara quel che ti pare,” disse il padre, “per me fa lo stesso. Eccoti cinquanta scudi, prendili e sparisci dalla mia vista; e non dire a nessuno da dove vieni e chi è tuo padre, perché‚ mi vergogno di te.” - “Sì padre, come volete; se non chiedete altro, posso ben tenerlo a mente.”
Allo spuntar del giorno, il giovane si mise in tasca i suoi cinquanta scudi e se ne andò sulla via maestra dicendo fra s’: “Ah, se mi venisse la pelle d’oca! Se mi venisse la pelle d’oca!” Lo raggiunse un uomo che sentì questo discorso; quando ebbero fatto un pezzo di strada e furono in vista della forca, questi disse al ragazzo: “Vedi, quello è l’albero su cui sette uomini hanno sposato la figlia del funaio: siediti là sotto e aspetta che venga notte, allora imparerai che cos’è la pelle d’oca.” - “Se è tutto qui,” rispose il giovane, “è presto fatto; se imparo così in fretta che cos’è la pelle d’oca, avrai i miei cinquanta scudi: ritorna da me domani mattina presto.” Il giovane andò allora alla forca, vi si sedette sotto e attese la sera. Poiché‚ aveva freddo, accese un fuoco; ma a mezzanotte il vento soffiava così gelido che egli non riusciva a scaldarsi nonostante il fuoco. Quando il vento spinse gli impiccati l’uno contro l’altro facendoli oscillare su e giù, egli pensò: “Tu geli qui accanto al fuoco, chissà che freddo hanno quelli lassù! E come si dimenano!” E siccome era di buon cuore, appoggiò la scala alla forca, salì, li staccò a uno a uno e li portò giù tutti e sette. Poi attizzò il fuoco, ci soffiò sopra e ci sedette intorno gli impiccati perché‚ si scaldassero. Ma essi se ne stavano seduti senza muoversi e il fuoco si appiccò ai loro vestiti. Allora egli disse: “Fate attenzione, altrimenti vi riappendo di nuovo lassù.” Ma i morti non sentivano, tacevano e continuavano a lasciar bruciare i loro stracci. Perciò egli andò in collera e disse: “Se non volete fare attenzione, io non posso aiutarvi: non voglio bruciare con voi.” E li riappese l’uno dopo l’altro. Poi si sedette accanto al fuoco e si addormentò. Il mattino dopo venne l’uomo che voleva i cinquanta scudi e disse: “Hai imparato che cos’è la pelle d’oca?” - “No,” rispose egli. “Come avrei potuto impararlo? Quelli lassù non hanno aperto bocca, e sono così stupidi da lasciar bruciare quei due vecchi stracci che hanno addosso.” L’uomo capì che per quel giorno non poteva prendersi i cinquanta scudi, se ne andò e disse: “Non mi è mai capitato di incontrare un tipo simile.”
Anche il giovane andò per la sua strada e ricominciò a dire fra s’: “Ah, se mi venisse la pelle d’oca! Se mi venisse la pelle d’oca!” L’udì un carrettiere che camminava dietro di lui e domandò: “Chi sei?” - “Non lo so,” rispose il giovane. Il carrettiere domandò ancora: “Da dove vieni?” - “Non lo so.” - “Chi è tuo padre?” - “Non posso dirlo.” - “Che cosa vai borbottando fra i denti?” - “Ah,” rispose il giovane, “vorrei farmi venire la pelle d’oca, ma nessuno sa insegnarmelo.” - “Piantala di dire sciocchezze,” disse il carrettiere. “Vieni con me, ti troverò un posto di lavoro.” Il giovane andò con il carrettiere e la sera giunsero a un’osteria dove volevano pernottare. Entrando egli disse ad alta voce: “Se mi venisse la pelle d’oca! Se mi venisse la pelle d’oca!” L’oste, all’udirlo, disse ridendo: “Se ne hai tanta voglia, qui ci sarebbe una bella occasione!” - “Ah taci!” disse l’ostessa. “Troppi audaci hanno già perso la vita. Sarebbe un vero peccato se quei begli occhi non dovessero rivedere la luce del giorno!” Ma il giovane disse: “Anche se è difficile, voglio impararlo una buona volta: me ne sono andato di casa per questo.” Non lasciò in pace l’oste finché‚ questi non gli raccontò che nelle vicinanze c’era un castello fatato, dove si poteva imparare benissimo che cosa fosse la pelle d’oca, purché‚ ci si vegliasse tre notti. A chi aveva tanto coraggio, il re aveva promesso in isposa sua figlia, la più bella fanciulla che esistesse al mondo. Nel castello erano inoltre celati dei favolosi tesori custoditi da spiriti, e sarebbero diventati di proprietà di chi avesse superato la prova. Già molti erano entrati nel castello, ma nessuno ne era uscito. Il mattino dopo, il giovane si presentò al re e disse: “Se fosse possibile vorrei vegliare tre notti nel castello fatato.” Il re lo guardò e siccome gli piacque disse: “Puoi chiedermi anche tre cose e portarle con te al castello, ma devono essere cose prive di vita.” Allora egli rispose: “Chiedo un fuoco, un tornio e un banco da ebanista con il suo coltello.”
Il re gli fece portare ogni cosa al castello durante il giorno All’imbrunire il giovane vi entrò, si accese un bel fuoco in una stanza, vi mise accanto il banco da ebanista con il coltello, e si sedette sul tornio. “Ah, se mi venisse la pelle d’oca!” disse egli. “Ma non lo imparerò neanche qui.” Verso mezzanotte volle attizzare il fuoco; mentre ci soffiava sopra, udì all’improvviso gridare da un angolo: “Ohi miao! che freddo abbiamo!” - “Scimuniti,” esclamò, “perché‚ gridate? Se avete freddo, venite, sedetevi accanto al fuoco e scaldatevi.” Come ebbe detto questo, due grossi gatti neri si avvicinarono d’un balzo e gli si sedettero ai lati guardandolo ferocemente con i loro occhi di fuoco. Dopo un poco, quando si furono scaldati, dissero: “Camerata, vogliamo giocare a carte?” - “Sì,” egli rispose, “ma mostratemi le zampe.” Essi allora tirarono fuori gli artigli “Oh,” egli disse “che unghie lunghe avete! Aspettate, devo prima tagliarvele!” Li afferrò allora per la collottola, li mise sul banco ed imprigionò loro le zampe. “Vi ho tenuti d’occhio,” disse, “e mi è passata la voglia di giocare a carte.” Li uccise e li gettò in acqua. Ma aveva appena tolto di mezzo quei due e stava per sedersi accanto al fuoco, quando sbucarono da ogni parte cani e gatti neri, attaccati a catene infuocate; erano tanti ma tanti che egli non sapeva più dove cacciarsi. Gridavano terribilmente, gli calpestavano il fuoco, disperdevano le braci e volevano spegnerlo. Per un po’ stette a guardare tranquillamente, ma quando incominciò a sentirsi a mal partito, afferrò il coltello, gridò: “Finiamola, canaglia!” e si gettò su di loro. Alcuni balzarono via, gli altri li uccise e li buttò nello stagno. Come fu di ritorno, riattizzò il fuoco soffiando sulla brace e si scaldò. E, mentre se ne stava così seduto, si accorse che non riusciva più a tenere gli occhi aperti e che aveva voglia di dormire. Allora guardò intorno a s‚, vide un gran letto in un angolo e ci si coricò. Ma come volle chiudere gli occhi, il letto incominciò a muoversi da solo e andò a spasso per tutto il castello. “Benissimo,” disse il giovane, “ancora più in fretta!” Allora il letto incominciò a rotolare su e giù per soglie e scale, come se fosse trainato da sei cavalli; d’un tratto, hopp, hopp, si ribaltò a gambe all’aria, e gli restò addosso.
Allora egli scagliò in aria coperte e cuscini, saltò fuori e disse: “Adesso vada a spasso chi ne ha voglia!” si distese accanto al fuoco e dormì sino a giorno. Al mattino venne il re e quando lo vide disteso a terra pensò che fosse morto e che gli spettri lo avessero ucciso. Allora disse: “Peccato! Un così bel ragazzo!” Il giovane lo udì, si rizzò e disse: “Non siamo ancora a questo punto!” Il re si stupì e, tutto contento, gli domandò com’era andata. “Benissimo” rispose egli “la prima notte è passata e passeranno anche le altre due!” Quando tornò dall’oste, questi fece tanto d’occhi e disse: “Non pensavo di rivederti ancora vivo; hai imparato finalmente che cos’è la pelle d’oca?” - “No,” rispose il giovane, “non lo so; se solo qualcuno me lo dicesse!”
La seconda notte salì di nuovo al vecchio castello, si sedette accanto al fuoco e disse: “Se mi venisse la pelle d’oca!” Verso mezzanotte sentì un rumore e un tramestio, prima piano, poi sempre più forte; poi un breve silenzio, infine un mezzo uomo cadde dal camino urlando, e gli piombò davanti. “Olà!” esclamò, “ce ne vuole ancora metà, così è troppo poco.” Allora il rumore ricominciò, si udì strepitare e urlare, e anche la seconda metà cadde giù. “Aspetta,” disse, “voglio attizzarti un po’ il fuoco.” Quando ebbe finito e si guardò nuovamente intorno, i due pezzi si erano riuniti e un omaccio orribile sedeva al suo posto. “Non intendevo dir questo,” disse il giovane, “il banco è mio.” L’uomo voleva respingerlo, ma il giovane non lo lasciò fare, lo spinse via con forza e si risedette di nuovo al suo posto. Allora caddero giù altri uomini che avevano nove stinchi e due teschi, li rizzarono e giocarono a birilli. Anche al giovane venne voglia di giocare e domandò: “Sentite, posso giocare anch’io?” - “Sì, se hai denaro.” - “Di denaro ne ho a sufficienza” rispose “ma le vostre palle non sono ben rotonde.” Allora egli prese i teschi, li mise sul tornio e li arrotondò. “Adesso rotoleranno meglio!” disse. “Olà, ora ci divertiremo!” Giocò e perse un po’ di denaro, ma quando suonò mezzanotte tutto sparì davanti ai suoi occhi. Si distese e si addormentò tranquillamente. Il mattino dopo venne il re a informarsi: “Come ti è andata questa volta?” domandò. “Ho giocato a birilli” rispose “e ho perduto qualche soldo.” - “Non ti è venuta la pelle d’oca?” - “macché‚” disse “me la sono spassata; se solo sapessi che cos’è la pelle d’oca!”
La terza notte sedette di nuovo al suo banco e diceva tutto malinconico: “Se mi venisse la pelle d’oca!” A notte inoltrata, giunsero sei omacci che portavano una cassa da morto. Allora egli disse: “Ah, ah, è sicuramente il mio cuginetto che è morto qualche giorno fa.” Fece un cenno con il dito e gridò: “Vieni, cuginetto, vieni!” Misero la bara a terra, ma egli si avvicinò e tolse il coperchio: dentro c’era un morto. Gli toccò il viso, ma era freddo come il ghiaccio. “Aspetta,” disse, “ti voglio riscaldare un po’.” Andò al fuoco, si riscaldò la mano e gliela mise sul viso, ma il morto rimase freddo. Allora lo tirò fuori, si sedette davanti al fuoco, se lo prese sulle ginocchia e gli strofinò le braccia per riscaldarlo, Ma siccome anche questo non servì a nulla, gli venne un’idea: “Se due sono a letto insieme, si riscaldano.” Lo portò a letto, lo coprì e gli si distese accanto. Dopo un po’ anche il morto fu caldo e incominciò a muoversi. Allora il giovane disse: “Vedi, cuginetto, se non ti avessi scaldato!” Ma il morto prese a dire: “Adesso ti voglio strozzare.” - “Cosa?” disse egli. “E’ questa la mia ricompensa? Torna pure nella tua bara!” Lo sollevò, ce lo buttò dentro e chiuse il coperchio: ritornarono i sei uomini e lo portarono via. “Non mi vuol venire la pelle d’oca,” egli disse, “qui non l’imparerò mai.”
Allora entrò un uomo, che era più grosso di tutti gli altri e aveva un aspetto terribile; ma era vecchio e aveva una lunga barba bianca. “Oh tu, nanerottolo, imparerai presto che cos’è la pelle d’oca perché‚ devi morire.” - “Non così in fretta!” egli rispose. “Per morire devo esserci anch’io.” L’uomo disse: “Ti prenderò!” - “Piano, non darti tante arie; sono forte quanto te, e forse anche di più.” - “Lo vedremo,” disse il vecchio, “se sei forte più di me, ti lascerò andare; vieni, proviamo.” Attraverso passaggi oscuri, lo condusse a una fucina, prese un’accetta e con un colpo sbatté‚ a terra un’incudine. “So fare di meglio,” disse il giovane e andò all’altra incudine; il vecchio gli si mise accanto per vedere, con la barba bianca penzoloni. Il giovane afferrò allora l’accetta, con un colpo spaccò l’incudine e vi serrò dentro la barba del vecchio. “Ora ti ho in pugno!” disse il ragazzo. “Adesso tocca a te morire.” Afferrò una sbarra di ferro e percosse il vecchio fino a che questi si mise a piagnucolare e lo pregò di smettere: gli avrebbe dato dei grossi tesori. Il giovane estrasse allora l’accetta e lasciò libero il vecchio che lo ricondusse al castello e gli mostrò in una cantina tre casse colme d’oro. “Di quest’oro,” disse, “una parte è dei poveri, l’altra del re, la terza è tua.” In quel momento suonò mezzanotte e lo spirito scomparve, sicché‚ il giovane si trovò al buio. “Me la caverò ugualmente,” disse; a tastoni trovò il cammino che lo condusse alla sua stanza, dove si addormentò accanto al fuoco. Il mattino dopo venne il re e disse: “Ora avrai imparato che cos’è la pelle d’oca!” - “No,” rispose, “che roba è questa? E’ stato qui mio cugino morto ed è venuto un vecchio barbuto che mi ha mostrato molto denaro là sotto, ma che cosa sia la pelle d’oca non me l’ha insegnato nessuno.” Il re disse: “Hai sciolto l’incantesimo del castello e sposerai mia figlia.” - “Tutto questo va benissimo, ma io continuo a non sapere che cos’è la pelle d’oca.”
L’oro fu portato su e si celebrarono le nozze, ma il giovane re, per quanto amasse la sua sposa e fosse felice con lei, diceva sempre: “Se mi venisse la pelle d’oca! Se mi venisse la pelle d’oca!” La sposa finì coll’infastidirsi. Allora la sua cameriera disse: “Ci penserò io: imparerà che cos’è la pelle d’oca!” Uscì e fece riempire un secchio di ghiozzi. Di notte, mentre il giovane re dormiva, sua moglie gli tolse la coperta e gli rovesciò addosso il secchio pieno di acqua gelata con i ghiozzi, cosicché‚ i pesciolini gli guizzarono intorno. Allora egli si svegliò e gridò: “Ah, che pelle d’oca, che pelle d’oca, moglie mia! Sì, ora so cos’è la pelle d’oca.”
FINE
Il lupo e i sette caprettini
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 005
C'era una volta una vecchia capra, che aveva sette caprettini, e li amava come una mamma ama i suoi bimbi. Un giorno pensò di andare nel bosco a far provviste per il desinare; li chiamò tutti e sette e disse: “Cari piccini, voglio andar nel bosco; guardatevi dal lupo; se viene, vi mangia tutti in un boccone. Quel furfante spesso si traveste, ma lo riconoscerete subito dalla voce rauca e dalle zampe nere.” I caprettini dissero: “Cara mamma, staremo ben attenti, potete andar tranquilla.” La vecchia belò e si avviò fiduciosa.
Poco dopo, qualcuno bussò alla porta, gridando: “Aprite, cari piccini; c'è qui la vostra mamma, che vi ha portato un regalo per ciascuno.” Ma, dalla voce rauca, i caprettini capirono che era il lupo. “Non apriamo,” dissero, “non sei la nostra mamma; la mamma ha una vocina dolce, la tua è rauca; tu sei il lupo.” Allora il lupo andò da un bottegaio e comprò un grosso pezzo di creta; lo mangiò e così s'addolci la voce. Poi tornò, bussò alla porta e gridò: “Aprite, cari piccini, c'è la vostra mamma, che vi ha portato un regalo per ciascuno.” Ma aveva appoggiato alla finestra la sua zampa nera; i piccini la videro e gridarono: “Non apriamo; la nostra mamma non ha le zampe nere come te: tu sei il lupo.” Allora il lupo corse da un fornaio e gli disse: “Mi son fatto male al piede, spalmaci sopra un po' di pasta.” E quando il fornaio gli ebbe spalmato la zampa, corse dal mugnaio e gli disse: “Spargimi sulla zampa un po' di farina bianca.” Il mugnaio pensò: Il lupo vuole ingannare qualcuno, e rifiutò; ma il lupo disse: “Se non lo fai, ti mangio.” Allora il mugnaio ebbe paura e gli imbiancò la zampa. Già, così fanno gli uomini.
Ora il briccone andò per la terza volta all'uscio, bussò e disse: “Apritemi, piccini; la vostra cara mammina è tornata dal bosco e vi ha portato un regalo per ciascuno.” I caprettini gridarono: “Prima facci vedere la zampa, perché sappiamo se tu sei la nostra cara mammina.” Allora il lupo mise la zampa sulla finestra, e quando essi videro che era bianca credettero tutto vero quel che diceva e aprirono la porta. Ma fu il lupo a entrare. I capretti si spaventarono e cercarono di nascondersi. Il primo saltò sotto il tavolo, il secondo nel letto, il terzo nella stufa, il quarto in cucina, il quinto nell'armadio, il sesto sotto l'acquaio, il settimo nella cassa dell'orologio a pendolo. Ma il lupo li trovò tutti e non fece complimenti: li ingoiò l'un dopo l'altro; ma l'ultimo, dentro la cassa dell'orologio, non lo trovò. Quando si fu cavata la voglia, il lupo se ne andò, si sdraiò sotto un albero sul verde prato e si mise a dormire.
Poco dopo la vecchia capra tornò dal bosco. Ah, cosa le toccò vedere! La porta di casa era spalancata, tavola sedie e panche erano rovesciate, l'acquaio era in pezzi, coperta e cuscini strappati dal letto. Cercò i suoi piccoli, ma non riuscì a trovarli da nessuna parte. Li chiamò per nome, l'un dopo l'altro, ma nessuno rispose. Finalmente, quando chiamò il più piccolo, una vocina gridò: “Cara mamma, sono nascosto nella cassa dell'orologio.” Lo tirò fuori ed egli le raccontò che era venuto il lupo e aveva divorato tutti gli altri. Pensate come pianse per i suoi poveri piccini!
Alla fine uscì tutt'afflitta e il caprettino più piccolo corse fuori con lei. Quando arrivò nel prato, ecco il lupo sdraiato sotto l'albero, e russava tanto da far tremare i rami. L'osservò da tutte le parti e notò che nella pancia rigonfia qualcosa si moveva e si dimenava. “Ah, Dio mio,” pensò, “che siano ancor vivi i miei poveri piccini, che il lupo ha divorato per cena?” Disse al capretto di correre a casa e di prendere forbici, ago e filo. Poi tagliò la pancia del mostro; e al primo taglio, un capretto mise fuori la testa, poi, via via che tagliava, saltaron fuori tutti e sei ed erano tutti vivi e stavano benone; perché il mostro per ingordigia li aveva ingoiati interi. Che gioia fu quella! Si strinsero alla loro cara mamma e saltellavano contenti come pasque. Ma la vecchia disse: “Andate, ora; e cercate delle pietre da riempir la pancia a questo dannato prima che si desti.” Allora i sette caprettini trascinarono in gran fretta le pietre e ne cacciarono in quella pancia quante ne poterono portare. Poi la vecchia la ricucì in un baleno, sicché il lupo non se ne accorse e non si mosse neppure.
Finalmente, quando ebbe fatto una bella dormita, il lupo si alzò, e perché le pietre nello stomaco gli davano una gran sete, volle andare a una fontana. Ma quando cominciò a muoversi, le pietre si misero a cozzare nella pancia con gran fracasso. Allora gridò:
“Romba e rimbomba
Nella mia pancia credevo fossero
Sei caprettini, sono pietroni
Belli e buoni.”
E quando arrivò alla fontana e si chinò sull'acqua per bere, il peso delle pietre lo tirò giù, e gli toccò miseramente affogare. A quella vista i sette capretti vennero di corsa, gridando: “Il lupo è morto! il lupo è morto!” E con la loro mamma ballarono di gioia intorno alla fontana.
FINE
Il fedele Giovanni
tempo: 21'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 006
C'era una volta un vecchio re che era malato e pensava: “Questo sarà il mio letto di morte!” Allora disse: “Fate venire il mio fedele Giovanni.” Il fedele Giovanni era il suo servo prediletto e si chiamava così perché‚ gli era stato fedele per tutta la vita. Quando fu al suo capezzale, il re gli disse: “Mio fedelissimo Giovanni, sento che la mia fine si avvicina e non ho altro timore che per mio figlio. Si trova ancora in un'età in cui spesso non si sa che via scegliere, e se tu non mi prometti di insegnargli tutto quello che deve sapere, e di essere il suo tutore, non posso chiudere gli occhi in pace.” Il fedele Giovanni rispose: “Non lo abbandonerò e lo servirò con fedeltà, dovesse costarmi la vita.” Allora il vecchio re disse: “Muoio contento e in pace.” E aggiunse: “Dopo la mia morte devi mostrargli tutto il castello: tutte le stanze, le sale, i sotterranei e i tesori che in esso vi sono. Solo una camera devi celargli: quella dov'è nascosto il ritratto della principessa dal tetto d'oro; se egli per caso la vedesse, proverebbe per lei un amore ardente, cadrebbe svenuto e correrebbe gran pericoli; devi preservarlo da questo.” E come il fedele Giovanni rinnovò la sua promessa, il vecchio re tacque, adagiò la testa sul cuscino e morì.
Quando fu seppellito, il fedele Giovanni raccontò al giovane quello che aveva promesso a suo padre sul letto di morte e disse: “Lo manterrò certamente e ti sarò fedele, dovesse costarmi la vita.” Il giovane piangendo esclamò: “Io pure non dimenticherò mai la tua fedeltà.” Finito il lutto, il fedele Giovanni gli disse: “E' tempo che tu veda i tuoi beni; voglio mostrarti il castello paterno.” Lo condusse in giro da ogni parte, su e giù, e gli fece vedere tutti i tesori e le splendide stanze; non aprì soltanto la camera che racchiudeva il ritratto. Il ritratto era posto in modo che aprendo la porta lo si vedesse subito; era dipinto con tanta arte da sembrare vivo e non vi era al mondo nulla di più soave e di più bello. Ma il giovane re si accorse subito che il fedele Giovanni passava sempre davanti a questa porta senza fermarsi e disse: “Perché‚ questa non la apri?” - “Vi è qualcosa dentro che ti spaventerebbe,” rispose il servo. Ma il re replicò: “Ho visto tutto il castello; voglio sapere anche che cosa c'è qua dentro.” Andò alla porta e cercò di aprirla con la forza. Allora il fedele Giovanni lo trattenne e disse: “Prima che morisse, ho promesso a tuo padre che non avresti visto quello che vi è nella stanza: potrebbe causare a entrambi grande sventura.” - “No,” rispose il giovane re, “se non entro è la mia rovina: non avrò pace giorno e notte, finché‚ non l'avrò visto; non me ne andrò di qui finché‚ non avrai aperto.”
Il fedele Giovanni vide allora che non vi era più nulla da fare e, col cuore grosso e molti sospiri, cercò la chiave nel grosso mazzo. Poi aprì la porta della stanza ed entrò per primo pensando che il re non potesse vedere il ritratto; ma questi era troppo curioso, si mise sulla punta dei piedi e guardò al di sopra della sua spalla. E quando vide l'immagine della fanciulla, così bella e splendente d'oro, cadde a terra svenuto. Il fedele Giovanni lo sollevò, lo portò a letto e pensò preoccupato: “La disgrazia è avvenuta; Signore Iddio, che sarà mai?” Poi lo rinvigorì con del vino finché‚ si riebbe, ma la prima cosa che il giovane re disse fu: “Ah, di chi è quei bel ritratto?” - “E' la principessa dal tetto d'oro,” rispose il fedele Giovanni. Allora il re disse: “Il mio amore per lei è così grande che se tutte le foglie degli alberi fossero lingue, non potrebbero esprimerlo. Pur di ottenerla in isposa rischierei la vita; tu sei il mio fedelissimo Giovanni e devi aiutarmi.”
Il fedele servitore pensò a lungo come agire, poiché‚ giungere al cospetto della principessa era cosa assai difficile. Alla fine escogitò un sistema e disse al re: “Tutto ciò che la circonda è d'oro: tavoli, sedie, piatti, bicchieri, scodelle e ogni altra suppellettile domestica. Fra i tuoi beni vi sono cinque tonnellate d'oro; fanne lavorare una dagli orefici del regno, che ne facciano ogni sorta di vasellame e di utensile, ogni sorta di uccelli, fiere e mostri, con queste cose andremo e tenteremo la fortuna.” Il re fece radunare tutti gli orefici e li fece lavorare giorno e notte, finché‚ furono pronti gli oggetti più splendidi. Il fedele Giovanni fece allora caricare il tutto su di una nave, indossò degli abiti da mercante e così fece pure il re in modo da rendersi irriconoscibile. Poi salparono e navigarono a lungo per il mare finché‚ giunsero alla città nella quale abitava la principessa dal tetto d'oro.
Il fedele Giovanni disse al re di rimanere sulla nave e di aspettarlo. “Forse,” disse, “porterò con me la principessa, per questo abbiate cura che tutto sia in ordine: esponete il vasellame d'oro e fate adornare tutta la nave.” Poi radunò nel grembiule ogni sorta di oggetti d'oro, sbarcò e andò dritto al castello reale. Quando giunse nel cortile del castello, c'era alla fonte una bella fanciulla, che aveva in mano due secchi d'oro e attingeva acqua. Quand'ella si volse per portar via l'acqua dai bagliori dorati, vide lo straniero e gli domandò chi fosse. Allora egli rispose: “Sono un mercante,” e aprì il grembiule, lasciando che vi guardasse dentro. Allora ella esclamò: “Oh, che begli oggetti d'oro!” depose i secchi e si mise a esaminarli uno dopo l'altro. Poi disse: “Deve vederli la principessa, gli oggetti d'oro le piacciono tanto che vi comprerà tutto.” Lo prese per mano e lo condusse fino alle stanze superiori, poiché‚ era la cameriera. Quando la principessa vide la merce, tutta contenta disse: “E' così ben lavorata che voglio comprarti tutto.” Ma il fedele Giovanni disse: “Io sono soltanto il servo di un ricco mercante; ciò che ho qui è nulla in confronto a quello che il mio padrone ha sulla sua nave; là vi è quanto di più artistico e di più prezioso sia mai stato lavorato in oro.” Ella voleva che le portassero tutto al castello, ma egli disse: “Per fare questo occorrono molti giorni, poiché‚ vi è moltissima merce; ci vogliono tante sale per esporla che la vostra casa non basterebbe.” Così la curiosità e il desiderio crebbero in lei sempre più, finché‚ disse: “Conducimi alla nave: voglio andare io stessa a vedere i tesori del tuo padrone.”
Tutto contento, il fedele Giovanni la condusse alla nave e il re, quando la vide, credette che il cuore gli scoppiasse e pot‚ trattenersi a fatica. Ella salì sulla nave e il re la condusse all'interno, ma il fedele Giovanni rimase presso il timoniere e ordinò che la nave salpasse: “Spiegate le vele, che voli come un uccello nell'aria!” Intanto il re le faceva vedere all'interno tutti gli oggetti d'oro uno per uno: i piatti, i bicchieri, le ciotole, gli uccelli, le fiere e i mostri. Passarono diverse ore ed ella rimirava ogni cosa con tale gioia da non accorgersi che la nave era partita. Quand'ebbe esaminato l'ultimo oggetto, ringraziò il mercante e volle ritornare a casa; ma, giunta sul ponte, vide che la nave correva a vele spiegate in alto mare, lontano da terra. “Ah,” gridò spaventata, “sono stata ingannala, rapita; sono nelle mani di un mercante: preferirei morire!” Ma il re la prese per mano e disse: “Non sono un mercante ma un re, non inferiore a te per nascita. Se ti ho rapita con l'astuzia è stato solo per il grande amore che ti porto. Quando vidi il tuo ritratto la prima volta, caddi a terra svenuto.” All'udire queste parole, la principessa dal tetto d'oro si consolò; e fu così incline ad amarlo, che accettò volentieri di diventare sua moglie.
Ma, mentre navigavano in alto mare, il fedele Giovanni, che sedeva a prua e suonava, scorse in aria tre corvi che si avvicinavano a volo. Smise di suonare e ascoltò quel che dicevano, perché‚ lo capiva bene. Uno gracchiò: “Ah, si porta a casa la principessa dal tetto d'oro!” - “Sì” rispose il secondo “ma non l'ha ancora!” E il terzo disse: “Ma sì, è con lui sulla nave!” Allora il primo riprese a dire: “A che giova questo? Quando sbarcheranno, gli balzerà incontro un cavallo sauro: allora egli vorrà cavalcarlo e se lo farà il cavallo correrà via con lui e si alzerà in volo, cosicché‚ egli non rivedrà mai più la sua fanciulla.” Il secondo disse: “Non vi è modo per salvarsi?” - “Oh sì, se colui che è in sella estrae il fucile che è infilato nella cavezza del cavallo e lo uccide, il giovane re è salvo; ma chi può saperlo? E chi sapendolo glielo dicesse, diventerebbe di pietra dalla punta dei piedi alle ginocchia.” Allora il secondo disse: “Io so di più: anche se il cavallo viene ucciso, il giovane re non serba la sua sposa! Quando entreranno nel castello, troveranno su di un vassoio una camicia nuziale che sembrerà intessuta d'oro e d'argento, ma non si tratterà che di pece e zolfo: Se egli la indosserà brucerà fino al midollo.” Il terzo disse: “Non vi è modo per salvarsi?” - “Oh sì,” rispose il secondo, “se uno afferra la camicia con dei guanti e la getta nel fuoco, in modo che bruci, il giovane re è salvo. Ma a che giova? Chi sapendolo glielo dicesse, diventerebbe di pietra dal ginocchio al cuore.” Allora il terzo disse: “Io so di più: anche se bruciasse la camicia nuziale, il giovane re non avrebbe ancora la sua sposa! Quando, dopo le nozze, incomincerà il ballo e la giovane regina danzerà, impallidirà all'improvviso e cadrà come morta. E se qualcuno non la solleva e non succhia tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e non le risputa, ella morirà. Ma se qualcuno lo sa e lo rivela, diventerà tutto di pietra, dalla testa fino alla punta dei piedi.” Quando i corvi si furono scambiati queste parole, volarono via, e il fedele Giovanni aveva capito tutto; ma da quel momento in poi fu triste e taciturno: infatti se avesse taciuto al suo signore ciò che aveva udito, questi sarebbe stato infelice, e se glielo avesse rivelato avrebbe dovuto sacrificare la sua stessa vita. Infine egli disse fra s’: “Voglio salvare il mio signore, anche se questo dovesse causare la mia rovina.”
Quando giunsero a terra, accadde quel che il corvo aveva predetto e uno splendido sauro balzò loro innanzi. “Oh,” esclamò il re, “mi porterà al mio castello,” e volle montare in sella; ma il fedele Giovanni lo precedette, balzò velocemente in sella, estrasse l'arma dalla cavezza e lo uccise. Allora gli altri servi del re, che non amavano il fedele Giovanni, esclamarono: “Che cosa ignobile, uccidere quel bell'animale che doveva portare il re al castello!” Ma il re disse: “Tacete e lasciatelo fare: è il mio fedelissimo Giovanni, avrà un buon motivo.” Poi andarono al castello e nella sala c'era il vassoio sul quale era posata la camicia nuziale, che sembrava tutta d'oro e d'argento. Il giovane re si fece avanti per prenderla, ma il fedele Giovanni lo spinse via, afferrò la camicia con i guanti, la gettò nel fuoco e la bruciò. Gli altri servi ricominciarono a mormorare e dissero: “Guardate, ora brucia persino la camicia nuziale del re!” Ma il giovane re disse: “Avrà un buon motivo, lasciatelo fare, è il mio fedelissimo Giovanni.” Poi si celebrarono le nozze; il ballo incominciò e anche la sposa vi prese parte. Il fedele Giovanni stava attento e la guardava in viso. D'un tratto impallidì e cadde a terra come morta. Allora egli corse a lei, la sollevò e la portò in una stanza; qui la distese, si inginocchiò, succhiò le tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e le sputò. Subito ella riprese a respirare e si riebbe, ma il giovane re aveva visto tutto e, non sapendo perché‚ il fedele Giovanni lo avesse fatto, andò in collera e gridò: “Gettatelo in prigione!” Il mattino dopo il fedele Giovanni fu condannato e condotto al patibolo e quando fu lassù e stava per essere giustiziato, disse: “Chi deve morire, può parlare ancora una volta prima della sua fine; ho anch'io questo diritto?” - “Sì,” rispose il re, “ti sia concesso.” Allora il fedele Giovanni disse: “Sono condannato ingiustamente e ti sono sempre stato fedele.” E gli raccontò come avesse udito sul mare il discorso dei corvi e deciso di salvare il suo signore; per questo aveva dovuto fare tutto quello che aveva fatto. Allora il re esclamò: “Oh mio fedelissimo Giovanni! Grazia! Grazia! Portatelo giù.” Ma il fedele Giovanni, appena aveva pronunciato l'ultima parola, era caduto senza vita ed era diventato di pietra.
Il re e la regina se ne afflissero molto e il re diceva: “Ah, come ho mal ricompensato tanta fedeltà!” Fece sollevare la statua di pietra e la fece mettere nella sua stanza accanto al suo letto. Ogni volta che la guardava, piangeva e diceva: “Ah, potessi ridarti la vita, mio fedelissimo Giovanni!” Passò qualche tempo e la regina partorì due gemelli, due maschietti, che crebbero ed erano la sua gioia. Un giorno che la regina era in chiesa e i due bambini giocavano accanto al padre, il re guardò la statua di pietra con grande tristezza, sospirò e disse: “Ah, potessi ridarti la vita, mio fedelissimo Giovanni!” Allora la statua incominciò a parlare e disse: “Sì, puoi ridarmi la vita se sarai disposto a dare ciò che ti è più caro.” Allora il re esclamò: “Per te darò tutto quello che ho al mondo!” La pietra proseguì: “Se di tua mano tagli la testa ai tuoi due bambini e mi ricopri con il loro sangue, allora riavrò la vita.” Il re inorridì quando udì che doveva uccidere egli stesso i suoi diletti figli, ma pensò alla grande fedeltà del fedele Giovanni, che era morto per lui: trasse la spada e di sua mano tagliò la testa ai bambini. E quando ebbe ricoperto la statua con il loro sangue, essa si rianimò e il fedele Giovanni gli stette di nuovo innanzi, fresco e sano. Ed egli disse al re: “Voglio ricompensare la tua fedeltà” e, prese le teste dei bambini, le rimise sul busto e spalmò le ferite con il loro sangue. In un attimo i bambini ritornarono sani e ripresero a saltare e a giocare come se nulla fosse accaduto. Il re era felice e, quando vide venire la regina, nascose il fedele Giovanni e i due bambini in un grande armadio. Quando ella entrò le disse: “Hai pregato in chiesa?” - “Sì” rispose la regina “ma ho sempre pensato al fedele Giovanni che è stato così sventurato per colpa nostra.” Allora egli disse: “Cara moglie, noi possiamo ridargli la vita, ma a prezzo del sacrificio dei nostri figlioletti.” La regina impallidì e le si gelò il sangue, ma disse: “Glielo dobbiamo per la sua grande fedeltà.” E il re si rallegrò che ella pensasse come lui; andò ad aprire l'armadio e ne uscirono i bambini e il fedele Giovanni. Il re disse: “Grazie a Dio egli è libero dall'incantesimo e abbiamo ancora i nostri figlioletti.” E le raccontò tutto quello che era successo. Poi vissero felici insieme fino alla morte.
FINE
Il buon affare
tempo: 11'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 007
Un contadino aveva portato la sua mucca al mercato e l'aveva venduta per sette scudi. Tornando a casa doveva passare vicino a uno stagno; già da lontano udì le rane gracidare: “Qua, qua, qua, qua.” – “Sì,” disse fra sé‚ “le senti strillare fin dal campo d'avena. Sette scudi ho riscosso, non quattro.” Quando fu vicino all'acqua gridò: “Stupide bestie che siete! Non vi hanno informato meglio? Sono sette gli scudi, non quattro!” Ma le rane continuarono a fare “qua, qua, qua, qua.” – “Be', se non volete crederci posso contarveli.” Tirò fuori il denaro di tasca e contò i sette scudi, cento soldi per volta. Ma le rane non si curarono dei suoi conti e continuarono a gracidare: “Qua, qua, qua, qua.” – “Oh,” esclamò il contadino infuriato, “se credete di saperlo meglio di me, contate voi,” e gettò tutto il denaro in acqua. Si fermò e attese che avessero finito e gli ridessero il suo avere, ma le rane persistettero ostinatamente a gracidare “qua, qua, qua, qua,” e non gli restituirono il denaro. Egli attese ancora un bel pezzo finché‚ si fece sera e dovette ritornare a casa. Allora prese a rimproverare le rane e gridò: “Sciaguattone, avete una gran bocca e sapete strillare da far male alle orecchie, ma sette scudi non sapete contarli! Pensate che io voglia stare qui finché‚ avete finito?” E se ne andò, ma le rane gli gracidarono ancora dietro “qua, qua, qua, qua” cosicché‚ egli rincasò di pessimo umore.
Dopo un po' di tempo acquistò un'altra mucca, la macellò e calcolò che, vendendo bene la carne, avrebbe potuto ricavare il prezzo delle due mucche, oltre ad avere la pelle. Quando giunse in città con la carne, davanti alla porta accorse un intero branco di cani preceduto da un grosso levriero; questo saltò intorno alla carne, annusò e abbaiò: “Bau, bau, bau, bau.” Siccome non voleva smetterla, il contadino gli disse: “Sì, lo so, fai ›bau, bau‹ perché‚ vorresti un po' di carne, ma io farei un bell'affare se te la dessi!” Ma il cane non rispose altro che “bau, bau.” – “Se tu non te la mangerai, garantisci per i tuoi compagni?” – “Bau, bau,” disse il cane. “Be', se insisti te la lascerò, ti conosco bene e so da chi presti servizio; ma ricordati: fra tre giorni devo avere il mio denaro, me lo porterai.” Dopo di che scaricò la carne e tornò indietro. I cani vi si lanciarono sopra abbaiando forte “bau bau!” Il contadino, che li udiva da lontano, disse fra s’: “Senti senti, adesso ne vogliono tutti, ma quello grosso me ne sarà garante.”
Passati tre giorni, il contadino pensò tutto contento: Questa sera avrai il tuo denaro in tasca. Ma nessuno venne a pagarlo. “Non ci si può fidare di nessuno,” disse, e infine gli scappò la pazienza, andò in città dal macellaio e pretese il suo denaro. Il macellaio pensò che fosse uno scherzo, ma quando il contadino disse: “Lasciamo perdere gli scherzi, io voglio il mio denaro. Il cane grosso non vi ha portato tre giorni fa l'intera mucca macellata?” Il macellaio andò in collera, afferrò un manico di scopa e lo cacciò fuori. “Aspetta,” disse il contadino, “c'è ancora giustizia a questo mondo!” e andò al castello reale e chiese udienza. Fu condotto innanzi al re, che sedeva accanto a sua figlia e gli domandò quale torto gli avessero fatto. “Ah,” disse lui, “le rane e i cani hanno preso il mio avere, e il macellaio mi ha ripagato per questo con il bastone.” E narrò minuziosamente come era andata. Allora la figlia del re scoppiò a ridere e il re gli disse: “Non posso darti ragione, ma in compenso ti darò in moglie mia figlia. In tutta la sua vita non ha mai riso, tranne appunto di te, io l'ho promessa a colui che la facesse ridere. Puoi ringraziare Dio per la tua fortuna.” – “Oh,” rispose il contadino, “non la voglio affatto: a casa ho una donna sola, e quando torno a casa è come se ce ne fosse una in ogni angolo.” Allora il re andò in collera e disse: “Se sei così villano devi avere un'altra ricompensa: ora vattene, ma fra tre giorni ritorna che te ne saranno contati cinquecento.”
Quando il contadino uscì dalla porta, la sentinella disse. “Hai fatto ridere la figlia del re, avrai ricevuto qualcosa per questo.” – “Lo credo bene,” rispose il contadino, “me ne pagheranno cinquecento.” – “Senti,” disse il soldato, “dammene un po', cosa vuoi fartene di tutto quel denaro!” – “Be',” disse il contadino, “perché‚ sei tu te ne darò duecento; fra tre giorni presentati al re e fatteli contare.” Un ebreo che era lì vicino e aveva udito la conversazione, corse dietro al contadino, lo prese per la giubba e disse: “Gran Dio, siete proprio fortunato. Voglio cambiarveli, voglio convertirli in moneta spicciola, che ve ne farete di quegli scudi sonanti!” – “Giudeo,” disse il contadino, “puoi averne ancora trecento; dammeli subito in spiccioli e di qui a tre giorni sarai pagato dal re.” L'ebreo fu contento del piccolo guadagno e portò la somma in soldi di cattiva lega, che tre ne valevano due buoni. Trascorsi i tre giorni, il contadino si recò dal re, come gli era stato ordinato. “Togliti la giubba,” disse questi, “devi avere i tuoi cinquecento.” – “Ah,” disse il contadino, “non appartengono più a me: duecento li ho regalati alla sentinella e trecento me li ha cambiati l'ebreo; non ho più diritto neanche a uno.” In quella entrarono il soldato e l'ebreo e pretesero ciò che avevano ottenuto dal contadino; ed ebbero le botte secondo quanto spettava loro. Il soldato le sopportò con pazienza poiché‚ ne conosceva già il sapore; l'ebreo invece gemeva: “Ahimè, sono questi gli scudi sonanti!” Il re dovette ridere del contadino e dato che la collera era scomparsa gli disse: “Siccome hai perso il compenso ancora prima di riceverlo, ti voglio risarcire: vai nella camera del tesoro e prendi tutto il denaro che vuoi.” Il contadino non se lo fece dire due volte e si ficcò in tasca tutto quello che poteva starci. Poi andò all'osteria e contò il suo denaro. L'ebreo gli era andato dietro e lo sentiva brontolare fra s’: “Quel briccone del re mi ha menato per il naso! Non poteva darmelo lui stesso il denaro? Adesso almeno saprei quanto ho: come posso sapere se è giusto quel che mi sono ficcato in tasca?” – “Dio guardi!” disse l'ebreo fra s’. “Costui parla con disprezzo del nostro signore: corro subito a dirlo, otterrò una ricompensa e lui, per di più, sarà punito.” Quando il re venne a sapere il discorso del contadino, andò in collera e ordinò all'ebreo di andare a prendere il colpevole. L'ebreo corse dal contadino: “Dovete venir subito da Sua Maestà, senza indugio.” – “So meglio di voi quel che ci vuole,” rispose il contadino, “prima mi faccio fare una giubba nuova; credi forse che con tutto il denaro che ho, voglia andarci vestito di stracci?” L'ebreo comprese che senza una giubba nuova il contadino non si sarebbe mosso, e siccome temeva che, sfumando la collera del re, egli ci avrebbe rimesso la sua ricompensa e il contadino la sua punizione, disse: “Vi presterò la mia giubba per pura amicizia: che cosa non si fa quando si vuole bene!” Il contadino accettò, indossò la giubba dell'ebreo e andò con lui dal re. Il re rinfacciò al contadino le male parole che l'ebreo gli aveva riferite. “Ah,” rispose il contadino, “ciò che dice un ebreo è sempre falso; a loro non esce di bocca neanche una parola che sia sincera! Questo qui ha il coraggio di dire che io ho addosso la sua giubba!” – “Che volete dire?” esclamò l'ebreo. “Non è mia la giubba, non ve l'ho forse imprestata per amicizia, perché‚ poteste presentarvi davanti a Sua Maestà?” All'udire queste parole il re disse: “L'ebreo ha di certo ingannato qualcuno: o me, o il contadino.” E gli fece suonare ancora qualche scudo sulla groppa. Il contadino invece se ne ritornò a casa con la sua bella giubba e con il suo bel denaro in tasca e disse: “Questa volta l'ho imbroccata!”
FINE
Lo strano violinista
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 008
C’era una volta uno strano violinista, che se ne andava solo solo per un bosco, e pensava a questo e a quello; e quando la sua mente non ebbe ove posarsi, disse fra sé: “Mi annoio molto qui nel bosco, voglio cercarmi un buon compagno.” Si tolse di dosso il violino e si mise a sonare, sicché il suono si diffuse fra gli alberi. Poco dopo, ecco venire un lupo, trottando per la boscaglia. “Ah, viene un lupo! quello non lo desidero proprio,” disse il violinista. Ma il lupo si avvicinò e gli disse: “Oh, caro violinista! come suoni bene! vorrei imparare anch’io.” - “È presto fatto,” gli rispose il violinista, “devi soltanto fare tutto quello che ti ordino.” - “O violinista,” disse il lupo, “ti obbedirò come uno scolaro il suo maestro.” Il violinista gli ordinò di seguirlo, e, quando ebbero fatto un pezzo di strada insieme, giunsero a una vecchia quercia, che era cava internamente e spaccata nel mezzo. “Guarda,” disse il violinista, “se vuoi imparar a sonare il violino, metti le zampe davanti in questa spaccatura.” Il lupo obbedí, ma il violinista prese in fretta un sasso e d’un sol colpo gli conficcò le zampe nel legno cosí saldamente, che il lupo dovette starsene là prigioniero. “Aspetta qui finché torno,” disse il violinista, e se ne andò per la sua strada.
Dopo un po’, disse di nuovo fra sé: “Mi annoio molto qui nel bosco, voglio cercarmi un altro compagno.” Prese il violino, e di nuovo si diffuse il suono nel bosco. Poco dopo, ecco venire una volpe strisciando fra gli alberi. “Ah, viene una volpe,” disse il violinista, quella non la desidero proprio. Ma la volpe gli si accostò e disse: “Ah, caro violinista, come suoni bene! Vorrei imparare anch’io.” È presto fatto, disse il violinista: devi soltanto fare tutto quel che ti ordino. “O violinista,” rispose la volpe, “ti obbedirò come uno scolaro il suo maestro.” - “Seguimi,” disse il violinista, e quando ebbero fatto un pezzo di strada, giunsero a un sentiero fiancheggiato da alti cespugli. Allora il violinista si fermò, da un lato del sentiero curvò fino a terra un giovane nocciolo e ne premette la cima col piede; dall’altro lato incurvò un altro alberello e disse: “Orsú, volpicina, se vuoi imparar qualcosa, porgimi una delle tue zampe davanti, la sinistra.” La volpe obbedí ed egli le legò la zampa al fusto di sinistra. “Volpicina,” disse, “ora porgimi la destra.” E la legò al fusto di destra. E, dopo essersi assicurato che i nodi delle corde fossero abbastanza solidi, lasciò la presa, e gli alberelli si rizzarono e lanciarono in alto la volpe, che restò sospesa in aria a sgambettare. “Aspettami qui fìnché torno,” disse il violinista e se ne andò per la sua strada.
Di nuovo disse fra sé: “Mi annoio qui nel bosco; voglio cercarmi un altro compagno.” Prese il violino, e il suono si diffuse per il bosco. Allora ecco venire a gran balzi un leprotto. “Ah, viene una lepre!” disse il violinista, “questa non la volevo.” - “Ah, caro violinista,” disse il leprotto, “come suoni bene! vorrei imparare anch’io.” - “È presto fatto,” disse il violinista, “devi soltanto fare tutto quel che ti ordino.” - “O violinista,” disse il leprotto, “ti obbedirò come uno scolaro il suo maestro.” Fecero un pezzo di strada insieme, finché giunsero a una radura nel bosco, dove c’era una tremula. Il violinista legò un lungo spago al collo del leprotto e ne annodò l’altro capo all’albero. “Svelto, leprottino, ora salta venti volte intorno all’albero!” esclamò il violinista, e il leprotto obbedi, e quando ebbe fatto i suoi venti giri, lo spago si era attorto venti volte intorno al tronco; e il leprotto era prigioniero, e aveva un bel tirare e dar strattoni: si tagliava soltanto il collo delicato con lo spago. “Aspetta qui finché torno,” disse il violinista e proseguí.
Intanto il lupo aveva dato spinte e strattoni, aveva morso la pietra e si era tanto adoprato, che alla fine si era liberato tirando fuori le zampe dalla spaccatura. Pieno di collera e di rabbia, corse dietro al violinista e voleva sbranarlo. Quando la volpe lo vide, cominciò a lamentarsi e gridò con tutte le sue forze: “Fratello lupo, vieni ad aiutarmi: il violinista mi ha ingannata.” Il lupo curvò gli alberelli, con un morso spezzò le funi e liberò la volpe, che lo accompagnò, per vendicarsi del violinista. Trovarono il leprotto legato, liberarono anche lui, e poi tutti insieme andarono in cerca del loro nemico.
Per la strada il violinista aveva ripreso a sonare, e questa volta era stato piú fortunato. I suoni giunsero all’orecchio di un povero boscaiolo, che subito, lo volesse o no, interruppe il suo lavoro e con l’ascia sotto il braccio si avvicinò per sentire la musica. “Finalmente viene il compagno che fa per me,” disse il violinista, “un uomo cercavo, non bestie selvagge.” E cominciò a sonar cosí bene e con tanta dolcezza, che il pover’uomo se ne stava incantato e si sentiva allargare il cuore dalla gioia. E mentre se ne stava cosí, si avvicinarono il lupo, la volpe e il leprotto ed egli si accorse che tramavano qualcosa. Allora sollevò l’ascia rilucente e si mise davanti al violinista, come a dire: “Chi gli vuol male si guardi, l’avrà da fare con me.” Allora le bestie, impaurite, di corsa tornarono nel bosco; ma il violinista per ringraziamento sonò un altro pezzo e poi proseguí la sua strada.
FINE
I dodici fratelli
tempo: 13'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 009
C'era una volta un re e una regina che vivevano insieme tranquillamente e avevano dodici figli tutti maschi. Allora il re disse alla moglie: "Se il tredicesimo figlio che metterai al mondo sarà una bambina, i dodici maschi moriranno, perché‚ ella abbia grandi ricchezze e il regno tocchi a lei sola." E ordinò dodici bare, già riempite di trucioli, e in ciascuna c'era un guancialino funebre; le fece portare in una stanza chiusa a tutti, diede poi la chiave alla regina e le ordinò di non parlare a nessuno della cosa.
Ma la madre passava tutto il giorno in grande tristezza; e il più piccolo dei figli, che le stava sempre accanto e che ella aveva chiamato con il nome biblico di Beniamino, le disse: "Cara mamma, perché‚ sei così triste?" - "Mio diletto, non posso dirtelo," rispose la regina. Ma egli non le diede pace fino a quando ella non gli aprì la stanza e gli mostrò le dodici bare già riempite di trucioli. Poi disse: "Mio carissimo Beniamino, queste bare le ha fatte fare tuo padre per te e i tuoi undici fratelli, poiché‚ se metterò al mondo una bambina voi dovrete essere tutti uccisi e sepolti qui." Allora il figlio rispose: "Non piangere, cara mamma, ce la caveremo e ce ne andremo." Ella disse: "Vai nel bosco con i tuoi undici fratelli e uno stia sempre di guardia sull'albero più alto che troverete, e osservi la torre qui nel castello. Se nascerà un maschietto, isserò una bandiera bianca e voi potrete ritornare; se nascerà una femmina isserò una bandiera rossa, e allora fuggite e che il buon Dio abbia cura di voi. Ogni notte mi alzerò a pregare per voi, d'inverno che possiate scaldarvi al fuoco, d'estate che la calura non vi faccia languire."
Dopo avere ricevuto la sua benedizione, i figli se ne andarono nel bosco. Stavano di guardia uno dopo l'altro sulla quercia più alta e osservavano la torre. Quando furono passati undici giorni e il turno toccò a Beniamino, egli vide che veniva issata una bandiera, ma non era bianca bensì rosso sangue e annunciava che dovevano morire tutti. Quando i fratelli lo seppero andarono in collera e dissero: "Dovremmo morire a causa di una femmina! Giuriamo che quando ne incontreremo una ci vendicheremo e faremo scorrere il suo sangue vermiglio."
Poi entrarono nel profondo del bosco dove era più buio e là trovarono una piccola casetta vuota, ma era stregata. Allora dissero: "Qui abiteremo; e tu Beniamino, che sei il più piccolo e il più debole, rimarrai a badare alla casa, mentre noi andremo a cercare da mangiare." Andavano nella foresta e uccidevano lepri, caprioli selvatici, uccelli, piccioncini e tutto ciò che vi era da mangiare; li portavano a Beniamino che doveva cucinarli perché‚ potessero sfamarsi. Vissero insieme nella casetta dieci anni e il tempo non parve loro lungo.
Nel frattempo la bambina che la regina aveva partorito era cresciuta, era bella e aveva una stella d'oro in fronte. Una volta, mentre si faceva il bucato, vide dodici camicie da uomo e chiese a sua madre: "Di chi sono queste dodici camicie? Per il babbo sono troppo piccole." Allora la regina rispose con il cuore grosso: "Bimba cara, sono dei tuoi dodici fratelli." Disse la fanciulla: "Dove sono i miei dodici fratelli? Non ne ho mai sentito parlare." La madre rispose: "Lo sa Iddio dove sono, vagano in giro per il mondo." Prese allora la fanciulla, le aprì la stanza e le mostrò le dodici bare con i trucioli e i guancialini funebri. "Queste bare," disse, "erano destinate a loro, ma essi sono fuggiti di nascosto, prima che tu nascessi" e le raccontò quel che era accaduto. Allora la fanciulla disse: "Cara madre, non piangere; andrò a cercare i miei fratelli." Prese le dodici camicie, partì e si addentrò subito nella gran foresta. Camminò tutto il giorno e la sera giunse alla casetta incantata. Entrò e trovò un ragazzino che le chiese: "Donde vieni e dove vai?" e si meravigliò che fosse così bella, portasse abiti regali e avesse una stella in fronte. Ed ella rispose: "Sono una principessa e cerco i miei dodici fratelli e andrò fin dove il cielo è azzurro pur di trovarli." E gli mostrò le loro dodici camicie. Allora Beniamino capì che era sua sorella e disse: "Sono Beniamino il tuo fratello più giovane!" Ella si mise a piangere dalla gioia e Beniamino fece lo stesso, e si baciarono e si abbracciarono con grande affetto. Poi egli disse: "Cara sorella, c'è ancora un problema: avevamo deciso e pattuito che ogni ragazza che ci incontrasse doveva morire, poiché‚ fummo costretti a lasciare il nostro regno per una ragazza." Allora ella disse: "Morirò volentieri se così potrò liberare i miei dodici fratelli." - "No," egli rispose, "tu non devi morire; nasconditi sotto questa tinozza fino a quando arriveranno gli undici fratelli, poi mi metterò io d'accordo con loro." La fanciulla obbedì e quando scese la notte gli altri tornarono dalla caccia e la cena era pronta. Sedettero a tavola e mentre mangiavano domandarono: "Che c'è di nuovo?" Beniamino disse: "Non sapete nulla?" - "No," risposero. Egli continuò: "Voi siete andati nella foresta e io sono rimasto a casa, eppure ne so più di voi." - "Orsù raccontaci!" esclamarono gli altri. Egli rispose: "Mi promettete anche che la prima fanciulla che incontreremo non sarà uccisa?" - "Sì," esclamarono tutti, "le faremo grazia; ma racconta!" Allora egli disse: "C'è qui nostra sorella." Sollevò la tinozza e ne uscì la principessa in abiti regali con la stella d'oro in fronte: era molto bella, delicata e fine. Tutti allora se ne rallegrarono, le saltarono al collo, la baciarono e l'amarono con tutto il cuore.
Ora ella rimaneva a casa con Beniamino e lo aiutava nei lavori domestici. Gli undici fratelli andavano nel bosco e cercavano selvaggina, caprioli, lepri, uccelli e piccioncini perché‚ potessero mangiare, e la sorella e Beniamino pensavano a prepararli. Ella cercava la legna per cuocere e le erbe per la verdura e le metteva sul fuoco, cosicché‚ il pranzo era sempre pronto quando gli undici rientravano. Teneva inoltre in ordine la casetta e preparava i lettini con biancheria bianca e pulita, e i fratelli erano sempre contenti e vivevano in grande armonia con lei.
Per un certo periodo di tempo i due a casa prepararono buoni cibi e, quando si ritrovavano tutti insieme, sedevano, mangiavano, bevevano ed erano felici. Ma la casetta stregata aveva un piccolo giardinetto nel quale c'erano dodici gigli (chiamati anche fiori di Sant'Antonio). Un giorno ella volle fare un piacere ai suoi fratelli, colse i dodici fiori e pensava di regalarne uno a ciascuno durante la cena. Ma, come ebbe colto i fiori, in quel medesimo istante i dodici fratelli furono tramutati in dodici corvi che volarono via per la foresta, e anche la casa e il giardino sparirono. Ora la povera fanciulla era sola nella foresta selvaggia, e quando si guardò intorno vi era accanto a lei una vecchia che disse: "Ah, bimba mia, che hai fatto? Perché‚ non hai lasciato stare i dodici fiori bianchi? Erano i tuoi fratelli che ora sono tramutati in corvi per sempre." La ragazza disse piangendo: "Non vi è nessun modo per liberarli?" - "No," disse la vecchia, "non ve n'è che uno in tutto il mondo, ma è così difficile che non riuscirai a liberarli: perché‚ devi essere muta per sette anni, non puoi n‚ parlare n‚ ridere e se dici una sola parola, e manca soltanto un'ora ai sette anni, tutto è vano e i tuoi fratelli saranno uccisi da quella sola parola."
Allora la ragazza disse in cuor suo: "Voglio liberare i miei fratelli ad ogni costo!" Andò in cerca di un albero alto, ci si arrampicò, e li filava senza parlare ni ridere.
Ora avvenne che un re andò a caccia nella foresta; aveva un grosso levriero che corse all'albero sul quale si trovava seduta la fanciulla e cominciò a saltare tutt'attorno abbaiando e latrando verso la cima. Il re allora si avvicinò e vide la bella principessa con la stella d'oro sulla fronte e fu così rapito dalla sua bellezza che le domandò se voleva diventare sua sposa. Ella non rispose, ma fece un lieve cenno con il capo. Allora egli salì sull'albero, la portò giù e la mise sul suo cavallo. Le nozze furono celebrate con gran pompa e tripudio anche se la sposa non parlava n‚ rideva. Quand'ebbero trascorso insieme felici un paio di anni, la matrigna del re, che era una donna cattiva, incominciò a calunniare la giovane regina e disse al re: "E' una volgare accattona quella che ti sei portato in casa, chissà quali malvagità combina in segreto! Se è muta e non può parlare, potrebbe almeno ridere; ma chi non ride, ha una cattiva coscienza." Il re da principio non volle crederle, ma la madre insistette così tanto che egli alla fine si lasciò convincere e la condannò a morte.
Nel cortile fu così acceso un grande fuoco da cui ella doveva essere bruciata; e il re, da sopra, guardava con gli occhi pieni di lacrime, poiché‚ l'amava ancora tanto. E quando era già legata al palo, e le lingue di fuoco lambivano già le sue vesti, ecco trascorso l'ultimo istante dei sette anni. Nell'aria si udì un frullar d'ali: arrivarono dodici corvi e si posarono a terra; e come ebbero toccato il suolo si trasformarono nei suoi dodici fratelli liberati da lei. Essi distrussero il rogo, spensero le fiamme, slegarono la loro cara sorella, la baciarono e l'abbracciarono. Ora pot‚ schiudere la bocca per parlare e raccontò al re perché‚ prima fosse muta e non avesse mai riso. Il re si rallegrò che essa fosse innocente e vissero tutti insieme felici e in armonia fino alla morte. La cattiva matrigna fu messa in una botte piena di olio bollente e di serpenti velenosi e morì di una mala morte.
FINE
Gentaglia
tempo: 5'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 010
Galletto disse a Gallinella: “Le noci sono mature; andiamo insieme sul monte e mangiamone a sazietà una buona volta, prima che le porti via tutte lo scoiattolo.” - “Sì” rispose Gallinella “vieni, ce la spasseremo insieme.” Se ne andarono tutti e due sul monte e poiché‚ la giornata era bella, vi rimasero fino a sera. Ora, io non so se si fossero ingozzati tanto o se fossero diventati troppo spavaldi, fatto sta che non volevano tornare a casa a piedi, e Galletto dovette costruire una piccola carrozza di gusci di noce. Quando fu pronta, Gallinella ci salì e disse a Galletto: “Tu puoi tirare.” - “No,” disse Galletto, “che idea! Piuttosto che tirare vado a casa a piedi: non erano questi i patti. Fare il cocchiere e sedere a cassetta, va bene; ma tirare io, questo no.”
Mentre litigavano un’anatra starnazzò: “Ehi voi, ladri, chi vi ha detto di venire sul monte delle mie noci? Ve la farò pagare!” e si precipitò su Galletto. Ma Galletto non era codardo e coraggiosamente si gettò addosso all’anatra, e alla fine l’aggredì con gli speroni con tanta violenza, che ella chiese grazia e per punizione si lasciò volentieri attaccare alla carrozza. Galletto sedette a cassetta come cocchiere e si partì di gran carriera. “Anatra, corri più che puoi!” Quando ebbero fatto un pezzo di strada incontrarono due pedoni, uno spillo e un ago. Questi gridarono: “Alt, alt,” e dissero che stava per diventare buio pesto, e non potevano più fare un passo, e poi la strada era così sporca! Non potevano salire per un po’? Erano stati alla locanda dei sarti, fuori porta, e si erano attardati a bere birra. Siccome erano gente magra, che non teneva molto posto, Galletto li lasciò salire entrambi, ma dovettero promettere di non pestare i piedi a lui e alla sua Gallinella. A tarda sera giunsero a un’osteria, e siccome di notte non volevano proseguire, e l’anatra era male in arnese e cadeva di qua e di là, vi si fermarono. Da principio l’oste fece molte difficoltà dicendo che la casa era già piena; pensava inoltre che non potessero essere gente molto distinta. Ma essi gli fecero tanti bei discorsi: avrebbe avuto l’uovo deposto da Gallinella strada facendo e avrebbe tenuto l’anatra che ogni giorno ne deponeva uno, sicché‚ alla fine egli cedette. Così si fecero servire a tavola e banchettarono allegramente. La mattina presto, quando albeggiava appena e tutti dormivano ancora, Galletto svegliò Gallinella, prese l’uovo, lo aprì con il becco e lo consumarono insieme; il guscio lo gettarono nel focolare. Poi andarono dall’ago che dormiva ancora, lo presero per la testa e lo piantarono nel cuscino della poltrona dell’oste, mentre lo spillo lo infilarono nell’asciugamano. Infine scapparono via per la pianura, come se niente fosse. L’anatra che aveva voluto dormire all’aperto ed era rimasta nel cortile, li sentì frullar via, si svegliò, trovò un ruscello e ne seguì a nuoto la corrente: era più veloce che a tirare la carrozza! Un paio d’ore più tardi l’oste si alzò, si lavò e volle asciugarsi con l’asciugamano ma si graffiò il viso con lo spillo; poi andò in cucina e volle accendersi la pipa, ma quando si avvicinò al camino i gusci d’uovo gli saltarono negli occhi. “Questa mattina ce l’hanno tutti con la mia testa!” disse, e si sedette adirato sulla poltrona. “Ahi!” L’ago da cucire l’aveva punto ancor peggio, e non nella testa, cosicché‚ egli balzò su per lo spavento. Ora era furioso e cominciò a sospettare degli ospiti che erano arrivati la sera prima così tardi; e quando andò a cercarli se n’erano andati. Allora giurò di non ospitare mai più gentaglia che mangia molto, non paga nulla e per giunta ti ringrazia giocandoti qualche tiro.
FINE
Fratellino e sorellina
tempo: 16'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 011
Il fratellino prese la sorellina per mano e disse: "Da quando è morta la mamma, non abbiamo più avuto un'ora di bene: la matrigna ci picchia ogni giorno e quando andiamo da lei ci caccia a pedate. I tozzi di pane raffermo sono il nostro cibo, e il cagnolino sotto la tavola sta meglio di noi: a lui getta ogni tanto qualcosa di buono. Dio mio, se lo sapesse la nostra mamma! Vieni, ce ne andremo insieme per il mondo." Camminarono tutto il giorno attraverso prati, campi, sentieri sassosi, e, mentre pioveva, la sorellina disse: "Dio e i nostri cuori piangono insieme." La sera giunsero in un gran bosco, ed erano così stanchi per il pianto, la fame e il lungo cammino, che si sedettero dentro a un albero cavo e si addormentarono.
La mattina dopo, quando si svegliarono, il sole era già alto nel cielo e i suoi raggi penetravano ardenti all'interno dell'albero. Allora il fratellino disse: "Sorellina ho sete; se sapessi dov'è una fonte andrei a bere; credo di averne sentito il mormorio." Il fratellino si alzò, prese la sorellina per mano e volevano cercare la sorgente. Ma la cattiva matrigna era una strega e aveva visto benissimo che i due bambini se ne erano andati; li aveva seguiti quatta quatta, di nascosto, come fanno le streghe, e aveva stregato tutte le sorgenti del bosco. Quand'essi trovarono un rivolo che saltellava scintillando sulle pietre, il fratellino volle bere; ma la sorellina udì la fonte mormorare: "Chi beve della mia acqua diventa una tigre! Chi beve della mia acqua diventa una tigre!" Allora la sorellina gridò: "Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi una belva feroce e mi sbrani." Il fratellino non bevve, anche se aveva una gran sete, e disse: "Aspetterò fino alla prossima sorgente." Quando arrivarono alla seconda fonte, la sorellina udì che anche questa diceva: "Chi beve della mia acqua diventa un lupo! Chi beve della mia acqua diventa un lupo!" Allora gridò: "Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi un lupo e mi divori." Il fratellino non bevve e disse: "Aspetterò fino alla prossima sorgente, ma allora dovrò bere; puoi dire quello che vuoi, ho troppa sete." E quando giunsero alla terza fonte, la sorellina udì mormorare: "Chi beve della mia acqua diventa un capriolo! Chi beve della mia acqua diventa un capriolo!" La sorellina disse: "Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi un capriolo e scappi via." Ma il fratellino si era subito inginocchiato presso la sorgente, si era chinato e aveva bevuto l'acqua; non appena le prime gocce gli toccarono le labbra, giacque a terra, trasformato in un piccolo capriolo.
La sorellina pianse sul povero fratellino stregato, e anche il piccolo capriolo piangeva, standosene tutto triste accanto a lei. Infine la fanciulla disse: "Chetati, caro caprioletto, io non ti abbandonerò mai." Sciolse la sua giarrettiera d'oro e la mise intorno al collo del capriolo, poi divelse dei giunchi e ne intrecciò una corda flessibile. Legò l'animaletto, lo condusse con s‚ e si addentrò sempre di più nel bosco. Cammina, cammina, giunsero finalmente a una casetta; la fanciulla guardò dentro e siccome era vuota pensò: "Qui possiamo fermarci ad abitare." Cercò allora foglie e muschio per fare un morbido giaciglio al capriolo e ogni mattina usciva e raccoglieva radici, bacche e noci, e al capriolo portava erba tenera; ed esso la mangiava dalla sua mano, era felice e giocherellava davanti a lei. La sera quando la sorellina era stanca e aveva detto le sue preghiere, posava il capo sul dorso del piccolo capriolo: quello era il suo cuscino e su di esso si addormentava dolcemente. E se il fratellino avesse avuto la sua figura umana, sarebbe stata una vita meravigliosa.
Per un certo periodo di tempo vissero così, soli, in quel luogo selvaggio. Ma avvenne che il re di quella zona tenesse una gran caccia nel bosco. Echeggiò fra gli alberi il suono dei corni, il latrato dei cani e le grida allegre, e il piccolo capriolo ascoltava e gli sarebbe tanto piaciuto essere della partita. "Ah," disse alla sorellina, "lasciami andare alla caccia, non posso più resistere!" E la pregò così a lungo che ella infine acconsentì. "Però," gli disse, "ritorna questa sera. Davanti ai feroci cacciatori io chiuderò la porticina: per farti riconoscere, bussa e di': "Sorellina mia, lasciami entrare!" Ma se non dici così, non aprirò." Allora il capriolo saltò fuori, e stava tanto bene, ed era così allegro all'aria aperta! Il re e i suoi cacciatori videro il bell'animaletto e lo inseguirono; ma non riuscivano a raggiungerlo, e quando credevano di prenderlo, il capriolo saltava nella boscaglia e spariva. Quando fu buio corse alla casetta, bussò e disse: "Sorellina mia, lasciami entrare!" Allora la porticina gli fu aperta, egli saltò dentro e dormì tutta la notte sul suo morbido giaciglio. Il mattino dopo la caccia ricominciò, e quando il capriolo udì nuovamente il corno e il grido dei cacciatori, non ebbe più pace e disse: "Sorellina aprimi, devo uscire." La sorellina gli aprì la porta e disse: "Ma questa sera devi essere di nuovo qui con la tua parola d'ordine." Quando il re e i suoi cacciatori rividero il capriolo con il collare d'oro, lo inseguirono tutti, ma egli era troppo rapido e svelto. La caccia durò tutto il giorno, ma finalmente a sera i cacciatori lo accerchiarono e uno lo ferì leggermente a una zampa, cosicché‚ egli si mise a zoppicare e corse via più adagio. Allora un cacciatore gli andò dietro pian piano fino alla casetta e l'udì esclamare: "Sorellina mia, lasciami entrare!" e vide che la porta gli veniva aperta e subito richiusa. Il cacciatore tenne tutto bene a mente, andò dal re e gli raccontò ciò che aveva visto e udito. Allora il re disse: "Domani andremo a caccia ancora una volta."
Ma la sorellina si spaventò terribilmente quando il piccolo capriolo rientrò ferito. Lavò la ferita, ci mise sopra delle erbe e disse: "Va' al tuo giaciglio, caprioletto mio, così guarisci." Ma la ferita era così piccola che al mattino il capriolo non sentiva più nulla e quando udì nuovamente il tripudio della caccia disse: "Non posso resistere, devo andarci; non sarà così facile acchiapparmi." La sorellina pianse e disse: "Adesso ti uccideranno; non ti lascio uscire." - "E io ti morirò qui di tristezza, se mi trattieni" rispose il capriolo. "Quando sento il corno da caccia mi sembra di non stare più nella pelle!" Allora la sorellina dovette cedere, gli aprì la porta con il cuore grosso e il capriolo corse nel bosco vispo e felice. Quando il re lo scorse, disse ai suoi cacciatori: "Inseguitelo per tutto il giorno fino a sera, ma che nessuno gli faccia del male!" Come il sole fu tramontato, il re disse al cacciatore: "Vieni e mostrami la casetta nel bosco." E quando fu davanti alla porticina bussò e gridò: "Sorellina cara, lasciami entrare!" Allora la porta si aprì e il re entrò e trovò una fanciulla così bella come non ne aveva mai viste. Ma la fanciulla si spaventò quando vide entrare un re con una corona d'oro al posto del suo piccolo capriolo. Il re la guardò amorevolmente, le diede la mano e disse: "Vuoi venire con me al mio castello e diventare la mia cara sposa?" - "Ah sì," rispose la fanciulla, "ma deve venire anche il capriolo, non lo abbandono." Disse il re: "Rimarrà con te finché‚ vivi e non gli mancherà nulla." In quel momento entrò a salti il capriolo; la sorellina lo legò di nuovo alla fune di giunco che prese in mano lei stessa, e insieme a lui lasciò la casetta nel bosco.
Il re condusse la bella fanciulla nel suo castello, dove le nozze furono celebrate con gran pompa; ora ella era Sua Maestà la regina, e vissero insieme felici per lungo tempo; il capriolo era ben nutrito e ben curato e ruzzava nel giardino del castello. Ma la cattiva matrigna, per via della quale i bambini se ne erano andati per il mondo, credeva che la sorellina fosse stata sbranata dalle bestie feroci nel bosco e che il fratellino, trasformato in un capriolo, fosse stato ucciso dai cacciatori. Quando sentì che erano felici e che stavano così bene, l'invidia e la gelosia le si destarono in cuore e non le davano pace, e non pensava che al modo di procurar loro un'altra sciagura. La sua figlia vera, che era brutta come la notte e aveva un solo occhio, protestava e diceva: "Diventare una regina! Questa fortuna spettava a me!" - "Sta' tranquilla," disse la vecchia e aggiunse allegramente: "Al momento buono, saprò cosa fare." E quando venne il momento e la regina diede alla luce un bel maschietto, mentre il re era a caccia, la vecchia strega prese le sembianze della cameriera, entrò nella stanza dove giaceva la regina e disse alla puerpera: "Venite, il bagno è pronto, vi farà bene e vi rinforzerà; presto, prima che diventi freddo." C'era anche sua figlia; insieme trasportarono la regina, debole com'era, nella stanza da bagno, la misero nella vasca e se ne andarono in fretta chiudendo la porta. Ma nella stanza da bagno avevano acceso un fuoco d'inferno, cosicché‚ la bella giovane regina soffocò ben presto.
Ciò fatto, la vecchia prese sua figlia, le mise una cuffia in testa e la pose nel letto al posto della regina. Le diede anche la sua figura e il suo aspetto, ma non pot‚ restituirle l'occhio perduto. Ma perché‚ il re non si accorgesse di nulla, si dovette coricare dalla parte dove le mancava l'occhio. La sera, quando il re ritornò e udì che gli era nato un bambino, fu pieno di gioia e volle recarsi al letto della sua cara moglie per vedere come stava. Subito la vecchia esclamò: "Per carità, lasciate chiuse le cortine: la regina non sopporta ancora la luce e deve riposare!" Il re si ritirò e non sapeva che nel letto c'era una falsa regina.
Ma quando fu mezzanotte e tutto taceva, la bambinaia, che sedeva nella camera del bambino accanto alla culla ed era l'unica a vegliare ancora, vide aprirsi la porta ed entrare la vera regina. Ella tolse il bambino dalla culla, lo prese fra le braccia e lo allattò; poi sprimacciò il suo piccolo cuscino, lo rimise a letto e lo coprì con la piccola coltre. Ma non dimenticò neanche il capriolo, andò nell'angolo dove si trovava e lo accarezzò sul dorso. Poi uscì silenziosamente dalla porta e la bambinaia, la mattina dopo, domandò alle guardie se durante la notte avessero visto qualcuno entrare nel castello; ma esse risposero: "No, non abbiamo visto nessuno."
La regina venne per molte notti, senza dire mai una parola; la bambinaia la vedeva sempre, ma non osava dire nulla a nessuno.
Quando fu trascorso un certo periodo di tempo, una notte la regina incominciò a dire:
"Che cosa fanno nel loro lettino il capriolo e il mio bambino?
Ancor due volte fin qui verrò, ma una terza non tornerò."
La bambinaia non le rispose, ma quando fu scomparsa andò dal re e gli raccontò tutto. Disse il re: "Mio Dio, che cosa è mai questa! Voglio vegliare accanto a mio figlio la prossima notte." La sera andò nella camera del bambino; a mezzanotte apparve ancora la regina e disse:
"Che cosa fanno nel loro lettino il capriolo e il mio bambino?
Ancora una volta fin qui verrò, ma una seconda non tornerò."
E si prese cura del piccino come sempre, prima di sparire. Il re non osò rivolgerle la parola, ma la notte seguente vegliò di nuovo. Ella disse:
"Che cosa fanno nel loro lettino il capriolo e il mio bambino?
Per l'ultima volta son giunta quaggiù un'altra volta non torno più."
Allora il re non pot‚ più trattenersi, corse a lei e disse: "Tu non puoi essere che la mia cara sposa." Ella rispose: "Sì, sono la tua cara sposa." E in quel momento, per grazia divina, tornò a vivere, fresca, rosea e sana. Poi raccontò al re il crimine commesso dalla strega cattiva e da sua figlia. Il re le fece giudicare entrambe, ed esse furono condannate: la figlia fu condotta nel bosco, dove le bestie feroci la sbranarono non appena la videro; la strega fu invece gettata nel fuoco e dovette bruciare miseramente. E quando fu ridotta in cenere, il piccolo capriolo si trasformò e riacquistò il suo aspetto umano; e sorellina e fratellino vissero felici insieme fino alla morte.
FINE
Raperonzolo
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 012
C’era una volta un uomo e una donna che da molto tempo desideravano invano un bimbo. Finalmente la donna scoprì di essere in attesa. Sul retro della loro casa c’era una finestrella dalla quale si poteva vedere nel giardino di una maga, pieno di fiori ed erbaggi di ogni specie. Nessuno, tuttavia, osava entrarvi. Un giorno la donna stava alla finestra e, guardando il giardino vide dei meravigliosi raperonzoli in un’aiuola. Subito ebbe voglia di mangiarne e, siccome sapeva di non poterli avere, divenne magra e smunta a tal punto che il marito se ne accorse e, spaventato, gliene domandò la ragione. “Ah! Morirò se non riesco a mangiare un po’ di quei raperonzoli che crescono nel giardino dietro casa nostra.” L’uomo, che amava la propria moglie, pensò fra s’: “Costi quel che costi, devi riuscire a portargliene qualcuno.” Così, una sera, scavalcò il muro, colse in tutta fretta una manciata di raperonzoli e li portò a sua moglie La donna si preparò subito un’insalata e la mangiò con avidità. Ma i raperonzoli le erano piaciuti a tal punto che il giorno dopo la sua voglia si triplicò. L’uomo capì che non si sarebbe chetata, così penetrò ancora una volta nel giardino. Ma grande fu il suo spavento quando si vide davanti la maga che incominciò a rimproverarlo aspramente per aver osato entrare nel giardino a rubarne i frutti. Egli si scusò come pot’‚ raccontando delle voglie di sua moglie e di come fosse pericoloso negarle qualcosa in quel periodo. Infine la maga disse: “Mi contento di quel che dici e ti permetto di portar via tutti i raperonzoli che desideri, ma a una condizione: mi darai il bambino che tua moglie metterà al mondo.” Impaurito, l’uomo accettò ogni cosa e quando sua moglie partorì, subito comparve la maga, diede il nome di Raperonzolo alla bimba e se la portò via.
Raperonzolo divenne la più bella bambina del mondo, ma non appena compì dodici anni, la maga la rinchiuse in una torre alta alta che non aveva scala n‚ porta, ma solo una minuscola finestrella in alto. Quando la maga voleva salirvi, da sotto chiamava:
“Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli.”
Raperonzolo aveva infatti capelli lunghi e bellissimi, sottili come oro filato. Quando la maga chiamava, ella scioglieva le sue trecce, annodava i capelli in alto, al contrafforte della finestra, in modo che essi ricadessero per una lunghezza di venti braccia, e la maga ci si arrampicava.
Un giorno un giovane principe venne a trovarsi nel bosco ove era la torre, vide la bella Raperonzolo alla finestra e la udì cantare con voce così dolce che tosto se ne innamorò. Egli si disperava poiché‚ la torre non aveva porta e nessuna scala era alta a sufficienza. Tuttavia ogni giorno si recava nel bosco, finché‚ vide giungere la maga che così parlò:
“Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli!”
Così egli capì grazie a quale scala si poteva penetrare nella torre. Si era bene impresso nella mente le parole che occorreva pronunciare, e il giorno seguente, all’imbrunire, andò alla torre e gridò:
“Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli!”
Ed ecco, ella sciolse i capelli e non appena questi toccarono terra egli vi si aggrappò saldamente e fu sollevato in alto.
Raperonzolo da principio si spaventò, ma ben presto il giovane principe le piacque e insieme decisero che egli sarebbe venuto tutti i giorni a trovarla. Così vissero felici e contenti a lungo, volendosi bene come marito e moglie. La maga non si accorse di nulla fino a quando, un giorno, Raperonzolo prese a dirle: “Ditemi, signora Gothel, come mai siete tanto più pesante da sollevare del giovane principe?” - “Ah, bimba sciagurata!” replicò la maga, “cosa mi tocca sentire!” Ella comprese di essere stata ingannata e andò su tutte le furie. Afferrò allora le belle trecce di Raperonzolo, le avvolse due o tre volte intorno alla mano sinistra, prese le forbici con la destra e “zic zac”, le tagliò. Indi portò Raperonzolo in un deserto ove ella fu costretta a vivere miseramente e, dopo un certo periodo di tempo, diede alla luce due gemelli, un maschio e una femmina.
La stessa sera del giorno in cui aveva scacciato Raperonzolo, la maga legò le trecce recise al contrafforte della finestra e quando il principe giunse e disse:
“Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli!”
ella lasciò cadere a terra i capelli. Come fu sorpreso il principe quando trovò la maga al posto dell’amata Raperonzolo! “Sai una cosa?” disse la maga furibonda “per te, ribaldo, Raperonzolo è perduta per sempre!” Il principe, disperato, si gettò giù dalla torre: ebbe salva la vita, ma perse la vista da entrambi gli occhi. Triste errò per i boschi nutrendosi solo di erbe e radici e non facendo altro che piangere. Alcuni anni più tardi, capitò nello stesso deserto in cui Raperonzolo viveva fra gli stenti con i suoi bambini. La sua voce gli parve nota, e nello stesso istante anch’ella lo riconobbe e gli saltò al collo. Due lacrime di lei gli inumidirono gli occhi; essi si illuminarono nuovamente, ed egli pot‚ vederci come prima.
FINE
I tre omini del bosco
tempo: 13'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 013
C'era una volta un uomo a cui morì la moglie e una donna a cui morì il marito; l'uomo aveva una figlia e la donna pure. Le due ragazze erano amiche e andando a spasso insieme si recarono un giorno, a casa della donna.
Ella disse alla figlia dell'uomo: "Ascolta, di' a tuo padre che vorrei sposarlo; poi ogni mattina ti laverai nel latte e berrai vino; mia figlia invece si laverà nell'acqua e berrà acqua." La fanciulla andò a casa e raccontò al padre ciò che la donna le aveva detto. L'uomo disse: "Che cosa devo fare? Sposarsi è una gioia e un tormento insieme!" Infine si tolse lo stivale e disse: "Prendi questo stivale che ha un buco nella suola; vai in solaio, appendilo al chiodo grosso e versaci dentro dell'acqua. Se tiene, prenderò di nuovo moglie; ma se l'acqua cola, non la prenderò." La fanciulla fece come le era stato ordinato; ma l'acqua restrinse il buco e lo stivale si riempì fino all'orlo. Allora riferì al padre com'era andata; egli stesso salì in solaio e quando vide che era proprio vero andò dalla vedova, la chiese in sposa, e furono celebrate le nozze.
La mattina dopo, quando le due fanciulle si alzarono, davanti alla figlia dell'uomo c'era latte per lavarsi e vino da bere mentre davanti alla figlia della donna c'era acqua per lavarsi e acqua da bere. La seconda mattina c'era acqua per lavarsi e acqua da bere sia davanti all'una sia davanti all'altra. E la terza mattina c'era acqua per lavarsi e acqua da bere davanti alla figlia dell'uomo, e latte per lavarsi e vino da bere davanti alla figlia della donna; e così fu sempre. La donna si accanì contro la figliastra e non sapeva cosa inventare per farla stare ogni giorno peggio. Era anche invidiosa, perché‚ la figliastra era bella e amabile, mentre la figlia vera era brutta e antipatica.
Una volta, d'inverno, che c'era un gelo da spaccare le pietre e il monte e la valle erano coperti di neve, la donna fece un vestito di carta, chiamò la figliastra e disse: "Su, mettiti questo vestito va' nel bosco e raccoglimi un cestino di fragole: ne ho voglia." - "Buon Dio," disse la fanciulla, "d'inverno non crescono le fragole, la terra è gelata e la neve ha coperto tutto. E come posso andare con l'abito di carta? Fuori fa così freddo che gela il fiato, il vento lo attraverserà e le spine me lo strapperanno di dosso." - "Vuoi anche contraddirmi?" disse la matrigna. "Vattene e non farti vedere se non hai riempito il cestino di fragole." Poi le diede anche un pezzetto di pane duro e disse: "Così hai da mangiare per tutto il giorno." E pensava: Fuori gelerà e morirà di fame: non mi comparirà mai più davanti agli occhi.
La fanciulla obbedì, indossò il vestito di carta e uscì col cestino. Da ogni parte non c'era che neve e neanche un filo di verde. Quando giunse nel bosco, vide una piccola casetta dalla quale sbirciavano tre nani. La fanciulla diede loro il buongiorno e bussò alla porta.
Essi gridarono: "Avanti!" ed ella entrò nella stanza e si sedette sulla panca accanto alla stufa; voleva scaldarsi e mangiare la sua colazione. I nani dissero: "Danne un po' anche a noi." - "Volentieri," ella disse; divise in due il suo pezzetto di pane e ne diede loro metà. Essi domandarono: "Che cosa cerchi nel bosco d'inverno, con quel vestitino leggero?" - "Ah," rispose ella, "devo riempire un cestino di fragole, e non posso tornare a casa se non le trovo." Quando ebbe mangiato il suo pane, essi le diedero una scopa e dissero: "Spazza via la neve davanti alla porta, dietro casa." Ma come fu uscita, i tre omini dissero fra loro: "Che cosa dobbiamo regalarle, poiché‚ è così gentile e buona e ha diviso il suo pane con noi?"
Allora disse il primo: "Che diventi più bella ogni giorno."
Disse il secondo: "Che le cadano di bocca monete d'oro a ogni parola che dice."
Il terzo disse: "Che venga un re e la sposi."
La fanciulla, con la scopa dei nani, spazzò via la neve dietro alla piccola casetta, e là sotto era tutto rosso di belle fragole mature. Allora, con gran gioia, si affrettò a riempire il cestino, ringraziò gli omini, prese congedo da loro e corse a casa a portare le fragole alla matrigna.
Quando entrò e disse: "Buona sera!" subito le cadde di bocca una moneta d'oro. Poi raccontò quel che le era accaduto nel bosco, e a ogni parola che diceva le uscivano di bocca le monete d'oro, cosicché‚ ben presto l'intera casa ne fu piena. Ma la sorellastra divenne invidiosa e insistette a lungo con la madre perché‚ la mandasse nel bosco. Questa però non voleva e disse: "No, mia cara piccina, è troppo freddo, potresti gelare." Ma dato che la figlia continuava ad insistere e non la lasciava in pace, finì col cedere, ma prima le cucì un magnifico giubbetto di pelliccia, glielo fece indossare e le diede pane, burro e focaccia da mangiare per la strada. La fanciulla giunse nel bosco proprio dove si trovava la casetta.
Anche questa volta i tre nanetti sbirciavano fuori, ma lei non li salutò ed entrò nella stanza senza indugio, sedette vicino alla stufa e incominciò a mangiare il suo pane imburrato e la sua focaccia. "Daccene un po'," esclamarono i nani, ma ella rispose: "Non basta neanche a me, come potrei darne ad altri?"
Quando ebbe finito di mangiare, essi dissero: "Eccoti una scopa, spazza davanti alla porta dietro casa." - "Sì, spazzate voi," rispose, "non sono mica la vostra serva!" Quando vide che non volevano regalarle nulla, prese la porta. Allora gli omini dissero fra loro: "Che cosa dobbiamo regalarle, poiché‚ è così scortese e ha un cuore cattivo e invidioso, senza carità?"
Il primo disse: "Che diventi ogni giorno più brutta."
Il secondo disse: "Che le esca di bocca un rospo a ogni parola che dice."
Il terzo disse: "Che muoia di mala morte."
La ragazza fuori cercò le fragole ma, non avendone trovata neanche una, andò a casa stizzita. E quando aprì la bocca per raccontare a sua madre quel che le era successo nel bosco, a ogni parola le saltava fuori un rospo, cosicché‚ tutti avevano ribrezzo di lei. Allora la matrigna si adirò ancora di più e pensava soltanto a tormentare la figlia del marito, che tuttavia ogni giorno diventava più bella. Infine prese un paiolo, lo mise sul fuoco e vi fece bollire del filo. Quando fu bollito lo diede alla povera ragazza insieme a una scure, perché‚ andasse sul fiume gelato, aprisse un buco nel ghiaccio e vi immergesse il filo.
Ella obbedì, andò e fece un buco nel ghiaccio; e, mentre adoperava la scure, arrivò una splendida carrozza in cui sedeva il re. Questi si fermò e chiese: "Bimba mia, cosa fai qui?" - "Sono una povera fanciulla e bagno il filo." Allora il re si impietosì e vedendo che era così bella disse: "Vuoi venire con me?" - "Ah sì, di tutto cuore," ella rispose; poiché‚ era felice di lasciare la madre e la sorella.
Salì dunque in carrozza e partì con il re, e quando giunsero al castello si celebrarono le nozze con gran pompa, come gli omini avevano augurato alla fanciulla. Dopo un anno la giovane regina partorì un bambino e, quando la matrigna venne a sapere la fortuna che le era toccata, venne con sua figlia con il pretesto di farle visita. Ma una volta che il re non era in casa, e non c'era nessun altro, la perfida donna afferrò la regina per la testa e sua figlia l'afferrò per i piedi, la sollevarono dal letto e la gettarono dalla finestra nel fiume che scorreva là sotto. Poi la matrigna fece distendere la brutta figlia nel letto e la coprì fin sopra la testa. Quando il re fu di ritorno e volle parlare con sua moglie, la vecchia gridò: "Zitto, zitto, adesso no: è tutta in sudore, dovete lasciarla riposare per oggi."
Il re non pensò a nulla di malvagio e tornò soltanto la mattina dopo, e quando parlò con sua moglie ed ella dovette rispondergli, a ogni parola saltava fuori un rospo, mentre di solito cadeva una moneta d'oro. Allora egli chiese di che cosa si trattasse, ma la vecchia disse che era l'effetto di quella gran sudata e che poi tutto sarebbe scomparso.
Ma quella notte lo sguattero vide un'anatra che veniva nuotando lungo la canaletta di scolo dell'acqua e che disse:
"Che fa a quest'ora il mio Sire?
Veglia o è già andato a dormire?"
E, siccome egli non diede risposta, aggiunse:
"Le mie ospiti che stan facendo?"
Lo sguattero rispose:
"A quest'ora stanno dormendo."
Ha chiesto:
"E il mio bimbo che cosa fa?"
Egli rispose:
"Nel suo lettino dorme di già!"
Allora ella prese le sembianze della regina, allattò il bambino, gli sprimacciò il lettino, lo coprì e nuotò via lungo lo scolo dell'acqua con l'aspetto di anatra. Allo stesso modo venne per due notti; la terza disse allo sguattero: "Vai e di' al re che prenda la spada e, sulla soglia, la brandisca per tre volte sul mio capo." Lo sguattero corse a dirlo al re; questi venne con la sua spada e la brandì tre volte sullo spettro, e alla terza volta gli apparve la sua sposa, viva e sana come prima.
Il re era felice ma tenne la regina nascosta in una camera fino alla domenica, giorno in cui il bambino doveva essere battezzato. Dopo il battesimo, disse: "Che cosa merita una persona che ne toglie un'altra dal letto e la getta in acqua?" - "Ah," rispose la vecchia, "che sia messa in una botte foderata di chiodi e fatta rotolare giù per il monte nell'acqua." Allora il re mandò a prendere una botte siffatta e vi fece mettere dentro la vecchia e sua figlia; poi ne inchiodarono il fondo e la fecero ruzzolare giù per il pendio, fin che rotolò nel fiume.
FINE
Le tre filatrici
tempo: 6'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 014
C'era una volta una ragazza pigra che non voleva filare; la madre poteva dire qualunque cosa, ma non riusciva a persuaderla. Un giorno la madre andò in collera e le scappò la pazienza, cosicché‚ la picchiò, ed ella incominciò a piangere forte. In quel momento passava di lì la regina, e quando sentì piangere fece fermare la carrozza, entrò in casa e domandò alla madre perché‚ picchiasse sua figlia, dato che si sentivano le grida da fuori.
Allora la donna si vergognò di dover rivelare la pigrizia di sua figlia e disse: "Non posso staccarla dal filatoio, vuole sempre e soltanto filare e io sono povera e non posso procurarle il lino." - "Ah," rispose la regina, "non c'è cosa che mi faccia più piacere del sentir filare e nulla mi rallegra di più del ronzio delle ruote: datemi vostra figlia, la porterò al castello; ho lino a sufficienza perché‚ fili quanto ne ha voglia." La madre acconsentì di cuore e la regina si prese la ragazza. Quando giunsero al castello, la condusse su in tre stanze piene da cima a fondo del più bel lino. "Filami questo lino," disse, "e quando avrai finito sposerai il mio figlio maggiore; anche se sei povera, non importa: il tuo zelo infaticabile è una dote sufficiente."
La fanciulla inorridì in cuor suo poiché‚ non avrebbe potuto filare quel lino nemmeno se fosse vissuta trecento anni, seduta là ogni giorno da mane a sera. Quando fu sola incominciò a piangere, e così rimase tre giorni senza muovere un dito. Il terzo giorno venne la regina e quando vide che non aveva ancora filato niente si meravigliò, ma la fanciulla si scusò dicendo che non aveva potuto cominciare per la grande tristezza di essere lontana dalla casa di sua madre. La regina accettò la scusa, ma andandosene disse: "Domani però devi incominciare a lavorare."
Quando la fanciulla fu di nuovo sola, non sapeva più a che santo votarsi e, triste, andò alla finestra. Vide avvicinarsi tre donne: la prima aveva un gran piedone, la seconda aveva il labbro inferiore così grosso che arrivava a coprirle il mento, e la terza un gran pollice largo. Quando furono davanti alla finestra, si fermarono, guardarono in su e offrirono il loro aiuto alla ragazza dicendo: "Se ci inviterai a nozze, se non ti vergognerai di noi, se ci chiamerai cugine e ci farai sedere alla tua tavola, ti fileremo tutto il lino in poco tempo." - "Di gran cuore!" rispose la fanciulla. "Entrate pure e incominciate subito il lavoro." Introdusse quelle strane donne nella prima stanza, fece un po' di spazio ed esse vi si accomodarono e presero a filare. La prima traeva il filo e calcava la ruota, la seconda lo inumidiva, la terza lo torceva e batteva con il dito sulla tavola e ogni volta che essa batteva, cadeva a terra una quantità di filato sottilissimo. Alla regina la fanciulla nascondeva le tre filatrici, e quando essa veniva le mostrava il mucchio di filato, tanto che la regina non smetteva più di lodarla. Quando la prima camera fu vuota, fu la volta della seconda, poi della terza, e ben presto fu sgombrata anche questa. Allora le tre donne presero congedo e dissero alla fanciulla: "Non dimenticare quel che ci hai promesso: sarà la tua fortuna."
Quando la fanciulla mostrò alla regina le stanze vuote e il gran mucchio di filato, questa preparò le nozze; lo sposo era contento di avere una moglie così abile e diligente e la lodava. "Ho tre cugine," disse la fanciulla. "Sono state molto buone con me e io non vorrei dimenticarle nella mia felicità: permettete che le inviti a nozze e che siedano alla nostra tavola?" La regina e lo sposo diedero volentieri il loro consenso.
Quando la festa incominciò, le tre zitelle entrarono stranamente abbigliate, e la sposa disse: "Siate le benvenute, care cugine." - "Ah," disse lo sposo, "che cosa ti lega a queste donne così brutte?" E andò da quella con il gran piedone e chiese: "Come mai avete un piede così largo?" - "A furia di calcare," rispose quella, "a furia di calcare." Allora lo sposo andò dalla seconda e disse: "Come mai avete quel labbro così cascante?" - "A furia di leccare," rispose, "a furia di leccare." Allora domandò alla terza: "Come mai avete il pollice così largo?" - "A furia di torcere il filo," rispose, "a furia di torcere il filo." Allora il principe inorridì e disse: "D'ora in poi la mia bella sposa non dovrà più toccare un filatoio!" E così la liberò da quell'impiccio.
FINE
Hänsel e Gretel
tempo: 15'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 015
Davanti a un gran bosco abitava un povero taglialegna che non aveva di che sfamarsi; riusciva a stento a procurare il pane per sua moglie e i suoi due bambini: Hänsel e Gretel. Infine giunse un tempo in cui non pot‚ più provvedere neanche a questo e non sapeva più a che santo votarsi. Una sera, mentre si voltava inquieto nel letto, la moglie gli disse: "Ascolta marito mio, domattina all'alba prendi i due bambini, dai a ciascuno un pezzetto di pane e conducili fuori in mezzo al bosco, nel punto dov'è più fitto; accendi loro un fuoco, poi vai via e li lasci soli laggiù. Non possiamo nutrirli più a lungo." - "No moglie mia" disse l'uomo "non ho cuore di abbandonare i miei cari bambini nel bosco, le bestie feroci li sbranerebbero subito." - "Se non lo fai," disse la donna, "moriremo tutti quanti di fame." E non lo lasciò in pace finché‚ egli non acconsentì.
Anche i due bambini non potevano dormire per la fame, e avevano sentito quello che la madre aveva detto al padre. Gretel pensò che per loro fosse finita e incominciò a piangere amaramente, ma Hänsel disse: "Stai zitta Gretel, non ti crucciare, ci penserò io." Si alzò, si mise la giacchettina, aprì l'uscio da basso e sgattaiolò fuori. La luna splendeva chiara e i ciottoli bianchi rilucevano come monete nuove di zecca. Hänsel si chinò, ne ficcò nella taschina della giacca quanti pot‚ farne entrare e se ne tornò a casa. "Consolati Gretel e riposa tranquilla," disse; si rimise di nuovo a letto e si addormentò.
Allo spuntar del giorno, ancor prima che sorgesse il sole, la madre venne e li svegliò entrambi: "Alzatevi bambini, vogliamo andare nel bosco; qui c'è un pezzetto di pane per ciascuno di voi, ma siate saggi e conservatelo per mezzogiorno." Gretel mise il pane sotto il grembiule perché‚ Hänsel aveva le pietre in tasca, poi si incamminarono verso il bosco. Quando ebbero fatto un pezzetto di strada: Hänsel si fermò e si volse a guardare la casa; così fece per più volte. Il padre disse: "Hänsel, che cos'è che ti volti a guardare e perché‚ ti fermi? Su, muoviti!" - "Ah, babbo, guardo il mio gattino bianco che è sul tetto e vuole dirmi addio." Disse la madre: "Ehi, sciocco, non è il tuo gattino, è il primo sole che brilla sul comignolo." Hänsel però non aveva guardato il gattino, ma aveva buttato ogni volta sulla strada uno dei sassolini lucidi che aveva in tasca.
Quando giunsero in mezzo al bosco, il padre disse: "Ora raccogliete legna, bambini, voglio accendere un fuoco per non gelare." Hänsel e Gretel raccolsero rami secchi e ne fecero un mucchietto. Poi accesero il fuoco e quando la fiamma si levò alta, la madre disse: "Adesso stendetevi accanto al fuoco e dormite, noi andiamo a spaccare legna nel bosco; aspettate fino a quando non torniamo a prendervi."
Hänsel e Gretel rimasero accanto al fuoco fino a mezzogiorno, poi ciascuno mangiò il proprio pezzetto di pane. Credevano che il padre fosse ancora nel bosco perché‚ udivano i colpi d'accetta; invece era un ramo che egli aveva legato a un albero e che il vento sbattéva di qua e di là. Così attesero fino a sera, ma il padre e la madre non tornavano e nessuno veniva a prenderli. Quando fu notte fonda Gretel incominciò a piangere, ma Hänsel disse: "Aspetta soltanto un poco, finché‚ sorga la luna." E quando la luna sorse, prese Gretel per mano; i ciottoli brillavano come monete nuove di zecca e indicavano loro il cammino. Camminarono tutta la notte e quando fu mattina giunsero alla casa patema. Il padre si rallegrò di cuore quando vide i suoi bambini, poiché‚ gli era dispiaciuto doverli lasciare soli; la madre finse anch'essa di rallegrarsi, ma segretamente ne era furiosa.
Non passò molto tempo e il pane tornò a mancare in casa, e Hänsel e Gretel udirono una sera la madre che diceva al padre: "Una volta i bambini hanno ritrovato il cammino e io ho lasciato correre: ma adesso non c'è di nuovo più niente, rimane solo una mezza pagnotta in casa; devi condurli domani più addentro nel bosco, perché‚ non ritrovino la strada: per noi non c'è altro rimedio." L'uomo si sentì stringere il cuore e pensò: "Sarebbe meglio se dividessi l'ultimo boccone con i tuoi bambini." Ma siccome aveva già ceduto una volta, non pot‚ dire di no.
Quando i bambini ebbero udito quel discorso, Hänsel si alzò per raccogliere di nuovo i ciottoli, ma quando giunse alla porta, la madre l'aveva chiusa. Tuttavia consolò Gretel e disse: "Dormi, cara Gretel, il buon Dio ci aiuterà."
Allo spuntar del giorno ebbero il loro pezzetto di pane, ancora più piccolo della volta precedente. Per strada Hänsel lo sbriciolò in tasca; si fermava sovente e gettava una briciola per terra. "Perché‚ ti fermi sempre, Hänsel, e ti guardi intorno?" disse il padre. "Cammina!" - "Ah! Guardo il mio piccioncino che è sul tetto e vuole dirmi addio." - "Sciocco," disse la madre, "non è il tuo piccione, è il primo sole che brilla sul comignolo." Ma Hänsel sbriciolò tutto il suo pane e gettò le briciole per via.
La madre li condusse ancora più addentro nel bosco, dove non erano mai stati in vita loro. Là dovevano di nuovo sedere accanto al fuoco e dormire e alla sera i genitori sarebbero venuti a prenderli. A mezzogiorno Gretel divise il proprio pane con Hänsel, che aveva sparso tutto il suo per via. Ma passò mezzogiorno e passò anche la sera senza che nessuno venisse dai poveri bambini. Hänsel consolò Gretel e disse: "Aspetta che sorga la luna: allora vedrò le briciole di pane che ho sparso; ci mostreranno la via di casa." La luna sorse, ma quando Hänsel cercò le briciole non le trovò: i mille e mille uccellini del bosco le avevano viste e le avevano beccate. Hänsel pensava di trovare ugualmente la via di casa e si portava dietro Gretel, ma ben presto si persero nel grande bosco; camminarono tutta la notte e tutto il giorno, poi si addormentarono per la gran stanchezza. Poi camminarono ancora tutta una giornata, ma non riuscirono a uscire dal bosco, e avevano tanta fame, perché‚ non avevano nient'altro da mangiare che un po' di bacche trovate per terra.
Il terzo giorno, quand'ebbero camminato fino a mezzogiorno, giunsero a una casina fatta di pane e ricoperta di focaccia, con le finestre di zucchero trasparente. "Ci siederemo qui e mangeremo a sazietà," disse Hänsel. "Io mangerò un pezzo di tetto; tu, Gretel, mangia un pezzo di finestra: è dolce." Quando Gretel incominciò a rosicchiare lo zucchero, una voce sottile gridò dall'interno:
"Chi mi mangia la casina
zuccherosa e sopraffina?"
I bambini risposero:
"E' il vento che piega ogni stelo,
il bel bambino venuto dal cielo."
E continuarono a mangiare. Gretel tirò fuori tutto un vetro rotondo e Hänsel staccò un enorme pezzo di focaccia dal tetto. Ma d'un tratto la porta della casa si aprì e una vecchia decrepita venne fuori piano piano. Hänsel e Gretel si spaventarono tanto che lasciarono cadere quello che avevano in mano. Ma la vecchia scosse il capo e disse: "Ah, cari bambini, come siete giunti fin qui? Venite dentro con me, siete i benvenuti." Prese entrambi per mano e li condusse nella sua casetta. Fu loro servita una buona cena, latte e frittelle, mele e noci; poi furono preparati due bei lettini bianchi, e Hänsel e Gretel si coricarono e pensavano di essere in Paradiso.
Ma la vecchia era una strega cattiva che attendeva con impazienza l'arrivo dei bambini e, per attirarli, aveva costruito la casetta di pane. Quando un bambino cadeva nelle sue mani, lo uccideva, lo cucinava e lo mangiava; e per lei quello era un giorno di festa. Era proprio felice che Hänsel e Gretel fossero capitati lì. Di buon mattino, prima che i bambini fossero svegli, ella si alzò, andò ai loro lettini, e quando li vide riposare così dolcemente, si rallegrò e mormorò fra sì: "Saranno un buon bocconcino per me!" Poi afferrò Hänsel e lo rinchiuse in una stia. Quando questi si svegliò, si trovò circondato da una grata, come un pollo da ingrassare, e poteva fare solo pochi passi. Poi la vecchia svegliò Gretel con uno scossone e le gridò: "Alzati, poltrona, prendi dell'acqua e vai in cucina a preparare qualcosa di buono; tuo fratello è là nella stia e voglio ingrassarlo per poi mangiarmelo; tu devi dargli da mangiare." Gretel si spaventò e pianse, ma dovette fare quello che voleva la strega.
Ora ad Hänsel venivano cucinati ogni giorno i cibi più squisiti, poiché‚ doveva ingrassare; Gretel invece non riceveva altro che gusci di gambero. Ogni giorno la vecchia veniva e diceva: "Hänsel, sporgi le dita, che senta se presto sarai grasso." Ma Hänsel le sporgeva sempre un ossicino ed ella si meravigliava che non volesse proprio ingrassare. Dopo quattro settimane, una sera disse a Gretel: "Vai a prendere dell'acqua, svelta; grasso o magro che sia, domani ammazzerò il tuo fratellino e lo cucinerò; nel frattempo mi metterò a impastare il pane da cuocere nel forno." Con il cuore grosso, Gretel portò l'acqua nella quale doveva essere cucinato Hänsel. Dovette poi alzarsi di buon mattino, accendere il fuoco e appendere il paiolo pieno d'acqua. "Ora fa' attenzione," disse la strega. "Accendo il fuoco nel forno per cuocere il pane." Gretel era in cucina e piangeva a calde lacrime mentre pensava: "Ci avessero divorato le bestie feroci nel bosco! Almeno saremmo morti insieme senza dover sopportare questa pena, e io non dovrei far bollire l'acqua che deve servire per la morte di mio fratello. Buon Dio, aiuta noi, miseri bambini!"
La vecchia gridò: "Gretel, vieni subito qui al forno!" e quando Gretel arrivò, disse: "Dai un'occhiata dentro se il pane è ben cotto e dorato; i miei occhi sono deboli e io non arrivo a vedere fin là. E se anche tu non ci riesci, siediti sull'asse: ti spingerò dentro, così potrai controllare meglio." Ma la perfida strega aveva chiamato Gretel perché‚ pensava, una volta spintala dentro al forno, di chiuderlo e di farla arrostire per mangiarsi pure lei. Ma Dio ispirò alla fanciulla un'idea, ed ella disse: "Non so proprio come fare, fammi vedere tu per prima: siediti sull'asse e io ti spingerò dentro." La vecchia si sedette e, siccome era leggera, Gretel pot‚ spingerla dentro, il più in fondo possibile; poi chiuse in fretta la porta e mise il paletto di ferro. Allora la vecchia incominciò a gridare e a lamentarsi nel forno bollente, ma Gretel scappò via, ed ella dovette bruciare miseramente.
Gretel corse da Hänsel, gli aprì la porticina e gridò: "Salta fuori, Hänsel, siamo liberi!" Allora Hänsel saltò fuori, come un uccello quando gli aprono la gabbia. Ed essi piansero di gioia e si baciarono. Tutta la casetta era piena di perle e di pietre preziose: essi se ne riempirono le tasche e se ne andarono in cerca della via che li riconducesse a casa. Ma giunsero a un gran fiume che non erano in grado di attraversare. Allora la sorellina vide un'anatrina bianca nuotare di qua e di là.
E le gridò:
"Ah,
cara anatrina,
prendici
sul tuo dorso."
Udite queste parole, l'anatrina si avvicinò nuotando e trasportò prima Gretel e poi Hänsel dall'altra parte del fiume. Dopo breve tempo ritrovarono la loro casa: il padre si rallegrò di cuore quando li rivide, poiché‚ non aveva più avuto un giorno di felicità da quando i suoi bambini non c'erano più. La madre invece era morta. Ora i bambini portarono ricchezze a sufficienza perché‚ non avessero più bisogno di procurarsi il necessario per vivere.
FINE
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Commento:
Hänsel e Gretel (in tedesco: Hänsel und Gretel) è una fiaba tedesca riportata dai fratelli Grimm. È una delle fiabe più celebri, e presenta numerosi punti di contatto con Pollicino di Charles Perrault.
Hänsel e Gretel sono i figli di un povero taglialegna. Poiché il cibo scarseggia e non basta per tutta la famiglia, la moglie del taglialegna, (matrigna dei bambini) convince il marito ad abbandonare i figli nella foresta. Hänsel e Gretel, che origliando sono venuti a conoscenza del piano, si riempiono le tasche di sassolini bianchi, e quando i genitori li conducono nella foresta, lasciano cadere i sassolini dietro di sé, segnando il sentiero che li riporterà a casa. Mentre i due fratelli vagano nella foresta, trovano una casa di pane speziato (pfefferkuchen) (nelle versioni italiane tradotto all'inizio semplicemente con "pane" e successivamente marzapane) e vetri di zucchero alle finestre. I due bambini, affamati, iniziano a mangiare; in quel momento la padrona di casa, una vecchia signora (che si rivelerà essere una strega) li invita a entrare e prepara per loro un banchetto. In seguito però la strega mette in gabbia Hänsel (con lo scopo di farlo ingrassare e poi mangiarlo) e fa di Gretel la sua serva. Mentre si prepara a cucinare Hänsel, la strega chiede a Gretel di salire su una scala per controllare se il forno è pronto, ma Gretel finge di non esserne capace. Non appena la strega sale al suo posto a controllare, Gretel la spinge dentro e la chiude nel forno.
I bambini concludono la loro avventura rubando le ricchezze della strega e tornano dal padre. La matrigna nel frattempo è morta, e le ricchezze della strega fanno sparire definitivamente lo spettro della fame.
La fiaba dei fratelli Grimm ha certamente origine nel Medioevo, epoca in cui la scarsità di cibo e la diffusione della fame facevano dell'infanticidio una pratica comune. Hänsel e Gretel non condannano il proprio genitore per il tentato abbandono; al contrario, semplicemente si "riscattano" portandogli in pegno grandi ricchezze con cui sfamarli.
La trama di Hänsel e Gretel è in gran parte identica a quella di Pollicino di Perrault; l'episodio dei sassolini e delle briciole di pane, per esempio, è identico in entrambe le fiabe, sebbene in tal senso venga ricordata di più la fiaba di Perrault. Di Hänsel e Gretel è soprattutto nota l'immagine della "casa di marzapane", che costituisce l'opposto della casa povera e affamata dei bambini, e la materializzazione quasi "eccessiva" dei loro desideri, ma si rivela al contempo una trappola per trasformarli in cibo; vi si potrebbe leggere qualche analogia con il Paese dei Balocchi di Carlo Collodi.
Il messaggio di questa fiaba è ben chiaro e diretto: nella vita occorre tenere bene aperti gli occhi perché il pericolo è sempre in agguato e, soprattutto, bisogna usare l'ingegno per tirarsi fuori dai guai
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Le tre foglie della serpe
tempo: 9'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 016
C'era una volta un pover'uomo che non poteva più dar da mangiare al suo unico figlio. Il figlio allora disse: -Caro padre, vivete così miseramente, e non potete più darmi il pane; me ne voglio andare e vedere come riesco a cavarmela nel mondo-. Il padre gli diede allora la sua benedizione e prese commiato da lui con gran tristezza. Il figlio si fece soldato e raggiunse il campo di battaglia. Quando si trovò di fronte al nemico, la situazione si fece difficile: piovevano pallottole e i suoi camerati cadevano da ogni parte. Infine cadde anche il loro capitano e i rimanenti volevano fuggire, ma il giovane uscì dalle file e li incoraggiò gridando: -Non abbandoniamo la nostra patria!-. Allora gli altri lo seguirono, ed egli partì di nuovo all'assalto del nemico e lo sconfisse. Quando al re giunse la notizia che a lui solo doveva la vittoria, ne fece un uomo potente e di riguardo, e gli diede dei gran tesori. Il re aveva una figlia, bella ma stravagante. Ella aveva fatto uno strano voto: chi voleva diventare suo signore e sposo, doveva promettere di non sopravviverle. Nel caso che fosse morta per prima, egli doveva farsi seppellire vivo con lei. Nel caso inverso, ella avrebbe fatto lo stesso. Questo voto aveva scoraggiato tutti i pretendenti, poiché‚ ognuno temeva di dover scendere vivo nella tomba. Il giovane fu uno dei primi a vedere alla corte del re la bella figlia, e fu così rapito dalla sua avvenenza che la chiese in moglie a suo padre. Allora il re rispose: -Chi sposa mia figlia non deve aver paura di scendere vivo nella tomba- e gli raccontò lo strano voto che ella aveva fatto. Ma il suo amore era così grande che egli diede la propria promessa senza pensare al pericolo e le nozze furono celebrate con gran pompa. Vissero per un po' felici e contenti; ma avvenne che la giovane regina si ammalò e nessun medico pot‚ guarirla, cosicché‚ morì. E, di fronte alla morta, lo sposo si ricordò con spavento di aver promesso di lasciarsi seppellire vivo con lei. Il vecchio re fece presidiare ogni porta perché‚ non fuggisse e disse che egli doveva mantenere ciò che aveva promesso. Il giorno in cui il cadavere fu deposto nella cripta regale, anch'egli fu condotto giù, e il portone fu chiuso e sprangato. Accanto alla bara c'era un tavolo, e sopra vi era un lume, quattro pani e quattro bottiglie di vino. Terminata questa provvista, egli sarebbe morto di fame. Ora se ne stava là, vicino alla bara, in grande affanno e tristezza, e ogni giorno mangiava soltanto un pezzetto di pane e beveva soltanto un sorso di vino, eppure vedeva la morte avvicinarsi sempre di più. Un giorno successe che egli vide una serpe strisciare fuori da un angolo della cripta e avvicinarsi al cadavere. E, pensando che venisse per morderlo, trasse la spada e disse: -Finché‚ sono vivo, non la toccherai- e tagliò la serpe in tre pezzi. Poco dopo una seconda serpe strisciò fuori dall'angolo, ma quando vide l'altra morta e fatta a pezzi, se ne andò e ritornò quasi subito con tre foglie verdi in bocca. Poi prese i tre pezzi della serpe, li riaccostò, e su ogni ferita mise una foglia. Subito i pezzi si ricongiunsero, la serpe si mosse e riacquistò la vita, e corse via con la compagna. Ma le foglie erano rimaste per terra e l'uomo, che aveva visto tutto, pensò: "Quale forza meravigliosa devono contenere queste foglie! Se hanno risuscitato il serpente, forse potranno giovare anche a un essere umano". Così le raccolse e ne mise una sulla bocca della morta, le altre due sugli occhi. E subito il sangue si mosse nel corpo, salì al pallido volto, che si tinse di rosa. Ella respirò, aprì gli occhi e disse: -Ah, Dio, dove sono?-. -Sei con me, cara moglie- egli rispose, e le diede un po' di vino e un po' di pane perché‚ riprendesse vigore, e le raccontò tutto quello che era accaduto e come l'avesse risuscitata. Allora ella si alzò felice e insieme bussarono alla porta, così forte che le guardie sentirono e avvertirono il re. E il re stesso verme ad aprire la porta. Li trovò entrambi freschi e sani, li condusse di sopra e si rallegrarono insieme perché‚ ogni pena era vinta. Ma il giovane re prese le tre foglie, le diede a un servo fedele e disse: -Serbale con cura e portale sempre con te chissà, forse potranno aiutarci ancora-. Dopo che l'uomo ebbe risuscitato la moglie, però, fu come se il cuore di lei fosse mutato. E, dopo un certo periodo di tempo, quando si misero in mare per recarsi dal vecchio padre di lui, ella dimenticò del tutto il grande amore e la fedeltà, e concepì un'insana passione per il pilota. E una volta che il giovane re giaceva addormentato, fu così perfida da dire al pilota: -Vieni ad aiutarmi: lo getteremo in acqua e torneremo indietro. Dirò che è morto e che tu sei degno di divenire mio sposo e di ereditare la corona di mio padre-. Poi una afferrò l'uomo per la testa, l'altro per i piedi e lo gettarono in mare perché‚ annegasse Il crimine sarebbe riuscito se il servo fedele non avesse visto tutto. Questi staccò in segreto una barchetta dalla nave e andò alla ricerca del corpo finché‚ lo ripescò. Poi prese le tre foglie della serpe, gliele mise sulla bocca e sugli occhi ed egli tornò subito in vita. Allora egli disse al servo: -Remeremo giorno e notte per giungere prima degli altri dal vecchio re-. Ma il re quando li vide arrivare si meravigliò e disse: -Che cosa vi è successo?-. Allora il giovane re gli raccontò tutto e il vecchio disse: -Non posso credere che mia figlia abbia agito così male-. E li fece entrare in una stanza segreta, dove rimasero nascosti a tutti. Poco dopo giunse la nave e la donna si presentò al padre con aria afflitta. Egli disse: -Figlia mia, perché‚ vieni sola, dov'è tuo marito?-. -Ah- rispose ella simulando tristezza -si è ammalato improvvisamente durante il viaggio ed è morto; questo buon pilota mi ha soccorsa e sa come sono andate le cose.- Allora il re aprì la stanza e fece uscire i due. Vedendo il marito la donna fu come colpita dal fulmine, cadde in ginocchio e implorò grazia. Ma il re disse: -Nessuna grazia! Egli era pronto a morire con te, mentre tu lo hai ucciso nel sonno. Devi avere la pena che ti meriti-. La misero con il pilota in una nave che faceva acqua e li spinsero in mare.
FINE
La serpe bianca
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 017
C'era una volta un re potente e saggio che ogni giorno, a pranzo, quando la tavola era sparecchiata e non c'era più nessuno, si faceva portare ancora un piatto, coperto, da uno dei suoi servi più fedeli. Solamente lui ne mangiava, poi lo richiudeva, e nessuno sapeva che cosa vi fosse dentro. Un giorno avvenne che il servo, quando il re gli diede il piatto da portare via, non seppe resistere alla tentazione, lo portò nella propria camera, lo aprì e vi trovò dentro una serpe bianca. Vedendola gli venne una tale voglia di mangiarne che non pot‚ trattenersi: ne tagliò un pezzetto e se lo mangiò. Ma appena lo sfiorò con la lingua, udì con chiarezza ciò che si dicevano i passeri e gli altri uccelli davanti alla finestra e comprese così che capiva il linguaggio degli animali.
Ora avvenne che proprio quel giorno la regina smarrì uno dei suoi anelli più belli, e il sospetto cadde su quel servo. Il re lo rimproverò aspramente e minacciò di condannarlo come reo, se entro quel giorno non avesse indicato il malfattore. Allora il servo si spaventò e non sapeva cosa fare. Inquieto, scese in cortile: là, vicino a un ruscello, le anatre riposavano tranquille e si facevano le loro confidenze. Egli ne sentì una che diceva: “Che peso ho sullo stomaco! Nella fretta ho ingoiato un anello che era sotto la finestra della regina.” Subito il servo l'afferrò per il collo, la portò al cuoco e disse: “Ammazza prima questa, è ben pasciuta.” Il cuoco le tagliò il collo e quando fu sbuzzata le trovò nello stomaco l'anello della regina. Il servo lo portò al re che se ne rallegrò molto, e volendo riparare il proprio errore gli disse: “Chiedi ciò che vuoi, e di' quale carica desideri a corte.”
Ma il servo rifiutò ogni cosa e chiese soltanto un cavallo e del denaro per il viaggio, poiché‚ desiderava girare per il mondo. Così se ne andò a cavallo e giunse a uno stagno dove tre pesci si erano impigliati nelle canne e boccheggiavano fuor d'acqua, lamentandosi di dover morire così miseramente. Egli capì le loro parole e ne ebbe pietà, così scese da cavallo e li rimise in acqua. Allora i pesci gridarono: “Ce ne ricorderemo e ti ricompenseremo!.” Egli proseguì e poco dopo udì, ai suoi piedi, un re delle formiche che diceva: “Se l'uomo girasse al largo con la sua bestia! Mi calpesta tante di quelle formiche!” Egli guardò a terra e vide che il suo cavallo era entrato in un formicaio, allora deviò il cammino e il re delle formiche gridò: “Ce ne ricorderemo e ti ricompenseremo!” Proseguì e giunse in un bosco; là due corvi, padre e madre, gettavano i loro piccoli fuori dal nido e dicevano: “Siete grandi a sufficienza per mantenervi da soli, noi non possiamo più sfamarvi.” I piccoli giacevano a terra, sbattevano le loro piccole alucce e gridavano: “Come possiamo mantenerci da soli! Non sappiamo ancora volare per procacciarci il cibo! Siamo costretti a morire di fame!” Egli scese a terra, uccise il suo cavallo con la spada e lo diede in pasto ai piccoli corvi. Questi si avvicinarono saltellando, si saziarono e dissero: “Ce ne ricorderemo e ti ricompenseremo!”
Ora egli proseguì a piedi e, cammina cammina, giunse in una gran città. Un uomo a cavallo andava dicendo che colui che voleva diventare lo sposo della giovane principessa doveva eseguire un compito che ella gli avrebbe assegnato; ma se lo intraprendeva e non lo portava a termine, avrebbe perso la vita. Nessuno voleva presentarsi, perché‚ già tanti ci avevano rimesso la vita. Il giovane pensò: "Che ho da perdere? Tentiamo!” Così andò davanti al re e a sua figlia e si annunciò come pretendente.
Allora lo condussero in riva al mare; gettarono un anello in acqua e gli ordinarono di ripescarlo. Gli dissero inoltre che se si tuffava e ritornava a galla senza l'anello, lo avrebbero ributtato giù per farlo morire. Poi fu lasciato solo, e mentre si trovava sulla riva e pensava che cosa mai potesse fare per prendere l'anello, vide avvicinarsi i tre pesci che egli aveva tratto dalle canne e rimesso in acqua. Quello di mezzo aveva in bocca una conchiglia, che depose sulla riva, ai piedi del giovane; e quando egli l'aprì ci trovò dentro l'anello. Pieno di gioia lo portò al re e chiese sua figlia in sposa. Ma questa, quando udì che egli non era un principe, non lo volle. Uscì in giardino, rovesciò dieci sacchi pieni di miglio sull'erba e disse: “Dovrà raccoglierlo per domattina, prima che sorga il sole; e non ne manchi neanche un granello!” Il giovane non sarebbe riuscito a portare a termine il compito se i fedeli animali non lo avessero aiutato. Di notte venne il re delle formiche e, con le sue mille e mille formiche raccolse tutto il miglio, lo ammucchiò nei sacchi e, prima che sorgesse il sole del mattino, aveva finito il lavoro senza che neanche un granello andasse perduto. Quando la principessa venne in giardino e vide tutto ciò, si meravigliò e disse: “Anche se ha eseguito pure questo compito, ed è giovane e bello, non lo sposerò se prima non mi avrà portato una mela dell'albero della vita.” Ma i corvi che erano stati gettati dal nido e che egli aveva nutrito, erano cresciuti e avevano udito quello che voleva la principessa. Volarono via e ben presto uno di loro ritornò portando una mela nel becco e la lasciò cadere fra le mani del giovane. Quando questi la portò alla principessa ella lo accettò con gioia e divenne sua sposa. Alla morte del vecchio re, il principe ne ereditò la corona.
FINE
La pagliuzza, il carbone e il fagiolo
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 018
In un villaggio abitava una povera vecchia che aveva raccolto un piatto di fagioli e voleva cuocerli. Preparo dunque il fuoco nel camino, e perché ardesse in fretta l’accese con una manciata di paglia. Mentre versava i fagioli nella pentola, gliene sfuggi inavvertitamente uno, che cadde a terra accanto a una pagliuzza; e subito un pezzo di carbone ardente salto anch’esso dal focolare accanto a loro. Allora la pagliuzza disse: “Cari amici, donde venite?” Rispose il carbone: “Per buona sorte sono fuggito dal fuoco, e se non ci fossi riuscito a viva forza, era morte sicura:sarei stato incenerito.” Disse il fagiolo: “Anch’io l’ho scampata, ma se la vecchia mi avesse messo in pentola, sarei stato ridotto in pappa senza pietà, come i miei compagni. E a me forse sarebbe toccato miglior destino?” Disse la pagliuzza. “Tutte le mie sorelle distrusse la vecchia nel fuoco e nel fumo; sessanta in una volta ne ha ghermite e uccise. Per fortuna le scivolai tra le dita.” - “Ma ora che faremo?” disse il carbone. “Poiché per nostra ventura siamo siamo fuggiti alla morte, penso che dobbiamo aiutarci da buoni compagni e, perché non ci colga una nuova disgrazia, emigrare insieme in paese straniero.”
La proposta piacque agli altri due e s’incamminarono. Ma ben presto giunsero a un piccolo ruscello e, siccome non c’era ponte ne passerella, non sapevano come attraversarlo. La pagliuzza ebbe una buon’idea e disse: “Mi stenderò di traverso: cosi potrete passare come su un ponte.” E si stese da una riva all’altra. Il carbone, focoso di natura, sgambetto arditamente sul ponte di nuova costruzione; ma quando fu a mezza strada e senti l’acqua rumoreggiare di sotto, ebbe paura:si fermo e non osava più andare avanti. Ma la pagliuzza prese fuoco, si ruppe in due pezzi e cadde nel ruscello; il carbone le scivolo dietro w, sibilo a contatto con l’acqua e spiro. Al fagiolo, rimasto prudentemente a riva, venne da ridere di quell’avventura, e rise cosi forte, senza potersi frenare, che alla fine scoppio. Anch’esso, dunque, era bello e spacciato, se un sarto, in giro per il mondo, non si fosse per buona sorte riposato accanto al ruscelo. Siccome era di buon cuore, tiro fuori ago e filo e lo ricuci. Il fagiolo lo ringrazio caldamente;ma poiché il sarto aveva usato filo nero, da quel giorno tutti i fagioli hanno una cucitura nera.
FINE
Il pescatore e sua moglie
tempo: 13'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 019
C'era una volta un pescatore e sua moglie; abitavano in un lurido tugurio presso il mare, e il pescatore andava tutti i giorni a pescare con la lenza, e così fece per molto tempo. Una volta se ne stava seduto vicino alla lenza a guardare nell'acqua liscia come l'olio. Se ne stava così quando la lenza andò a fondo, giù giù, e quand'egli la sollevò c'era attaccato un grosso rombo. E il rombo gli disse: -Ti prego, lasciami vivere; io non sono un vero rombo, sono un principe stregato. Rimettimi in acqua e lasciami andare!-. -Eh- disse l'uomo -non hai bisogno di fare tanti discorsi: un rombo che parla, l'avrei certo lasciato libero.- Lo rimise in acqua e il rombo si tuffò e lasciò dietro di s‚ una lunga striscia di sangue. L'uomo andò da sua moglie, nella lurida catapecchia, e le raccontò che aveva preso un rombo. Questi diceva di essere un principe stregato; poi lo aveva lasciato andare. -E non gli hai chiesto niente?- disse la donna. -No- disse l'uomo -cosa dovrei chiedere?- -Ah- disse la donna -è pur brutto abitare sempre in questo buco! Puzza ed è così sporco! Vai e domandagli una piccola capanna.- L'uomo non voleva, tuttavia andò sulla riva del mare e, quando giunse, il mare era tutto verde e giallo. Egli andò fino all'acqua, si fermò e disse:-Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!-Allora il rombo giunse nuotando e disse: -Be', che vuole dunque?-. -Ah- disse l'uomo -io ti avevo pur preso; ora mia moglie mi ha detto che avrei dovuto chiederti qualcosa. Non vuole più abitare in un buco, vorrebbe una capanna.- -Va' a casa- disse il rombo -ce l'ha già.- Allora l'uomo andò a casa e sua moglie era sulla porta di una capanna e gli disse: -Vieni dentro, guarda, adesso è molto meglio-. E dentro alla capanna c'era una stanza, una camera da letto e una cucina. E dietro c'era anche un giardinetto con verdura e alberi da frutta e un cortile con polli e anitre. -Ah- disse l'uomo -ora vivremo felici.- -Sì- disse la donna -ci proveremo.- Dopo un paio di settimane, la donna disse: -Marito mio, la capanna è troppo stretta e il cortile e il giardino sono così piccoli! Vorrei abitare in un gran castello di pietra; va' dal rombo, che ce lo regali-. -Ah, moglie- disse l'uomo -il rombo ci ha già dato la capanna: non posso tornare, se ne potrebbe avere a male.- -macché‚- disse la donna -può benissimo farlo e lo farà volentieri!- Allora l'uomo andò con il cuore grosso, ma quando giunse al mare, l'acqua era tutta violetta azzurro cupa e grigia; però era ancora calma. Egli si fermò e disse:-Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!--Be', cosa vuole?- disse il rombo. -Ah- disse l'uomo tutto turbato -mia moglie vuole abitare in un castello di pietra.- -Va', è già davanti alla porta- disse il rombo. Allora l'uomo andò a casa e sua moglie stava davanti a un gran palazzo. -Guarda, marito mio- ella disse -com'è bello!- Entrarono insieme e dentro c'erano tanti servi, le pareti risplendevano è nelle stanze c'erano sedie e tavole tutte d'oro. E dietro il castello c'erano un giardino e un parco che si estendeva per un mezzo miglio, dov'erano cervi, caprioli e lepri; e un cortile con stalla e scuderia. -Ah- disse l'uomo -in questo bel castello si può essere contenti!- -Vedremo- disse la donna -intanto dormiamoci su.- E andarono a letto. Il mattino dopo la donna si svegliò allo spuntar del giorno, diede una gomitata nel fianco dell'uomo e disse: -Alzati, marito, potremmo diventare re di tutto il paese-. -Ah, moglie- disse l'uomo -perché‚ mai dovremmo diventare re; io non voglio!- -Bene, allora voglio esserlo io.- -Ah, moglie- disse l'uomo -perché‚ vuoi essere re? Al rombo non piacerà.- -Marito- disse la donna -vacci difilato, io devo essere re.- Allora l'uomo andò ed era tutto turbato che sua moglie volesse diventare re. E quando arrivò al mare, il mare era tutto plumbeo e nero e l'acqua ribolliva dal profondo. Egli si fermò e disse:-Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!--Be', che cosa vuole?- disse il rombo. -Ah- disse l'uomo -mia moglie vuole diventare re.- -Va' pure, che lo è già- disse il rombo. Allora l'uomo tornò a casa e quando arrivò al palazzo c'erano tanti soldati, trombe e timpani. Sua moglie sedeva su di un alto trono d'oro e diamanti e aveva una grande corona d'oro in testa; e al suo fianco stavano in fila sei damigelle, dalla più alta alla più piccola, così da formare una scala. -Ah- disse l'uomo -adesso sei re?- -Sì- rispose la donna -adesso sono re.- Dopo averla guardata per un po', egli disse: -Ah, moglie, che bellezza che tu sia re! non c'è più niente da desiderare-. -No, marito- disse la donna -mi viene in uggia, non posso più resistere: sono re, ora voglio diventare imperatore!- -Ah, moglie- disse l'uomo -perché‚ vuoi diventare imperatore?- -Marito- diss'ella -va' dal rombo: voglio essere imperatore.- -Ah moglie- disse l'uomo -egli non può fare imperatori, non posso dir questo al rombo.- -Io sono re- disse la donna -e tu sei mio marito, vacci subito!- Allora l'uomo andò e mentre camminava pensava: "Non va, non va, imperatore è troppo sfacciato; alla fine il rombo si stancherà". Così arrivò al mare, l'acqua era tutta nera e gonfia e ci soffiava sopra un gran vento che la sconvolgeva. L'uomo si fermò e disse:-Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!--Be', che vuole?- disse il rombo. -Ah- disse egli -mia moglie vuole diventare imperatore.- -Va' pure- disse il rombo -lo è già.- L'uomo se ne andò e, quando arrivò a casa, sua moglie sedeva su di un trono altissimo fatto di un solo pezzo d'oro, e aveva in testa una gran corona alta tre braccia; al suo fianco stavano gli alabardieri, l'uno più piccolo dell'altro, dall'enorme gigante al piccolissimo nano, grosso come il mio mignolo. E davanti a lei c'erano tanti principi e conti. L'uomo passò in mezzo a loro e disse: -Moglie, sei imperatore adesso?-. -Sì- diss'ella -sono imperatore.- -Ah- disse l'uomo contemplandola -che bellezza che tu sia imperatore!- -Marito- disse la donna -non incantarti! Ora sono imperatore, ma voglio anche diventare papa.- -Ah, moglie- disse l'uomo -perché‚ vuoi diventare papa? Di papa ce n'è uno solo nella cristianità.- -Marito- diss'ella -voglio diventare papa oggi stesso.- -No, moglie- disse l'uomo -il rombo non può far papi, questo non va.- -Chiacchiere, se può fare imperatori può fare anche papi. Vacci subito!- Allora l'uomo andò, ma era tutto fiacco, le gambe e le ginocchia gli vacillavano, e soffiava un gran vento e l'acqua sembrava che bollisse. Le navi, in pericolo, invocavano soccorso, danzavano e saltavano sulle onde. Tuttavia il cielo era ancora un po' azzurro al centro, ma ai lati saliva un color rosso, come durante un gran temporale. Allora egli si fermò, sconfortato, e disse:-Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!--Be', cosa vuole?- disse il rombo. -Ah- disse l'uomo -mia moglie vuole diventare papa.- -Va' pure- disse il rombo -lo è già.- Egli se ne andò e quando arrivò a casa sua moglie sedeva su di un trono alto tre miglia e aveva tre grandi corone in testa, intorno a lei c'erano tanti preti, e ai suoi lati c'erano due file di lumi, dal più alto, spesso e grosso come un'enorme torre, fino alla più piccola candela da cucina. -Moglie- disse l'uomo guardandola -sei papa adesso?- -Sì- diss'ella -sono papa.- -Ah moglie- disse l'uomo -che bella cosa che tu sia papa! Moglie, ora sarai contenta: sei papa, non puoi diventare niente di più.- -Ci penserò- disse la donna. E andarono a letto, ma ella non era contenta e la cupidigia non la lasciava dormire: pensava sempre che cosa potesse ancora diventare. Quand'ella vide dalla finestra il sole che sorgeva, pensò: "Ah, non potrei forse far sorgere anche il sole?". Piena di rabbia, diede una gomitata al marito e disse: -Marito, vai dal rombo, voglio diventare come il buon Dio!-.
L'uomo era ancora addormentato, ma si spaventò tanto che cadde dal letto. -Ah, moglie- diss'egli -rientra in te e contentati di essere papa.- -No- gridò la moglie e si strappò la camiciola di dosso -non sono tranquilla e non posso resistere quando vedo sorgere il sole e la luna e non posso farli sorgere io stessa. Voglio diventare come il buon Dio.- -Ah, moglie, il rombo questo non lo può fare. Può fare imperatori e papi, ma questo non lo può fare!- -Marito- diss'ella, e gli rivolse uno sguardo terribile -voglio diventare come il buon Dio, va' subito dal rombo.- Allora l'uomo andò pieno di paura; fuori infuriava la tempesta che sconvolgeva i campi e sradicava gli alberi, il cielo era tutto nero, lampeggiava e tuonava; il mare si gonfiava in onde nere, alte come montagne e tutte avevano una bianca corona di spuma. Egli gridò:-Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!--Be', cosa vuole?- disse il rombo. -Ah- rispose l'uomo -vuole diventare come il buon Dio.- -Va' pure, che è tornata nel suo lurido tugurio.- E ci stanno ancora.
FINE
Il prode piccolo sarto (Sette in un colpo)
tempo: 20'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 020
Una mattina d'estate, un piccolo sarto sedeva al suo tavolo, davanti alla finestra, e cuciva. Giù per la strada veniva una contadina gridando: -Marmellata buona! Marmellata buona!-. Queste parole suonarono piacevoli all'orecchio del piccolo sarto; sporse la testolina dalla finestra e chiamò: -Quassù, brava donna! Qui spaccerete la vostra merce-. La donna salì e dovette aprire tutta la sua cesta. L'omino ispezionò bene ogni pentola, e infine comprò soltanto un quarto di libbra, cosicché‚ la donna se ne andò di pessimo umore e brontolando. -Che Dio benedica la mia marmellata- disse il piccolo sarto -e mi dia forza e vigore!- Prese del pane, ne tagliò un pezzo per il lungo e ci spalmò sopra la marmellata. -Deve avere un buon sapore- disse -ma prima di morderlo voglio finire il farsetto.- Mise il pane accanto a s‚, riprese a cucire e dalla gioia faceva punti sempre più lunghi. Nel frattempo l'odore della marmellata era salito su per la parete fino ad arrivare a un nugolo di mosche che si precipitarono giù. Ma il piccolo sarto ogni tanto si voltava a guardare il pane, e così scoprì le intruse. -Olà- esclamò -chi vi ha invitato?- e le cacciò via. Ma le mosche, che non capivano la lingua, non si lasciarono respingere e tornarono ancora più numerose. Il piccolo sarto perse la pazienza, prese un pezzo di stoffa dalla sua cassetta e: -Aspettate, ve la darò io!- e giù colpi. Quando la smise e contò, ben sette mosche gli giacevano davanti morte stecchite. -Sei così bravo?- disse ammirato fra s' e s'. -Deve saperlo tutta la città.- E in fretta e furia si tagliò una cintura, la cucì e vi ricamò sopra a grandi lettere: -Sette in un colpo!-. -macché‚ città!- proseguì -tutto il mondo lo deve sapere!- E il cuore gli balzava di gioia come un codino d'agnello. Poi si legò la cintura intorno alla vita e frugò per tutta la casa se non ci fosse nulla da portarsi via, poiché‚ voleva andarsene per il mondo. Ma in casa trovò solamente un vecchio formaggio e se lo cacciò in tasca. Davanti alla porta con un colpo di fortuna acchiappò un uccello che andò a tenere compagnia al formaggio. Poi prese la strada fra le gambe e salì su di un'alta montagna, e quando ne ebbe raggiunto la cima ecco là seduto un gran gigante. -Ehilà, camerata!- disse il piccolo sarto al gigante -te ne stai qui seduto a guardarti il mondo? Io pure mi sono incamminato per provare le mie forze. Hai voglia di venire con me?- Il gigante lo guardò e disse: -Tu, essere miserabile!-. -Proprio!- disse il piccolo sarto, si sbottonò la giacca e mostrò al gigante la cintura: -Qui puoi leggere che uomo sono-. Il gigante lesse. -Sette in un colpo!- pensò che si trattasse di uomini uccisi e incominciò ad avere un po' di rispetto per il piccolo sarto. Ma prima volle metterlo alla prova: prese in mano una pietra e la strinse fino a farne gocciolare fuori dell'acqua. -Adesso fallo tu- disse il gigante -se ne hai la forza.- -Tutto qui?- disse il piccolo sarto. -Lo so fare anch'io.- Mise la mano in tasca, tirò fuori il formaggio guasto e lo spremette tanto che ne sgorgò il succo. -E' ancor meglio, non è vero?- disse. Il gigante non sapeva che dire, e non poteva credere che quell'omino fosse capace di tanto. Raccolse allora una pietra e la gettò così in alto che si stentava a vederla. -Adesso, anatroccolo, fallo anche tu- disse al piccolo sarto. -Subito- rispose questi. -Il tuo tiro era buono, ma la pietra ha pure dovuto ricadere a terra; adesso te ne lancerò io una, che non tornerà.- Mise la mano in tasca, prese l'uccello e lo lanciò in aria. L'uccello, felice di essere libero, salì e volò via. -Ti piace il tiro, camerata?- domandò il sarto. -Lanciare, sai lanciare bene- disse il gigante -ma adesso vediamo se sei capace di portare qualche bel peso.- Lo condusse a una grossa quercia pesante, che giaceva al suolo abbattuta, e disse: -La porteremo insieme fuori dal bosco-. -Tu prendi il tronco in spalla- disse l'omino -io solleverò e porterò i rami e le fronde; è la parte più pesante.- Il gigante sollevò il tronco e se lo mise sulle spalle, mentre il sarto si sedette dietro su di un ramo, e il gigante dovette portare lui e l'intero albero. Il sarto là dietro era allegrissimo e fischiettava delle canzoncine, come se portare alberi fosse un gioco da ragazzi. Dopo aver trascinato tutto quel peso per un tratto di strada, il gigante non ne pot‚ più e disse: -Ascolta, devo lasciare cadere l'albero-. Il piccolo sarto saltò giù e afferrò l'albero con entrambe le braccia, come se l'avesse portato, e disse al gigante: -Sei così grosso e non sai portare un albero!-. Proseguirono insieme e, passando vicino a un ciliegio, il gigante afferrò la chioma dell'albero, dov'erano i frutti più maturi, e la diede al sarto, perché‚ mangiasse anche lui. Ma il piccolo sarto era troppo debole per resistere alla forza dell'albero e fu scagliato in aria. -Come mai, non hai la forza di tenere quella bacchettina?- domandò il gigante. Ed egli rispose: -Credi che sia un gran che per uno che ne ha colpiti sette in una volta? Sai perché‚ l'ho fatto? Perché‚ qua sotto i cacciatori sparano nella macchia. Fallo anche tu se ne sei capace-. Il gigante provò, ma non riuscì a saltare oltre l'albero poiché‚ finiva sempre tra i rami e vi si impigliava; così anche questa volta il piccolo sarto ebbe il sopravvento. Il gigante disse: -Vieni nella nostra caverna e pernotta da noi-. Il piccolo sarto lo seguì di buona voglia. Il gigante gli diede allora un letto dove poteva riposarsi. Il piccolo sarto però non si coricò, ma si rannicchiò in un angolo. A mezzanotte il gigante venne con una sbarra di ferro, con un colpo sfondò il letto e pensò: "Finalmente è finita con quella cavalletta, così non si farà più vedere". Il giorno dopo i giganti andarono nel bosco e avevano completamente dimenticato il piccolo sarto, che credevano morto, quand'eccolo arrivare tutto allegro e baldanzoso. I giganti, sbigottiti, ebbero paura di essere tutti uccisi e fuggirono a precipizio. Il piccolo sarto proseguì per la sua strada, sempre dietro la punta del suo naso, fino a quando giunse nel cortile di una reggia, e siccome era stanco si sdraiò nell'erba e si addormentò. Mentre dormiva giunse della gente del re, l'osservarono da ogni parte e lessero sulla cintura: -Sette in un colpo!-. -Ah- dissero -cosa vorrà questo gran guerriero, qui, in tempo di pace? Dev'essere certamente un potente signore.- Avvertirono il re e gli dissero: -In caso di guerra sarebbe un uomo utile e importante; non dovete lasciarvelo scappare!-. Al re piacque il consiglio e inviò al piccolo sarto uno dei suoi uomini che appena egli si fosse svegliato, doveva offrirgli di entrare al suo servizio. Il sarto accettò e disse: -Sono venuto proprio per questo, per servire il re- Così fu ricevuto con grandi onori, e gli venne assegnato un alloggio particolare. Ma i guerrieri gli erano ostili e si auguravano che andasse all'inferno. -Come andrà a finire?- dicevano fra loro. -Se attacchiamo lite e lui mena botte, ne cadono sette a ogni colpo. Noialtri non possiamo fargli fronte!- Si risolsero quindi ad andare tutti insieme dal re, lo pregarono di congedarli e dissero: -Non siamo fatti per resistere a un uomo così forte-. Il re era spiacente di dover perdere tutti i suoi servi a causa di uno solo, se ne sarebbe sbarazzato volentieri e rimpiangeva il momento in cui l'aveva incontrato. Ma non osava congedarlo, perché‚ temeva ch'egli l'uccidesse con tutto il suo popolo e occupasse il trono. Meditò a lungo e alla fine ebbe un'idea: mandò a dire al piccolo sarto che, siccome egli era un così grande eroe, voleva fargli una proposta. In un bosco del suo regno c'erano due giganti che facevano gran danno con rapine, assassinii, incendi; nessuno poteva avvicinarli anche se armato. Se egli li avesse uccisi, gli avrebbe dato sua figlia in sposa e metà del regno per dote; inoltre cento cavalieri l'avrebbero accompagnato per dargli manforte. "Sarebbe un bel colpo per un uomo come te" pensò il piccolo sarto. "Una bella principessa e un mezzo regno non sono mica male!" -Oh, sì- rispose -i giganti li domerò e i cento cavalieri non mi occorrono: chi ne abbatte sette in un colpo non può temerne due.- Così si mise in cammino e, quando giunse al limitare della foresta disse ai cavalieri: -Rimanete fuori, con i giganti me la sbrigherò io- Entrò e guardò di qua e di là. Finalmente li trovò entrambi che dormivano sotto un albero e russavano tanto da far oscillare i rami. -Il gioco è fatto!- disse il piccolo sarto; si riempì le tasche di pietre e salì sull'albero. Poi incominciò a gettare una pietra dopo l'altra sul petto di uno dei due giganti, fino a quando questi si svegliò stizzito, urtò il compagno e disse: -Ehi, perché‚ mi batti?-. -Tu sogni- rispose l'altro -non ti batto affatto.- Stavano di nuovo per addormentarsi, quando il piccolo sarto gettò al secondo una pietra sul petto; quello saltò su e disse: -Cosa hai intenzione di fare, cosa mi getti?-. -Non ti getto proprio nulla- disse il primo. Litigarono per un po' ma, siccome erano stanchi, lasciarono stare e chiusero di nuovo gli occhi. Allora il piccolo sarto ricominciò il suo gioco, scelse la pietra più grossa, e la gettò con tutte le sue forze sul petto del primo gigante che gridò: -Questo è troppo!-, saltò su come un pazzo e picchiò il compagno. All'altro non andò a genio e lo ripagò di ugual moneta; allora si infuriarono tanto che divelsero gli alberi, e si azzuffarono finché‚ caddero morti. -Meno male- disse il piccolo sarto -che non hanno divelto l'albero su cui stavo, sennò avrei fatto un brutto salto!- Scese poi allegro dall'albero, sfoderò la spada e, in tutta tranquillità, affibbiò loro qualche bel fendente nel petto, poi andò dai cavalieri. -Là giacciono i due giganti- disse. -Ho fatto loro la festa, ma ci voleva proprio uno che ne abbatte sette in un colpo, perché‚, messi alle strette, hanno ancora divelto degli alberi!- -Siete ferito, per caso?- domandarono i cavalieri. -Ci vuol pratica- rispose il piccolo sarto -ma non mi hanno torto un capello.- I cavalieri non volevano credergli e s'inoltrarono nella foresta: trovarono i giganti immersi nel loro sangue, e intorno gli alberi divelti. Allora essi si meravigliarono ed ebbero ancora più paura del piccolo sarto perché‚ non dubitavano che li avrebbe uccisi tutti qualora gli fossero stati nemici. Ritornarono al castello e raccontarono tutto al re; poi giunse anche il piccolo sarto e disse: -Ora voglio la principessa e metà regno-. Ma il re si era pentito della sua promessa e pensava di nuovo a come togliersi dai piedi l'eroe, al quale non voleva affatto dare la figlia. Così gli disse che se la voleva sposare doveva prima catturare un unicorno che correva nella foresta arrecando danno a uomini e animali. Il piccolo sarto ne fu felice, prese una cordicella, andò nella foresta e ordinò alla scorta di aspettarlo fuori poiché‚ voleva catturare da solo l'unicorno. Penetrò poi nella foresta, e vagò qua e là in cerca dell'unicorno. Ben presto arrivò l'unicorno e si avventò dritto contro il sarto per infilzarlo. -Piano, piano!- diss'egli. Si fermò aspettando che l'animale gli fosse ben vicino, poi saltò rapidamente dietro un albero. L'unicorno correva tanto veloce che non ebbe il tempo di cambiare direzione, cosicché‚ si avventò contro l'albero e infisse il corno nel tronco così saldamente che, pur usando tutta la sua forza, non riuscì a ritrarlo e rimase imprigionato. Allora il piccolo sarto sbucò da dietro l'albero, gli mise la cordicella intorno al collo e lo condusse prima dai compagni e poi dal re, cui rammentò la promessa fattagli. Il re si impaurì, ma escogitò una nuova astuzia e gli disse che, prima che si tenessero le nozze, egli doveva catturargli un cinghiale che correva nella foresta; i cacciatori lo avrebbero aiutato. -Volentieri- disse il piccolo sarto -è la cosa meno difficile.- Così andò ancora una volta nella foresta lasciando fuori i cacciatori, ed essi ne furono ben contenti perché‚ il cinghiale li aveva già accolti spesso in modo da levare la voglia di dargli la caccia. Quando il cinghiale vide l'omino, gli si avventò contro con la schiuma alla bocca arrotando i denti, e voleva buttarlo a terra. Ma il piccolo sarto si trovava accanto a una cappella, vi balzò dentro e, agilmente, uscì subito dalla finestra. Il cinghiale lo aveva seguito, ma quando il piccolo sarto balzò fuori corse a chiudere la porta, e la bestia rimase imprigionata perché‚ non riusciva a saltare fino alla finestra. Egli chiamò allora i cacciatori affinché‚ vedessero la preda, e poi si recò dal re e disse: -Ho catturato il cinghiale e, con esso, anche la principessa-. E' facile immaginare se il re fosse contento o no della notizia; ma non sapeva più che cosa obiettare, dovette perciò mantenere la promessa e accordargli la figlia. Almeno credeva che egli fosse un eroe; se avesse saputo che non si trattava che di un piccolo sarto, gli avrebbe dato più volentieri una corda. Così le nozze furono celebrate con gran pompa e poca gioia, e di un sarto si fece un re. Dopo alcuni giorni, di notte, la giovane regina udì il piccolo sarto dire, sognando: -Garzone, fammi la giubba e rattoppami i calzoni, o ti darò il metro sulle orecchie-. Allora capì di dove sbucasse il suo signor sposo, e, il mattino dopo, si lamentò con il padre e lo pregò di aiutarla a liberarsi di quell'uomo che non era che un sarto. Il re la consolò e disse: -La notte prossima, lascia aperta la tua camera da letto; fuori ci saranno i miei servi e, quando sarà addormentato, entreranno e lo faranno prigioniero-. La donna ne fu contenta; ma l'armigero del re aveva sentito tutto e, siccome era affezionato al giovane signore e gli era fedele, corse da lui e gli raccontò tutto. Il piccolo sarto disse di buon animo: -Metterò riparo alla cosa-. La sera andò a letto con la moglie all'ora solita e fece finta di dormire; ella si alzò, aprì la porta e si rimise a letto. Allora il piccolo sarto incominciò a gridare con voce squillante: -Garzone, fammi la giubba e rattoppa i calzoni, o ti darò il metro sulle orecchie! Ne ho presi sette in un colpo, ho ucciso due giganti, catturato un unicorno e un cinghiale: e dovrei avere paura di quelli là fuori, davanti alla camera?-. Quando udirono queste parole, tutti fuggirono come se fossero stati rincorsi da mille diavoli, e nessuno osò avvicinarsi al sarto. Così egli era e rimase re per tutta la vita.
FINE
Cenerentola
tempo: 16'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 021
La moglie di un ricco si ammalò e, quando sentì avvicinarsi la fine, chiamò al capezzale la sua unica figlioletta e le disse: “Sii sempre docile e buona, così il buon Dio ti aiuterà e io ti guarderò dal cielo e ti sarò vicina.” Poi chiuse gli occhi e morì. La fanciulla andava ogni giorno alla tomba della madre, piangeva ed era sempre docile e buona. La neve ricoprì la tomba di un bianco drappo, e quando il sole l’ebbe tolto, l’uomo prese moglie di nuovo.
La donna aveva due figlie che portò con s' in casa, ed esse erano belle e bianche di viso, ma brutte e nere di cuore. Per la figliastra incominciarono tristi giorni. “Che vuole quella buona a nulla in salotto?” esse dicevano. “Chi mangia il pane deve guadagnarselo: fuori, sguattera!” Le presero i suoi bei vestiti, le diedero da indossare una vecchia palandrana grigia e la condussero in cucina deridendola. Lì doveva sgobbare per bene: si alzava prima che facesse giorno, portava l’acqua, accendeva il fuoco, cucinava e lavava. Per giunta le sorelle gliene facevano di tutti i colori, la schernivano e le versavano ceci e lenticchie nella cenere, sicché‚ doveva raccoglierli a uno a uno. La sera, quando era stanca, non andava a letto, ma doveva coricarsi nella cenere accanto al focolare. E siccome era sempre sporca e impolverata, la chiamavano Cenerentola.
Un giorno, il padre volle recarsi alla fiera e chiese alle due figliastre che cosa dovesse portare loro. “Bei vestiti,” disse la prima. “Perle e gemme,” disse la seconda. “E tu, Cenerentola,” disse egli, “che cosa vuoi?” - “Babbo, il primo rametto che vi urta il cappello sulla via del ritorno,” rispose Cenerentola. Così egli comprò bei vestiti, perle e gemme per le due figliastre; e sulla via del ritorno, mentre cavalcava per un verde boschetto, un ramo di nocciolo lo sfiorò e gli fece cadere il cappello. Allora egli colse il rametto e quando giunse a casa diede alle due figliastre quello che avevano chiesto, e a Cenerentola diede il ramo di nocciolo. Cenerentola lo prese, andò a piantarlo sulla tomba della madre, e pianse tanto che le lacrime l’innaffiarono. Così crebbe e divenne un bell’albero. Cenerentola ci andava tre volte al giorno, piangeva e pregava e ogni volta si posava sulla pianta un uccellino che le dava ciò che aveva desiderato.
Ora avvenne che il re diede una festa che doveva durare tre giorni, perché‚ suo figlio potesse scegliersi una sposa. Anche le due sorellastre erano invitate, così chiamarono Cenerentola e dissero: “Pettinaci, spazzola le scarpe e assicura le fibbie: andiamo a ballare alla festa del re.” Cenerentola ubbidì ma piangeva, perché‚ anche lei sarebbe andata volentieri al ballo, e pregò la matrigna di accordarle il permesso. “Tu, Cenerentola,” disse questa, “non hai niente da metterti addosso, non sai ballare, e vorresti andare a nozze!” Ma Cenerentola insisteva e la matrigna finì col dirle: “Ti rovescerò nella cenere un piatto di lenticchie e se in due ore le sceglierai tutte, andrai anche tu.” La matrigna le rovesciò le lenticchie nella cenere, ma la fanciulla andò nell’orto dietro casa e chiamò: “Dolci colombelle mie, e voi, tortorelle, e voi, uccellini tutti del cielo, venite e aiutatemi a scegliere le lenticchie:
Quelle buone me le date,
Le cattive le mangiate.”
Allora dalla finestra della cucina entrarono due colombe bianche e poi le tortorelle e infine, frullando e svolazzando, entrarono tutti gli uccellini del cielo e si posarono intorno alla cenere. E le colombelle annuirono con le testine e incominciarono, pic, pic, pic, pic, e allora ci si misero anche gli altri, pic, pic, pic, pic, e raccolsero tutti i grani buoni nel piatto. Non era passata un’ora che avevano già finito e volarono tutti via. Allora la fanciulla, tutta contenta, portò il piatto alla matrigna e credeva di poter andare a nozze anche lei. Ma la matrigna disse: “No, Cenerentola; non hai vestiti e non sai ballare; non verrai.” Ma Cenerentola si mise a piangere, e quella disse: “Se in un’ora riesci a raccogliere dalla cenere e a scegliere due piatti pieni di lenticchie, verrai anche tu.” E pensava: “Non ci riuscirà mai.” Quando la matrigna ebbe versato i due piatti di lenticchie nella cenere, la fanciulla andò nell’orto dietro casa e gridò: “Dolci colombelle mie, e voi, tortorelle, e voi, uccellini tutti del cielo, venite e aiutatemi a scegliere:
Quelle buone me le date,
Le cattive le mangiate.”
Allora dalla finestra della cucina entrarono due colombe bianche e poi le tortorelle ed infine, frullando e svolazzando, entrarono tutti gli uccellini del cielo e si posarono intorno alla cenere. E le colombelle annuirono con le loro testoline e incominciarono, pic, pic, pic, pic, e allora ci si misero anche gli altri, pic, pic, pic, pic, e raccolsero tutti i grani buoni nei piatti. E non era passata mezz’ora che avevano già finito e volarono tutti via. Allora la fanciulla, tutta contenta, portò i piatti alla matrigna e credeva di potere andare a nozze anche lei. Ma la matrigna disse: “E’ inutile: tu non vieni, perché‚ non hai vestiti e non sai ballare; dovremmo vergognarci di te.” Così detto se ne andò con le sue due figlie.
Rimasta sola, Cenerentola andò alla tomba della madre sotto il nocciolo, e gridò:
“Scrollati pianta, stammi a sentire,
d’oro e d’argento mi devi coprire!”
Allora l’uccello le gettò un abito d’oro e d’argento e scarpette trapunte di seta e d’argento. Cenerentola indossò l’abito e andò a nozze. Ma le sorelle e la matrigna non la riconobbero e pensarono che fosse una principessa sconosciuta, tanto era bella nell’abito così ricco. A Cenerentola non pensarono affatto, e credevano che se ne stesse a casa nel sudiciume. Il principe le venne incontro, la prese per mano e danzò con lei. E non volle ballare con nessun’altra; non le lasciò mai la mano, e se un altro la invitava diceva: “E’ la mia ballerina.”
Cenerentola danzò fino a sera, poi volle andare a casa. Il principe disse: “Vengo ad accompagnarti,” perché‚ voleva vedere da dove veniva la bella fanciulla, ma ella gli scappò e balzò nella colombaia. Il principe allora aspettò che ritornasse il padre e gli disse che la fanciulla sconosciuta era saltata nella colombaia. Questi pensò: Che sia Cenerentola? e si fece portare un’accetta e un piccone per buttar giù la colombaia; ma dentro non c’era nessuno. E quando rientrarono in casa, Cenerentola giaceva sulla cenere nelle sue vesti sporche e un lumino a olio ardeva a stento nel focolare. Ella era saltata velocemente fuori dalla colombaia ed era corsa al nocciolo; là si era tolta le belle vesti, le aveva deposte sulla tomba e l’uccello le aveva riprese; ed ella nella sua palandrana grigia si era distesa sulla cenere in cucina.
Il giorno dopo quando la festa ricominciò e i genitori e le sorellastre erano di nuovo usciti, Cenerentola andò sotto al nocciolo e gridò:
“Scrollati pianta, stammi a sentire,
d’oro e d’argento mi devi coprire!”
Allora l’uccello le gettò un abito ancora più superbo del primo. E quando comparve a nozze così abbigliata, tutti si meravigliarono della sua bellezza. Il principe l’aveva aspettata, la prese per mano e ballò soltanto con lei. Quando la invitavano gli altri, diceva: “Questa è la mia ballerina.” La sera ella se ne andò e il principe la seguì per sapere dove abitasse; ma ella fuggì d’un balzo nell’orto dietro casa. Là c’era un bell’albero alto da cui pendevano magnifiche pere; svelta, ella vi si arrampicò e il principe non sapeva dove fosse sparita. Ma attese che arrivasse il padre e gli disse: “La fanciulla sconosciuta mi è sfuggita e credo che si sia arrampicata sul pero.” Il padre pensò: Che sia Cenerentola? Si fece portare l’ascia e abbatté‚ l’albero, ma sopra non vi era nessuno. E quando entrarono in cucina, Cenerentola giaceva come al solito sulla cenere: era saltata giù dall’altra parte dell’albero, aveva riportato le belle vesti all’uccello sul nocciolo, e aveva indossato la sua palandrana grigia.
Il terzo giorno, quando i genitori e le sorelle se ne furono andati, Cenerentola tornò alla tomba di sua madre e disse all’alberello:
“Scrollati pianta, stammi a sentire,
d’oro e d’argento mi devi coprire!”
Allora l’uccello le gettò un vestito così lussuoso come non ne aveva ancora veduti, e le scarpette erano tutte d’oro. Quando ella comparve a nozze, la gente non ebbe più parole per la meraviglia. Il principe ballò solo con lei; e se qualcuno la invitava, egli diceva: “E’ la mia ballerina.”
Quando fu sera Cenerentola se ne andò; il principe voleva accompagnarla ma ella gli sfuggì. Tuttavia perse la sua scarpetta sinistra, poiché‚ il principe aveva fatto spalmare tutta la scala di pece e la scarpa vi era rimasta appiccicata. Egli la prese e, con essa, si recò il giorno seguente dal padre di Cenerentola e disse: “Colei che potrà calzare questa scarpina d’oro sarà mia sposa.” Allora le due sorelle si rallegrarono perché‚ avevano un bel piedino. La maggiore andò con la scarpa in camera sua e voleva provarla davanti a sua madre. Ma la scarpa era troppo piccola e il dito grosso non le entrava; allora la madre le porse un coltello e disse: “Tagliati il dito: quando sarai regina non avrai più bisogno di andare a piedi.” La fanciulla si mozzò il dito, serrò il piede nella scarpa e andò dal principe. Egli la mise sul cavallo come sua sposa e partì con lei. Ma dovettero passare davanti alla tomba; sul nocciolo erano posate due colombelle che gridarono:
“Voltati e osserva la sposina:
ha del sangue nella scarpina,
per il suo piede è troppo stretta.
Ancor la sposa in casa t’aspetta.”
Allora egli le guardò il piede e ne vide sgorgare il sangue. Voltò il cavallo, riportò a casa la falsa sposa e disse: “Questa non è quella vera; l’altra sorella deve provare la scarpa.” Questa andò nella sua camera e riuscì a infilare le dita nella scarpa, ma il calcagno era troppo grosso. Allora la madre le porse un coltello e le disse: “Tagliati un pezzo di calcagno: quando sarai regina non avrai bisogno di andare a piedi.” La fanciulla si tagliò un pezzo di calcagno, serrò il piede nella scarpa e andò dal principe. Questi la mise sul cavallo come sposa e andò via con lei. Ma quando passarono davanti al nocciolo, le due colombelle gridarono:
“Voltati e osserva la sposina:
ha del sangue nella scarpina,
per il suo piede è troppo stretta.
Ancor la sposa in casa t’aspetta.”
Egli le guardò il piede e vide il sangue sgorgare dalla scarpa, sprizzando purpureo sulle calze bianche. Allora voltò il cavallo e riportò a casa la falsa sposa. “Questa non è quella vera,” disse. “Non avete un’altra figlia?” - “No,” rispose l’uomo, “c’è soltanto una piccola brutta Cenerentola della moglie che mi è morta: ma non può essere la sposa.” Il principe gli disse di mandarla a prendere, ma la matrigna rispose: “Ah no, è troppo sporca, non può farsi vedere.” Ma egli lo volle assolutamente e dovettero chiamare Cenerentola. Ella prima si lavò ben bene le mani e il viso, poi andò e si inchinò davanti al principe che le porse la scarpina d’oro. Allora ella si tolse dal piede il pesante zoccolo, l’infilò nella scarpetta e spinse un poco: le stava a pennello. E quando si alzò, egli la riconobbe e disse: “Questa è la vera sposa!” La matrigna e le due sorellastre si spaventarono e impallidirono dall’ira, ma egli mise Cenerentola sul cavallo e se ne andò con lei. Quando passarono davanti al nocciolo, le due colombelle bianche gridarono:
“Volgiti e guarda la sposina,
non c’è più sangue nella scarpina,
calza il piedino in modo perfetto.
Porta la sposa sotto il tuo tetto.”
E, dopo aver detto queste parole, scesero in volo e si posarono sulle spalle di Cenerentola, una a destra e l’altra a sinistra, e lì rimasero.
Quando stavano per essere celebrate le nozze con il principe, arrivarono le false sorellastre: esse volevano ingraziarsi Cenerentola e partecipare alla sua fortuna. All’entrata della chiesa, la maggiore si trovò a destra di Cenerentola, la minore alla sua sinistra. Allora le colombe cavarono un occhio a ciascuna. Poi, all’uscita, la maggiore era a sinistra e la minore a destra; e le colombe cavarono a ciascuna l’altro occhio. Così esse furono punite con la cecità per essere state false e malvagie.
FINE
L'indovinello
tempo: 6'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 022
C'era una volta una principessa superba che non sapeva più cosa inventare per appagare la sua alterigia. Infine giunse a bandire un proclama nel quale si diceva che colui che le avesse proposto un indovinello cui ella avesse saputo dare risposta, avrebbe perso la vita. Ma se ella non avesse saputo indovinare, sarebbe diventata sua sposa. La principessa era bella, bianca come il latte e rossa come il sangue, così che nessun pretendente temeva il pericolo, e uno dopo l'altro si presentavano con il loro indovinello, ma lei indovinava ogni volta. Ne aveva già mandati a morte nove, quando il figlio di un commerciante venne a sapere del proclama, e decise di tentare. Il suo servo, che era saggio, doveva accompagnarlo e dargli manforte. "Quattro occhi vedono meglio di due" pensava il giovane. "Ce la faremo, chi ben comincia è a metà dell'opera." La madre e il padre, però, quando seppero la notizia, ne furono molto addolorati perché‚ erano convinti che il loro amato figlio sarebbe morto; essi non volevano lasciarlo andare e dissero: -E' meglio che egli muoia e venga sepolto qui da noi che in terra straniera-. Così gli versarono del veleno nel bicchiere della staffa e dissero: -Caro figlio, bevi un'ultima volta con noi-. Ma il figlio sembrò capire le loro intenzioni perché‚ non volle bere, salì a cavallo e disse: -Addio, cari genitori, devo andare prima che un altro conquisti la principessa-. Allora essi gli porsero lo stesso il bicchiere per farlo bere a forza, ma egli diede di sprone al cavallo cosicché‚ il vino si rovesciò sull'animale e gli entrò nell'orecchio. Quando ebbero fatto un tratto di strada, il cavallo stramazzò a terra, così il giovane prese quello del servo e questi dovette seguirlo a piedi portando il fagotto sulle spalle. Dei corvi si posarono sul cadavere del cavallo per mangiarselo, ma siccome la carne era avvelenata, si avvelenarono anch'essi e caddero a terra. Tre di essi furono raccolti dal servo che li portò con s‚ in un'osteria e pensò: "Questo servirà da mangime per le canaglie". Li fece tagliare a piccoli pezzi e ne fece il ripieno di tre pagnotte. La mattina dopo si trovarono ad attraversare un bosco immersi nella nebbia fitta; all'improvviso saltarono fuori dodici malviventi che fermarono servo e padrone. Il servo disse: -Risparmiateci la vita; non abbiamo denaro, ma abbiamo tre pagnotte e ve le daremo-. I malviventi erano soddisfatti, presero i pani, li divisero fra loro e li mangiarono. Non passò molto tempo che il veleno li uccise ed essi caddero a terra. I due giunsero così in città e il giovane mercante si presentò alla principessa e disse che voleva proporle un indovinello. Gli fu accordato il permesso ed egli disse: -Al primo colpo uno, al secondo colpo tre, al terzo colpo dodici: come si spiega?-. La principessa rifletté‚, ma non seppe trovare la soluzione; consultò i suoi libri di indovinelli, ma non c'era. Siccome aveva tre giorni di tempo, la prima notte mandò la sua fantesca nella camera da letto dell'ospite: ella doveva origliare, se per caso nel sonno egli avesse parlato. Ma il servo accorto si era messo nel letto del padrone e quando la fantesca entrò le strappò l'abito che aveva addosso e la cacciò a vergate; l'abito invece lo nascose nel suo fagotto. La seconda notte, la principessa mandò la sua cameriera, ma il servo tolse il vestito anche a questa e la cacciò a vergate. La terza notte venne la principessa in persona che, avvolta in un abito grigio nebbia, si sedette accanto al letto del giovane. E, quando pensò che dormisse, gli rivolse la parola, sperando che rispondesse in sogno; invece egli era sveglio, udì e comprese ogni cosa. Ella chiese: -Al primo colpo uno: che cos'è?-. Egli rispose: -Il mio cavallo che morì per il veleno che gli colò nell'orecchio-. -Al secondo colpo tre: che cos'è?- -Tre corvi che mangiarono il cavallo avvelenato e per questo morirono.- -Al terzo colpo dodici: che cos'è?- -Dodici malviventi che mangiarono i corvi avvelenati, sminuzzati dentro tre pani, e per questo morirono.- Spiegato l'indovinello, la principessa voleva svignarsela, ma egli le trattenne l'abito che ella dovette abbandonare. La mattina seguente ella annunciò: -Ho risolto l'enigma-. Fece chiamare i dodici giudici e lo spiegò. Ma il giovane chiese udienza davanti a loro e disse: -Se ella non fosse entrata di notte nella mia camera e non mi avesse interrogato, non l'avrebbe risolto-. I giudici gli risposero: -Portaci delle prove-. Allora il servo mostrò i tre abiti e quando i giudici riconobbero quello grigio nebbia, dissero: -Fatelo ricamare!-. Così l'abito fu ricamato per le nozze e la principessa fu data al giovane in sposa.
FINE
Il topino, l'uccellino e la salsiccia
tempo: 4'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 023
Una volta un topino, un uccellino e una salsiccia si erano associati e governavano insieme la casa. Vissero a lungo felici e in buon’armonia facendo prosperare il loro patrimonio. Compito dell’uccellino era di volare ogni giorno nella foresta e di procurare legna. Il topino doveva portare acqua, accendere il fuoco, preparare il tavolo, mentre la salsiccia doveva cucinare.
Chi sta troppo bene, ha sempre voglia di qualcosa di nuovo! Così un giorno l’uccellino incontrò per via un altro uccello con il quale si vantò della sua felice condizione. Ma l’altro lo trattò da povero babbeo che faceva i lavori pesanti, mentre gli altri due a casa si davano buon tempo: il sorcio, una volta acceso il fuoco e portata l’acqua, andava a riposarsi nella sua cameretta finché‚ gli ordinavano di preparare la tavola; la salsiccia stava ai fornelli, badava che il cibo cuocesse bene e, verso l’ora di pranzo, si rotolava due o tre volte nel purè o nella verdura, e il cibo era bell’e pronto, condito e salato. Quando l’uccellino rincasava e deponeva il suo fardello, si mettevano a tavola e, dopo aver cenato, dormivano a pancia piena fino al mattino: una vita splendida.
Il giorno dopo l’uccellino, istigato, non volle più andare a procurare la legna, dicendo che aveva fatto il servo abbastanza e quasi era stato il loro buffone: si doveva cambiare per una volta e provare in altro modo. E, per quanto il sorcio e la salsiccia lo supplicassero, l’uccello ebbe la meglio: si doveva cambiare e tirarono a sorte: alla salsiccia toccò andare a prendere la legna, il sorcio diventò cuoco e l’uccello doveva portare l’acqua.
E che cosa avvenne? La salsiccetta se ne andò a far legna, l’uccellino accese il fuoco, il sorcio preparò la pentola, e aspettavano soltanto che la salsiccetta tornasse con la legna per il giorno dopo. Ma questa tardava tanto che gli altri due si impensierirono e l’uccellino le volò incontro per un tratto. Ma, poco lontano, ecco venire per la strada un cane che, trovata nella povera salsiccetta una facile preda, l’aveva afferrata e uccisa. L’uccellino protestò con veemenza per palese rapina, ma invano: il cane disse infatti di aver sorpreso la salsiccia con dei documenti falsi e, per questo, essa aveva dovuto pagare con la vita.
L’uccellino raccolse tristemente la legna e, a casa, raccontò ciò che aveva visto e udito. Erano molto afflitti, ma convennero di fare del loro meglio e di rimanere insieme. Perciò l’uccellino preparò la tavola e il sorcio il pranzo, ma al momento di servirlo volle, come già la salsiccetta, rotolarsi e guizzare tra la verdura per condirla; ma non c’era ancora in mezzo che s’impigliò e ci lasciò la pelle, il pelo e anche la vita.
Quando l’uccellino venne per mettere in tavola, il cuoco non c’era più. Costernato, l’uccellino buttò all’aria la legna, chiamò e cercò ma non pot‚ più trovarlo. Per inavvertenza la legna prese fuoco e scoppiò un incendio; l’uccellino corse a prendere acqua, ma il secchio gli cadde nel pozzo ed egli cadde con il secchio, cosicché‚ non riuscì più a venire a galla e affogò.
FINE
Madama Holle
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 024
Una vedova aveva due figlie, una bella e laboriosa, l'altra brutta e pigra. Ma ella preferiva di gran lunga quest'ultima, perché‚ era la sua vera figlia, e all'altra toccava tutto il lavoro come alla Cenerentola di casa. Ella doveva sedere ogni giorno accanto a una fontana, sulla strada maestra, e filare finché‚ le sprizzava il sangue dalle dita. Un giorno che la conocchia era tutta insanguinata, ella si chinò sulla fonte per lavarla; ma la conocchia le sfuggì di mano e le cadde in acqua. Piangendo corse dalla matrigna e le raccontò la disgrazia, ma quella la rimproverò aspramente e le disse con durezza: “Se hai lasciato cadere la conocchia, va' a ripescarla!” Allora la fanciulla ritornò alla fontana e non sapeva che fare, così, nell'affanno, ci saltò dentro. Quando ritornò in s‚, si trovò in un bel prato dove splendeva il sole e c'erano fiori a migliaia. S'incamminò per il prato e giunse a un forno pieno di pane; ma il pane gridò: “Ah, tirami fuori, tirami fuori, altrimenti brucio! Sono cotto da un pezzo!” Allora ella si accostò e tirò fuori i pani. Poi andò avanti e giunse a un albero carico di mele che le gridò: “Ah, scuotimi, scuotimi! noi mele siamo tutte mature!” Ella scosse l'albero e cadde una pioggia di mele, e continuò a scuotere finché‚ sulla pianta non ne rimase nessuna, poi proseguì la sua strada. Finalmente arrivò a una casetta da cui spiava una vecchia con dei denti così lunghi che ella s'impaurì e voleva fuggire. Ma la vecchia le gridò: “Non aver paura, cara bambina, resta con me; se sbrigherai per bene tutte le faccende di casa, ti troverai contenta. Devi soltanto badare a rifarmi bene il letto e a sprimacciarlo con cura di modo che le piume volino. Allora sulla terra nevicherà. Io sono Madama Holle.” La vecchia le parlava con tanta bontà che la fanciulla accettò la proposta ed entrò al suo servizio. Provvedeva a ogni cosa con soddisfazione della padrona e le sprimacciava sempre il letto con molta energia. Perciò ella viveva bene con la vecchia: mai una parola aspra e tutti i giorni lesso e arrosto. Rimase con Madama Holle per un certo periodo di tempo, poi il suo cuore si fece triste e, anche se lì stava mille volte meglio che a casa, provava tuttavia desiderio di tornarvi. Finalmente disse alla vecchia: “Sento nostalgia di casa mia e, anche se qui sto tanto bene, non posso rimanere.” Madama Holle disse: “Hai ragione, e poiché‚ mi hai servita così fedelmente, ti riporterò su io stessa.” La prese per mano e la condusse davanti a un grosso portone. Il portone fu aperto e, mentre la fanciulla era là sotto, cadde una gran pioggia d'oro, e l'oro le rimase attaccato e la ricoprì tutta. “Te lo sei meritato perché‚ sei stata così diligente,” disse Madama Holle, e le rese anche la conocchia che le era caduta nella fontana. Poi il portone fu chiuso e la fanciulla si trovò sulla terra non lontano dalla casa di sua madre; e quando entrò nel cortile, il gallo sul pozzo strillò:
“Chicchirichì!
La nostra bimba d'oro è ancora qui!”
Poi andò dalla madre e, poiché‚ si presentò tutta ricoperta d'oro, fu accolta benevolmente.
Quando la madre udì come si fosse guadagnata quella gran ricchezza, volle procurare la stessa fortuna all'altra figlia brutta e pigra. Anch'essa dovette sedersi accanto alla fonte e filare; e, per insanguinare la conocchia, si punse le dita cacciando la mano fra i rovi. Poi buttò la conocchia nella fonte e ci saltò dentro anche lei. Si trovò, come la sorella, sul bel prato, e seguì il medesimo sentiero. Quando giunse al forno, il pane gridò di nuovo: “Ah, tirami fuori, tirami fuori, se no brucio! Sono cotto da un pezzo!” Ma la pigrona rispose: “Come se avessi voglia di insudiciarmi!” e proseguì. Poi giunse al melo che gridò: “Ah, scuotimi, scuotimi! Noi mele siamo tutte mature!” Ma ella rispose: “Per l'appunto: potrebbe cadermene una in testa!” e proseguì per la sua strada. Quando giunse davanti alla casa di Madama Holle, non ebbe paura perché‚ già sapeva dei suoi dentoni, ed entrò subito a servizio da lei. Il primo giorno si sforzò di essere diligente, e obbedì a Madama Holle se questa le diceva qualcosa, perché‚ pensava a tutto l'oro che le avrebbe regalato; ma il secondo giorno incominciò già a poltrire e il terzo ancora di più: non voleva più alzarsi la mattina, faceva male il letto di Madama Holle e non lo scuoteva bene da far volare le piume. Madama Holle se ne stancò presto e la licenziò. La ragazza era ben contenta perché‚ si aspettava la pioggia d'oro. Madama Holle condusse anche lei al portone ma, quando la ragazza fu là sotto, invece dell'oro le rovesciò addosso un gran paiolo di pece. “Questo è il ringraziamento per i tuoi servigi,” disse Madama Holle, e chiuse il portone. Allora la pigrona arrivò a casa tutta coperta di pece e non riuscì più a liberarsene per tutta la vita. E il gallo sul pozzo, al vederla, gridò:
“Chicchirichì!
La nostra bimba sporca è ancora qui!”
E la pece le resto attaccata addosso e non volle andarsene finche visse.
FINE
I sette corvi
tempo: 6'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 025
Un uomo aveva sette figli maschi e neanche una bimba, per quanto la desiderasse. Finalmente la moglie si trovò a essere di nuovo incinta e diede alla luce una femmina. Tuttavia, anche se molto bella, ella era piccola e gracile e tanto debole che dovettero battezzarla subito. Il padre inviò di fretta uno dei ragazzi alla fonte a prendere l'acqua per il battesimo, ma anche gli altri sei corsero con lui. E siccome ciascuno voleva essere il primo a attingere l'acqua, la brocca cadde loro nella fonte. Allora se ne stettero là confusi, senza sapere cosa fare, e nessuno osava ritornare a casa. Nel frattempo il padre temeva che la bimba morisse senza battesimo, e non capiva perché‚ i ragazzi tardassero tanto. -Sicuramente- diss'egli -si saranno persi dietro a un qualche gioco!- e siccome continuavano a non venire, adirato, inveì dicendo: -Vorrei che diventassero tutti corvi!-. Aveva appena pronunciato queste parole che udì un frullio nell'aria, sopra il suo capo: alzò lo sguardo e vide sette corvi, neri come il carbone, alzarsi in volo e sparire. I genitori non poterono più ritrattare la maledizione e, per quanto fossero tristi per la perdita dei loro sette figli, si consolarono tuttavia in qualche modo con la loro cara figlioletta che riacquistò ben presto le forze, facendosi ogni giorno più bella. Per lungo tempo ella non seppe neppure di avere avuto dei fratelli, perché‚ i genitori si guardavano dal farne cenno davanti a lei; finché‚ un giorno sentì dire per caso che sì, era bella, ma in fondo era responsabile della sventura toccata ai suoi sette fratelli. La fanciulla ne fu molto afflitta, andò dal padre e dalla madre e domandò se avesse avuto dei fratelli e dove fossero finiti. I genitori, così, non poterono più nasconderle il segreto, ma dissero che si trattava della volontà celeste, e che la sua nascita non era stata che l'innocente pretesto. Ma la fanciulla se lo rimproverava ogni giorno, ed era fermamente convinta di dover liberare i suoi fratelli. Non ebbe pace n‚ tregua, finché‚ un giorno partì di nascosto e se ne andò in giro per il mondo alla ricerca dei suoi fratelli per liberarli a qualunque costo. Non prese altro con s‚ che un anellino dei suoi genitori, un tozzo di pane per la fame, una brocchetta d'acqua per la sete, e una seggiolina per la stanchezza. Cammina cammina, arrivò ai confini del mondo. Andò al sole, ma era troppo caldo e spaventoso e divorava i bambini piccoli. Scappò in fretta e andò dalla luna, ma era troppo fredda e anche lei crudele e cattiva e, quando si accorse della bambina, disse: -Sento odore, sento odore di carne umana!-. Ella allora corse via in fretta e andò dalle stelle, ed esse furono gentili e buone con lei, sedute ciascuna sulla propria seggiolina. La stella mattutina si alzò, le diede un ossicino di pollo e disse: -Senza quest'ossicino non puoi aprire il monte di vetro dove sono i tuoi fratelli-. La fanciulla prese l'ossicino, lo avvolse per bene in un fazzoletto e camminò finché‚ giunse al monte di vetro. Il portone era chiuso ed ella volle prendere l'ossicino; aprì il fazzoletto, ma ecco che era vuoto: aveva perduto il dono delle buone stelle. Che fare? Voleva salvare i suoi fratelli e non aveva la chiave per il monte di vetro. La buona sorellina prese allora un coltello, si tagliò il dito mignolo, lo mise nella serratura e aprì facilmente la porta. Appena fu entrata le andò incontro un nano che disse: -Bimba mia, che cerchi?-. -Cerco i miei fratelli, i sette corvi- rispose ella. Il nano disse: -I signori corvi non sono in casa, ma se vuoi aspettare finché‚ tornano, entra pure-. Poi il nano portò la cena dei sette corvi su sette piattini e in sette bicchierini, ed ella mangiò una briciola da ciascun piattino e bevve un piccolo sorso da ciascun bicchierino; nell'ultimo invece lasciò cadere l'anello che aveva portato con s‚. D'un tratto udì un frullo e nell'aria passò come un soffio di vento, e il nano disse: -I signori corvi tornano a casa!-. Essi entrarono, volevano bere e mangiare e cercarono i loro piattini e i loro bicchierini. Allora, uno dopo l'altro, dissero: -Chi ha mangiato dal mio piattino? Chi ha bevuto dal mio bicchierino? E' stata una bocca umana!-. E quando il settimo giunse al fondo del bicchiere, l'anellino gli rotolò giù. Guardandolo si accorse che era un anello dei genitori e disse: -Volesse Iddio che la nostra sorellina fosse qua! Saremmo liberati-. Udite queste parole, la fanciulla, che stava a sentire dietro la porta, si fece avanti, e tutti i corvi riacquistarono figura umana. Si abbracciarono, si baciarono e ritornarono felicemente a casa.
FINE
Cappuccetto Rosso
tempo: 9'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 026
C’era una volta una dolce bimbetta; solo a vederla le volevan tutti bene, e specialmente la nonna che non sapeva più che cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso, e poiché‚ le donava tanto, ed ella non voleva portare altro, la chiamarono sempre Cappuccetto Rosso. Un giorno sua madre le disse: “Vieni, Cappuccetto Rosso, eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna; è debole e malata e si ristorerà. Sii gentile, salutala per me, e va’ da brava senza uscire di strada, se no cadi, rompi la bottiglia e la nonna resta a mani vuote.”
“Sì, farò tutto per bene,” promise Cappuccetto Rosso alla mamma, e le diede la mano. Ma la nonna abitava fuori, nel bosco, a una mezz’ora dal villaggio. Quando Cappuccetto Rosso giunse nel bosco, incontrò il lupo, ma non sapeva che fosse una bestia tanto cattiva e non ebbe paura. “Buon giorno, Cappuccetto Rosso,” disse questo. “Grazie, lupo.” - “Dove vai così presto, Cappuccetto Rosso?” - “Dalla nonna.” - “Che cos’hai sotto il grembiule?” - “Vino e focaccia per la nonna debole e vecchia; ieri abbiamo cotto il pane, così la rinforzerà!” - “Dove abita la tua nonna, Cappuccetto Rosso?” - “A un buon quarto d’ora da qui, nel bosco, sotto le tre grosse querce; là c’è la sua casa, è sotto la macchia di noccioli, lo saprai già,” disse Cappuccetto Rosso. Il lupo pensò fra s’: Questa bimba tenerella è un buon boccone prelibato per te, devi far in modo di acchiapparla. Fece un pezzetto di strada con Cappuccetto Rosso, poi disse: “Guarda un po’ quanti bei fiori ci sono nel bosco, Cappuccetto Rosso; perché‚ non ti guardi attorno? Credo che tu non senta neppure come cantano dolcemente gli uccellini! Te ne stai tutta seria come se andassi a scuola, ed è così allegro nel bosco!”
Cappuccetto Rosso alzò gli occhi e quando vide i raggi del sole filtrare attraverso gli alberi, e tutto intorno pieno di bei fiori, pensò: Se porto alla nonna un mazzo di fiori, le farà piacere; è così presto che arrivo ancora in tempo. E corse nel bosco in cerca di fiori. E quando ne aveva colto uno, credeva che più in là ce ne fosse uno ancora più bello, correva lì e così si addentrava sempre più nel bosco. Il lupo invece andò dritto alla casa della nonna e bussò alla porta. “Chi è?” - “Cappuccetto Rosso, ti porto vino e focaccia; aprimi.” - “Non hai che da alzare il saliscendi,” gridò la nonna, “io sono troppo debole e non posso alzarmi.” Il lupo alzò il saliscendi, entrò, e senza dir motto andò dritto al letto della nonna e la inghiottì. Poi indossò i suoi vestiti e la cuffia, si coricò nel letto, e tirò le cortine.
Ma Cappuccetto Rosso aveva girato in cerca di fiori, e quando ne ebbe raccolti tanti che più non ne poteva portare, si ricordò della nonna e si mise in cammino per andare da lei. Quando giunse si meravigliò che la porta fosse spalancata, ed entrando nella stanza ebbe un’impressione così strana che pensò: “Oh, Dio mio, che paura oggi! e dire che di solito sto così volentieri con la nonna!” Allora si avvicinò al letto e scostò le cortine: la nonna era coricata con la cuffia abbassata sulla faccia, e aveva un aspetto strano. “Oh, nonna, che orecchie grandi!” - “Per sentirti meglio.” - “Oh, nonna, che occhi grossi!” - “Per vederti meglio.” - “Oh, nonna, che mani grandi!” - “Per afferrarti meglio.” - “Ma, nonna, che bocca spaventosa!” - “Per divorarti meglio!” E come ebbe detto queste parole, il lupo balzò dal letto e ingoiò la povera Cappuccetto Rosso.
Poi, con la pancia bella piena, si rimise a letto, s’addormentò e incominciò a russare sonoramente. Proprio allora passò lì davanti il cacciatore e pensò fra s’: “Come russa la vecchia! devi darle un’occhiata se ha bisogno di qualcosa.” Entrò nella stanza e avvicinandosi al letto vide il lupo che egli cercava da tempo. Stava per puntare lo schioppo quando gli venne in mente che forse il lupo aveva ingoiato la nonna e che poteva ancora salvarla. Così non sparò, ma prese un paio di forbici e aprì la pancia del lupo addormentato. Dopo due tagli vide brillare il cappuccetto rosso, e dopo altri due la bambina saltò fuori gridando: “Che paura ho avuto! Era così buio nella pancia del lupo!” Poi venne fuori anche la nonna ancora viva. E Cappuccetto Rosso andò prendere dei gran pietroni con cui riempirono il ventre del lupo; quando egli si svegliò fece per correr via, ma le pietre erano così pesanti che subito cadde a terra e morì.
Erano contenti tutti e tre: il cacciatore prese la pelle del lupo, la nonna mangiò la focaccia e bevve il vino che le aveva portato Cappuccetto Rosso; e Cappuccetto Rosso pensava fra s’: “Mai più correrai sola nel bosco, lontano dal sentiero, quando la mamma te lo ha proibito.”
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Raccontano pure che una volta Cappuccetto Rosso portava di nuovo una focaccia alla vecchia nonna, e un altro lupo le aveva rivolto la parola, cercando di convincerla a deviare dal sentiero Ma Cappuccetto Rosso se ne guardò bene, andò dritta per la sua strada e disse alla nonna di aver visto il lupo che l’aveva salutata, guardandola però con occhi feroci: “Se non fossimo stati sulla pubblica via, mi avrebbe mangiata!” - “Vieni,” disse la nonna, “chiudiamo la porta perché‚ non entri.” Poco dopo il lupo bussò e disse: “Apri, nonna, sono Cappuccetto Rosso, ti porto la focaccia.” Ma quelle, zitte, non aprirono; allora il malvagio gironzolò un po’ intorno alla casa e alla fine saltò sul tetto per aspettare che Cappuccetto Rosso, a sera, prendesse la via del ritorno: voleva seguirla di soppiatto per mangiarsela al buio. Ma la nonna capì le sue intenzioni. Davanti alla casa c’era un grosso trogolo di pietra, ed ella disse alla bambina: “Prendi il secchio, Cappuccetto Rosso; ieri ho cotto le salsicce, porta nel trogolo l’acqua dove han bollito.” Cappuccetto Rosso portò tanta acqua, finché‚ il grosso trogolo fu ben pieno. Allora il profumo delle salsicce salì alle nari del lupo; egli si mise a fiutare e a sbirciare giù, e alla fine allungò tanto il collo che non pot‚ più trattenersi e incominciò a scivolare: scivolò dal tetto proprio nel grosso trogolo e affogò. Invece Cappuccetto Rosso tornò a casa tutta allegra e nessuno le fece del male.
FINE
I musicanti di Brema
tempo: 9'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 027
Un uomo aveva un asino che lo aveva servito assiduamente per molti anni; ma ora le forze lo abbandonavano e di giorno in giorno diveniva sempre più incapace di lavorare. Allora il padrone pensò di toglierlo di mezzo, ma l’asino si accorse che non tirava buon vento, scappò e prese la via di Brema: là, pensava, avrebbe potuto fare parte della banda municipale. Dopo aver camminato un po’, trovò un cane da caccia che giaceva sulla strada, ansando come uno sfinito dalla corsa. “Perché‚ soffi così?” domandò l’asino. “Ah,” rispose il cane, “siccome sono vecchio e divento ogni giorno più debole e non posso più andare a caccia, il mio padrone voleva accopparmi, e allora me la sono data a gambe; ma adesso come farò a guadagnarmi il pane?” - “Sai?” disse l’asino. “Io vado a Brema a fare il musicante, vieni anche tu e fatti assumere nella banda.” Il cane era d’accordo e andarono avanti. Poco dopo trovarono per strada un gatto dall’aspetto molto afflitto. “Ti è andato storto qualcosa?” domandò l’asino. “Come si fa a essere allegri se ne va di mezzo la pelle? Dato che invecchio, i miei denti si smussano e preferisco starmene a fare le fusa accanto alla stufa invece di dare la caccia ai topi, la mia padrona ha tentato di annegarmi; l’ho scampata, è vero, ma adesso è un bel pasticcio: dove andrò?” - “Vieni con noi a Brema: ti intendi di serenate, puoi entrare nella banda municipale.” Il gatto acconsentì e andò con loro. Poi i tre fuggiaschi passarono davanti a un cortile; sul portone c’era il gallo del pollaio che strillava a più non posso. “Strilli da rompere i timpani,” disse l’asino, “che ti piglia?” - “Ho annunciato il bel tempo,” rispose il gallo, “perché‚ è il giorno in cui la Madonna ha lavato le camicine a Gesù Bambino e vuol farle asciugare; ma domani, che è festa, verranno ospiti, e la padrona di casa, senza nessuna pietà, ha detto alla cuoca che vuole mangiarmi lesso, così questa sera devo lasciarmi tagliare il collo. E io grido a squarciagola finché‚ posso.” - “Macché‚ Cresta rossa,” disse l’asino, “vieni piuttosto con noi, andiamo a Brema; qualcosa meglio della morte lo trovi dappertutto; tu hai una bella voce e, se faremo della musica tutti insieme, sarà una bellezza!” Al gallo piacque la proposta e se ne andarono tutti e quattro.
Ma non potevano raggiungere Brema in un giorno e la sera giunsero in un bosco dove si apprestarono a passare la notte. L’asino e il cane si sdraiarono sotto un albero alto, mentre il gatto e il gallo salirono sui rami, ma il gallo volò fino in cima, dov’egli era più al sicuro. Prima di addormentarsi guardò ancora una volta in tutte le direzioni, e gli parve di vedere in lontananza una piccola luce, così gridò ai compagni che, non molto distante, doveva esserci una casa poiché‚ splendeva un lume. Allora l’asino disse: “Mettiamoci in cammino e andiamo, perché‚ qui l’alloggio è cattivo.” E il cane aggiunse: “Sì, un paio d’ossa e un po’ di carne mi andrebbero anche bene!” Perciò si avviarono verso la zona da cui proveniva la luce e, ben presto, la videro brillare più chiara e sempre più grande, finché‚ giunsero davanti a una casa bene illuminata dove abitavano i briganti. L’asino, che era il più alto, si avvicinò alla finestra e guardò dentro. “Cosa vedi, testa grigia?” domandò il gallo. “Cosa vedo?” rispose l’asino. “Una tavola apparecchiata con ogni ben di Dio e attorno i briganti che se la spassano.” - “Farebbe proprio al caso nostro,” disse il gallo. “Sì, sì; ah, se fossimo là dentro!” esclamò l’asino. Allora gli animali tennero consiglio sul modo di cacciar fuori i briganti, e alla fine trovarono il sistema. L’asino dovette appoggiarsi alla finestra con le zampe davanti, il cane saltare sul dorso dell’asino, il gatto arrampicarsi sul cane, e infine il gallo si alzò in volo e si posò sulla testa del gatto. Fatto questo, a un dato segnale incominciarono tutti insieme il loro concerto: l’asino ragliava, il cane abbaiava, il gatto miagolava e il gallo cantava; poi dalla finestra piombarono nella stanza facendo andare in pezzi i vetri. I briganti, spaventati da quell’orrendo schiamazzo, credettero che fosse entrato uno spettro e fuggirono atterriti nel bosco. I quattro compagni sedettero a tavola, si accontentarono di quello che era rimasto e mangiarono come se dovessero patir la fame per un mese.
Quando ebbero finito, i quattro musicisti spensero la luce e si cercarono un posto per dormire comodamente, ciascuno secondo la propria natura. L’asino si sdraiò sul letamaio, il cane dietro la porta, il gatto sulla cenere calda del camino e il gallo si posò sulla trave maestra; e poiché‚ erano tanto stanchi per il lungo cammino, si addormentarono subito. Passata la mezzanotte, i briganti videro da lontano che in casa non ardeva più nessun lume e tutto sembrava tranquillo; allora il capo disse: “Non avremmo dovuto lasciarci impaurire” e mandò uno a ispezionare la casa. Costui trovò tutto tranquillo andò in cucina ad accendere un lume e, scambiando gli occhi sfavillanti del gatto per carboni ardenti, vi accostò uno zolfanello perché‚ prendesse fuoco. Ma il gatto se n’ebbe a male e gli saltò in faccia, sputando e graffiando. Il brigante si spaventò a morte e tentò di fuggire dalla porta sul retro, ma là era sdraiato il cane che saltò su e lo morse a una gamba; e quando attraversò dl corsa il cortile, passando davanti al letamaio, l’asino gli diede un bel calcio con la zampa di dietro; e il gallo, che si era svegliato per il baccano, strillò tutto arzillo dalla sua trave: “Chicchiricchì!” Allora il brigante tornò dal suo capo correndo a più non posso e disse: “Ah, in casa c’è un’orribile strega che mi ha soffiato addosso e mi ha graffiato la faccia con le sue unghiacce e sulla porta c’è un uomo con un coltello che mi ha ferito alla gamba; e nel cortile c’è un mostro nero che mi si è scagliato contro con una mazza di legno; e in cima al tetto il giudice gridava: ‘Portatemi quel furfante!’ Allora me la sono data a gambe!” Da quel giorno i briganti non si arrischiarono più a ritornare nella casa, ma i quattro musicanti di Brema ci stavano così bene che non vollero andarsene. E a chi per ultimo l’ha raccontata ancor la bocca non s’è freddata.
FINE
L'osso che canta
tempo: 5'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 028
In una gran foresta si aggirava un cinghiale che sconvolgeva campi, uccideva il bestiame e azzannava e sbranava gli uomini. Nessuno si avventurava più nei pressi del bosco, poiché‚ l'animale era diventato un vero flagello per il paese. Il re promise una ricompensa, ma tutti coloro che provarono a catturarlo o ucciderlo perirono miseramente, sicché‚ più nessuno era tanto audace da accettare la rischiosa impresa. Infine il re rese noto che colui che avesse abbattuto il cinghiale avrebbe avuto la sua unica figlia in isposa. Da tutto il regno si fecero avanti solo due fratelli, figli di un pover'uomo: il maggiore, accorto e astuto, lo faceva per superbia; il minore, innocente e sciocco, per buon cuore. Il re li fece entrare nel bosco da due punti diversi, dai quali essi dovevano tentare la loro fortuna. Il maggiore entrò da nord e il minore da sud. Come questi fu nel bosco incontrò un omettino che teneva in mano una lancia nera e disse: -Vedi, con questa lancia puoi assalire e uccidere il cinghiale senza timore; te la do perché‚ il tuo cuore è buono-. Il giovane, prese l'arma, ringraziò l'omino e proseguì fiducioso il cammino. Poco dopo scorse l'animale che gli si scagliò contro inferocito; ma egli gli oppose lo spiedo e, nella sua cieca furia, quello vi si precipitò addosso con tanta violenza che ne ebbe il cuore spaccato. Allora il giovane si mise la preda sulle spalle e, tutto contento, prese la via del ritorno per portarla al re. L'altro fratello, strada facendo, aveva incontrato una casa dove la gente si divertiva bevendo e ballando. Era entrato pensando: "Il cinghiale non ti sfuggirà, prima fatti coraggio con una bella bevuta!". Intanto il più giovane, uscendo dal bosco, passò lì davanti e quando il fratello lo vide, carico della preda, divenne invidioso e pensò al modo di nuocergli. Allora gridò -Vieni, caro fratello, riposati un po' e ristorati con un bicchiere di vino-. L'altro, che nella sua ingenuità non sospettava nulla di male, entrò e gli raccontò come era andata e che aveva ucciso il cinghiale con una lancia nera. Il maggiore lo trattenne fino a sera, poi se ne andarono insieme. Era buio quando arrivarono a un ponte su di un ruscello; il maggiore mandò avanti l'altro e quando furono a metà del ponte lo colpì, facendolo precipitare morto. Poi lo seppellì sotto al ponte, prese il cinghiale e lo portò al re, dando a intendere di averlo ucciso lui; e così ebbe la principessa in isposa. Poiché‚ il fratello minore non faceva ritorno, egli disse: -Il cinghiale lo avrà sbranato-. E tutti gli credettero. Ma nulla rimane nascosto davanti a Dio, così anche questo misfatto doveva venire alla luce. Un giorno, dopo molti anni, un pastore, facendo passare il suo gregge sul ponte, vide giù, fra la sabbia, un ossicino bianco come la neve e pensò di farne un bel bocchino. Scese, lo raccolse, e intagliò un bocchino per il suo corno. Ma la prima volta che si mise a suonare, con sua gran meraviglia l'ossicino cominciò a cantare da solo:-Ah pastorello, nel mio osso hai soffiato, è proprio mio fratello colui che mi ha ammazzato! E in questo ruscello dopo mi sotterrò, il cinghiale al re portò e sua figlia si sposò.--Che strano corno- disse il pastore -canta da solo!- e, pur non comprendendo il significato delle parole, lo portò al re. Allora l'ossicino ricominciò a cantare la sua arietta. Il re la capì benissimo e fece scavare sotto il ponte, dove comparve tutto lo scheletro dell'ucciso. Il fratello cattivo non pot‚ negare il delitto; fu gettato in acqua e annegato; le ossa della vittima, invece, ebbero riposo in una bella tomba al cimitero.
FINE
I tre capelli d'oro del diavolo
tempo: 16'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 029
C’era una volta una povera donna che diede alla luce un maschietto: e poiché‚ il neonato aveva indosso la camicia della fortuna, gli predissero che a quattordici anni avrebbe sposato la figlia del re. Dopo pochi giorni il re in persona giunse nel villaggio e, senza farsi riconoscere, domandò che cosa vi fosse di nuovo. “Oh,” gli risposero, “è nato un bambino con la camicia della fortuna: a quattordici anni sposerà la figlia del re.” Al re la notizia non piacque, così andò dai poveri genitori e domandò se volessero vendergli il loro bambino. Dapprima questi rifiutarono, ma poi, siccome lo sconosciuto insisteva tanto offrendo oro in quantità e loro non avevano neanche il pane quotidiano, finirono con l’accettare e pensarono: E’ un figlio della fortuna, non gli mancherà nulla.
Il re prese il bambino, lo mise in una scatola e prosegui a cavallo, finché‚ giunse a un corso d’acqua profonda; vi gettò dentro la scatola e pensava: “Così non diventerà il marito di mia figlia.” Ma la scatola galleggiò e, per grazia di Dio, non vi entrò neanche una goccia. Fu trascinata dalla corrente fino a un mulino, a due miglia dalla capitale, e là s’impigliò nella diga. Il garzone del mugnaio la vide e la tirò a riva con un uncino; pensava di trovarci dentro del denaro, tanto era pesante, invece, quando l’aprì, trovò un bel bambino allegro e vispo. Il mugnaio e sua moglie non avevano figli, perciò furono contenti, e dissero: “E’ un dono di Dio.” Così ebbero cura del trovatello, e questi crebbe pieno di virtù.
Quando furono trascorsi circa tredici anni, un giorno il re capitò per caso al mulino e domandò ai mugnai se quel ragazzo fosse loro figlio. “No,” risposero questi. “Il garzone lo ha trovato in una scatola che era arrivata galleggiando fino alla diga.” - “Quanti anni fa è successo?” domandò il re. “Circa tredici anni fa.” - “Sentite,” egli proseguì, “il ragazzo non potrebbe portare una lettera a Sua Maestà la regina? Mi renderebbe un gran servizio e, per questo, sarei disposto a ricompensarlo con due monete d’oro.” - “Come comanda Sua Maestà,” disse il mugnaio. Ma il re, accortosi che era proprio quel figlio della fortuna, scrisse una lettera alla regina nella quale si diceva: “Appena arriverà il ragazzo con questo scritto, sia ucciso e seppellito, e tutto ciò sia fatto prima del mio ritorno.”
Il ragazzo s’incamminò con la lettera, ma si smarrì e la sera si trovò in una gran foresta. Nell’oscurità vide un lumino, vi si diresse e giunse a una casetta. Dentro non vi era altri che una vecchia che si spaventò nel vederlo entrare e disse: “Donde vieni e dove vai?” - “Vado da Sua Maestà la regina; le devo portare una lettera, ma mi sono smarrito e vorrei pernottare qui.” - “Povero ragazzo,” disse la donna, “sei capitato in una casa di briganti, quando saranno di ritorno ti uccideranno.” - “Sono così stanco che non ce la faccio a proseguire,” rispose egli. Mise la lettera sul tavolo, si sdraiò su di una panca e si addormentò. Quando rientrarono i briganti e lo videro, domandarono chi fosse lo sconosciuto. “L’ho accolto per compassione,” disse la vecchia, “deve portare una lettera alla regina e si è smarrito.” I briganti presero la lettera, l’aprirono e lessero che il ragazzo doveva essere ucciso. Allora il capobanda la stracciò e ne scrisse un’altra dove si diceva che il ragazzo, al suo arrivo, doveva sposare la figlia del re. Poi lo lasciarono riposare fino al mattino, quindi gli diedero la lettera e gli indicarono il cammino per arrivare dalla regina. Non appena ebbe letto il messaggio, questa fece preparare le nozze, e poiché‚ il figlio della fortuna era di bell’aspetto, la figlia del re lo prese volentieri come marito, ed essi vissero felici insieme.
Qualche tempo dopo il re fece ritorno al castello, e quando vide che la profezia si era avverata e che il figlio della fortuna era sposo di sua figlia, domandò, sbigottito: “Come sono andate le cose? Che ho scritto nella lettera?” - “Caro marito,” disse la regina, “qui c’è la tua lettera, leggila tu stesso.” Il re lesse e capì subito che era stata scambiata e domandò al giovane che ne fosse stato dello scritto che gli aveva consegnato. “Non ne so nulla,” rispose, “devono avermela scambiata mentre dormivo.” Ma il re incollerito disse: “No, così non va! Chi vuole mia figlia deve riportarmi dall’inferno i tre capelli d’oro del diavolo; se me li porti potrai tenerti mia figlia.” - “Li avrò,” rispose il figlio della fortuna. Si accomiatò da sua moglie e incominciò il suo viaggio.
Arrivò a una gran città; sulla porta la sentinella gli chiese quale fosse il suo mestiere e che cosa sapesse. “So tutto” rispose il figlio della fortuna. “Dicci allora, per favore,” replicò la sentinella, “perché‚ la fontana della piazza, da cui di solito sgorgava vino, ora non dà più nemmeno acqua. Se ce lo dici, ti daremo in ricompensa due asini carichi d’oro.” - “Volentieri,” rispose il giovane, “aspettate ch’io torni.” Proseguì e giunse davanti a un’altra città: e anche questa volta la sentinella gli chiese: “Qual è il tuo mestiere e che cosa sai?” - “So tutto,” rispose. “Allora dicci, per favore, perché‚ un albero che di solito portava mele d’oro, adesso non mette neppure le foglie.” - “Volentieri,” rispose il giovane. “Aspettate ch’io torni.” Proseguì la sua strada e arrivò a un gran fiume che doveva attraversare. Il barcaiolo gli chiese: “Che mestiere fai e che cosa sai?” - “So tutto,” rispose. “Allora dimmi, per favore,” disse il barcaiolo, “perché‚ devo sempre remare senza che nessuno mi dia il cambio; te ne sarò riconoscente.” - “Volentieri,” rispose il giovane, “aspetta ch’io torni.”
Passato il fiume trovò l’inferno: là dentro era tutto nero e fuligginoso e il diavolo non era in casa, c’era soltanto sua nonna, seduta in una gran poltrona. “Che vuoi?” gli chiese. “I tre capelli d’oro del diavolo,” rispose il ragazzo, “se no, non posso tenermi la mia sposa.” - “Mi fai pena,” diss’ella, “se viene il diavolo ti ucciderà; ma voglio vedere cosa posso fare per te.” Allora lo trasformò in una formica e disse: “Nasconditi fra le pieghe della mia sottana, là sei al sicuro.” - “Sì,” rispose quello. “Vorrei anche sapere perché‚ una fonte da cui di solito sgorgava vino, non dà più nemmeno acqua; perché‚ un albero che di solito portava mele d’oro, ora non mette più nemmeno le foglie; e perché‚ un barcaiolo deve sempre remare senza che nessuno gli dia il cambio.” - “Sono tre domande difficili,” rispose la vecchia, “ma sta’ zitto e fa’ attenzione a quello che dice il diavolo quando gli strappo i tre capelli d’oro.”
Non molto tempo dopo, sul far della notte, il diavolo tornò a casa. Fiutò a destra e a sinistra e disse: “Sento odore, sento odore di carne umana; c’è qualcosa che non va!” Allora rovistò e guardò dappertutto, ma invano. La nonna lo sgridò e disse: “Non buttarmi tutto per aria, ho appena spazzato; siedi e mangia la tua cena, hai sempre l’odore di carne umana nel naso!” Allora il diavolo mangiò e bevve; poi posò la testa in grembo alla nonna, disse che era stanco e le chiese di spidocchiarlo un po’. Non tardò ad appisolarsi, soffiando e russando. Allora la vecchia strappò un capello d’oro, lo strappò e se lo mise accanto. “Ahi!” gridò il diavolo, “che c’è?” - “Ho fatto un brutto sogno,” rispose la nonna, “e allora ti ho preso per i capelli.” - “Cos’hai sognato?” - “Ho sognato che una fontana da cui di solito sgorgava vino è asciutta e non dà più nemmeno acqua. Come mai?” - “Ah, se lo sapessero!” rispose il diavolo. “Nella fontana, sotto una pietra, c’è un rospo; se lo uccidono riprenderà a scorrere il vino.” La nonna si rimise a spidocchiarlo finché‚ egli si addormentò e russava da far tremare i vetri. Allora gli strappò il secondo capello. “Uh, che fai?” gridò il diavolo, furente. “Non andare in collera!” ella rispose. “L’ho fatto in sogno.” - “Cos’hai sognato di nuovo?” - “Ho sognato che in un regno c’è un albero da frutta che prima portava mele d’oro e ora non mette più nemmeno le foglie. Come mai?” - “Eh, se lo sapessero!” rispose il diavolo. “C’è un topo che rosicchia la radice: se lo uccidono, darà di nuovo mele d’oro; se invece il topo continua a rosicchiare, l’albero si seccherà del tutto. Ma lasciami in pace tu e i tuoi sogni; se mi svegli un’altra volta ti buschi una sberla!” La nonna lo spidocchiò nuovamente finché‚ egli si addormentò e si mise a russare. Allora gli afferrò anche il terzo capello d’oro e lo strappò. Il diavolo saltò per aria e voleva fargliela pagare, ma essa lo calmò e disse: “Sono brutti sogni!” - “Ma cosa hai sognato?!” - “Ho sognato un barcaiolo che doveva sempre andare su e giù senza che mai nessuno gli desse il cambio. Come mai?” - “Eh, il babbeo!” rispose il diavolo. “Quando uno va per attraversare il fiume, deve mettergli in mano la pertica; allora lui sarà libero, e l’altro dovrà fare il barcaiolo. Ma spidocchiami adesso che possa riaddormentarmi!” Allora la nonna lo lasciò dormire, e allo spuntar del giorno il diavolo se ne andò.
Quando si sentì al sicuro, ella tolse la formica dalle pieghe della sua gonna e ridiede sembianze umane al giovane. Poi gli diede i tre capelli d’oro e disse: “Hai sentito ciò che ha detto il diavolo?” - “Sì,” rispose il figlio della fortuna, “e terrò tutto a mente.” - “Non ti occorre altro,” disse ella, “ora vai per la tua strada.” Egli ringraziò la nonna del diavolo, e lasciò l’inferno. Quando giunse dal barcaiolo, che doveva trasportarlo dall’altra parte del fiume, questi voleva avere la risposta promessa. “Portami prima dall’altra parte,” disse il ragazzo, “poi te la dirò.” E, come scese dalla barca, gli diede il consiglio del diavolo: “Quando viene qualcuno che vuole essere portato sull’altra riva, mettigli la pertica in mano e scappa.” Poi il giovane proseguì e giunse alla città dove si trovava l’albero rinsecchito, e anche la sentinella gli chiese la risposta. Allora egli disse quello che aveva sentito dal diavolo: “Uccidete il topo che rosicchia le radici, e l’albero tornerà a dare mele d’oro.” La sentinella lo ringraziò e, come ricompensa, gli diede due asini carichi d’oro che dovettero seguirlo. Infine arrivò alla città della fontana prosciugata, e anche lì la sentinella volle avere la risposta. Nuovamente egli riferì le parole del diavolo: “C’è un rospo sotto una pietra; cercatelo e uccidetelo, e la fontana tornerà a dare vino.” La sentinella lo ringraziò e gli diede altri due asini carichi d’oro.
Il figlio della fortuna giunse finalmente a casa da sua moglie che si rallegrò di cuore rivedendolo e sentendo che tutto era andato bene. Egli diede i tre capelli d’oro del diavolo al re, cosicché‚ questi non trovò più nulla da ridire. E, quando vide i quattro asini carichi d’oro, disse tutto contento: “Ma dimmi, caro genero, da dove viene tutto quell’oro? E’ un’immensa ricchezza.” - “L’ho trovato vicino a un fiume” rispose il figlio della fortuna “e ce n’è ancora.” - “Posso prenderne anch’io?” domandò il re, pieno di avidità. “Quanto ne volete!” rispose il giovane. “Sul fiume c’è un barcaiolo; fatevi traghettare da lui, dall’altra parte c’è oro in abbondanza!” Allora il vecchio re si precipitò in fretta e furia e quando giunse al fiume fece cenno al barcaiolo che lo prese con s’. Ma come furono dall’altra parte e il re volle sbarcare, il barcaiolo gli mise in mano la pertica e saltò a terra. Così il vecchio dovette remare come punizione dei suoi peccati.
Lo fa ancora? Come no? Certo nessuno gli avrà tolto il remo!
FINE
Pidocchietto e Pulcettina
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 030
Un pidocchietto e una pulcettina vivevano insieme e facevano la birra in un guscio d'uovo. Il pidocchietto ci cascò dentro e si scottò. Allora la pulcettina si mise a piangere forte. La porticina disse: “Pulcettina, perché‚ piangi?” – “Perché‚ Pidocchietto si è scottato.”
Allora la porticina si mise a cigolare. Disse lo scopettino: “Porticina, perché‚ cigoli?” – “Non dovrei cigolare?
Pidocchietto s'è scottato,
Pulcettina lacrime ha versato.”
Allora lo scopettino si mise a spazzare terribilmente. Passò un carrettino e disse: “Scopettino, perché‚ spazzi?” – “Non dovrei spazzare?
Pidocchietto s'è scottato,
Pulcettina lacrime ha versato,
Porticina ha cigolato.”
Disse il carrettino: “E io mi metto a correre,” e si mise a correre terribilmente. Disse il concimino, vedendolo passare: “Carrettino, perché‚ corri?” – “Non dovrei correre?
Pidocchietto s'è scottato,
Pulcettina lacrime ha versato,
Porticina ha cigolato,
Scopettino ha poi spazzato.”
Disse il concimino: “E io mi metterò a bruciare,” e si mise a bruciare terribilmente. Là vicino c'era una piantina che disse: “Concimino, perché‚ bruci?” – “Non dovrei bruciare?
Pidocchietto s'è scottato,
Pulcettina lacrime ha versato,
Porticina ha cigolato,
Scopettino ha poi spazzato,
Carrettino va di carriera.”
Disse la piantina: “E io mi scrollerò,” e si scrollò tanto da far cadere il fogliame. Disse una fanciullina con il suo brocchino: “Piantina, perché‚ ti scrolli?” – “Non dovrei scrollarmi?
Pidocchietto s'è scottato,
Pulcettina lacrime ha versato,
Porticina ha cigolato,
Scopettino ha poi spazzato,
Carrettino va di carriera,
Concimino brucia da mane a sera.”
Disse la fanciullina: “E io romperò il mio brocchino,” e ruppe il brocchino. Allora disse la fontanina: “Fanciullina, perché‚ rompi il tuo brocchino?” – “Non dovrei rompere il mio brocchino?
Pidocchietto s'è scottato,
Pulcettina lacrime ha versato,
Porticina ha cigolato,
Scopettino ha poi spazzato,
Carrettino va di carriera,
Concimino brucia da mane a sera,
Piantina si scrolla tutta intera.”
“Be,” disse la fontanina, “e io mi metterò a scorrere.” E si mise a scorrere terribilmente. E nell'acqua annegarono tutti: la fanciullina, la piantina, il concimino, il carrettino, lo scopettino, la porticina, la pulcettina, il pidocchietto, tutti quanti.
FINE
La fanciulla senza mani
tempo: 15'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 031
Un mugnaio era caduto a poco a poco in miseria e non aveva più nulla all'infuori del suo mulino e, dietro, un grosso melo. Un giorno che era andato a far legna nel bosco gli si avvicinò un vecchio e gli disse: -Perché‚ ti affanni a spaccar legna? Io ti farò ricco, se in cambio mi prometti quello che c'è dietro al tuo mulino; fra tre anni verrò a prenderlo-. "Che altro può essere se non il mio melo?" pensò il mugnaio; così acconsentì e s'impegnò per iscritto con lo sconosciuto, che se ne andò ridendo. Quando il mugnaio tornò a casa, gli venne incontro la moglie e gli disse: -Di dove viene tutta questa ricchezza in casa nostra? Casse e cassoni sono pieni di roba, senza che nessuno sia venuto a portarla- Il mugnaio rispose: -Da un vecchio che ho incontrato nel bosco; in cambio mi sono impegnato a cedergli quello che c'è dietro il mulino-. -Ah, marito- disse la donna spaventata -ce la vedremo brutta: era il diavolo! E intendeva nostra figlia che spazzava il cortile dietro il mulino.- La figlia del mugnaio era una fanciulla bella e pia e visse quei tre anni nel timore di Dio e senza peccato. Quando venne il giorno in cui il maligno doveva prenderla, ella si lavò per bene e tracciò con il gesso un cerchio intorno a s‚. Il diavolo comparve di buon mattino, ma non pot‚ avvicinarla. Incollerito disse al mugnaio: -Portale via tutta l'acqua, che non possa più lavarsi; così l'avrò in mio potere-. Atterrito, il mugnaio obbedì. Il giorno dopo il diavolo tornò, ma ella aveva pianto sulle sue mani, che erano pulitissime. Così non pot‚ avvicinarsi di nuovo e, furioso, disse al mugnaio: -Tagliale le mani; altrimenti non posso farle nulla-. Ma il padre inorridì e rispose: -Come potrei tagliare le mani a mia figlia!-. Allora il maligno lo minacciò e disse: -Se non lo fai, sei mio e prendo te-. Spaventato, il padre promise di obbedirgli. Andò dalla fanciulla e le disse: -Bimba mia, se non ti mozzo le mani, il diavolo mi porta via, e nello spavento gli ho promesso di farlo. Ti prego di perdonarmi-. Ella rispose: -Padre, fate di me ciò che volete, sono vostra figlia-. Porse le mani e se le lasciò mozzare. Il diavolo tornò per la terza volta, ma ella aveva pianto tanto e così a lungo sui moncherini che erano pulitissimi. Egli aveva perduto così ogni diritto su di lei e dovette andarsene. Il mugnaio le disse: -Per merito tuo ho guadagnato tante ricchezze che per tutta la vita voglio trattarti da regina-. Ma ella rispose: -Non posso rimanere qui; me ne andrò: creature pietose provvederanno di certo al mio bisogno-. Si fece legare i moncherini dietro la schiena e al levar del sole si mise in cammino e camminò tutto il giorno, fino a notte. Arrivò al giardino di una reggia dove, al chiaro di luna, vide degli alberi carichi di frutta; ma il giardino era circondato da un fosso. E siccome non aveva mangiato nulla per tutto il giorno e aveva tanta fame, pensò: "Ah, fossi là dentro e potessi mangiare un po' di quei frutti! Se no mi tocca morir di fame". Si inginocchiò, invocò il Signore e pregò. D'un tratto apparve un angelo che chiuse una cateratta, sicché‚ il fosso si prosciugò ed ella pot‚ attraversarlo. Entrò nel giardino e l'angelo la seguì. Vide un albero da frutta: erano belle pere, ma erano tutte contate. Ella si avvicinò e, per placare la fame, ne mangiò una staccandola con la bocca. Il giardiniere la vide ma, siccome c'era l'angelo, egli ebbe paura e pensò che la fanciulla fosse uno spettro; così non osò chiamare n‚ dir nulla. Dopo aver mangiato la pera ella fu sazia, e andò a nascondersi nel boschetto. Il mattino seguente venne il re cui apparteneva il giardino, contò le pere e, vedendo che ne mancava una, domandò al giardiniere dove fosse. Non era sotto l'albero, eppure non c'era più. Il giardiniere rispose: -La notte scorsa è venuto uno spettro senza mani e l'ha mangiata, staccandola con la bocca-. Il re disse: -Come ha fatto ad attraversare l'acqua, e dov'è andato?-. Il giardiniere rispose: -Un essere è venuto dal cielo, con una veste candida come la neve, e ha chiuso la cateratta prosciugando l'acqua. Doveva essere un angelo e io ho avuto paura, così non ho fatto domande n‚ ho chiamato. Poi lo spettro è scomparso di nuovo-. Il re disse: -Questa notte veglierò con te-. Quando fu buio il re si recò in giardino accompagnato da un prete che doveva rivolgere la parola allo spettro. Si sedettero tutti e tre sotto l'albero e attesero. A mezzanotte la fanciulla uscì dal boschetto, si avvicinò all'albero e mangiò un'altra pera, staccandola con la bocca; accanto a lei c'era l'angelo biancovestito. Allora il prete si fece avanti e disse: -Vieni dal cielo o dalla terra? Sei uno spettro o una creatura umana?-. -No- rispose ella -non sono uno spettro, ma una povera creatura che tutti hanno abbandonata, tranne Dio.- Il re disse: -Se tutti ti hanno abbandonata, io non ti abbandonerò-. La prese con s‚ nel suo castello, le fece fare due mani d'argento e, poiché‚ era tanto bella e buona, se ne innamorò e la prese come sua sposa. Un anno dopo, il re dovette partire per la guerra; raccomandò la giovane regina a sua madre, dicendole: -Quando partorirà abbiatene cura e scrivetemi subito-. La regina diede alla luce un bel bambino, e la vecchia madre si affrettò a scrivere al re per annunciargli la felice notizia. Ma per via il messo si riposò accanto a un ruscello e si addormentò. Allora venne il diavolo che cercava sempre di nuocere alla buona regina, e scambiò la lettera con un'altra in cui si diceva che la regina aveva messo al mondo un mostro. Quando il re lesse la lettera si spaventò e si rattristò profondamente, ma rispose che dovevano avere cura della regina fino al suo ritorno. Il messaggero ripartì con la lettera, ma si riposò nello stesso luogo e si addormentò un'altra volta. Allora tornò il diavolo e gli mise in tasca un'altra lettera nella quale era scritto che uccidessero la regina e il bambino. Quando la vecchia madre ricevette la lettera, inorridì e scrisse al re ancora una volta, ma non ricevette altra risposta, perché‚ ogni volta il diavolo dava al messo una lettera falsa e, nell'ultima, ordinava addirittura di conservare la lingua e gli occhi della regina come prova della sua morte. Ma la vecchia madre piangeva all'idea che fosse versato quel sangue innocente; così mandò a prendere, di notte, una cerva, le strappò la lingua e gli occhi e li mise da parte. Poi disse alla regina: -Non posso farti uccidere, ma non puoi più fermarti qui: va' per il mondo con il tuo bambino e non ritornare-. Le legò il bambino sul dorso, e la povera donna se ne andò con gli occhi pieni di lacrime. Arrivò in una grande foresta selvaggia; si inginocchiò a pregare e le apparve l'angelo del Signore che la condusse a una casetta sulla quale era una piccola insegna che diceva: -Qui si alloggia gratuitamente-. Dalla casetta uscì una fanciulla bianca come la neve che disse: -Benvenuta, Maestà!- e la fece entrare. Le tolse il bimbo dalla schiena e glielo pose al seno, perché‚ poppasse, poi lo mise in un bel lettino già pronto. Allora la povera donna disse: -Come sai che ero una regina?-. La fanciulla bianca rispose: -Sono un angelo mandato da Dio per avere cura di te e del tuo bambino-. Ed ella visse sette anni nella casetta, sotto la tutela dell'angelo, e per la sua devozione, Dio le fece la grazia e le ricrebbero le mani. Intanto il re, quando rientrò a casa, volle vedere sua moglie e il suo bambino. Allora la vecchia madre si mise a piangere e disse: -Uomo malvagio, perché‚ mi hai scritto di uccidere due innocenti creature?-. Gli mostrò le due lettere scambiate dal diavolo e soggiunse: -Ho fatto quanto hai ordinato- e gli mostrò, come prova, la lingua e gli occhi. Allora il re si mise a piangere ancora più amaramente sulla sua povera moglie e sul figlioletto, tanto che la vecchia madre si impietosì e gli disse: -Rallegrati, è ancora viva: ho fatto uccidere di nascosto una cerva da cui ho tolto le prove; ma a tua moglie ho legato il bambino sul dorso, e le ho detto che andasse per il mondo e che promettesse di non tornare mai più, poiché‚ tu eri così adirato con lei-. Allora il re disse: -Camminerò fin dove il cielo è azzurro e non mangerò n‚ berrò finché‚ non avrò ritrovato la mia cara moglie e il mio bambino, se non sono morti di fame-. Così errò qua e là per sette anni, cercandola per tutte le rupi; ma non la trovò e pensava che fosse morta. Per tutto quel tempo, non mangiò n‚ bevve nulla, ma Dio lo mantenne in vita. Alla fine giunse nella grande foresta e trovò la casettina con l'insegna che diceva: -Qui si alloggia gratuitamente-. La fanciulla bianca uscì, lo prese per mano e lo fece entrare dicendo: -Benvenuta, Maestà!- e gli domandò di dove venisse. Egli rispose: -Sono quasi sette anni che vado in giro alla ricerca di mia moglie e del suo bambino, ma non riesco a trovarli; saranno morti di fame!-. L'angelo gli offrì da mangiare e da bere, ma egli non prese nulla e volle soltanto riposarsi un poco. Si mise a dormire, coprendosi il volto con un fazzoletto. Allora l'angelo andò nella camera dov'era la regina con il bimbo, che ella soleva chiamare Doloroso, e le disse: -Vieni con il tuo bambino, è giunto il tuo sposo-. La donna andò dove egli dormiva, e il fazzoletto gli cadde dal volto. Allora ella disse: -Doloroso, raccogli il fazzoletto a tuo padre e coprigli di nuovo il volto-. Il bimbo lo raccolse e gli coprì il volto. Ma il re l'udì nel dormiveglia e lasciò cadere apposta di nuovo il fazzoletto. Allora ella disse nuovamente: -Doloroso, raccogli il fazzoletto a tuo padre e coprigli di nuovo il volto-. Il bambino s'impazientì e disse: -Cara madre, come posso coprire il volto a mio padre se non ho padre sulla terra? Ho imparato la preghiera: Padre nostro, che sei nei cieli; tu hai detto che mio padre era in cielo ed era il buon Dio. Come potrei conoscere un uomo così selvaggio? Non è mio padre!-. In quel mentre il re si rizzò a sedere e chiese alla donna chi fosse. Ella disse: -Sono tua moglie, e questo è tuo figlio Doloroso-. Ma egli vide che aveva le mani vere e disse: -Mia moglie ha mani d'argento-. Ella rispose: -Il buon Dio me le ha fatte ricrescere-. E l'angelo andò nella sua camera, prese le mani d'argento e le mostrò al re. Allora egli fu certo che quelli erano proprio la sua cara moglie e il suo caro figlio, e li baciò tutto contento. L'angelo di Dio li cibò ancora una volta insieme, poi andarono a casa dalla vecchia madre. Vi fu gran gioia ovunque e il re e la regina celebrarono nuovamente le nozze e vissero felici fino alla loro santa morte.
FINE
Gianni testa fina
tempo: 5'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 032
La madre di Gianni domanda: -Dove vai, Gianni?-. Gianni risponde: -Da Ghita-. -Non far sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- Gianni va da Ghita. -Buon giorno, Ghita.- -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita gli regala un ago. Gianni dice: -Addio, Ghita-. -Addio, Gianni.- Gianni prende l'ago, lo ficca in un carro di fieno e, dietro al carro, torna a casa. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni, dove sei stato?- -Da Ghita.- -Cosa le hai portato?- -Niente portato, lei dato.- -Cosa ti ha dato?- -Ago, dato.- -Dove hai l'ago, Gianni?- -Ficcato in carro di fieno.- -Che sciocco, Gianni! Dovevi infilarlo nella manica!- -Fa niente, un'altra volta.- -Dove vai, Gianni?- -Da Ghita.- -Non far sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- Gianni va da Ghita. -Buon giorno, Ghita.- -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita regala a Gianni un coltello. -Addio, Ghita.- -Addio, Gianni.- Gianni prende il coltello, lo infila nella manica e va a casa. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni. Dove sei stato?- -Da Ghita.- -Cosa le hai portato?- -Niente portato, lei dato-. -Che cosa ti ha dato?- -Coltello, dato.- -Do ve hai il coltello, Gianni?- -Infilato nella manica.- -Che sciocco, Gianni! Dovevi metterlo in tasca!- -Fa niente, un'altra volta.- -Dove vai, Gianni?- -Da Ghita.- -Non far sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- Gianni va da Ghita. -Buon giorno, Ghita.- -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita gli regala una capretta. -Addio, Ghita.- -Addio, Gianni.- Gianni prende la capra, le lega le zampe e se la ficca in tasca. Quando arriva a casa è soffocata. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni. Dove sei stato?- -Da Ghita.- -Cosa le hai portato?- -Niente portato, lei dato.- -Cosa ti ha dato?- -Capra, dato.- -Dove hai messo la capra, Gianni?- -Ficcata in tasca.- -Che sciocco, Gianni. Dovevi legarla a una corda!- -Fa niente, un'altra volta.- -Dove vai, Gianni?- -Da Ghita.- -Non far sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- Gianni va da Ghita. -Buon giorno, Ghita.- -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita gli regala un pezzo di lardo. Gianni lo lega a una corda e se lo trascina dietro. Vengono i cani e mangiano il lardo. Quando arriva a casa, tiene in mano la corda e nient'altro. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni. Dove sei stato?- -Da Ghita.- -Cosa le hai portato?- -Niente portato, lei dato.- -Cosa ti ha dato?- -Pezzo di lardo, dato.- -Dove hai messo il lardo, Gianni?- -Legato alla fune, menato a casa, rubato i cani.- -Che sciocco, Gianni! Dovevi portarlo in testa!- -Fa niente, un'altra volta.- -Dove vai, Gianni?- -Da Ghita.- -Non far sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- Gianni va da Ghita: -Buon giorno, Ghita-. -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita regala a Gianni un vitello. Gianni se lo mette in testa e il vitello gli pesta la faccia. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni. Dove sei stato?- -Da Ghita.- -Che cosa le hai portato?- -Niente portato, lei dato.- -Cosa ti ha dato?- -Vitello dato.- -Dove hai il vitello, Gianni?- -Messo sulla testa, pestato la faccia.- -Che sciocco, Gianni! Dovevi legarlo e condurlo alla greppia!- -Fa niente, un'altra volta.- -Dove vai, Gianni?- -Da Ghita.- -Non fare sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- -Buon giorno, Ghita.- -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita dice: -Voglio venire con te-. Gianni lega Ghita a una fune, la mena davanti alla greppia e l'attacca per bene. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni. Dove sei stato?- -Da Ghita.- -Che cosa ti ha dato?- -Ghita venuta con me.- -E dove l'hai lasciata?- -Menata con la corda, legata alla greppia, messo l'erba davanti.- -Che sciocco, Gianni! Dovevi essere gentile e gettarle gli occhi addosso!- -Fa niente, un'altra volta.- Gianni va nella stalla, cava gli occhi a vitelli e pecore e li getta in faccia a Ghita. Allora Ghita s'infuria, strappa la corda, corre via, e addio sposa di Gianni!
FINE
I tre linguaggi
tempo: 6'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 033
C'era una volta in Svizzera un vecchio conte che aveva un unico figlio, ma così stupido che non riusciva a imparare nulla. Allora il padre disse: -Ascolta, figlio mio, per quanto io faccia non riesco a cacciarti niente in testa. Devi andare via di qui; maestri insigni proveranno a fare ciò che io non ho potuto-. Il giovane fu così mandato in un'altra città e rimase presso un maestro per un intero anno. Trascorso questo periodo, tornò a casa e il padre gli chiese: -Ebbene, che cosa hai imparato?- Il figlio rispose: -Babbo, ho imparato quello che dicono i cani-. -Dio guardi!- esclamò il padre -è tutto qui? Devi andare in un'altra città, presso un altro maestro.- Il giovane andò e, anche questa volta, vi si fermò un anno. Quando ritornò, il padre disse: -Ebbene, che cosa hai imparato?-. Il figlio rispose: -Babbo, ho imparato quello che dicono gli uccelli-. Allora il padre andò in collera e disse: -Sciagurato. Hai perduto tutto quel tempo prezioso senza imparare nulla, e non ti vergogni di comparirmi davanti? Ti manderò da un terzo maestro, ma se anche questa volta non impari nulla, non voglio più essere tuo padre-. Così il giovane fu portato da un terzo maestro presso il quale rimase un altro anno. Quando finalmente ritornò a casa, il padre gli chiese: -Ebbene, che cosa hai imparato?-: -Caro babbo- rispose -quest'anno ho imparato quello che gracidano le rane.- Allora il padre andò su tutte le furie, balzò in piedi, chiamò la servitù e disse: -Quest'essere non è più mio figlio, io lo scaccio e vi ordino di condurlo nel bosco e di ucciderlo-. Essi lo presero e lo condussero fuori, ma al momento di ucciderlo ne ebbero pietà e lo lasciarono andare. Poi strapparono a un capriolo gli occhi e la lingua e li portarono al vecchio come prova della sua morte. Il giovane si mise in cammino e dopo qualche tempo giunse a un castello dove chiese asilo per la notte. -Sì- disse il castellano. -Se vuoi pernottare laggiù nella seconda torre, va' pure, ma ti avverto che rischi la vita: è piena di cani feroci che abbaiano e latrano senza tregua e, a ore fisse, bisogna consegnare loro un essere umano che essi divorano subito.- Per questo, nella zona, ognuno era in lutto e in grande tristezza, senza sapere tuttavia che cosa fare. Il giovane disse: -Lasciatemi andare da quei cani feroci e datemi qualcosa da gettare loro in pasto; a me non faranno nulla-. Poiché‚ questa era la sua volontà, gli diedero un po' di cibo per gli animali e lo condussero giù alla torre. Quando entrò, i cani gli scodinzolarono amichevolmente intorno senza torcergli un capello e mangiarono ciò che egli mise loro davanti. Il mattino seguente, con grande stupore di tutti, uscì sano e salvo dalla torre e disse al castellano: -I cani mi hanno rivelato nel loro linguaggio perché‚ se ne stanno qua ad arrecar danno al paese: sono stregati, devono custodire un gran tesoro nella torre e non si cheteranno fino a quando non sarà dissotterrato. I loro discorsi mi hanno inoltre rivelato come fare-. A queste parole tutti si rallegrarono, e il castellano disse: -Se riesci a recuperare il tesoro, ti darò in sposa mia figlia-. Il giovane accettò l'impresa, disseppellì il tesoro e i cani sparirono. Così sposò la bella fanciulla e vissero insieme felici. Dopo un certo periodo di tempo i due si misero in viaggio per recarsi a Roma. Per via passarono davanti a uno stagno in cui gracidavano delle rane. Il giovane conte capì quello che esse si stavano dicendo, ed era triste e pensieroso, tuttavia non disse nulla alla moglie. Infine giunsero a Roma: era appena morto il papa e, fra i cardinali, c'era grande incertezza su chi dovesse essere designato come successore. Finalmente convennero che fosse eletto papa colui che manifestasse un segno miracoloso della volontà divina. Avevano appena preso questa decisione quando entrò in chiesa il giovane conte, e subito due colombe bianche come la neve gli si posarono sulle spalle e là rimasero a sedere. Il clero riconobbe in questo fatto il segno divino e, senza attendere oltre, gli domandò se volesse diventare papa. Egli era esitante e non sapeva se ne fosse degno, ma le colombe lo convinsero ad accettare e rispose di sì. Allora fu unto e consacrato, e così si compì quello che, con tanta costernazione, egli aveva udito dalle rane per strada: che sarebbe diventato il Santo Padre. Poi dovette cantar messa, e non ne sapeva neanche una parola, ma le due colombe gli stettero sempre sulle spalle e suggerirono ogni parola che doveva dire.
FINE
La saggia Elsa
tempo: 9'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 034
Un uomo aveva una figlia che chiamavano la saggia Elsa. Quando fu cresciuta il padre disse: “Dobbiamo darle marito.” - “Sì,” disse la madre, “purché‚ qualcuno la voglia.” Finalmente giunse da lontano un certo Gianni e la chiese in moglie, ma a condizione che la saggia Elsa fosse davvero assennata. “Oh,” disse il padre, “ha sale in zucca!” E la madre aggiunse: “Ah, vede correre il vento per la strada e sente tossire le mosche.” - “Sì,” disse Gianni “se non è ben giudiziosa, non la piglio.” A tavola, dopo aver mangiato, la madre disse: “Elsa, vai in cantina a prendere della birra.” Ella staccò il boccale dalla parete, andò in cantina e, per strada, sbatacchiava per bene il coperchio per non annoiarsi. Quando fu in cantina, prese lo sgabello e lo mise davanti alla botte, per non doversi piegare e rischiare di farsi male alla schiena, buscandosi un guaio imprevisto. Poi si mise davanti il boccale e aprì il rubinetto e mentre la birra scorreva, non volendo lasciare inoperosi gli occhi, li alzò verso la parete; guardò di qua e di là finché‚ scorse, proprio sopra la sua testa, un piccone che i muratori avevano lasciato là per sbaglio. Allora la saggia Elsa incominciò a piangere e disse: “Se sposo Gianni e abbiamo un bambino e quando è grande lo mandiamo in cantina a spillare la birra, il piccone gli cade sulla testa e lo ammazza!” Così se ne stette là a piangere a più non posso sull’imminente sciagura. Di sopra aspettavano la birra, ma la saggia Elsa non arrivava mai. Allora la madre disse alla serva: “Va’ giù in cantina a vedere dov’è Elsa.” La serva andò e la trovò seduta davanti alla botte che singhiozzava forte. “Elsa, perché‚ piangi?” domandò la serva. “Ah,” rispose, “non dovrei piangere? Se sposo Gianni e abbiamo un bambino, e quando è grande lo mandiamo in cantina a spillare la birra, può darsi che gli cada il piccone in testa e l’ammazzi.” La serva disse: “Ma guarda com’è saggia la nostra Elsa!” Le si sedette accanto e incominciò a piangere anche lei su quella sciagura. Dopo un po’, poiché‚ la serva non tornava e sopra avevano sete, l’uomo disse al servo: “Va’ giù in cantina a vedere dove sono Elsa e la serva.” Il servo scese, ed ecco la saggia Elsa e la serva che piangevano insieme. Ed egli chiese: “Perché‚ piangete?” - “Ah,” disse Elsa, “non dovrei piangere? Se sposo Gianni e abbiamo un bambino, e quando è grande lo mandiamo in cantina a spillare la birra, gli cade il piccone sulla testa e lo ammazza.” Allora il servo disse: “Ma guarda com’è saggia la nostra Elsa!” Le si sedette accanto e incominciò anch’egli a strillar forte. Di sopra aspettavano il servo, ma vedendo che non veniva mai, l’uomo disse alla moglie: “Va’ giù in cantina a vedere dov’è Elsa.” La donna scese, li trovò tutti e tre a lamentarsi e domandò il perché. Allora Elsa raccontò anche a lei che, di certo, il suo futuro bambino sarebbe stato ucciso dal piccone, appena fosse grande e dovesse spillare la birra, e il piccone cadesse. Allora anche la madre disse: “Ma guarda com’è saggia la nostra Elsa!” Si mise a sedere e pianse con loro. Di sopra, l’uomo attese ancora un pochino, ma siccome sua moglie non tornava ed egli aveva sempre più sete, disse: “Scenderò io stesso in cantina a vedere dov’è Elsa.” Ma quando arrivò in cantina e li vide tutti in lacrime, l’uno accanto all’altro, e ne udì la causa, cioè che la colpa era del bambino che Elsa un giorno avrebbe forse messo al mondo e che poteva essere ucciso dal piccone se vi si sedeva sotto a spillare la birra proprio nel momento in cui il piccone cadeva, allora esclamò: “Ma guarda com’è saggia la nostra Elsa!” Si sedette e si mise a piangere con gli altri. Sopra, il fidanzato rimase solo per un bel po’; poi, dato che nessuno ritornava, pensò: “Ti staranno aspettando di sotto; devi scendere anche tu a vedere cosa fanno.” Quando scese, li trovò tutti e cinque seduti a piangere e lamentarsi l’uno meglio dell’altro, da far proprio compassione. “Che disgrazia è successa?” domandò. “Ah, caro Gianni,” disse Elsa, “se ci sposeremo e avremo un bambino, e diventa grande e lo mandiamo qui a spillare la birra, allora il piccone che è rimasto lassù può cadergli sulla testa e spaccargliela: e non dovremmo piangere?” - “Be’,” disse Gianni, “la tua saggezza mi basta e, poiché‚ sei così giudiziosa, ti prenderò in moglie.” La prese per mano, la portò di sopra e la sposò.
Dopo un certo tempo Gianni disse: “Moglie mia, io esco: vado a lavorare per guadagnare un po’; va’ tu nel campo e mieti il grano che non ci manchi il pane.” - “Sì, mio caro Gianni,” rispose Elsa, “lo farò.” Quando Gianni fu uscito, ella si cucinò una buona zuppa e se la portò al campo. Appena arrivata, disse fra s’: “Cosa faccio prima, mieto o mangio? Be’, prima mangerò.” Così si mise a mangiare la sua zuppa e quando fu bella sazia, si disse di nuovo: “Cosa faccio prima, mieto o dormo? Be’, prima dormirò.” Si distese nel grano e si addormentò. Gianni era a casa da un bel pezzo, ma Elsa non tornava; allora disse: “Com’è saggia la mia Elsa! Ha così voglia di lavorare che non torna a casa neppure per mangiare!” Ma siccome Elsa non tornava mai e imbruniva, Gianni uscì per andare a vedere quanto avesse mietuto; ma non aveva mietuto un bel niente, e dormiva, lunga distesa nel grano. Allora Gianni corse a casa a prendere una rete per gli uccelli con dei piccoli campanellini, e gliela tese intorno senza che lei si svegliasse. Poi tornò a casa, chiuse la porta e si sedette sulla sua sedia. Finalmente, a notte fonda, la saggia Elsa si svegliò; e quando si alzò ci fu intorno a lei un rumore di campanellini che tintinnavano a ogni passo. Allora si spaventò, si confuse dubitando di essere proprio la saggia Elsa e disse: “Sono io o non sono io?” Ma non sapeva che cosa rispondere e se ne stette dubbiosa per un bel po’; infine pensò: “Andrò a casa a domandare se sono o no io; lo sapranno di certo.” Corse davanti all’uscio ma era chiuso; allora bussò alla finestra gridando: “Gianni, c’è Elsa?” - “Sì,” rispose Gianni, “è qua.” Ella si spaventò e disse: “Ah, Signore, allora non sono io!” E andò a un’altra porta, ma udendo il tintinnio dei campanelli, la gente non voleva aprirle. Così andò in giro un po’ dappertutto; poi fuggì dal villaggio.
FINE
Il sarto in paradiso
tempo: 4'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 035
Un giorno morì un sarto storpio e, per questo, andò in paradiso zoppicando. Bussò alla porta, ma san Pietro, che se ne stava a fare la guardia, non aprì subito e chiese: -Chi è che bussa?-. -Sono un povero ma onesto sarto, che prega di esser lasciato entrare.- -Sì, onesto come un collo da forca!- disse san Pietro. -Avevi le mani lunghe quando scroccavi la stoffa ai clienti! Vai all'inferno, in paradiso non ci entri!- -Ah, Signore misericordioso!- gridò il sarto -io zoppico, e ho tutti i piedi piagati per il lungo cammino, non posso tornare indietro. Lasciami entrare lo stesso in cielo, starò seduto dietro la stufa e farò volentieri i lavori più umili: guarderò i bambini, pulirò le fasce, fregherò le panche sulle quali giocano, lasciatemi solo entrare!- San Pietro si lasciò impietosire e dischiuse un poco la porta del cielo al sarto, tanto che riuscisse a insinuarvisi. Tutto ciò avvenne intorno a mezzogiorno, quando il Signore, con il divin Padre e gli arcangeli voleva andare a spasso nel giardino del cielo. San Pietro ordinò al sarto di tenere in ordine il paradiso, e di fare attenzione che nulla fosse sottratto durante la loro assenza. -Sì- rispose il sarto -provvederò a ogni cosa.- Quando tutti se ne furono andati, il sarto ficcò il naso in ogni angolo del paradiso e infine salì sul trono del Signore, dal quale si poteva vedere tutto quello che accadeva sulla terra. Ed egli vide laggiù una brutta vecchia che lavava a un ruscello e sottraeva di nascosto due veli. E, benché‚ si fosse dedicato spesso, in vita, a questo genere di lavoro, e per quanto san Pietro gli avesse quasi negato l'entrata al paradiso, fu preso da una tal rabbia che afferrò lo sgabello del Signore, posto davanti al trono, e lo scagliò giù nelle costole della vecchia ladra, facendola cadere. La donna si spaventò, non capendo cosa diavolo le avessero gettato addosso, e corse a casa lasciando a terra i veli, che ritornarono così alle loro legittime padrone. Quando il Signore e Maestro rientrò con il suo seguito celeste, vide che mancava lo sgabello e domandò al sarto chi l'avesse portato via. -Oh, Signore- rispose questi tutto contento -l'ho scagliato sulla terra dietro a una vecchia che ho visto rubare due veli mentre lavava.- Allora il Signore disse: -Caro figlio mio, se io giudicassi come tu hai fatto, come credi che ti sarebbe andata già da un pezzo? E già da un pezzo non avrei più sedie qui, n‚ panche, n‚ poltrone e nemmeno un attizzatoio, ma avrei buttato giù tutto sui peccatori. Ormai non puoi più vivere in paradiso, ma fuori, davanti alla porta: vedi che bel risultato! Qui nessuno deve punire, se non io solo, il Signore-. Così san Pietro dovette ricondurre il sarto fuori, davanti alla porta del paradiso; e poiché‚ questi aveva le scarpe rotte e i piedi coperti di vesciche, prese un bastone e andò ad Aspetta un poco, dove stanno i soldati devoti a passare il tempo allegramente.
FINE
Il tavolino magico, l'asino d'oro e il randello castigamatti
tempo: 22'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 036
C'era una volta un sarto che aveva tre figli e una sola capra. Siccome questa doveva nutrirli tutti e tre con il suo latte, il sarto voleva che le si desse della buona erba e che, ogni giorno, la si conducesse al pascolo. Così i figli la portavano a pascolare a turno. Il maggiore la portò al camposanto, dove c'era l'erba più bella, e la lasciò scorrazzare liberamente. La sera, venuta l'ora del ritorno, domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. La capra rispose:-Ho mangiato a sazietà, neppure se ne avessi voglia potrei farci stare una foglia: bèee! bèee!--Allora andiamo a casa- disse il giovane; la prese per la fune, la condusse nella stalla e la legò. -Be'- disse il vecchio sarto -la capra ha avuto la sua pastura?- -Oh- rispose il figlio -è così sazia da non poter più mangiar foglia.- Ma il padre volle controllare di persona, andò nella stalla e domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. L'animale rispose:-Come potevo mangiare e lo stomaco saziare? Una tomba ho calpestato, neppure una foglia vi ho trovato: bèee! bèee!-Adirato, il sarto corse di sopra e disse al giovane: -Ehi, bugiardo! perché‚ hai fatto patir la fame alla mia capra?-. Staccò il bastone dal muro e lo scacciò. Il giorno dopo toccò al secondo figlio, e anche questi scelse un luogo ove si trovava della buona erba, e la capra se la mangiò tutta. La sera, venuta l'ora del ritorno, domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. La capra rispose:-Ho mangiato a sazietà, neppure se ne avessi voglia potrei farci stare una foglia: bèee! bèee!--Allora andiamo a casa- disse il giovane, la condusse nella stalla e la legò. -Be'- domandò il vecchio sarto -la capra ha avuto la sua pastura?- -Oh- rispose il giovane -è così sazia da non poter più mangiar foglia.- Ma il vecchio sarto volle controllare di persona, andò nella stalla e chiese: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. L'animale rispose:-Come potevo mangiare e lo stomaco saziare? Una tomba ho calpestato, neppure una foglia vi ho trovato: bèee! bèee!--Razza di bugiardo!- gridò il sarto. -Far patire la fame a una bestia tanto buona!- Corse di sopra, prese il bastone e scacciò di casa anche il secondo figlio. Ora toccò al terzo; questi volle farsi onore e perciò cercò per la capra la pastura migliore di questo mondo. La sera, venuta l'ora del ritorno, domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. L'animale rispose:-Ho mangiato a sazietà, neppure se ne avessi voglia potrei farci stare una foglia: bèee! bèee!--Allora andiamo a casa- disse il giovane, la condusse nella stalla e la legò. -Be'- disse il padre -la capra ha avuto finalmente la sua pastura?- -Oh- rispose il figlio -è così sazia da non poter più mangiar foglia.- Ma il vecchio sarto non si fidava, andò nella stalla e domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. L'animale malvagio rispose:-Come potevo mangiare e lo stomaco saziare? Una tomba ho calpestato, neppure una foglia vi ho trovato: bèee! bèee!--Aspetta me, bugiardone!- gridò il sarto fuor di s‚ dalla collera. -Vuoi proprio farmi diventar matto!- Andò di sopra con la faccia tutta rossa, prese il bastone e scacciò anche il terzo figlio. Ora egli era solo con la sua capra, e il giorno dopo le disse: -Vieni, cara bestiola, ti menerò io stesso al pascolo-. La prese per la fune e la condusse lungo siepi verdi, nel millefoglio e altre erbe che piacciono alle capre, lasciandola pascolare fino a sera. Allora domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. Essa rispose:-Ho mangiato a sazietà, neppure se ne avessi voglia potrei farci stare una foglia: bèee! bèee!--Allora andiamo a casa- disse il sarto; la condusse nella stalla e la legò. -Stavolta ti sei proprio saziata!- disse andandosene; ma la capra non lo trattò meglio e gridò:-Come potevo mangiare e lo stomaco saziare? Una tomba ho calpestato, neppure una foglia vi ho trovato: bèee! bèee!-All'udire queste parole, il sarto rimase avvilito e comprese di aver scacciato i suoi tre figli ingiustamente. -Aspetta- esclamò -creatura iniqua e scellerata, non devi più farti vedere fra gente per bene!- Corse di sopra a prendere il rasoio, insaponò la testa della capra e la rasò come il palmo della mano. Poi prese la frusta e la cacciò fuori. Ora il sarto era triste di essere costretto a vivere tutto solo, e avrebbe ripreso volentieri i suoi figli, ma nessuno sapeva dove erano finiti. Il maggiore era andato a imparare il mestiere da un falegname. Imparò con zelo e diligenza e quando, finito il tirocinio, dovette partire, il maestro gli regalò un tavolino di legno comune, dall'aspetto tutt'altro che particolare, ma quando lo si metteva a terra e si diceva: -Tavolino, apparecchiati!- eccolo d'un tratto coprirsi di una linda tovaglietta, con un piatto, posate, e vassoi di lesso e di arrosto quanti ce ne potevano stare, e un bel bicchierone di vino rosso che scintillava da rallegrare il cuore. Il giovane apprendista pensò: "Ne hai abbastanza per tutta la vita". Così se ne andò in giro per il mondo allegramente, senza curarsi che una locanda fosse buona o cattiva: quando gliene saltava il ticchio, non vi si fermava neppure, ma andava invece nel campo, nel bosco o in un prato, come più gli piaceva; si toglieva il tavolino dalle spalle, se lo metteva davanti, diceva -Tavolino apparecchiati!- ed ecco comparire tutto ciò che desiderava. Alla fine pensò di ritornare dal padre: l'avrebbe accolto volentieri con il tavolino magico! Ora avvenne che la sera, sulla strada del ritorno, giunse in una locanda ove si trovava molta gente che gli diede il benvenuto e lo invitò a sedersi e a mangiare con loro. -No- rispose il falegname -non voglio togliervi quei due bocconi di bocca; piuttosto sarete voi miei ospiti.- Essi pensarono che volesse burlarsi di loro, ma egli mise in mezzo alla stanza il suo tavolino di legno e disse: -Tavolino, apparecchiati!-. Ed eccolo subito guarnito di cibi squisiti, quali l'oste non avrebbe mai potuto procurare, e il cui profumo stuzzicò piacevolmente le nari degli ospiti della locanda. -Be', se è così, ci serviamo- dissero quelli. Si avvicinarono, estrassero i coltelli e non fecero complimenti, poiché‚ non appena un piatto era vuoto veniva subito sostituito da uno colmo. Così tutti se la spassarono allegramente; ma l'oste che se ne stava a guardare in un angolo senza sapere che dire, pensò fra s‚: "Un simile cuoco ti farebbe comodo per la tua locanda!". Quando fu tardi, gli avventori si coricarono uno dopo l'altro, e anche il giovane apprendista si mise a letto, lasciando in un angolo il suo tavolino magico. A mezzanotte l'oste si alzò perché‚ i pensieri non lo lasciavano in pace, andò nel ripostiglio, prese un vecchio tavolino, identico nell'aspetto, e lo mise nell'angolo scambiandolo con quello vero. Il mattino dopo il falegname pagò il conto, prese il tavolino dall'angolo, senza sospettare che potesse essere falso, e se ne andò per la sua strada. A mezzogiorno arrivò da suo padre che si rallegrò di cuore quando lo vide e disse: -Be', caro figlio, cos'hai imparato?-. -Babbo- rispose questi -sono diventato un falegname.- -E cosa hai portato dal viaggio?- chiese il padre. -Babbo, il meglio che abbia portato è il tavolino.- Il sarto lo osservò e vide che era un tavolino brutto e vecchio, ma il figlio disse: -Babbo, è un tavolino magico; quando lo metto in terra e gli ordino di apparecchiarsi, subito vi compaiono le vivande più squisite e un vino che rallegra il cuore. Invitate pure tutti i parenti che possano ristorarsi e rifocillarsi: il tavolino li sazia tutti-. Quando la compagnia fu raccolta, mise il suo tavolino in mezzo alla stanza e disse: -Tavolino, apparecchiati!-. Ma nulla apparve e quello rimase vuoto, come qualsiasi altro tavolo che non comprende la lingua. Allora il giovane capì che il tavolino gli era stato rubato, si vergognò di fare la figura del bugiardo e i parenti se ne tornarono a casa senza aver mangiato n‚ bevuto. Il padre continuò a fare il sarto e il figlio andò a lavorare a bottega. Il secondo figlio aveva imparato il mestiere da un mugnaio Finito il tirocinio il padrone gli disse: -Poiché‚ ti sei comportato così bene, ti regalo un asino che non tira il carretto e non porta sacchi!-. -E a che serve, allora?- domandò il giovane garzone. -Butta oro- rispose il mugnaio -se lo metti su un panno e dici: "Briclebrit" la brava bestia butta monete d'oro di dietro e davanti.- -E' una bella cosa!- disse il giovane garzone, ringraziò il padrone e se ne andò in giro per il mondo. Ovunque andasse, cercava sempre le cose più fini, e quanto più erano care, tanto meglio era per lui, perché‚ poteva pagarle. Dopo aver girato un po' il mondo, pensò: "Dovresti tornare da tuo padre, con l'asino d'oro ti accoglierà volentieri". Ora avvenne che egli capitò nella stessa locanda dove era stato suo fratello. L'oste voleva prendergli l'asino, ma egli disse: -No, il mio ronzino lo porto io stesso nella stalla e lo lego io, perché‚ devo sapere dov'è-. Poi domandò che cosa vi fosse da mangiare e ordinò ogni ben di Dio. L'oste fece tanto d'occhi e pensò: "Uno che provvede da s‚ al suo asino, non ha certo molto da spendere". Ma quando il giovane trasse di tasca due monete d'oro perché‚ provvedesse a comprargli ciò che aveva ordinato, allora corse a cercare il meglio che potesse trovare. Dopo pranzo il giovane domandò: -Quanto vi devo?-. -Un altro paio di monete d'oro- rispose l'oste. Il garzone frugò in tasca, ma l'oro era alla fine, allora prese con s‚ la tovaglia e uscì. L'oste, che non capiva, lo seguì piano piano e lo vide entrare nella stalla. Allora sbirciò da una fessura nella porta e vide il garzone stendere la tovaglia sotto l'asino, gridare -Briclebrit-, e subito dalla bestia cadde una vera pioggia d'oro, di dietro e davanti. -Capperi!- esclamò l'oste. -Un simile borsellino non è male!- Il giovane pagò e andò a dormire; ma durante la notte l'oste scese di nascosto, legò un altro asino al posto di quello magico e menò questo in un'altra stalla. La mattina dopo il garzone se ne andò con la bestia pensando di condurre con s‚ il suo asino d'oro. A mezzogiorno giunse dal padre che si rallegrò al vederlo e disse: -Cosa sei diventato, figlio mio?-. -Un mugnaio, caro babbo!- rispose egli. -Che cosa hai portato dal viaggio?- -Un asino, babbo.- Il padre disse: -Asini ce n'è abbastanza anche qui, mentre mancano altri animali-. -Sì- rispose il figlio -ma è un asino d'oro: se gli dico "Briclebrit" riempie di oro un'intera tovaglia! Fate radunare tutti i parenti, voglio renderli ricchi.- Quando furono tutti riuniti, il mugnaio disse: -Fate un po' di posto- e distese a terra la tovaglia più grande che c'era in casa. Poi andò a prendere l'asino e ve lo mise sopra. Ma quando gridò: -Briclebrit- pensando che le monete d'oro si sarebbero sparse per tutta la stanza, apparve chiaro che la bestia non conosceva affatto quell'arte, poiché‚ non tutti gli asini ci arrivano. Allora il ragazzo fece la faccia lunga e comprese di essere stato ingannato; i parenti invece se ne andarono a casa poveri come erano venuti, ed egli dovette entrare a servizio da un mugnaio. Il terzo fratello era andato a imparare il mestiere da un tornitore, e dovette fare pratica più a lungo. Ma i suoi fratelli gli scrissero come fossero andate le cose, e come proprio l'ultima sera l'oste li avesse derubati dei loro begli oggetti magici. Quando il tornitore ebbe finito il tirocinio e dovette partire, il padrone gli disse: -Poiché‚ ti sei comportato così bene, ti regalerò un sacco; dentro c'è un randello-. -Il sacco me lo metterò in spalla, ma che me ne faccio di un randello?- -Te lo spiego subito- rispose il padrone. -Se qualcuno ti ha fatto del male, basta che tu dica: "Randello, fuori dal sacco!" e il randello salta fuori e balla così allegramente sulla schiena della gente da farla stare otto giorni a letto senza potersi muovere; e non la smette se tu non dici: "Randello, dentro al sacco!".- L'apprendista lo ringraziò, si mise il sacco in spalla e se qualcuno gli si avvicinava per aggredirlo, egli diceva: -Randello, fuori dal sacco!- e subito il randello saltava fuori e li spolverava l'uno dopo l'altro sulla schiena, e non la smetteva finché‚ c'era giubba o farsetto; e andava così svelto che non te l'aspettavi ed era già il tuo turno. Una sera, anche il tornitore giunse nell'osteria dov'erano stati derubati i suoi fratelli. Mise il suo sacco accanto a s‚ sulla tavola e incominciò a raccontare le meraviglie che a volte si incontrano in giro per il mondo, come tavolini magici e asini d'oro. Ma tutto ciò non era nulla a confronto del tesoro che egli si era guadagnato e che si trovava nel sacco. L'oste tese le orecchie e pensò: "Cosa potrà essere? Non c'è il due senza il tre, mi pare giusto avere anche questo". Il forestiero si distese poi sulla panca e si mise il sacco sotto la testa come cuscino. Quando lo credette addormentato profondamente, l'oste gli si avvicinò e incominciò con gran cautela a smuovere e a tirare il sacco, cercando di toglierlo e di sostituirlo con un altro. Ma il tornitore lo stava aspettando da un pezzo e, come l'oste volle dare uno strattone vigoroso, quello gridò: -Randello, fuori dal sacco!-. Subito il randello saltò addosso all'oste e gli spianò le costole di santa ragione. L'oste incominciò a gridare da far pietà, ma più gridava e più forte il randello gli batteva il tempo sulla schiena, finché‚ cadde a terra sfinito. Allora il tornitore disse: -Vuoi rendere finalmente il tavolino magico e l'asino d'oro? Se non lo fai ricomincia la danza-. -Ah, no- esclamò l'oste -restituisco tutto volentieri, purché‚ ricacciate nel sacco quel maledetto diavolo!- Il garzone disse: -Per questa volta passi, ma guardati bene dal fare tiri mancini!-. Poi disse: -"Randello, dentro al sacco!" e ve lo lasciò. Così il mattino dopo il tornitore ritornò a casa dal padre con il tavolino magico e l'asino d'oro. Il sarto fu felice di rivederlo e disse: -Che cosa hai imparato?-. -Babbo- rispose -sono diventato tornitore.- -Un bel mestiere- disse il padre. -Cos'hai portato dal viaggio?- -Babbo, un randello nel sacco.- -Un randello? Utile davvero!- -Sì, babbo, ma se dico: "Randello, fuori dal sacco!" salta fuori e concia per le feste i malintenzionati; in questo modo ho potuto riprendere il tavolino magico e l'asino d'oro. Fate venire i miei fratelli e tutti i parenti: voglio che mangino, bevano e si riempiano le tasche d'oro.- Quando furono tutti riuniti, il tornitore stese un panno nella stanza, portò dentro l'asino e disse: -Adesso parlagli, caro fratello-. Allora il mugnaio disse: -Briclebrit!- e all'istante le monete d'oro caddero tintinnando sul panno, e la pioggia non cessò finché‚ tutti i presenti non ebbero le tasche piene. Poi il tornitore andò a prendere il tavolino e disse: -Adesso parlargli, caro fratello-. E il falegname disse: -Tavolino, apparecchiati!- e subito eccolo apparecchiato e abbondantemente fornito di piatti prelibati. Così i parenti mangiarono, bevvero e se ne andarono a casa tutti contenti. Il sarto invece visse in pace coi i suoi tre figli. Ma dov'è finita la capra, colpevole di aver spinto il sarto a scacciare i tre figli? Era corsa a rannicchiarsi in una tana di volpe. Quando la volpe rincasò, si vide sfavillare di fronte nell'oscurità due occhiacci e fuggì via piena di paura. L'orso la incontrò e vide che la volpe era tutta turbata. Allora disse: -Perché‚ hai quella faccia, sorella volpe?-. -Ah- rispose Pelorosso -nella mia tana c'è un mostro che mi ha guardato con due occhi fiammeggianti!- -Lo cacceremo fuori- disse l'orso; l'accompagnò alla tana e guardò dentro. Ma quando scorse quegli occhi di fuoco, fu preso anche lui dalla paura, cosicché‚ non volle cimentarsi con il mostro e se la diede a gambe. Incontrò però l'ape che vedendolo con un aspetto non proprio ilare, disse: -Orso, perché‚ hai quella faccia abbattuta?-. -Nella tana di Pelorosso c'è un mostro con gli occhiacci e non possiamo cacciarlo fuori!- rispose l'orso. L'ape disse: -Io sono una povera e debole creatura, che voi non guardate neanche per strada; ma voglio un po' vedere se posso aiutarvi-. Volò nella tana, si posò sulla testa pelata della capra e la punse con tanta forza che quella saltò su gridando: -Bèee! bèee!- e corse fuori come una pazza. E finora nessuno sa dove se ne sia andata.
FINE
Pollicino
tempo: 14'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 037
C'era una volta un povero contadino che una sera se ne stava seduto accanto al focolare ad attizzare il fuoco, mentre sua moglie filava. A un certo punto disse: -Com'è triste non aver bambini! E' così silenziosa la nostra casa, mentre dagli altri c'è tanto baccano e tanta allegria!-. -Sì- rispose la donna sospirando -fosse anche uno solo e pure piccolissimo, non più grande di un pollice, sarei già contenta, e gli vorremmo un gran bene.- Ora avvenne che la donna incominciò a star male, e dopo sette mesi diede alla luce un bambino, perfettamente formato, ma non più grande di un pollice. Allora essi dissero -E' proprio come lo abbiamo desiderato, e sarà il nostro caro figlioletto- e, dalla statura, lo chiamarono Pollicino. Non gli lesinarono il cibo, tuttavia il bimbo non crebbe e rimase com'era al momento della nascita. E aveva uno sguardo intelligente e si mostrò ben presto un ometto attento e giudizioso, che riusciva in tutto quello che intraprendeva. Un giorno il contadino si preparava ad andare nel bosco a tagliar legna, e mormorò: -Se ci fosse qualcuno che venisse a prendermi con il carro!-. -Oh babbo- esclamò Pollicino -lo farò io; il carro sarà nel bosco a tempo debito.- L'uomo si mise a ridere e disse: -Com'è possibile? Sei troppo piccolo per guidare un cavallo con le redini-. -Non fa niente, babbo, se la mamma vuole attaccarlo, mi metterò nell'orecchio del cavallo e gli suggerirò dove deve andare.- -Be'- rispose il contadino -proviamo, per una volta.- Quando giunse l'ora, la madre attaccò e mise Pollicino nell'orecchio del cavallo, e il piccolo gli gridava dove doveva andare: -Uh e oh! a destra e a sinistra!-. Tutto andò regolarmente come se ci fosse stato un cocchiere, e il carro se ne andava dritto verso il bosco. Ora avvenne che a una svolta, mentre il piccino gridava: -A sinistra!- passarono di lì due forestieri. -Dio mio!- disse l'uno -che è mai questo? C'è un carro e un carrettiere invisibile guida il cavallo!- -C'è qualcosa che non va- disse l'altro -seguiamolo e vediamo dove si ferma.- Intanto il carro andò dritto nel bosco dove spaccavano la legna. Quando Pollicino scorse suo padre, gridò: -Hai visto, babbo, eccomi qui con il carro, adesso mettimi giù-. Il contadino afferrò il cavallo con la sinistra, e con la destra tirò giù dall'orecchio il suo figlioletto, che tutto allegro si mise a sedere su di un fuscello di paglia. Quando due forestieri videro Pollicino, ammutolirono dallo stupore L'uno prese l'altro in disparte e disse: -Ascolta, quell'omuncolo potrebbe fare la nostra fortuna, se lo faremo vedere a pagamento in una grande città: compriamolo!-. Si avvicinarono al contadino e dissero: -Vendeteci l'omino, lo tratteremo bene!-. -No- rispose il padre -non venderei la radice del mio cuore per tutto l'oro del mondo.- Ma Pollicino, udito l'affare, gli si arrampicò su per le pieghe del vestito, si mise sulla sua spalla e gli sussurrò all'orecchio: -Babbo, vendimi pure, tanto ritornerò da te-.
Allora il padre lo diede a quei due per una bella moneta d'oro. -Dove vuoi metterti?- gli chiesero. -Ah, posatemi sulla tesa del cappello; là potrò andare su e giù come in una galleria, e ammirerò il paesaggio.- Lo accontentarono e quando Pollicino ebbe preso congedo dal padre, se lo portarono via. Camminarono fino all'imbrunire, allora il piccino disse: -Tiratemi giù, ne ho bisogno-. -Rimani pure li- rispose l'uomo che lo portava sul suo cappello -non m'importa; anche gli uccelli lasciano cadere qualcosa ogni tanto.- -No- disse Pollicino -so quel che si conviene; tiratemi giù, presto!- L'uomo si tolse il cappello, e mise il piccino in un campo lungo la strada; e quello si addentrò un poco fra le zolle qua e là; poi d'un tratto s'infilò in una tana di sorcio, che aveva cercato apposta. -Buona sera, signori, andatevene pure senza di me!- gridò loro. Quelli corsero e frugarono la tana con i bastoni, ma era fatica sprecata: Pollicino strisciava sempre più giù, e siccome presto fu notte fonda, dovettero andarsene pieni di rabbia e con la borsa vuota. Quando Pollicino si accorse che se ne erano andati, venne fuori dalla galleria sotterranea. -E' pericoloso camminare per i campi al buio- disse -è così facile rompersi l'osso del collo!- Per fortuna s'imbatté‚ in un guscio di lumaca: "Sia lode a Dio!" pensò. "Qui posso pernottare al sicuro!" e vi entrò. Poco dopo, mentre stava per addormentarsi, sentì passare due uomini, uno dei quali diceva: -Come faremo a rubare l'oro e l'argento del ricco parroco?-. -Potrei dirtelo io- gridò subito Pollicino. -Cos'è stato?- esclamò uno dei ladri, spaventato. -Ho sentito qualcuno parlare.- Si fermarono in ascolto e Pollicino tornò a dire: -Prendetemi con voi, vi aiuterò-. -Dove sei?- -Cercate per terra e ascoltate da dove viene la voce- rispose. Finalmente i ladri lo trovarono e lo sollevarono. -Ma come vuoi aiutarci tu, piccolo vermiciattolo!- dissero. -Guardate- egli rispose -entro dall'inferriata nella camera del parroco e vi sporgo fuori quello che volete.- -Be'- dissero quelli -vedremo cosa sei capace di fare.- Quando arrivarono alla parrocchia, Pollicino si introdusse nella camera, ma gridò subito a squarciagola: -Volete tutto quello che c'è qui?-. I ladri dissero, spaventati: -Parla piano, che nessuno ti senta!-. Ma Pollicino finse di non aver capito e gridò di nuovo: -Cosa volete? Volete tutto quel che c'è?-. L'udì la cuoca che dormiva nella stanza accanto, e si rizzò a sedere sul letto in ascolto. Ma per lo spavento i ladri erano corsi dietro un pezzo; finalmente ripresero coraggio e pensarono: "Quel piccoletto vuole prendersi gioco di noi". Tornarono e gli sussurrarono: -Adesso fa' sul serio e dacci qualcosa-. E di nuovo Pollicino gridò più forte che pot‚: -Vi darò tutto; porgete soltanto le mani!-. La donna che stava ad ascoltare l'udì distintamente, saltò giù dal letto ed entrò inciampando nella stanza. I ladri scapparono precipitosamente, come se avessero il fuoco alle calcagne; ma la donna, non riuscendo a vedere nulla, andò ad accendere un lume. Quando ella tornò, Pollicino, non visto, si cacciò nel fienile; e la donna, dopo aver cercato inutilmente in tutti gli angoli, si rimise a letto, credendo di aver sognato a occhi aperti. Pollicino si era arrampicato fra gli steli del fieno, dove aveva trovato un bel posto per dormire: voleva riposare fino a giorno per poi fare ritorno dai genitori. Ma lo aspettavano ben altre esperienze! Sì, non mancano tribolazioni e affanni a questo mondo! All'alba la serva si alzò per dar da mangiare alle bestie. Per prima cosa andò nel fienile, dove prese una manciata di fieno, proprio quello in cui dormiva il povero Pollicino. Ma egli dormiva così sodo che non se ne accorse e si svegliò soltanto in bocca alla mucca, che l'aveva preso con il fieno. -Ah, Dio mio!- gridò. -Come ho fatto a cadere nella mangiatoia?- Ma capì ben presto dove si trovava. Allora cercò di fare attenzione in modo da non finire fra i denti ed essere stritolato; poi dovette lasciarsi scivolare nello stomaco. -Nello stanzino hanno dimenticato le finestre!- disse -e non ci entra il sole, n‚ si può avere un lume!- L'abitazione non gli garbava affatto, e quel che era peggio, dalla porta continuava a entrare altro fieno e lo spazio si faceva più stretto. Alla fine, impaurito, gridò con quanto fiato aveva in gola: -Non portatemi più fieno! Non portatemi più fieno!-. La serva stava mungendo la mucca proprio in quel momento, e quando sentì parlare senza vedere nessuno, e riconobbe la stessa voce che aveva udito durante la notte, si spaventò tanto che sdrucciolò dallo sgabello e rovesciò il latte. Corse dal padrone in tutta fretta, gridando: -Dio mio, reverendo, la mucca ha parlato!-. -Sei impazzita- le rispose il parroco, tuttavia si recò di persona nella stalla per vedere cosa vi fosse. Ma ci aveva appena messo piede, che Pollicino si mise a gridare di nuovo: -Non portatemi più fieno! Non portatemi più fieno!-. Allora anche il parroco si spaventò e, pensando che si trattasse di uno spirito maligno, fece uccidere la mucca. Così fu macellata, ma lo stomaco dove si trovava Pollicino fu gettato nel letamaio. Pollicino cercò di tirarsi fuori con gran fatica; finalmente riuscì a farsi strada, ma proprio mentre stava per metter fuori la testa sopraggiunse un'altra disgrazia. Arrivò di corsa un lupo affamato che ingoiò tutto lo stomaco in un boccone. Ma Pollicino non si perse d'animo. "Forse il lupo mi darà retta" pensò e, dalla pancia, gli gridò: -Caro lupo, io so dove puoi trovare un cibo squisito-. -Dove?- chiese il lupo -In quella casa così e così, devi introdurti nella cantina e troverai focaccia, lardo e salsiccia a volontà.- E gli descrisse minutamente la casa di suo padre. Il lupo non se lo fece dire due volte: di notte, passando dalla cantina, entrò nella dispensa e mangiò a sazietà. Quando fu sazio volle andarsene, ma era diventato così grasso che non pot‚ più uscire per la stessa via. Pollicino aveva contato proprio su questo e si mise a fare un gran baccano nella pancia del lupo, strepitando e strillando più forte che poteva. -Vuoi startene zitto?- disse il lupo, -svegli i padroni.- -Ma come!- rispose il piccino -tu hai mangiato a crepapelle, adesso voglio divertirmi un po' anch'io!- E ricominciò daccapo a gridare con tutte le sue forze. Finalmente suo padre e sua madre si svegliarono, corsero alla dispensa e guardarono dalla fessura. Quando videro che c'era dentro un lupo, si spaventarono, e il marito corse a prendere l'ascia e la moglie la falce. -Stammi dietro- disse l'uomo entrando nella stanza -se non lo uccido al primo colpo, dagli addosso e fallo a pezzi.- Pollicino udì la voce del padre e gridò: -Caro babbo, sono qui, sono nella pancia del lupo!-. -Dio sia lodato! abbiamo ritrovato il nostro caro bambino!- rispose l'uomo, pieno di gioia. E disse alla donna di mettere via la falce per non fargli del male. Poi diede un gran colpo sulla testa del lupo, facendolo stramazzare a terra morto; e, presi coltello e forbici, gli tagliarono la pancia e tirarono fuori il piccino. -Ah- disse il padre -come siamo stati in pena per te!- -Sì, babbo, ho girato il mondo in lungo e in largo, grazie a Dio respiro di nuovo aria buona!- -Ma dove sei stato?- -Ah, babbo, sono stato in una tana di sorcio, nella pancia di una mucca e nel ventre di un lupo, adesso rimango con voi.- -E noi non ti venderemo più per tutto l'oro del mondo.- Allora abbracciarono e baciarono il loro Pollicino, gli diedero da bere e da mangiare e gli fecero fare dei vestiti nuovi perché‚ i suoi si erano sciupati nel viaggio.
FINE
La signora volpe
tempo: 4'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 039
PRIMA STORIA
C'era una volta un vecchio volpone con nove code che volle vedere se la moglie gli era fedele. Si coricò sotto la panca e non si mosse più come se fosse bell'e morto. La signora volpe salì nella sua camera, e vi si chiuse dentro, mentre la gatta, sua cameriera, cucinava accanto al focolare. Quando si seppe che il volpone era morto, qualcuno bussò alla porta:-Signorina mi sta a sentire? Veglia o è già a dormire?-La gatta andò ad aprire: era un volpacchiotto. Ella gli rispose- Son sveglia, e se quel che faccio vuol sapere, col burro scaldo la birra nel bicchiere. Desidera mangiare? E' pronto il desinare.--No grazie, signorina. Che fa la signora volpe?- La cameriera rispose:-Chiusa nella stanzina, piange la poverina; il suo signore morì all'improvviso e ora il pianto le guasta il viso.--Le dica che c'è qui un volpacchiotto che sarebbe disposto a sposarla!-Salì la gatta per la scaletta, bussò alla porta della stanzetta. -Signora volpe, è qui?- -Oh sì, gattina, sì!- -Signora volpe un pretendente c'è.- -Dimmi gattina, l'aspetto suo qual è?Ha nove belle code, come il signor volpone, buon'anima?- -Ah, no- rispose la gatta -ne ha solo una.- -Allora non lo voglio.- La gatta scese e mandò via il pretendente. Ma poco dopo bussarono di nuovo, e un'altra volpe si presentò alla porta; aveva due code, ma non ebbe miglior fortuna della prima. Poi ne arrivarono altre, sempre con una coda di più, e furono tutte respinte; finché‚ ne arrivò una che aveva nove code come il vecchio signor volpone. Quando lo venne a sapere, la vedova disse tutta allegra alla gatta:-Le porte subito spalancate, la vecchia volpe fuori spazzate.-Ma mentre stavano per celebrarsi le nozze, il vecchio volpone si mosse sotto la panca. Saltò su, picchiò tutta quella gentaglia e la cacciò fuor di casa con la signora volpe.
SECONDA STORIA
Il vecchio signor volpone era morto; così il lupo si presentò alla porta come pretendente, e bussò:-Cosa cucina, Gentile Signora, sul suo fornello così di buon'ora? Che fa di bello, suvvia mi dica!-Gatta: -Nel latte sbriciolo della mollica. Desidera mangiare? E' pronto il desinare-. Lupo: -No, grazie. Non è in casa la signora volpe?-. Gatta: -Rinchiusa nella stanzetta, si dispera la poveretta. E' triste e sconsolata da che il volpone l'ha lasciata-. Lupo: -Se ora vuole rimaritarsi, scender le scale è tutto il da farsi-. Sale di sopra la gattina e lesta picchia la porticina, tutto il salone ha attraversato, con cinque anelli la porta ha bussato: se ora vuole rimaritarsi, scender le scale è tutto il da farsi. La signora volpe domandò: -Ha calzoncini rossi e musetto a punta?-. -No- rispose la gatta. -Allora non mi serve.- Mandato via il lupo, vennero un cane, un cervo, una lepre, un orso, un leone e, uno dopo l'altro, tutti gli animali del bosco. Ma mancava sempre qualcosa che aveva avuto il vecchio signor volpone, e la gatta, ogni volta, dovette licenziare il pretendente. Finalmente arrivò un volpacchiotto. Allora la signora volpe disse: -Ha calzoncini rossi e musetto a punta?-. -Sì- rispose la gatta. -Salga pure!- esclamò la signora volpe, e ordinò alla cameriera di preparare le nozze:-Voglio vedere la casa pulita, ogni traccia del volpone sparita. Quando un grosso topone mangiava, nemmeno un pezzo a me ne dava!-Così celebrarono le nozze e si misero a ballare e, se non hanno smesso, ballano ancora.
FINE
Gli gnomi
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 039
PRIMA STORIA
Un calzolaio, senza sua colpa, era diventato così povero che non gli restava altro se non un pezzo di cuoio per fabbricare un paio di scarpe. Le tagliò di sera per farle il giorno dopo; e siccome aveva la coscienza pulita, andò tranquillamente a letto, si raccomandò a Dio e si addormentò. Al mattino, dopo aver detto le sue preghiere, volle mettersi al lavoro; ed ecco che le scarpe erano sulla tavola bell'e pronte. Egli non seppe che dire dalla meraviglia e, quando si avvicinò per osservarle, vide che erano fatte magistralmente: non c'era un punto sbagliato; un vero capolavoro. E quello stesso giorno venne pure un compratore, al quale le scarpe piacquero tanto che le pagò più del dovuto; così con quella somma il calzolaio pot‚ acquistare cuoio per due paia di scarpe. Le tagliò la sera per mettersi al lavoro di buon mattino, ma non ne ebbe bisogno poiché‚, quando si alzò, erano già pronte e non mancarono neanche i clienti che gli diedero denaro a sufficienza per comprare cuoio per quattro paia di scarpe. Egli le tagliò di nuovo alla sera e le trovò pronte al mattino; e si andò avanti così: quello che egli preparava la sera, al mattino era fatto, sicché‚ ben presto egli divenne un uomo benestante con tutto il necessario per vivere. Ora accadde che una sera, verso Natale, l'uomo aveva appena finito di tagliare il cuoio e, prima di andare a letto, disse a sua moglie: -Che ne diresti se stanotte stessimo alzati, per vedere chi ci aiuta così generosamente?- La donna acconsentì e accese una candela; poi si nascosero dietro gli abiti appesi negli angoli della stanza e stettero attenti. A mezzanotte arrivarono due graziosi omini nudi; si sedettero al tavolo del calzolaio; presero tutto il cuoio preparato e con le loro piccole dita incominciarono a forare, cucire, battere con tanta rapidità, che il calzolaio non poteva distogliere lo sguardo, tutto meravigliato. Non smisero finché‚ non ebbero finito e le scarpe non furono bell'e pronte sul tavolo; poi, prima che spuntasse il giorno, se ne andarono via saltellando. Il mattino dopo la donna disse: -Gli omini ci hanno fatti ricchi, dovremmo mostrarci riconoscenti. Mi rincresce che se ne vadano in giro senza niente da mettersi addosso e che debbano gelare. Sai cosa farò? Cucirò loro un camicino, una giubba, un farsetto e un paio di calzoncini, e farò un paio di calze per ciascuno; tu aggiungici un paio di scarpette-. L'uomo fu ben contento e la sera, quando ebbero terminato tutto, misero sul tavolo i regali al posto del cuoio; poi si nascosero per vedere che faccia avrebbero fatto gli omini. A mezzanotte giunsero di corsa tutti e due e volevano mettersi subito a lavorare, ma quando videro i vestiti mostrarono una gran gioia. Li indossarono in fretta e furia, poi fecero capriole, ballarono e saltarono fino a quando uscirono dalla porta. Da allora non tornarono più, ma il calzolaio se la passò bene tutta la vita.
SECONDA STORIA
Una povera fantesca, linda e laboriosa, spazzava ogni giorno e versava l'immondizia su di un grosso mucchio davanti alla porta di casa. Una mattina vi trovò sopra una lettera e, siccome non sapeva leggere, la portò alla sua padrona: era un invito da parte degli gnomi che la pregavano di tenere a battesimo un bambino. La fanciulla era titubante, ma alla fine si persuase poiché‚ le dissero che una cosa simile non si poteva rifiutare. Allora vennero tre gnomi e la condussero nella caverna di un monte. Là tutto era piccolo, ma leggiadro e sfarzoso da non dirsi. La puerpera giaceva in un letto d'ebano con i pomi di perle, le coperte erano tutte d'oro, la culla d'avorio e d'oro la tinozza. La fanciulla fece da madrina e volle poi ritornare a casa, ma gli gnomi la pregarono di restare ancora tre giorni da loro. Ella trascorse questo tempo divertendosi lietamente, e i nani la colmarono di gentilezze. Quando dovette ritornare le colmarono le tasche d'oro e la ricondussero fuori dal monte. Ma una volta a casa si accorse di essere stata assente non tre giorni, bensì un intero anno!
TERZA STORIA
A una madre gli gnomi avevano tolto il bambino in culla e ci avevano messo un mostriciattolo con un testone e due grossi occhi che non faceva che mangiare e bere. Disperata, la madre andò dalla vicina a chiedere consiglio. Questa le disse di portare il mostro in cucina, di metterlo sul focolare, accendere il fuoco e far bollire l'acqua in due gusci d'uovo: così l'avrebbe fatto ridere, e se rideva era tutto finito. La donna fece tutto quello che le aveva detto la vicina e, quando mise sul fuoco i gusci d'uovo pieni d'acqua, quello zuccone disse:-Nei gusci cucinare non ho mai visto alcuno, e sì che vecchio quanto me non c'è nessuno!-E si mise a ridere. Mentre rideva, sopraggiunse una folla di gnomi; portavano il bambino vero, lo misero sul focolare e si ripresero il mostro.
FINE
Il fidanzato brigante
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 040
C'era una volta un mugnaio che aveva una bella figlia; e quando fu in età da marito pensò: "Se si presenta un pretendente come si deve e me la chiede in moglie, gliela darò, in modo da sistemarla". Ora avvenne che arrivò un pretendente che sembrava molto ricco; e il mugnaio, non trovando nulla da ridire, gli promise sua figlia. Ma la fanciulla non lo amava come si deve amare un fidanzato, e provava orrore in cuor suo ogni volta che lo guardava o che pensava a lui. Un giorno egli le disse: -Sei la mia fidanzata e non vieni mai a trovarmi-. La fanciulla rispose: -Non so dov'è la vostra casa-. -La mia casa è la fuori, nel folto del bosco- rispose il fidanzato. Allora ella cercò delle scuse e disse: -Non riuscirò a trovare la strada-. Ma egli replicò: -Devi venire da me domenica prossima, ho già fatto degli inviti e perché‚ tu possa trovare la strada la cospargerò di cenere-. La domenica, quando la fanciulla stava per mettersi in cammino, le venne una gran paura. Si riempi le tasche di ceci e lenticchie: all'ingresso del bosco era sparsa la cenere, ella la seguì ma a ogni passo gettava qualche cece in terra a destra e a sinistra. Camminò quasi tutto il giorno fino a quando giunse a una casa isolata nel più folto del bosco. Dentro non c'era nessuno; regnava il più profondo silenzio. D'un tratto una voce gridò:-Scappa, sposina, qui abitano tanti feroci e temibili briganti!-. La fanciulla alzò gli occhi e vide che a gridare era stato un uccello rinchiuso in una gabbia. Di nuovo quello gridò:-Scappa, sposina, qui abitano tanti feroci e temibili briganti!-La bella sposa andò da una stanza all'altra e girò per la casa, ma era tutta vuota e non trovò anima viva. Finalmente giunse in cantina; là sedeva una vecchia decrepita. -Potete dirmi se il mio fidanzato abita qui?- domandò la ragazza. -Ah, povera bimba- rispose la vecchia -sei finita in un covo di assassini; le tue nozze saranno anche la tua morte: il brigante ti ucciderà. Vedi, ho dovuto mettere sul fuoco un gran paiolo pieno d'acqua. Se cadi nelle loro mani, ti fanno a pezzi, poi ti fanno bollire e ti mangiano. Se non ti salvo sei perduta!- La vecchia la nascose così dietro una grossa botte e disse: -Sta' cheta e non muoverti o sei spacciata! Fuggiremo quando i briganti dormiranno: da un pezzo ne aspettavo l'occasione-. Aveva appena pronunciato queste parole che i malviventi giunsero a casa trascinando con s‚ un'altra fanciulla; erano ubriachi e non badavano al suo pianto e alle sue grida. Le fecero bere tre bicchieri di vino, uno bianco, uno rosso e uno giallo; e il cuore le si schiantò. Poi le strapparono di dosso le belle vesti, la misero su di una tavola, fecero a pezzi il bel corpo e lo cosparsero di sale. La povera sposa dietro la botte era terrorizzata, temendo di dover subire la stessa sorte. Uno dei malviventi notò che l'uccisa portava un anello d'oro al dito e, non riuscendo subito a sfilarlo, prese una scure e mozzò il dito. Ma questo schizzò in aria e cadde dietro alla botte, proprio in grembo alla sposa. Il brigante prese un lume e si mise a cercarlo, ma non lo pot‚ trovare. Allora un altro disse: -Hai cercato anche dietro la grossa botte?-. Ma la vecchia gridò: -Venite a mangiare, cercherete domani; il dito mica vi scappa!-. I briganti smisero di cercare e si apprestarono a mangiare e a bere; ma la vecchia aveva versato loro un sonnifero nel vino, cosicché‚ si coricarono bell'e in cantina, si addormentarono e si misero a russare. Udendoli, la sposa uscì da dietro la botte, ma dovette scavalcare tutti i dormienti che giacevano in fila per terra e aveva una gran paura di svegliarne qualcuno. Ma con l'aiuto di Dio riuscì a passare, salì con la vecchia, e insieme fuggirono dalla casa degli assassini. Il vento aveva soffiato via la cenere, ma ceci e lenticchie erano germogliati e al chiaro di luna indicavano loro la via. Camminarono tutta la notte e giunsero al mulino la mattina dopo. La fanciulla raccontò al padre tutto quel che era accaduto. Quando venne il giorno delle nozze, comparve lo sposo; e il mugnaio aveva invitato tutti i suoi parenti e amici. A tavola ognuno dovette raccontare una storia. Allora lo sposo le disse: -Non hai niente da raccontare, cuor mio? Narra qualcosa anche tu-. Ella rispose: -Racconterò un sogno. Me ne andavo per un bosco e giunsi a una casa. Non c'era anima viva, ma soltanto un uccello, in una gabbia, che gridò per due volte:"Scappa, sposina, qui abitano tanti feroci e temibili briganti!"--Amor mio, non è che un sogno.- -Attraversai tutte le stanze ma erano vuote. Finalmente giunsi in cantina dove trovai una vecchia decrepita. "Abita qui il mio sposo?" le domandai. Ma lei rispose: "Ah, povera bimba, sei finita in un covo di assassini! Il fidanzato ti ucciderà, ti farà a pezzi e poi ti farà bollire per mangiarti!".- -Amor mio, non è che un sogno.- -Ma la vecchia mi nascose dietro una grossa botte, e non appena fui nascosta tornarono i briganti trascinando con s‚ una fanciulla. Le fecero bere tre qualità di vino: bianco, rosso e giallo; e il cuore le si schiantò.- -Amor mio, non è che un sogno.- -Poi le strapparono di dosso le belle vesti e, sulla tavola, fecero a pezzi il bel corpo e lo cosparsero di sale.- -Amor mio, non è che un sogno.- -Uno dei briganti vide che ella portava al dito un anello d'oro e, siccome non gli riusciva di sfilarlo, prese una scure e tagliò il dito. Ma questo schizzò in aria e cadde dietro la grossa botte, proprio nel mio grembo. Ed eccolo qui.- Così dicendo, lo tirò fuori e lo mostrò ai presenti. Il brigante, che all'udire il racconto era diventato bianco come gesso dallo spavento, vedendo il dito volle fuggire, ma gli ospiti lo fermarono e lo consegnarono al tribunale, dove fu giustiziato con tutta la banda per le sue infamie.
FINE
Messer Babau
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 041
C'era una volta un galletto e una gallinella che volevano fare un viaggio insieme. Il galletto costruì una bella carrozza con quattro ruote rosse, e vi attaccò quattro topolini. Poi salì con la gallinella e partirono. Incontrarono un gatto che disse loro: -Dove andate?- Il galletto rispose:-Via! Come saetta! A casa sua Messer Babau mi aspetta!--Prendetemi con voi- disse il gatto. Il galletto rispose: -Volentieri; sali dietro, per non rischiare di cadere davanti:Attenti voi! Udite! Le mie ruote rosse voglio pulite! Or devono girare! I ratti fischiare! E via! Come saetta! A casa sua Messer Babau mi aspetta!-Poi arrivarono una macina, un uovo, un'anatra, uno spillo e infine un ago. Tutti salirono in carrozza; ma quando giunsero a casa di Messer Babau, Messer Babau non c'era. I topolini condussero la carrozza nel fienile, il galletto e la gallinella volarono su di un bastone, il gatto si accomodò nel camino, l'anatra si appollaiò sul manico della pompa, lo spillo si conficcò nel cuscino della sedia, l'ago in quello del letto, la macina si mise sopra la porta e l'uovo si avvolse nell'asciugamano. In quel mentre ritornò a casa Messer Babau, andò al camino per accendere il fuoco e il gatto gli gettò in faccia la cenere. Allora corse in cucina per lavarsi ma, quando si avvicinò alla pompa, l'anatra gli schizzò l'acqua addosso; volle asciugarsi nell'asciugamano e l'uovo gli rotolò sulla faccia, si ruppe e gli impiastricciò gli occhi. Volle riposarsi e si mise a sedere, e lo punse lo spillo; allora incollerito andò a letto, ma come ebbe posato la testa sul cuscino, lo punse l'ago. Pieno di rabbia, si stava precipitando fuori di casa, ma quando giunse alla porta la macina saltò giù e l'ammazzò.
FINE
Il compare
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 042
Un pover'uomo aveva tanti figli, e aveva già pregato tutti di fare da padrino; così, quando gli nacque l'ultimo, non sapeva proprio più a chi rivolgersi. Allora tutto triste si mise a letto e si addormentò. Sognò che doveva andare alla porta e invitare a fare da padrino la prima persona che incontrava. Quando si svegliò l'uomo fece quello che aveva visto in sogno e colui che incontrò e che fece da padrino gli regalò una bottiglietta d'acqua dicendo: -Con quest'acqua puoi guarire chi è ammalato, a condizione però che la Morte sia al capezzale dell'infermo; se invece si trova ai piedi del letto, l'ammalato deve morire-. Una volta si ammalò il figlio del re, e l'uomo pot‚ risanarlo poiché‚ la Morte si trovava al suo capezzale; così fu anche una seconda volta; ma la terza, la Morte era ai piedi del letto e il principino dovette morire. Allora l'uomo volle recarsi dal compare per raccontargli l'accaduto, ma quando giunse a casa sua vi trovò una stranissima brigata. Al primo piano la scopa e la paletta se le davano di santa ragione. Egli chiese dove abitasse il compare e la scopa rispose: -Al piano di sopra-. Quando arrivò al secondo piano vide per terra un bel mucchio di dita di morto. Allora egli domandò di nuovo dove abitasse il compare, e un dito rispose: -Al piano di sopra-. Al terzo piano c'era una gran quantità di teste di morto che dissero ancora: -Al piano di sopra-. Al quarto vide dei pesci sul fuoco che friggevano e si cuocevano da s‚. Anch'essi dissero: -Al piano di sopra-. E quando giunse al quinto piano si trovò davanti a una stanza; sbirciò dal buco della serratura e vide il compare che aveva un paio di corna lunghe lunghe. Quand'egli entrò, il compare si buttò in fretta sul letto e le coprì. Disse l'uomo: -Compare, quando sono arrivato al primo piano, ho visto una scopa e una paletta darsele di santa ragione-. -Che sciocco!- rispose il compare -erano il servo e la serva che parlavano insieme.- -Al secondo piano ho visto delle dita di morto per terra.- -Che grullo siete! erano radici di scorzonera.- -Al terzo piano c'era un mucchio di teste di morto.- -Stupido! erano cavoli cappucci.- -Al quarto, ho visto dei pesci in padella, che sfrigolavano e si cuocevano da soli.- Aveva appena pronunciato queste parole che i pesci comparvero e si misero in tavola da s‚. -E al quinto piano, ho guardato dal buco della serratura e ho visto che voi, compare, avevate un paio di corna lunghe lunghe!- -Ma no che non è vero!-
FINE
Lo strano invito
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 043
Una volta un sanguinaccio e una salsiccia erano diventati amici e il sanguinaccio invitò la salsiccia a casa propria. Quando fu ora di pranzo questa si mise in cammino tutta contenta ma, giunta a casa del sanguinaccio, vide ogni sorta di stranezze. A ogni scalino della scala ù e ve n'erano tanti ù c'era sempre qualche sorpresa: qua, una scopa e una paletta che se le davano di santa ragione; là, una scimmia con una grossa ferita sulla testa; e altro ancora. La salsiccia era spaventata e sbigottita per quello che vedeva, tuttavia si fece coraggio ed entrò nella stanza, dove fu accolta con gentilezza dal sanguinaccio. La salsiccia incominciò allora a fare domande sulle cose strane che c'erano fuori per la scala, ma il sanguinaccio fece finta di non sentire, oppure disse che non valeva la pena di parlarne; diede delle spiegazioni solo riguardo alla scopa e alla paletta, dicendo: -Sarà stata la mia serva che stava ciarlando con qualcuno sulla scala-. Poi si mise a parlar d'altro. Dopo un po' il sanguinaccio uscì dicendo che doveva andare in cucina a controllare che il pranzo fosse stato servito per bene e che nulla fosse finito nella cenere. Nel frattempo, mentre la salsiccia andava su e giù per la stanza pensando sempre a quelle strane cose che aveva visto, entrò qualcuno ù non so dire chi sia stato ù e disse: -Ti avverto, salsiccia, sei capitata in una casa di feroci assassini; fuggi, se ti è cara la vita-. La salsiccia non se lo fece dire due volte, andò quatta quatta alla porta e corse via più veloce che pot‚. Non si fermò finché‚ non si fu allontanata un bel pezzo dalla casa, poi si volse indietro e vide il sanguinaccio in piedi nel sottotetto con un coltello lungo lungo in mano. Il coltello brillava come se fosse stato affilato, e con esso il sanguinaccio minacciava da lontano la salsiccia gridando: -Se ti avessi fra le mani, saprei ben io cosa farti.-
FINE
Comare Morte
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 044
Un pover’uomo aveva dodici figli e doveva lavorare giorno e notte per poter procurare loro soltanto il pane. Quando venne al mondo il tredicesimo, non sapendo più cosa fare, corse sulla strada per pregare il primo che incontrasse di fare da padrino. Il primo che incontrò fu il buon Dio. Il buon Dio già sapeva cosa gli pesava sul cuore e gli disse: “Pover’uomo, mi fai pena: terrò a battesimo il tuo bambino e provvederò perché‚ sia felice sulla terra.” - “Chi sei?” domandò l’uomo. “Sono il buon Dio.” - “Allora non ti voglio per compare, perché‚ dai ai ricchi e fai patire ai poveri la fame.” Così parlò l’uomo poiché‚ non sapeva con quanta saggezza Iddio dispensi ricchezza e povertà. Volse così le spalle al Signore e proseguì. Gli si avvicinò il diavolo e disse: “Cosa cerchi? Se sarò padrino di tuo figlio, gli darò oro e tutti i piaceri del mondo.” L’uomo domandò: “Chi sei?” - “Sono il diavolo.” - “Allora non ti voglio per compare: tu inganni gli uomini per sedurli,” disse l’uomo, e proseguì. Gli venne incontro la Morte e gli disse: “Prendimi per comare” - “Chi sei?” domandò l’uomo. “Sono la Morte, che fa tutti uguali.” Allora l’uomo disse: “Tu sei giusta: prendi sia il ricco sia il povero senza fare differenze; sarai la mia comare.” La Morte rispose: “Farò diventare tuo figlio ricco e famoso; chi mi ha per amica, non manca di nulla.” Disse l’uomo: “Domenica prossima c’è il battesimo: sii puntuale.” La Morte comparve come aveva promesso e fece da madrina al piccolo.
Quando il ragazzo fu adulto, un bel giorno la comare lo prese con s‚, lo portò nel bosco e, quando furono soli, gli disse: “Ora avrai il mio regalo di battesimo. Farò di te un medico famoso. Quando sarai chiamato al letto di un ammalato, ti apparirò ogni volta: se mi vedrai ai piedi del letto, puoi dire francamente che lo risanerai; gli darai un’erba che ti indicherò e guarirà; ma se mi vedi al capezzale dell’infermo, allora è mio e dovrai dire che ogni rimedio è inutile e che deve morire.” Poi la Morte gli indicò l’erba miracolosa e gli disse: “Guardati dall’usarla contro il mio volere.”
Ben presto il giovane divenne famoso in tutto il mondo. “Gli basta guardare l’ammalato per capire se guarirà o se deve morire.” Così si diceva di lui e la gente accorreva da ogni parte per condurlo dagli ammalati e gli davano tanto oro quanto egli chiedeva, cosicché‚ in poco tempo divenne un uomo ricco. Ora avvenne che anche il re si ammalò, e mandarono a chiamare il medico perché‚ dicesse se doveva morire. Ma quand’egli si avvicinò al letto, vide che la Morte si trovava al capezzale dell’ammalato: non vi era più erba che giovasse. Ma il medico pensò: “Forse per una volta posso ingannare la Morte, e dato che è la mia madrina, non se l’avrà poi tanto a male!” Così prese il re e lo voltò di modo che la Morte venne a trovarsi ai suoi piedi; poi gli diede l’erba e il re si riebbe e guarì. Ma la Morte andò dal medico adirata e con la faccia scura gli disse: “Per questa volta te la passo perché‚ sono la tua madrina, ma se ti azzardi a ingannarmi ancora una volta, ne andrà della tua stessa vita!”
Non molto tempo dopo si ammalò la principessa e nessuno riusciva e guarirla. Il re piangeva giorno e notte da non vederci più; infine fece sapere che chiunque la salvasse dalla morte, sarebbe diventato il suo sposo e l’erede della corona. Quando il medico giunse al letto dell’ammalata, vide la Morte al suo capezzale. Ma pensò alla promessa del re e inoltre la principessa era così bella che egli dimenticò l’ammonimento e, anche se la Morte gli lanciava terribili occhiate, voltò l’ammalata mettendole la testa al posto dei piedi e le diede l’erba, cosicché‚ ella tornò in vita.
Ma la Morte, vedendosi defraudata per la seconda volta di ciò che le spettava, andò dal medico e disse: “Seguimi!” lo afferrò con la sua mano di ghiaccio e lo condusse in una caverna sotterranea, ove si trovavano migliaia e migliaia di luci a perdita d’occhio. Alcune erano grandi, altre medie, altre ancora piccole. A ogni istante alcune si spegnevano e altre si accendevano, di modo che le fiammelle sembravano saltellare qua e là. “Vedi,” disse la Morte, “queste luci sono le vite degli uomini. Le più alte sono dei bambini, le medie dei coniugi nel fiore degli anni, le piccole dei vecchi. Ma a volte anche i bambini e giovani hanno soltanto una piccola candelina. Quando si spegne, la loro vita è alla fine ed essi mi appartengono.” Il medico disse: “Mostrami la mia.” Allora la Morte gli indicò un moccoletto piccolo piccolo che minacciava di spegnersi e disse: “Eccola!” Allora il medico si spaventò e disse: “Ah, cara madrina, accendetene un’altra perché‚ possa godere la mia vita, diventando re e sposo della bella principessa!” - “Non posso,” rispose la Morte, “deve spegnersi una candela prima che se ne accenda un’altra.” - “Allora mettete quella vecchia su di una nuova, che arda subito quando l’altra è finita,” supplicò il medico. Allora la Morte finse di esaudire il suo desiderio, e prese una grande candela nuova. Ma, nel congiungerle, sbagliò volutamente, poiché‚ voleva vendicarsi, e il moccolo cadde e si spense. Subito il medico stramazzò a terra: anch’egli era caduto nelle mani della Morte.
FINE
Il viaggio di Pollicino, il piccolo sarto
tempo: 11'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 045
Un sarto aveva un figlio piccolo piccolo, non più alto di un pollice, e per questo lo aveva chiamato Pollicino. Pollicino era, in compenso, molto coraggioso, e un giorno disse a suo padre -Babbo, voglio andarmene per il mondo a ogni costo-. -Bene, figlio mio- disse il vecchio; prese un lungo ago da rammendo e alla fiamma di una candela vi fece una capocchia di ceralacca: -Eccoti una bella spada per il viaggio-. Il piccolo sarto voleva mangiare ancora una volta con i genitori, perciò andò in cucina a vedere che cosa avesse preparato la mamma come pranzo d'addio. Era tutto pronto, e il piatto era sul focolare. Egli disse: -Be', che si mangia oggi?-. -Guarda tu stesso- rispose la madre. Allora Pollicino saltò sul focolare e guardò nel piatto, ma siccome allungò troppo il collo, il vapore che saliva dalle vivande lo prese e lo trascinò su per il camino Quando ricadde a terra, il piccolo sarto si ritrovò fuori nel vasto mondo; errò qua e là e andò a bottega da un padrone, ma non gli piaceva quello che gli davano da mangiare. -Signora padrona- le disse Pollicino -se non mi prepara un cibo migliore me ne vado, e domani mattina scriverò con il gesso sull'uscio di casa"Patate troppe, carne non c'è, ti saluto delle patate grande Re!".--Cosa vuoi, tu, pulce?- disse la padrona; andò in collera e afferrò uno straccio per colpirlo; ma il nostro piccolo sarto si acquattò, agile, sotto il ditale, di là fece capolino e mostrò la lingua alla padrona. Ella sollevò il ditale per afferrarlo, ma Pollicino si gettò tra gli stracci e mentre la padrona li buttava di qua e di là per cercarlo, egli si cacciò nella fessura del tavolo -Ehi, ehi, signora padrona!- gridò sporgendo la testa, e quando ella stava per colpirlo, lui saltò giù nel cassetto. Alla fine però la padrona riuscì ad acchiapparlo e lo cacciò di casa. Cammina cammina, il piccolo sarto arrivò in una gran foresta, dove incontrò una banda di briganti che volevano rubare il tesoro del re. A vederlo essi pensarono che un cosino simile potesse essere loro utile. -Olà!- gridò uno -tu, Maciste, vuoi venire con noi alla camera del Tesoro? Puoi strisciare dentro quatto quatto e gettarci fuori il denaro.- Pollicino rifletté‚ e infine disse di sì e li accompagnò alla camera del Tesoro. Osservò bene la porta da cima a fondo, per vedere se vi fosse una crepa; fortunatamente ne trovò una, ma stava per entrare quando una delle sentinelle disse: -Guarda là che brutto ragno! Voglio schiacciarlo-. -Ma lascia in pace quella povera bestia- disse l'altra -non ti ha fatto niente.- Così Pollicino riuscì a passare illeso attraverso la fessura. Giunto nella camera del Tesoro, aprì la finestra e buttò uno scudo dopo l'altro ai briganti che se ne stavano là sotto. Ma, sul più bello, sentì venire il re che voleva rimirare il suo tesoro, così dovette nascondersi in fretta. Il re si accorse che mancava un bel po' di talleri sonanti, ma non riuscì a capire chi potesse averli rubati, poiché‚ le serrature erano in buono stato e tutto pareva ben custodito. Allora se ne andò dicendo alle due sentinelle: -Fate attenzione, c'è qualcuno dietro al denaro-. Quando Pollicino riprese il suo lavoro da capo, le guardie sentirono il denaro muoversi tintinnando: clip, clap, clip, clap. Allora si precipitarono dentro per acchiappare il ladro. Ma il piccolo sarto, che li udì venire, fu ancora più lesto, saltò in un angolo e si nascose sotto uno scudo, che lo copri interamente. Poi si mise a canzonare le guardie gridando: -Ehi, son qui-. Quelle gli si avventarono contro, ma non fecero in tempo ad arrivare che Pollicino era saltato sotto uno scudo in un altro angolo e, gridava: -Ehi, son qui!-. Quelle si slanciarono indietro, ma Pollicino era già da un pezzo in un terzo angolo e gridava: -Ehi, son qui!-. Così li fece correre avanti e indietro come matti per la stanza, finché‚ se ne andarono sfiniti. Allora, a uno a uno, buttò fuori tutti gli scudi; l'ultimo lo scagliò con tutte le sue forze, ci saltò sopra, e così scese al volo dalla finestra. I briganti lo colmarono di lodi: -Sei un grande eroe- dicevano -vuoi diventare il nostro capo?-. Ma Pollicino si scusò dicendo che prima doveva vedere il mondo. Allora divisero il bottino, ma egli volle soltanto un soldo, perché‚ non poteva portarne di più. Poi cinse nuovamente la spada, disse addio ai briganti e se ne andò per la sua strada. Andò a lavorare presso qualche mastro artigiano, ma siccome il mestiere non gli riusciva, entrò a servizio come domestico di una locanda. Ma le serve non lo potevano soffrire perché‚, senza essere visto, egli vedeva tutto quello che esse facevano di nascosto e andava a riferire ai padroni ciò che si erano prese dai piatti o avevano portato via dalla cantina. Allora dissero: -Aspetta un po' che ti rendiamo pan per focaccia!- e si misero d'accordo per giocargli un brutto tiro. Infatti una volta che una di loro stava falciando il giardino, vedendo Pollicino correr qua e là, su e giù per gli steli, lo falciò svelta insieme all'erba, legò il tutto in un grosso straccio, e lo gettò di nascosto alle mucche. Se lo ingoiò una nera e grossa, senza fargli alcun male. Ma laggiù dov'era finito non gli piaceva perché‚ era tutto buio e non c'era neanche una candela. Quando munsero la mucca egli gridò:-Tic, tac, ulmo, olmo il secchio è già colmo?-Il rumore della mungitura, tuttavia, impedì che lo sentissero. Poco dopo entrò nella stalla il padrone e disse: -Domani questa mucca deve essere macellata-. Allora a Pollicino venne una gran paura e si mise a gridare più forte: -Son qua dentro!-. Il padrone l'udì ma non capiva da dove provenisse la voce e disse: -Dove sei?-. -Dentro a quella nera.- Ma il padrone non capì che cosa volesse dire e se ne andò via. Il giorno dopo la mucca fu macellata. Fortunatamente nello squartarla, a Pollicino non fu torto neanche un capello, ma finì tra la carne da salsiccia. Quando il macellaio si avvicinò per mettersi al lavoro, egli gridò con quanto fiato aveva in gola: -Non tagliate troppo a fondo! Non tagliate troppo a fondo! Sono qua sotto!-. Ma per via del rumore, nessuno lo udì. Ora il povero Pollicino era in pericolo, ma la necessità aguzza l'ingegno, così si mise a saltare con grande agilità fra i coltellacci, in modo che neanche uno lo toccò e riuscì a salvare la pelle. Ma non riuscì ancora a sfuggire; non c'era altra soluzione: dovette lasciarsi pigiare in un sanguinaccio insieme a pezzetti di lardo. Il luogo era un po' stretto, e per giunta, lo affumicarono appeso alla cappa del camino, dove egli si annoiò parecchio. Finalmente, d'inverno, lo tirarono giù, perché‚ la salsiccia doveva essere offerta a un ospite. Quando la padrona la tagliò a fette, Pollicino fece bene attenzione a non allungare troppo il collo, per non rischiare di farselo tagliare; finalmente colse il momento adatto, si fece largo e saltò fuori. Il piccolo sarto non volle trattenersi ulteriormente in quella casa dove gli era andata così male, e si rimise subito in cammino. Ma mentre era in aperta campagna, incrociò una volpe che lo inghiottì mentre era soprappensiero. -Ehi, signora volpe!- gridò il piccolo sarto -sono finito nella vostra gola, lasciatemi andare!- -Hai ragione- rispose la volpe -mangiarti è come non aver niente nello stomaco; se mi prometti i polli che sono nel cortile di tuo padre, ti lascerò libero.- -Con tutto il cuore- rispose Pollicino -avrai tutti i polli, te lo prometto.- Allora la volpe lo lasciò andare e lo portò a casa lei stessa. Quando il padre rivide il suo amato figlioletto, le diede volentieri tutti i polli. -In compenso ti porto a casa una bella moneta- disse Pollicino a suo padre, e gli porse il soldo che si era guadagnato in viaggio. -Ma perché‚ la volpe si è beccata i poveri pollastrelli?- -Ma sciocco, a tuo padre sarà sempre più caro suo figlio che i polli del cortile.-
FINE
L'uccello strano
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 046
C'era una volta uno stregone che, prendendo le sembianze di un pover'uomo, andava mendicando di casa in casa e catturava così le belle ragazze. Nessuno sapeva dove le portasse, poiché‚ nessuna faceva ritorno. Un giorno si presentò alla porta di un uomo che aveva tre belle figlie; aveva l'aspetto di un mendicante e portava sulla schiena una gerla, come se volesse riporvi le elemosine. Egli chiese qualcosa da mangiare, e, quando la figlia maggiore uscì per porgergli un tozzo di pane, la sfiorò appena, ed ella dovette saltare nella gerla. Poi se ne andò a grandi passi e se la portò a casa, in mezzo a una buia foresta. Nella casa tutto era splendido ed egli le diede tutto ciò che ella potesse desiderare e disse: -Qui con me starai bene, poiché‚ potrai avere tutto ciò che desideri-. Durò così qualche giorno, poi le disse: -Devo fare un viaggio e lasciarti sola per un po' di tempo. Eccoti le chiavi di casa: puoi andare dappertutto e guardare ogni cosa. Solo una stanza ti è vietata, quella che è aperta da questa chiavicina; ti proibisco di entrarci, pena la vita-. Le diede anche un uovo e disse: -Serbalo con cura e portalo sempre con te: se andasse perso, sarebbe una gran disgrazia-. La ragazza prese le chiavi e l'uovo e promise di far ogni cosa per bene. Ma come egli fu partito, non resistette alla curiosità e, dopo aver girato la casa da cima a fondo, aprì anche la porta proibita. Ma come si spaventò all'entrarvi! In mezzo alla stanza c'era una gran vasca insanguinata e dentro c'erano dei cadaveri squartati. Lo spavento fu così grande che l'uovo le sfuggì di mano e cadde nella vasca. Lo tirò fuori subito e lo ripulì dal sangue, ma invano perché‚ poco dopo ricompariva. Si mise a fregare e a raschiare in tutti i modi, ma non riuscì a toglierlo. Poco dopo lo stregone ritornò dal suo viaggio e disse: -Ridammi le chiavi e l'uovo-. Ella glieli porse tremando e, dalle macchie rosse, egli capì subito che era stata nella camera del sangue. Allora disse: -Ci sei andata contro la mia volontà; ora ci andrai contro la tua. Hai finito di vivere-. Poi l'afferrò, la trascinò nella stanza e la fece a pezzi, facendone scorrere il sangue sul pavimento. Dopo la gettò nella vasca insieme alle altre. -Adesso mi prenderò la seconda- disse lo stregone, e assumendo le sembianze di un pover'uomo ritornò a elemosinare davanti alla casa. La seconda fanciulla gli portò un pezzo di pane e, come aveva fatto con la prima, se ne impadronì sfiorandola appena, la portò via e la uccise nella camera del sangue, poiché‚ anch'essa aveva osato aprirla. Così andò a prendersi anche la terza sorella e se la portò a casa.
Questa però era accorta e astuta. Quando lo stregone partì, dopo averle dato le chiavi e l'uovo, per prima cosa andò a mettere questo al sicuro, poi si recò nella camera proibita. Ah, cosa vide! Le sue care sorelle giacevano entrambe nella vasca miseramente assassinate! Ma ella le sollevò, raccolse le loro membra e le ricompose: testa, tronco, braccia, gambe. Quando furono tutte ricomposte: incominciarono a muoversi e si ricongiunsero, e le due fanciulle aprirono gli occhi e ritornarono in vita. Allora, piene di gioia, si baciarono e si abbracciarono, ma la più giovane le condusse fuori e le nascose. Quando lo stregone ritornò volle che la ragazza gli mostrasse le chiavi e l'uovo e, non potendo scorgervi traccia di sangue, disse: -Hai superato la prova, sarai la mia sposa-. -Sì- rispose ella -ma prima devi promettermi che porterai una cesta colma di oro ai miei genitori, e devi portarla tu stesso sulle tue spalle; nel frattempo io preparerò le nozze.- Poi andò nella sua cameretta dove aveva nascosto le sorelle e disse: -Vi metterò in salvo ma, come sarete a casa, mandatemi aiuto-. Allora le mise entrambe in un cesto e le ricoprì d'oro, così da nasconderle completamente. Infine chiamò lo stregone e disse: -Adesso porta via la cesta; e io starò a guardarti dalla mia finestrina, perché‚ non ti fermi a riposare per strada!-. Lo stregone si caricò la cesta sulle spalle e si mise in cammino, ma la cesta gli pesava tanto che gli grondava il sudore dalla faccia, e credeva di cader morto per il gran peso. Allora volle riposarsi un po', ma subito una gridò dal cesto: -Vedo dalla mia finestrina che ti riposi; va' avanti subito!-. Egli credette che fosse la sua sposa a parlare, e si rimise a camminare. Poco dopo volle sedersi nuovamente ma di nuovo la fanciulla gridò: -Vedo dalla mia finestrina che ti riposi; va' avanti subito!-. E ogni volta che si fermava, la fanciulla gridava, ed egli doveva andare avanti finché‚, senza fiato, depose la cesta con l'oro e le due fanciulle a casa dei loro genitori. Nel frattempo la sposa preparava la festa nuziale. Prese un teschio ghignante, l'adornò e lo portò davanti all'abbaino, come se guardasse fuori. Poi, dopo aver invitato alla festa gli amici dello stregone, si cacciò in un barilotto di miele, tagliò il materasso e ci si avvoltolò, così da sembrare uno strano uccello e in modo da non essere riconosciuta. Uscì di casa e, per via, incontrò una parte degli invitati che le chiesero:-Da dove vieni bizzarro uccellino?- -Da un nido di piume qui vicino.- -La bella sposa a che s'è dedicata?- -Alla casetta: l'ha pulita e spazzata, ora alla finestra se ne sta affacciata.-Poi incontrò lo sposo, che se ne stava ritornando a casa, e anch'egli le domandò:-Da dove vieni bizzarro uccellino?- -Da un nido di piume qui vicino.- -La bella sposa a che s'è dedicata?- -Alla casetta: l'ha pulita e spazzata, ora alla finestra se ne sta affacciata.-Lo sposo alzò lo sguardo e vide il teschio tutto agghindato. Pensando che fosse la sua sposa le fece un cenno con il capo e la salutò cordialmente. Ma era appena entrato in casa con i suoi ospiti che arrivarono i parenti della sposa, mandati in suo soccorso. Chiusero tutte le porte perché‚ nessuno potesse scappare e appiccarono il fuoco alla casa. Così lo stregone dovette bruciare con tutta la sua gentaglia.
FINE
Il ginepro
tempo: 21'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 047
Molto tempo fa, saran duemila anni, c'era un ricco che aveva una moglie bella e pia; si volevano molto bene, ma non avevano bambini. Essi li desideravano tanto ma, per quanto la donna pregasse il buon Dio giorno e notte, i figli non venivano mai. Davanti alla loro casa, in cortile, c'era un pianta di ginepro. Un giorno, d'inverno, la donna sedeva sotto il ginepro intenta a sbucciarsi una mela e, sbucciandola, si tagliò un dito, e il sangue cadde sulla neve. -Ah- disse la donna sospirando e, tutta mesta, guardava quel sangue -avessi un bambino rosso come il sangue e bianco come la neve!- Come ebbe pronunciato queste parole, gioì in cuor suo, come se avesse avuto un presentimento. Andò a casa e passò una luna e la neve scomparve; dopo due lune la terra tornò a diventare verde; dopo tre lune spuntarono i fiori; dopo quattro lune gli alberi del bosco si colmarono di linfa e i rami verdi si intricarono fitti: gli uccellini cinguettavano da far risuonare tutto il bosco e i fiori cadevano dagli alberi; passata la quinta luna, la donna se ne stava sotto il ginepro e l'odore della pianta era così dolce che il cuore le scoppiava di gioia, ed ella cadde in ginocchio per la grande felicità; dopo la sesta luna i frutti ingrossarono, ed ella si chetò; alla settima luna colse alcune bacche del ginepro e le mangiò avidamente e si fece triste e si ammalò; passò l'ottava luna, ed ella chiamò suo marito e disse piangendo: -Se dovessi morire, seppelliscimi sotto il ginepro-. Poi si consolò e tornò a rallegrarsi, fino a quando, trascorsa la nona luna, le nacque un bambino, bianco come la neve e rosso come il sangue, e quando ella lo vide, la sua gioia fu così grande che morì. Allora il marito la seppellì sotto il ginepro e pianse amaramente; dopo qualche tempo incominciò a calmarsi, pianse ancora un po', poi di smise di disperarsi e, dopo un'altro po', riprese moglie. Dalla seconda moglie ebbe una figlia, mentre dalla prima aveva avuto un maschietto, rosso come il sangue e bianco come la neve. Quando la donna guardava la figlia, le voleva tanto bene; ma quando guardava il bambino, si sentiva trafiggere il cuore e le sembrava che egli la ostacolasse in ogni cosa. Pensava sempre a come fare avere a sua figlia tutta l'eredità; ispirata dal maligno si mise a odiare il ragazzo, e lo cacciava da un angolo all'altro, e lo picchiava, sicché‚ il povero bambino aveva sempre tanta paura; quando usciva di scuola non aveva più pace. Una volta la donna era salita in camera; poco dopo vi giunse anche la figlioletta e disse: -Mamma, dammi una mela-. -Sì, bimba mia- disse la donna e tirò fuori dal cassone una bella mela. Il cassone aveva un gran coperchio, pesante, con una serratura di ferro grossa e tagliente. -Mamma- disse la bimba -anche mio fratello potrà averne una?- La donna si indispettì, ma disse: -Sì, quando torna da scuola-. E, quando lo vide arrivare dalla finestra, come se fosse posseduta dal maligno, strappò la mela a sua figlia e disse: -Non devi averla prima di tuo fratello-. Poi gettò la mela nel cassone e lo richiuse. Quando il bimbo entrò, invasata dal diavolo, gli disse simulando dolcezza: -Figlio mio, vuoi anche tu una mela?- e lo guardò con il volto sconvolto. -Mamma- disse il bambino -hai una faccia che fa spavento! Sì, dammi una mela!- Le parve di dovergli fare animo. -Vieni con me- disse, e sollevò il coperchio -prenditi una mela.- E quando il bimbo si chinò, il diavolo la consigliò e, paff!, ella chiuse il coperchio sbattendolo, sicché‚ la testa schizzò via e andò a cadere fra le mele rosse. Allora ella fu presa dalla paura e pensò: "Potessi allontanarlo da me!". Andò di sopra nella sua camera e prese dal primo cassetto del suo comò un fazzoletto bianco, appoggiò nuovamente la testa sul collo e lo fasciò con il fazzoletto, in modo che non si vedesse niente; mise a sedere il bambino davanti alla porta con la mela in mano. Poco dopo Marilena andò in cucina da sua madre che se ne stava davanti al focolare a rimestare una pentola d'acqua calda. -Mamma- disse Marilena -mio fratello è seduto davanti alla porta ed è tutto bianco e ha in mano una mela; gli ho chiesto se me la dava, ma non mi ha dato risposta; allora mi sono spaventata.- -Vacci ancora- disse la madre -e se non ti risponde di nuovo, dagli una sberla!- Allora Marilena andò e gli disse: -Fratello, dammi la mela!- ma questi continuava a tacere ed ella gli diede uno scapaccione, e la testa ruzzolò per terra. Atterrita, si mise a piangere e a singhiozzare, e corse dalla mamma a dirle: -Ah, mamma! ho staccato la testa a mio fratello!-. E piangeva e piangeva e non voleva darsi pace. -Marilena- disse la madre -cos'hai fatto! Ma chetati che nessuno se ne accorga, tanto non si può farci niente: lo cucineremo in salsa agra.- La madre prese il bambino e lo fece a pezzi, lo mise in pentola e lo fece cuocere nell'aceto. Ma intanto Marilena se ne stava lì vicino e piangeva e piangeva e le lacrime finivano tutte nella pentola e non c'era bisogno di sale. Quando il padre tornò a casa, si sedette a tavola e disse: -Dov'è mio figlio?-. In quel mentre la madre portò un piatto grande grande, pieno di carne in salsa agra, e Marilena piangeva da non poterne più. Allora il padre ripeté‚: -Dov'è mio figlio?-. -Ah- disse la madre -se n'è andato in campagna, dal prozio; vuol fermarsi un po' là.- -Che ci va a fare? E senza neanche salutarmi!- -Be' aveva voglia di andarci e mi ha chiesto se poteva fermarsi sei settimane. Starà bene là.- -Ah- disse l'uomo -mi dispiace proprio! Non è giusto, avrebbe dovuto dirmi almeno addio!- Detto questo, incominciò a mangiare e disse: -Marilena, perché‚ piangi? Tuo fratello ritornerà-. -Ah, moglie- aggiunse poi -che roba buona è mai questa, dammene ancora!- E più ne mangiava, più ne voleva e diceva: -Datemene ancora, e voi non mangiatene: è come se fosse roba mia-. E mangiava e mangiava buttando tutte le ossa sotto la tavola, finché‚ ebbe finito. Marilena intanto andò a prendere il suo più bel fazzoletto di seta dall'ultimo cassetto del suo comò, raccolse tutte le ossa e gli ossicini che erano sotto la tavola, li depose nel fazzoletto di seta e li portò fuori, piangendo calde lacrime. Li mise nell'erba verde sotto il ginepro, e come l'ebbe fatto si sentì meglio e non pianse più. Allora il ginepro incominciò a muoversi, i rami si scostavano e poi si riunivano di nuovo, come quando uno è contento e fa così con le mani. Poi dalla pianta uscì una nube e sembrava che nella nube ardesse un fuoco, e dal fuoco volò fuori un bell'uccello che cantava meravigliosamente e si alzò a volo nell'aria; e quando se ne fu andato, il ginepro tornò come prima e il fazzoletto con le ossa era scomparso. E Marilena era felice e contenta, proprio come se il fratello fosse ancora vivo. Se ne tornò a casa tutta allegra, si mise a tavola e mangiò. L'uccello intanto era volato via, si era posato sulla casa di un orefice e si era messo a cantare:-La mia mamma mi ha ammazzato e mio padre mi ha mangiato. Marilena, la mia sorella, l'ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell'uccello ha qui cantato!-L'orefice era nella sua bottega e stava lavorando una catena d'oro quando udì l'uccello cantare sul suo tetto, e trovò quel canto bellissimo. Si alzò per uscire e perse una pantofola, ma volle andare lo stesso in mezzo alla strada, anche se aveva una pantofola e una calza. Aveva indosso il suo grembiule di cuoio e in una mano teneva la catena d'oro, nell'altra le tenaglie; e il sole splendeva illuminando tutta la strada. Si fermò a guardare l'uccello. -Uccello- disse -come canti bene! Cantami ancora una volta la tua canzone.- -No- rispose l'uccello -non canto due volte senza una ricompensa: se mi dai la catena d'oro te la canterò di nuovo.- -Eccotela- disse l'orefice -e ora canta ancora!- Allora l'uccello discese a prendere la catena d'oro, la prese con la zampa destra, si posò davanti all'orefice e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato e mio padre mi ha mangiato. Marilena, la mia sorella, l'ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell'uccello ha qui cantato!-Poi l'uccello volò alla casa di un calzolaio, si posò sul tetto e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato e mio padre mi ha mangiato. Marilena, la mia sorella, l'ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell'uccello ha qui cantato!-Il calzolaio l'udì e corse davanti alla porta in maniche di camicia. Guardò sul tetto e dovette ripararsi gli occhi con la mano perché‚ il sole non lo abbagliasse. -Uccello- disse -come canti bene!- E chiamò dalla porta: -Moglie, vieni giù, c'è un uccello che canta così bene!-. Poi chiamò sua figlia, i figli e i garzoni, il servo e la serva e tutti andarono in strada a vedere l'uccello. Com'era bello! Le sue piume erano rosse e verdi, e attorno al collo sembrava tutto d'oro, e gli occhi gli brillavano come fossero stelle. -Uccello- disse il calzolaio -cantami ancora una volta la tua canzone.- -No- rispose l'uccello -non canto due volte senza una ricompensa: devi regalarmi qualcosa.- -Moglie- disse l'uomo -vai in solaio; sull'asse più alta c'è un paio di scarpe rosse: portale qui.- La donna andò a prendere le scarpe. -Ecco qua, uccello- disse l'uomo -ora cantami di nuovo la tua canzone.- L'uccello scese a prendere le scarpe con la zampa sinistra, poi volò sul tetto e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato e mio padre mi ha mangiato. Marilena, la mia sorella, l'ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell'uccello ha qui cantato!-Quando ebbe finito di cantare, volò tenendo la catena nella zampa destra e le scarpe nella sinistra. Volò lontano fino a un mulino, il mulino girava: clipp clapp, clipp clapp, clipp clapp. E nel mulino c'erano venti garzoni che battevano una macina con il martello: tic tac, tic tac, tic tac. E il mulino girava: clipp clapp, clipp clapp, clipp clapp. Allora l'uccello volò su di un tiglio davanti al mulino e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato-e uno smise di lavorare-e mio padre mi ha mangiato. - Altri due smisero di lavorare e ascoltarono - Marilena, la mia sorella,-altri quattro smisero di lavorare - l'ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato,-solo otto battevano ancora-e sotto il ginepro-ancora cinque - ha tutto celato. - ancora uno - Cip! Cip! Che bell'uccello ha qui cantato!-Allora anche l'ultimo smise di lavorare e pot‚ ancora sentire la fine. -Uccello- disse quest'ultimo -come canti bene! Lascia che senta pure io, canta di nuovo.- -No- rispose l'uccello -non canto due volte senza una ricompensa: se mi dai la macina canterò di nuovo.- -Sì- disse l'uomo -se solo fosse mia te la darei.- -Sì- dissero gli altri -se canta di nuovo l'avrà.- Allora l'uccello scese e i mugnai, tutti e venti, con l'aiuto di una leva sollevarono la macina: Oh! oh, op! Oh, oh, op! Oh, oh, op! L'uccello vi introdusse il capo e la mise come un collare; poi tornò sull'albero e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato e mio padre mi ha mangiato. Marilena, la mia sorella, l'ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell'uccello ha qui cantato!-Quand'ebbe finito di cantare, distese le ali e aveva nella zampa destra la catena, nella sinistra le scarpe e la macina intorno al collo; e volò via verso la casa di suo padre. Nella stanza il padre, la madre e Marilena erano a tavola, e il padre disse: -Ah, che gioia, mi sento felice!-. -No- disse la madre -io ho paura, come quando sta per arrivare un gran temporale.- Marilena invece se ne stava seduta e piangeva, piangeva. In quel mentre arrivò l'uccello e, quando si posò sul tetto, -Ah- esclamò il padre -sono tanto felice, e come splende il sole là fuori! è come se dovessi rivedere un vecchio amico!-. -No- disse la donna -io ho tanta paura: mi battono i denti ed è come se avessi del fuoco nelle vene!- E si strappò il corpetto e tutto il resto. E Marilena se ne stava seduta in un angolo a piangere, tenendo il grembiule davanti agli occhi, e lo bagnava di lacrime. Allora l'uccello si posò sul ginepro e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato-La donna si tappò le orecchie e chiuse gli occhi per non vedere e non sentire, ma le orecchie le rintronavano come se vi rumoreggiasse la tempesta e gli occhi le bruciavano come folgorati da lampi. -e mio padre mi ha mangiato.--Ah, mamma!- esclamò l'uomo -c'è fuori un bell'uccello che canta tanto bene! e il sole è così caldo! e par di sentire odor di cinnamomo.--Marilena, la mia sorella,-Allora Marilena mise la testa sulle ginocchia e si mise a piangere a dirotto, ma l'uomo disse: -Vado fuori, devo vedere l'uccello da vicino-. -Ah, non andare!- disse la donna -a me pare che tremi tutta la casa e che sia in fiamme.- Ma l'uomo uscì a guardare l'uccello. -l'ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell'uccello ha qui cantato.-Terminato il canto, l'uccello lasciò andare la catena d'oro proprio intorno al collo dell'uomo, e gli stava a pennello. Allora l'uomo rientrò e disse: -Vedessi che bell'uccello! mi ha regalato una catena d'oro ed è così bello!-. Ma la donna aveva una gran paura e cadde a terra lunga distesa e la cuffia le cadde dalla testa. E l'uccello cantò di nuovo:-La mia mamma mi ha ammazzato--Ah, potessi sprofondare sotto terra, da non doverlo sentire.--e mio padre mi ha mangiato-La donna stramazzò a terra, come morta-Marilena, la mia sorella,--Ah- disse Marilena -voglio uscire anch'io; chissà se l'uccello regala qualcosa anche a me!- E uscì-l'ossa ha legato con la cordicella, una corda di seta ha usato,-E l'uccello le gettò le scarpe. -e sotto il ginepro ha tutto celato Cip! Cip! Che bell'uccello ha qui cantato.-Allora Marilena si sentì felice e piena di gioia. Infilò le scarpette rosse, si mise a danzare e corse in casa. -Ah- disse -ero così triste quando sono uscita, e adesso sono così allegra! Che uccello magnifico! mi ha regalato un paio di scarpette rosse.- -No.- disse la donna, saltò in piedi e i capelli le si rizzarono sulla testa come fiamme -mi sembra che il mondo stia per crollare; uscirò anch'io: forse starò meglio.- Ma come oltrepassò la soglia, paff!, l'uccello le buttò la macina sulla testa, ed essa stramazzò a terra morta. Il padre e Marilena sentirono e corsero fuori: fumo e alte fiamme si sprigionarono dal suolo e, quando tutto cessò, ecco il fratellino che prese per mano il padre e Marilena. Tutti e tre felici entrarono in casa e si misero a tavola a mangiare.
FINE
Il vecchio Sultano
tempo: 6'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 048
Un contadino aveva un cane fedele di nome Sultano, che era diventato vecchio e non era più in grado di acchiappare nulla. Un giorno il contadino si trovava in cortile con la moglie e diceva -Domani ucciderò il vecchio Sultano: non è più buono a nulla- La donna ebbe compassione della povera bestia e rispose: -Ci ha serviti fedelmente per tanti anni! Potremmo continuare a mantenerlo per carità-. -Ma che dici?- replicò l'uomo -sei matta: non ha più un dente in bocca, e nessun ladro potrebbe averne paura; ci ha serviti e in cambio ha avuto buoni pranzetti. Adesso che non è più buono a nulla è ora che se ne vada.- Il cane, che era disteso lì vicino e aveva sentito tutto, si spaventò ed era triste che l'indomani fosse il suo ultimo giorno. Sultano aveva un buon amico, il lupo. La sera, di nascosto, andò a trovarlo nel bosco e gli raccontò il triste destino che lo attendeva. -Non preoccuparti- disse il lupo -ho un'idea. Domani, allo spuntar del giorno, il tuo padrone e sua moglie vanno a prendere il fieno e portano con s‚ il loro piccino. Mentre lavorano lo mettono all'ombra dietro la siepe: sdraiati vicino a lui, come se volessi fargli la guardia. In quel momento io uscirò dal bosco e lo rapirò; tu corrimi dietro più in fretta che puoi, come se me lo volessi strappar via. Poi lo lascerò cadere e tu lo riporterai indietro, così crederanno che l'abbia salvato tu e te ne saranno troppo grati per farti del male; anzi tornerai a essere nelle loro grazie e non ti faranno mai mancare nulla.- La proposta piacque al cane, e tutto andò secondo le previsioni. Il contadino si mise a gridare vedendo il lupo correr via per il campo con il suo bambino, ma quando il vecchio Sultano glielo riportò, tutto felice lo accarezzò e disse: -Non ti farò alcun male, ti manterrò gratuitamente finché‚ vivrai-. Poi disse alla moglie: -Va' subito a casa e prepara una zuppa che non sia da masticare per il vecchio Sultano; dagli anche il mio guanciale, glielo regalo per la sua cuccia-. Da quel giorno in poi, il vecchio cane fu trattato con ogni riguardo, ed egli non avrebbe potuto desiderare di meglio. Il lupo venne a fargli visita e si rallegrò che tutto fosse andato secondo il loro disegno. -Senti compare- disse poi -chiuderai un occhio se per caso rubassi al tuo padrone una bella pecora. Oggigiorno è difficile tirare a campare!- -No- rispose il cane -io sono fedele al mio padrone; non posso concedertelo!- Ma il lupo pensò che il cane non facesse sul serio e, di notte, venne a prendersi il buon bocconcino. Invece il fedele Sultano aveva avvertito il suo padrone, e questi aspettò il lupo nel granaio e lo conciò per le feste. Il lupo dovette darsela a gambe, ma gridò al cane: -Questa me la pagherai, cattivo compagno!-. La mattina dopo il lupo mandò il cinghiale a chiamare il cane nel bosco, per risolvere la questione. Ma il cane non pot‚ trovare nessun padrino, all'infuori di un gatto con tre zampe. Quando si misero in cammino insieme, il povero gatto zoppicava e rizzava la coda per il dolore. Il lupo e il suo padrino si trovavano già sul posto ma, quando videro arrivare l'avversario, pensarono che portasse con s‚ una sciabola, mentre non si trattava che della coda del gatto. E vedendo la povera bestia saltellare su tre gambe, credettero che stesse raccogliendo pietre per lanciarle addosso a loro. Allora s'impaurirono tutti e due: il cinghiale si nascose nel fogliame, mentre il lupo saltò su di un albero. Avvicinandosi, il cane e il gatto si stupirono di non vedere nessuno. Ma il cinghiale non aveva potuto nascondersi del tutto nel fogliame: le orecchie sporgevano un po' fuori. Mentre il gatto si guardava attorno, il cinghiale mosse le orecchie: il gatto, credendo che si trattasse di un sorcio, vi si buttò sopra azzannandole per bene. Allora il cinghiale saltò su strepitando e fuggì gridando: -Là, sull'albero c'è il colpevole!-. Il cane e il gatto alzarono gli occhi e scorsero il lupo che si vergognò di avere avuto tanta paura e accettò di fare la pace con il cane.
FINE
I sei cigni
tempo: 12'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 049
Una volta un re cacciava in una gran foresta e inseguiva la selvaggina con tanto ardore che nessuno del suo seguito riuscì a tenergli dietro. Infine, non riuscendo a trovare la via del ritorno, si rese conto di essersi smarrito. D'un tratto vide avvicinarsi una vecchia curva e con la testa tremante: era una strega. Il re le rivolse la parola dicendole: -Indicatemi il cammino per attraversare il bosco-. -Oh sì, maestà- rispose ella -ma a condizione che sposiate mia figlia facendo di lei una regina, altrimenti sarete costretto a rimanere qui e morire di fame poiché‚, senza il mio aiuto, non riuscirete mai a uscire dal bosco.- Il re, al quale era cara la vita, impaurito acconsentì, e si lasciò condurre dalla fanciulla. Ella era molto bella, ma al re non piaceva, e non poteva guardarla senza provare un intimo ribrezzo. La strega li condusse entrambi sulla via che menava al castello e, quando vi giunsero, il re dovette mantenere la propria parola e sposare la ragazza. Il re era vedovo e aveva avuto dalla prima moglie sei maschietti e una bambina, e li amava più di ogni altra cosa al mondo. Temendo che la matrigna potesse fare loro del male, li portò in un castello solitario, sito in mezzo a un bosco. La strada per arrivarvi era così difficile da trovare che egli stesso non l'avrebbe trovata se una maga non gli avesse dato un gomitolo di filo che, gettato a terra, si svolgeva da solo e indicava il cammino. Ma il re si recava così sovente dai suoi cari figlioletti,che la regina finì coll'accorgersene e, curiosa, volle sapere cosa andasse a fare il re da solo nella foresta. Riuscì a corrompere i servi e questi le rivelarono il segreto. Per prima cosa, ella si impossessò del gomitolo con l'astuzia, poi fece sette piccole camicine e si mise in cammino. Il gomitolo le indicò la strada e i sei bambini, vedendo arrivare qualcuno, pensarono che si trattasse del loro babbo e pieni di gioia gli corsero incontro. Allora ella gettò una camicina su ciascuno, e non appena questa sfiorò il corpo, essi si trasformarono in cigni e se ne volarono via per la foresta. La regina se ne andò a casa convinta di essersi liberata dei figliastri; ma la bambina non le era corsa incontro con i fratelli, e la matrigna non sapeva della sua esistenza. Il giorno seguente venne il re ma non trovò nessuno all'infuori della bambina che gli raccontò di aver visto, dalla sua finestra, volar via i suoi cari fratelli trasformati in cigni; e gli mostrò le piume che avevano lasciato cadere nel cortile e che ella aveva raccolto. Il re ne fu molto afflitto, ma non pensò che fosse stata la regina a compiere il maleficio e, temendo che gli rapissero anche la bambina, voleva portarla con s‚. Ma ella aveva paura della matrigna e pregò il padre di lasciarle trascorrere una notte nel castello del bosco. Quando si fece buio, la fanciulla fuggì addentrandosi nel bosco. Camminò tutta la notte e anche il giorno dopo senza mai fermarsi, finché‚ non pot‚ più proseguire, vinta dalla stanchezza Allora vide una capanna, salì e trovò una stanza con sei lettini e, non osando coricarsi in nessuno di essi, vi si cacciò sotto, sdraiandosi sul pavimento per passarvi la notte. Al calar del sole udì un frullar d'ali e vide sei cigni entrare volando dalla finestra. Essi si posarono a terra e si soffiarono addosso l'un l'altro, fino a farsi cadere tutte le piume di dosso; e la pelle di cigno si tolse come una camicia. La fanciulla li osservò e vide che erano i suoi fratelli; allora, piena di gioia, sbucò fuori dal letto. Anch'essi si allietarono nello scorgere la loro sorellina, ma, ben presto, si fecero tristi e dissero: -Qui non puoi rimanere, questo è un covo di briganti, se tornano a casa e ti trovano, ti uccideranno-. -Voi non potete proteggermi?- domandò la sorellina. -No- risposero -soltanto per un quarto d'ora ogni sera possiamo deporre la nostra pelle di cigno e riprendere le sembianze umane; ma poi ci trasformiamo nuovamente.- -E io non posso liberarvi in qualche modo?- chiese la sorellina. -Ah no- risposero -sarebbe troppo difficile: per sei anni non puoi ridere n‚ parlare e nel frattempo devi cucire per noi sei camicine di astri. Se pronunci una sola parola, tutto è perduto.- Detto questo, il quarto d'ora era trascorso e i fratelli tornarono a trasformarsi in cigni. Ma la fanciulla disse fra s‚: -Voglio liberare i miei fratelli ad ogni costo, dovesse costarmi la vita-. La mattina dopo andò a raccogliere astri, andò a sedersi su di un albero alto e si mise a cucire. Non poteva parlare con nessuno n‚ aveva voglia di ridere: sedeva e non faceva altro che lavorare. Era già passato molto tempo, quando il re del paese andò a caccia nel bosco e i suoi cacciatori giunsero all'albero sul quale la ragazza sedeva e cuciva. Essi le gridarono: -Chi sei? Vieni giù!-. Ma ella non rispose e si limitò a scuotere il capo. Essi ricominciarono a chiamarla e la fanciulla gettò loro la sua catenina d'oro pensando di accontentarli. Ma siccome quelli non la lasciavano in pace, gettò loro la cintura, e visto che neanche questo servì, le giarrettiere, e infine tutto ciò che aveva indosso e di cui poteva privarsi, sicché‚ alla fine rimase in camicia. Ma i cacciatori non erano soddisfatti, salirono sull'albero, presero la fanciulla e la portarono al re. Il re le chiese: -Chi sei? Di dove vieni?- e glielo chiese in tutte le lingue che sapeva, ma ella non rispose e rimase muta come un pesce. Ella era tanto bella, che egli non aveva mai visto nessuna donna di pari avvenenza e si innamorò ardentemente. Così l'avvolse nel suo mantello, la mise sul suo cavallo e la portò al castello. Là le fece indossare ricche vesti, sicché‚ ella pareva sfolgorare nella sua bellezza come la luce del giorno, ma non si riuscì a farla parlare. A tavola il re la fece sedere al suo fianco e fu così colpito dalla modestia e dalla sua grazia che disse: -Questa sarà la mia sposa, e nessun'altra al mondo!-. E, dopo qualche giorno, si celebrarono le nozze. Ma il re aveva una madre cattiva, che non era contenta di quel matrimonio e parlava male della giovane regina. -Chissà da dove viene quella ragazzaccia che non sa parlare!- diceva. -Non è degna di un re!- Dopo un anno, quando la regina diede alla luce il suo primogenito, la vecchia glielo portò via e le spalmò la bocca di sangue. Poi andò dal re e la accusò di essere un'orchessa. Ma il re non volle crederle, tanto grande era il suo amore, e non permise che le torcessero un capello. Intanto la regina continuava a cucire le sue camicie senza curarsi d'altro. La seconda volta partorì un altro bel maschietto, e la perfida suocera usò lo stesso artificio; ma il re non pot‚ risolversi a prestar fede alle sue parole e disse: -E' muta e non può difendersi, sennò manifesterebbe la sua innocenza-. Ma quando la vecchia rapì il neonato per la terza volta e accusò la regina che non disse una parola a propria discolpa, il re fu costretto a consegnarla al tribunale che la condannò a morire bruciata viva. Venuto il giorno dell'esecuzione, ecco trascorso anche l'ultimo giorno dei sei anni durante i quali ella non aveva potuto n‚ ridere n‚ parlare per poter liberare i suoi cari fratelli dal potere dell'incantesimo. Le sei camicie erano pronte, soltanto all'ultima mancava ancora la manica sinistra. Quando la condussero al rogo, le prese con s‚ e, mentre stavano per appiccare il fuoco, alzò gli occhi e vide sei cigni giungere a volo per l'aria. Allora il cuore le balzò in petto dalla gioia e disse fra s‚: -Ah, Dio, finalmente questo tempo così duro volge alla fine!-. Con un frullar d'ali, i cigni si posarono accanto a lei, sicché‚ ella pot‚ gettare loro addosso le camicie: come ne furono sfiorati, le pelli di cigno caddero ed essi le stettero innanzi sani e salvi; solo il più giovane al posto del braccio sinistro aveva un'ala di cigno attaccata alla schiena. S'abbracciarono e si baciarono, poi la regina andò dal re che stava a guardare attonito. -Carissimo sposo- disse -finalmente mi è concesso di parlare e posso dirti di essere stata accusata ingiustamente.- E gli raccontò come la vecchia l'avesse calunniata in modo esecrabile e tenesse nascosti i suoi tre bambini. Allora furono mandati a prendere con grande gioia del re, mentre, per castigo, la cattiva suocera fu legata al rogo e ridotta in cenere. Il re, la regina e i sei fratelli vissero a lungo felici e contenti.
FINE
Rosaspina
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 050
C'era una volta un re e una regina che ogni giorno dicevano: "Ah, se avessimo un bambino!" Ma il bambino non veniva mai. Un giorno, mentre la regina faceva il bagno, ecco che un gambero saltò fuori dall'acqua e le disse: "Il tuo desiderio sarà esaudito: darai alla luce una bambina."
La profezia del gambero si avverò e la regina partorì una bimba così bella che il re non stava più nella pelle dalla gioia e ordinò una gran festa. Non invitò soltanto i suoi parenti, amici e conoscenti, ma anche le fate perché‚ fossero benevole e propizie alla neonata. Nel suo regno ve n'erano tredici, ma siccome egli possedeva soltanto dodici piatti d'oro per il pranzo, dovette rinunciare a invitarne una.
Dopo la festa, le fate diedero alla bimba i loro doni meravigliosi: la prima le donò la virtù, la seconda la bellezza, la terza la ricchezza, e così via, tutto ciò che si può desiderare al mondo. Dieci fate avevano già formulato il loro auspicio, quando giunse la tredicesima che voleva vendicarsi perché‚ non era stata invitata. Ella disse ad alta voce: "A quindici anni, la principessa si pungerà con un fuso e cadrà a terra morta." Allora si fece avanti la dodicesima, che doveva formulare il suo voto; certo non poteva annullare la spietata sentenza, ma poteva attenuarla e disse: "La principessa non morirà ma cadrà in un sonno profondo che durerà cento anni."
Il re, sperando di poter preservare la sua bambina da quella grave disgrazia, ordinò che tutti i fusi del regno fossero bruciati. Frattanto, nella fanciulla si adempirono i voti delle fate: ella era così bella, virtuosa, gentile e intelligente, che non si poteva guardarla senza volerle bene. Ora avvenne che proprio il giorno in cui compì quindici anni, il re e la regina erano fuori ed ella rimase sola nel castello. Giro dappertutto, visitò ogni stanza a piacer suo e giunse infine a una vecchia torre. Salì una stretta scaletta che la condusse fino a una porticina. Nella serratura c'era una chiave arrugginita e quand'ella la girò, la porta si spalancò: in una piccola stanzetta c'era una vecchia con un fuso che filava con solerzia il suo lino.
"Oh, nonnina," disse la principessa, "che cosa stai facendo?" - "Filo," rispose la vecchia, e assentì con il capo. "Come gira quest'aggeggio!" esclamò la fanciulla, e prese in mano il filo per filare anche lei. Ma non appena lo toccò, si compì l'incantesimo ed ella si punse un dito.
Come sentì la puntura, cadde a terra in un sonno profondo. E il re e la regina, che stavano rincasando, si addormentarono anch'essi con tutta la corte. I cavalli si addormentarono nelle stalle, i cani nel cortile, le colombe sul tetto, le mosche sulla parete; persino il fuoco che fiammeggiava nel camino si smorzò e si assopì, l'arrosto smise di sfrigolare e il cuoco, che voleva prendere per i capelli uno sguattero colto in flagrante, lo lasciò andare e si addormentò anche lui. Tutto ciò che aveva parvenza di vita, tacque e dormì.
Intorno al castello crebbe una siepe di fitte spine, che ogni anno diventava sempre più alta finché‚ arrivò a cingerlo completamente e a ricoprirlo tutto; così non se ne vide più nulla, neanche le bandiere sul tetto. Ma nel paese si diffuse la leggenda di Rosaspina, la bella addormentata, come veniva chiamata la principessa; e ogni tanto veniva qualche principe che si avventurava attraverso il roveto tentando di raggiungere il castello. Ma non riuscivano a penetrarvi perché‚ le spine li trattenevano come se si fosse trattato di mani, ed essi si impigliavano e morivano miseramente.
Dopo molti, molti anni, giunse nel paese un altro principe; un vecchio gli parlò dello spineto che circondava un castello nel quale una meravigliosa principessa di nome Rosaspina dormiva con tutta la corte. Già suo nonno gli aveva narrato che molti principi avevano tentato di penetrare fra le spine ma vi erano rimasti imprigionati ed erano miseramente periti. Allora il giovane disse: "Io non ho timore: attraverserò i rovi e vedrò la bella Rosaspina." Il vecchio cercò di dissuaderlo in tutti i modi, ma egli non gli diede retta.
Ora, proprio il giorno in cui il principe tentò l'impresa erano trascorsi cento anni. Quando si avvicinò al roveto, non trovò che fiori bellissimi che si scostarono spontaneamente al suo passaggio, ricongiungendosi alle sue spalle, sicché‚ egli passò illeso. Giunto nel cortile del castello, vide cavalli e cani da caccia pezzati che dormivano, distesi a terra; sul tetto erano posate le colombe con le testine sotto l'ala. Quando entrò, le mosche dormivano sulla parete e il cuoco, in cucina, tendeva ancora la mano per afferrare lo sguattero, mentre la serva sedeva davanti al pollo nero che doveva spennare.
Egli andò oltre e vide dormire tutta la corte e in alto, sul trono, dormivano il re e la regina. Proseguì ancora e il silenzio era tale che egli udiva il proprio respiro. Finalmente giunse alla torre e aprì la porta della cameretta in cui dormiva Rosaspina. Giaceva là, ed era così bella che egli non riusciva a distoglierne lo sguardo. Si chinò e le diede un bacio.
E, come l'ebbe baciata, Rosaspina aprì gli occhi, si svegliò e lo guardò tutta ridente. Allora scesero insieme e il re, la regina e tutta la corte si svegliarono e si guardarono l'un l'altro stupiti. I cavalli in cortile si alzarono e si scrollarono; i cani da caccia saltarono su scodinzolando; le colombe sul tetto levarono la testina da sotto l'ala, si guardarono intorno e volarono nei campi; le mosche ripresero a muoversi sulle pareti; il fuoco in cucina si ravvivò, si mise ad ardere e continuò a cuocere il pranzo; l'arrosto ricominciò a sfrigolare, il cuoco diede allo sguattero uno schiaffo che lo fece gridare, e la serva finì di spennare il pollo.
Poi furono celebrate con gran fasto le nozze del principe e di Rosaspina, che vissero felici fino alla morte.
FINE
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