lunedì 19 luglio 2010
**IL RITRATTO DI DORIAN GRAY**- OSCAR WILDE - Biografia di O.Wilde estesa in italiano da James Joyce nel 1909 sul "Piccolo di Trieste"!
§>>>>> O S C A R W I L D E <<<<<§
Oscar Wilde
IL RITRATTO
DI DORIAN GRAY
OSCAR WILDE
Articolo di James Joyce apparso sul "Piccolo della Sera" di Trieste (24 marzo 1909) e scritto in italiano dall'autore
Oscar Fingal O'Flahertie Wills Wilde. Tali furono i titoli altisonanti ch'egli, con alterigia giovanile, volle far stampare sul frontespizio della sua prima raccolta di versi e con quel medesimo gesto altiero con cui credeva nobilitarsi scolpiva forse in modo simbolico, il segno delle sue pretese vane e la sorte che già l'attendeva. Il suo nome lo simboleggia: Oscar, nipote del re Fingal e figlio unigenito di Ossian nella amorfa odissea celtica, ucciso dolorosamente per mano del suo ospite mentre sedeva a mensa: O'Flahertie, truce tribù irlandese il cui destino era di assalire le porte di città medievali, ed il cui nome, incutendo terrore ai pacifici, si recita tuttora in calce all 'antica litania dei santi fra le pesti, l'ira di Dio e lo spirito di fornicazione "dai feroci O'Flahertie, libera nos Domine". Simile a quell'Oscar egli pure, nel fior degli anni, doveva incontrare la morte civile mentre sedeva a mensa coronato di finti pampini e discorrendo di Platone: simile a quella tribù selvatica doveva spezzare le lance della sua facondia paradossale contro la schiera delle convenzioni utili: ed udire, esule e disonorato, il coro dei giusti recitare il suo nome assieme a quello dello spirito immondo.
Il Wilde nacque cinquantacinque anni fa. Suo padre era un valente scienziato, ed è stato chiamato il padre dell'otologia moderna: sua madre partecipò al movimento rivoluzionario letterario del '48, collaborando all'organo nazionale sotto lo pseudonimo di Speranza con le sue poesie e con articoli incitanti il popolo alla presa del castello di Dublino. Ci sono delle circostanze riguardanti la gravidanza di Lady Wilde e l'infanzia del figlio che, al parer di alcuni, spiegano in parte la triste mania (se cosi è lecito chiamarla) che lo trasse più tardi alla rovina, ed è certo almeno che il fanciullo crebbe in un ambiente di sregolatezze e di prodigalità.
La vita pubblica di Oscar Wilde si aperse all'Università di Oxford ove, all'epoca della sua immatricolazione, un solenne professore di nome Ruskin, conduceva uno stuolo di efèbi anglosassoni verso la terra promessa della società avvenire, dietro una carriola.
Il temperamento suscettibile di sua madre riviveva nel giovane; ed egli risolse di mettere in pratica, cominciando da se stesso, una teoria di bellezza in parte derivata dai libri di Pater e di Ruskin ed in parte originale. Sfidando le beffe del pubblico proclamò e praticò la riforma estetica del vestito e della casa.
Tenne dei cicli di conferenze negli Stati Uniti e nelle province inglesi e diventò il portavoce della scuola estetica, mentre intorno a lui andava formandosi la leggenda fantastica dell'apostolo del bello. Il suo nome evocava alla mente del pubblico un'idea vaga di sfumature delicate, di vita illeggiadrita di fiori: il culto del girasole, il suo fiore prediletto, si propagò fra gli oziosi ed il popolo minuto udì narrare del suo famoso bastone d'avorio candido luccicante di turchesi e della acconciatura neroniana dei suoi capelli.
Il fondo di questo quadro smagliante era più misero di ciò che i borghesi immaginavano. Medaglie, trofei della gioventù accademica, salivano di quando in quando il sacro monte che ha il nome di pietà; e la giovane moglie dell'epigrammatico dovette qualche volta farsi prestare da una vicina il danaro per un paio di scarpe. Il Wilde si vide costretto ad accettare il posto di direttore di un giornale molto insulso; e solo colla rappresentazione delle sue commedie brillanti egli entrò nella breve fase penultima della sua vita: il lusso e la ricchezza. Il "Ventaglio di Lady Windermere" prese Londra d'assalto. Il Wilde, entrando in quella tradizione letteraria di commediografi irlandesi che si stende dai giorni di Sheridan e Goldsmith fino a Bernard Shaw, diventò, al par di loro, giullare di corte per gli inglesi. Diventò un arbitro d'eleganze nella metropoli e la sua rendita annua, provento dei suoi scritti, raggiunse quasi il mezzo milione di franchi. Sparse il suo oro fra una sequela di amici indegni. Ogni mattina acquistò due fiori costosi, uno per sé, l'altro per il suo cocchiere; e persino il giorno del suo processo clamoroso si fece condurre al tribunale nella sua carrozza a due cavalli col cocchiere vestito di gala e collo staffiere incipriato.
La sua caduta fu salutata da un urlo di gioia puritana. Alla notizia della sua condanna la folla popolare, radunata dinanzi al tribunale, si mise a ballare una pavana sulla strada melmosa. I redattori dei giornali furono ammessi all'ispettorato ed, attraverso la finestrina della sua cella, poterono pascersi dello spettacolo della sua vergogna. Strisce bianche coprirono il suo nome sugli albi teatrali; i suoi amici lo abbandonarono; i suoi manoscritti furono rubati mentre egli, in prigione, scontava la pena inflittagli di due anni di lavori forzati. Sua madre morì sotto un nome d'infamia: sua moglie morì. Fu dichiarato in istato di fallimento, i suoi effetti furono venduti all'asta, i suoi figli gli furono tolti. Quando uscì di carcere i teppisti sobillati dal nobile marchese Queensberry l'aspettavano in agguato. Fu cacciato, come una lepre dai cani, da albergo in albergo. Un oste dopo l'altro lo respinse dalla porta, rifiutandogli cibo ed alloggio, e al cader della notte giunse finalmente sotto le finestre di suo fratello piangendo e balbettando come un fanciullo.
L'epilogo volse rapidamente alla sua fine e non vale la pena di seguire l'infelice dalla suburra napoletana al povero albergo nel quartiere latino, ove morì di meningite nell'ultimo mese dell'ultimo anno del secolo decimonono. Non vale la pena di pedinarlo come fecero le spie parigine: morì da cattolico romano, aggiungendo allo sfacelo della sua vita civile la propria smentita della sua fiera dottrina. Dopo aver schernito gli idoli del foro, piegò il ginocchio, essendo compassionevole e triste chi fu un giorno cantore della divinità della gioia: e chiuse il capitolo della ribellione del suo spirito con un atto di dedizione spirituale.
Questo non è il luogo di indagare lo strano problema della vita di Oscar Wilde né di determinare fino a che punto l'atavismo e la forma epilettoide della sua nevrosi possano scagionarlo di ciò che a lui si imputò. Innocente o colpevole che fosse delle accuse mossegli, era indubbiamente un capro espiatorio.
La sua maggior colpa era quella di aver provocato uno scandalo in Inghilterra; ed è ben noto che l'autorità inglese fece il possibile per indurlo a fuggire prima di spiccare contro di lui un mandato di cattura. A Londra sola, dichiarò un impiegato del ministero dell'interno, durante il processo, più di ventimila persone sono sotto la sorveglianza della polizia, ma rimangono a piede libero fintantoché non provochino uno scandalo. Le lettere di Wilde ai suoi amici furono lette dinanzi alla Corte ed il loro autore venne denunziato come un degenerato, ossessionato da pervertimenti erotici. "Il tempo guerreggia contro di te; è geloso dei tuoi gigli e delle tue rose." "Amo vederti errare per le vallate violacee, fulgido colla tua chioma color miele." Ma la verità è che Wilde, lungi dall'essere un mostro di pervertimento sorto in modo inesplicabile nel mezzo della civiltà moderna d'Inghilterra, è il prodotto logico e necessario del sistema collegiale ed universitario anglosassone, sistema di reclusione e di segretezza. L'incolpazione del popolo procedeva da molte cause complicate; ma non era la reazione semplice di una coscienza pura.
Chi studi con pazienza le iscrizioni murali, i disegni franchi, i gesti espressivi del popolo, esiterà a crederlo mondo di cuore.
Chi segua dal di presso la vita e la favella degli uomini, sia nello stanzone dei soldati, che nei grandi uffici commerciali, esiterà a credere che tutti coloro che scagliarono pietre contro il Wilde furono essi stessi senza macchia. Difatti ognuno si sente diffidente nel parlare con altri di questo argomento, temendo che forse il suo interlocutore ne sappia più di lui. L'autodifesa di Oscar Wilde nello "Scots Observer" deve ritenersi valida dinanzi alla sbarra della critica spassionata. Ognuno, scrisse, vede il proprio peccato in Dorian Gray (il più celebre romanzo di Wilde)
Quale fu il peccato di Dorian Gray nessun lo dice e nessun lo sa
Chi lo scopre l'ha commesso
Qui tocchiamo il centro motore dell'arte di Wilde: il peccato. Si illuse credendosi il portatore della buona novella di un neopaganesimo alle genti travagliate. Mise tutte le sue qualità caratteristiche, le qualità (forse) della sua razza, l'arguzia, l'impulso generoso, l'intelletto asessuale al servizio di una teoria del bello che doveva, secondo lui, riportare l'evo d'oro e la gioia della gioventù del mondo. Ma in fondo in fondo se qualche verità si stacca dalle sue interpretazioni soggettive di Aristotele, dal suo pensiero irrequieto che procede per sofismi e non per sillogismi, dalle sue assimilazioni di altre nature, aliene dalla sua, come quelle del delinquente e dell'umile, è questa verità inerente nell'anima del cattolicesimo: che l'uomo non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di separazione e di perdita che si chiama peccato.
Nell'ultimo suo libro "De Profundis", si inchina davanti ad un Cristo gnostico, risorto dalle pagine apocrife della "Casa dei melograni" ed allora la sua vera anima, tremula, timida e rattristata, traluce attraverso il manto di Eliogabalo. La sua leggenda fantastica, l'opera sua, una variazione polifonica sui rapporti fra l'arte e la natura anziché una rivelazione della sua psiche, i libri dorati, scintillanti di quelle frasi epigrammatiche che lo resero, agli occhi di alcuno, il più arguto parlatore del secolo scorso, sono ormai un bottino diviso.
Un versetto del libro di Giobbe è inciso sulla sua pietra sepolcrale nel povero cimitero di Bagneux. Loda la sua facondia, "eloquium suum", il gran manto leggendario che è ormai un bottino diviso. Il futuro potrà forse scolpire là un altro verso, meno altiero, più pietoso: "Partiti sunt sibi vestimenta mea et super vestem meam miserunt sortes."
JAMES JOYCE
Prefazione
L'artista è il creatore di cose belle.
Rivelare l'arte e nascondere l'artista è lo scopo dell'arte.
Il critico è colui che può tradurre in una maniera diversa o in un materiale nuovo l'impressione che le cose belle suscitano in lui.
La più alta e la più bassa forma di critica sono tutte e due una maniera di autobiografia.
Quelli che trovano nelle cose belle significati brutti sono corrotti senza essere attraenti. Questo è una colpa.
Quelli che trovano nelle cose belle significati belli sono persone colte. Per questi c'è speranza.
Gli eletti sono quelli per i quali le cose belle significano soltanto bellezza.
Non esistono libri morali o libri immorali. I libri sono o scritti bene o scritti male: nient'altro.
L'antipatia del Diciannovesimo secolo verso il Realismo è la rabbia di Calibano che vede nello specchio il proprio volto.
L'antipatia del Diciannovesimo secolo verso il Romanticismo è la rabbia di Calibano che non vede nello specchio il proprio volto.
La vita morale dell'uomo è per l'artista una parte del soggetto, o materia; ma la moralità dell'arte consiste nell'impiego perfetto di un mezzo imperfetto. Nessun artista vuole dimostrare alcunché.
Anche le cose vere possono essere dimostrate.
Nessun artista prova simpatie di tipo etico. Una simpatia etica in un artista è un'imperdonabile affettazione stilistica.
Nessun artista è mai morboso. L'artista può esprimere qualunque cosa.
Pensiero e linguaggio sono per l'artista strumenti di un'arte.
Vizio e virtù sono per l'artista materiali di un'arte. Dal punto di vista della forma il prototipo di tutte le arti è l'arte del musicista. Dal punto di vista del sentimento il prototipo è l'arte dell'attore.
Tutta l'arte è insieme superficie e simbolo.
Quelli che penetrano al di sotto della superficie lo fanno a proprio rischio e pericolo.
Quelli che interpretano il simbolo lo fanno a proprio rischio e pericolo.
E' lo spettatore, non la vita, che l'arte, in realtà, rispecchia.
La divergenza di opinioni a proposito di un'opera d'arte dimostra che l'opera è nuova, complessa e vitale.
Quando i critici sono discordi, l'artista è d'accordo con se stesso.
Un uomo può esser perdonato se fa una cosa utile, a patto che non l'ammiri. L'unica scusa per chi fa una cosa inutile è che egli l'ammiri intensamente.
Tutta l'arte è perfettamente inutile.
OSCAR WILDE
Capitolo primo
Lo studio era pieno dell'odore intenso delle rose, e quando il venticello estivo passava tra gli alberi del giardino, penetrava dalla porta aperta il profumo greve del glicine o la fragranza più delicata del biancospino.
Dall'angolo del divano di cuscini persiani sul quale stava disteso, fumando, com'era sua abitudine, numerose sigarette, Lord Henry Wotton poteva appena intravedere lo splendore dei fiori di citiso, che hanno la dolcezza e il colore del miele. I rametti fragili sembravano quasi incapaci di sostenere il peso di tanta scintillante bellezza. Le ombre fantastiche degli uccelli in volo penetravano ogni tanto attraverso le lunghe tende di seta cruda, che, aperte davanti alla grande finestra, producevano quasi un temporaneo effetto giapponese e facevano pensare a quei pallidi pittori di Tokyo, con la faccia di giada, che, impiegando come strumento un'arte che è per forza di cose statica, cercano di darci il senso della velocità e del movimento. Il ronzio testardo delle api che si facevano strada attraverso l'erba lunga, non rasata, o giravano con insistenza monotona intorno alle punte dorate e impolverate del caprifoglio rampicante, pareva rendere il silenzio ancora più opprimente. Il rombo confuso di Londra sembrava l'accompagnamento di un organo lontano.
Nel centro della camera, posto su un cavalletto verticale, c'era il ritratto in piedi di un giovane di una straordinaria bellezza fisica; e davanti, a una certa distanza, era seduto l'artista stesso, Basil Hallward, la repentina scomparsa del quale, qualche anno fa, suscitò tanto scalpore quando avvenne e fece nascere parecchie strane congetture.
Mentre il pittore ammirava la forma graziosa e attraente che aveva così abilmente riflessa nella sua arte, passava e pareva soffermarsi sul suo viso un sorriso di piacere. Improvvisamente però si alzò in piedi e, chiudendo gli occhi, si mise le dita sulle palpebre, come se volesse imprigionare nel proprio cervello qualche sogno strano dal quale avesse paura di esser svegliato.
- E' la tua opera migliore, Basil, quanto di meglio tu abbia fatto - disse languidamente Lord Henry. - Devi mandarla senz'altro al Grosvenor l'anno prossimo. L'Accademia è troppo grande e troppo volgare. Tutte le volte che ci sono andato c'era tanta gente che non ho potuto vedere i quadri, cosa tremenda, oppure c'erano tanti quadri che non ho potuto vedere la gente, ciò che era anche peggio. Il Grosvenor è veramente l'unico posto.
- Non credo che lo manderò da nessuna parte - rispose lui, piegando la testa all'indietro, in quel suo strano modo che a Oxford faceva sempre ridere i suoi amici. - No, non lo manderò in nessun posto.
Lord Henry inarcò le sopracciglia e lo guardò meravigliato attraverso i sottili anelli di fumo che salivano dalla sua grossa sigaretta oppiata. - Non lo manderai in nessun posto? E perché? E perché, mio caro? Hai qualche motivo? Che tipi strani siete voi pittori! Fate tutto il possibile per conquistarvi la fama e appena l'avete conquistata sembra che vogliate gettarla via. E' sciocco, perché in questo mondo c'è una sola cosa peggiore del far parlar di sé, ed è il non far parlar di sé. Un ritratto come questo ti metterebbe molto al disopra di tutti i giovani in Inghilterra e ingelosirebbe terribilmente i vecchi, se pure i vecchi sono capaci di un'emozione qualsiasi.
- So che riderai di me - rispose l'altro, - ma proprio non posso esporlo. Ci ho messo dentro troppo di me stesso.
Lord Henry si allungò sul divano, ridendo.
- Sì, lo sapevo che avresti riso; però è esattamente la verità.
- Troppo di te stesso! Parola d'onore, Basil non ti credevo tanto vanitoso. Non riesco davvero a vedere la minima somiglianza fra te, colla tua faccia forte e angolosa, e questo giovane Adone che pare fatto d'avorio e di petali di rosa. Andiamo, caro Basil, lui è un Narciso e tu - certo, naturalmente, tu hai un'espressione intellettuale e tutto il resto; ma la bellezza, la vera bellezza, finisce là dove l'espressione intellettuale inizia. L'intelletto è per sua natura una forma di esagerazione e distrugge l'armonia di qualsiasi volto. Appena uno si mette a pensare, diventa tutto naso o tutta fronte, o qualche cosa di orribile. Guarda gli uomini che hanno avuto successo in una qualsiasi delle professioni dotte. Non fanno perfettamente schifo? Eccetto che nella Chiesa, naturalmente; ma nella Chiesa non pensano. A ottant'anni un Vescovo continua a dire quello che gli hanno insegnato a dire quando ne aveva diciotto, e naturalmente ne deriva che mantiene un aspetto assolutamente delizioso. Il tuo giovine amico, del quale non mi hai mai detto il nome, ma il cui ritratto mi affascina per davvero, non pensa mai, ne sono assolutamente certo. E' un essere senza cervello, bello, che dovrebbe essere sempre qui d'inverno, quando non abbiamo fiori da contemplare e sempre qui d'estate, quando ci serve qualcosa che raffreddi la nostra intelligenza. Non lusingarti, Basil; tu non gli somigli per niente.
- Non mi capisci, Harry - rispose l'artista. - Certo che non gli assomiglio, lo so benissimo. Ti dirò che mi dispiacerebbe assomigliargli. E' inutile che tu scrolli le spalle: quello che ti dico è la pura verità. Su qualsiasi distinzione, fisica o intellettuale che sia, pesa una fatalità, la stessa fatalità che sembra che accompagni nella storia i passi incerti dei Re. E' meglio non essere diversi dai propri simili. In questo mondo i brutti e gli stupidi hanno la sorte migliore; possono starsene comodamente seduti a guardare la commedia. Non conoscono la vittoria, ma in compenso non sono costretti a conoscere la sconfitta; vivono come dovremmo vivere tutti, indisturbati, indifferenti e senza fastidi. La tua ricchezza e il tuo rango, Harry, il mio talento, qualunque esso sia, la mia arte, per quel che può valere, la bellezza di Dorian Gray - noi soffriremo per quello che gli Dèi ci hanno donato, soffriremo terribilmente.
- Dorian Gray? Si chiama così? - chiese Lord Henry, dirigendosi attraverso lo studio verso il pittore.
- Sì. Non volevo dirti il suo nome.
- E perché?
- Oh, non saprei spiegartelo. Quando voglio enormemente bene a qualcuno non ne dico mai il nome a nessuno. E' come cederne una parte. Mi sono abituato ad amare la segretezza; mi pare la sola cosa che possa rendere misteriosa e meravigliosa la vita moderna per noi. La cosa più ordinaria diventa deliziosa quando è tenuta nascosta. Quando mi allontano dalla città non dico mai ai miei dove vado; se lo dicessi mi rovinerei tutto il piacere. Sarà un'abitudine sciocca, lo ammetto, ma a me sembra che introduca nella vita un grande elemento romanzesco. Sono sicuro che mi trovi terribilmente sciocco, non è vero?
- Proprio per niente - rispose Lord Henry - proprio per niente, mio caro Basil. Mi sembra che tu dimentichi che ho moglie; e l'unico pregio del matrimonio è di rendere assolutamente necessaria per tutti e due una vita di inganno reciproco. Io non so mai dove sia mia moglie e mia moglie non sa mai quello che faccio io. Quando ci incontriamo, poiché qualche volta ci incontriamo, quando siamo invitati a pranzo insieme, oppure quando andiamo dal Duca, ci raccontiamo a vicenda le storie più assurde con la faccia più seria del mondo. In questo mia moglie è bravissima, molto più brava di me. Lei non confonde mai le date, io sempre; però quando mi coglie in fallo non fa mai scene. A volte mi piacerebbe che ne facesse; e invece si limita a ridere di me.
- Non mi piace sentirti parlare così della tua vita matrimoniale, Harry - disse il pittore, dirigendosi lentamente verso la porta che dava sul giardino. - Credo che in realtà tu sia un ottimo marito, ma che tu ti vergogni della tua virtù. Sei un tipo straordinario; non dici mai una cosa che sia morale e non fai mai una cosa che non sia giusta. Il tuo cinismo è semplicemente un atteggiamento.
- Essere naturale è semplicemente un atteggiamento, e il più fastidioso che io conosca - esclamò ridendo Lord Henry. I due giovani uscirono insieme in giardino e si sedettero su una lunga panchina di bambù, all'ombra di un alto cespuglio di alloro. I raggi del sole scivolavano sulle foglie lucide e nell'erba tremolavano bianche le margheritine.
Lord Henry, dopo una pausa, tirò fuori l'orologio. - Basil mormorò, - ho paura di dovermene andare, e prima di andare via insisto perché tu risponda a una domanda che ti ho fatto poco fa.
- Che cosa? - disse il pittore, con gli occhi fissi a terra.
- Lo sai benissimo.
- No, Harry, non lo so.
- Va bene, ti dirò di che si tratta. Voglio che tu mi spieghi perché non vuoi esporre il ritratto di Dorian Gray. Voglio sapere la vera ragione.
- Te l'ho detta.
- No, non l'hai detta. Hai detto che era perché in esso c'era troppo di te stesso, e questo è puerile.
- Harry - disse Basil Hallward guardandolo dritto in faccia, ogni ritratto dipinto con sentimento è il ritratto dell'artista, non del modello. Questi non è che l'accidente, l'occasione; non è lui che viene rivelato dal pittore, ma è il pittore che, sulla tela dipinta, rivela se stesso. La ragione per cui non voglio esporre quel ritratto è che in esso ho messo a nudo il segreto della mia stessa anima.
Lord Henry scoppiò in una risata. - E qual è? - domandò.
- Te lo dirò - disse Hallward; ma sul suo volto apparve un'espressione di perplessità.
- Pendo dalle tue labbra, Basil - riprese il suo compagno, guardandolo.
- Oh, Harry, c'è proprio ben poco da dire - replicò il pittore e temo che non lo capiresti e forse nemmeno lo crederesti.
Lord Henry, sorridendo, si chinò, colse dal prato una margherita dai petali rosei e la esaminò. - Sono sicurissimo che lo capirò,- rispose, fissando intensamente il dischetto d'oro incorniciato di piume bianche, - e, quanto a credere, posso credere qualsiasi cosa, a condizione che sia perfettamente incredibile.
Il vento fece cadere qualche fiore dagli alberi e i grappoli pesanti dei fiori di glicine oscillarono nell'aria languida. Un grillo cominciò a trillare vicino al muro e, come un filo azzurrino, una libellula lunga ed esile passò librandosi sulle ali di garza bruna. Lord Henry ebbe la sensazione di sentir battere il cuore di Basil Hallward e si domandò che cosa mai stesse per accadere.
- La storia è semplicemente questa - disse il pittore, dopo un istante. - Due mesi fa andai a un ricevimento in casa di Lady Brandon. Sai che ogni tanto noi poveri artisti dobbiamo farci vedere in società per ricordare al pubblico che non siamo dei selvaggi. Come mi dicesti una volta, con una marsina e una cravatta bianca chiunque, anche un agente di cambio, può conquistarsi la reputazione di essere civilizzato. Dunque ero nel salone da una decina di minuti, a parlare con certe matrone enormi e troppo vestite e con certi accademici noiosi, quando ebbi di colpo la consapevolezza che qualcuno mi stava guardando. Mi girai e vidi Dorian Gray per la prima volta. Quando i nostri sguardi si incontrarono sentii che impallidivo. Mi prese una curiosa sensazione di terrore. Sapevo di trovarmi faccia a faccia con uno la cui personalità era così affascinante che, se lo lasciavo fare, avrebbe assorbito tutta la mia natura, tutta la mia anima e perfino la mia arte. Nella mia esistenza non volevo nessuna influenza esterna: tu sai, Harry, quanto io sia indipendente per natura. Sono sempre stato il padrone di me stesso, o almeno lo ero sempre stato, finché non incontrai Dorian Gray. Allora... ma non so come spiegartelo. Mi sembra che qualcosa mi dicesse che ero sulla soglia di una terribile crisi nella vita; avevo la sensazione strana che il fato mi riservava gioie deliziose e dolori non meno deliziosi. Ebbi paura e feci per uscire dalla stanza. Non era la coscienza che mi spingeva; era una specie di vigliaccheria. Non mi faccio un merito di aver tentato di fuggire.
- Coscienza e vigliaccheria sono in realtà una cosa sola, Basil.
Coscienza è l'insegna commerciale della ditta; questo è tutto.
- Non lo credo, Harry, e non credo che tu lo creda. Comunque, qualunque fosse il motivo che mi spingeva - poteva anche essere orgoglio, dato che prima ero molto orgoglioso - è certo che lottai per raggiungere la porta. Sulla soglia, naturalmente, m'imbattei in Lady Brandon. "Non ve ne andrete mica così presto, Mister Hallward?", gridò lei. Conosci quella sua curiosa voce stridula?
- Sì; è un pavone in tutto, salvo che nella bellezza - disse Lord Henry, facendo a pezzi la margherita con le sue lunghe dita nervose.
- Non riuscii a liberarmene. Mi presentò a delle Altezze, a degli uomini con placche e Giarrettiere, a delle vecchie signore con certi gioielli giganteschi e certi nasi da pappagallo. Parlò di me come se fossi stato il suo amico più caro; prima di allora l'avevo incontrata una volta soltanto, ma lei si era messa in testa di lanciarmi. Mi pare che in quel momento un mio quadro aveva avuto un grande successo, o almeno se ne era parlato nei giornali da un soldo, ciò che costituisce il tipo di immortalità del Diciannovesimo secolo. Di colpo mi trovai faccia a faccia col giovane la cui personalità mi aveva agitato in un modo tanto strano. Eravamo vicini, quasi ci toccavamo, i nostri sguardi si incontrarono un'altra volta. Fu un'imprudenza da parte mia, ma chiesi a Lady Brandon di presentarmi a lui. Forse, dopo tutto, non fu neanche un'imprudenza; era semplicemente inevitabile. Dorian mi ha detto così, più tardi; anche lui aveva la sensazione che eravamo destinati a conoscerci.
- E Lady Brandon come descrisse questo giovane meraviglioso? chiese il suo compagno. - So che ha l'abitudine di dare un rapido "précis" di tutti i suoi invitati. Mi ricordo che una volta mi portò da un vecchio signore truculento e tutto rosso in faccia, coperto di nastri e di decorazioni dalla testa ai piedi, e mi sibilò nell'orecchio i dettagli più stupefacenti, in un tragico sussurrìo che deve essere stato sentito perfettamente da tutti quelli che si trovavano nella stanza. Io tagliai la corda. Le persone mi piace scoprirle da me. Ma Lady Brandon tratta i suoi ospiti come il commissario di un'asta tratta le sue mercanzie: o li spiega completamente, oppure riguardo a loro ti dice tutto, eccetto quello che bisognerebbe sapere.
- Povera Lady Brandon! Come sei crudele con lei, Harry! - disse distrattamente Hallward.
- Mio caro, lei ha provato a fondare un "salon" ed è riuscita solo ad aprire un ristorante. Vorresti che l'ammirassi? Ma dimmi, che disse del signor Dorian Gray?
- Oh, qualcosa come "ragazzo delizioso - la sua povera cara mamma ed io assolutamente inseparabili - oh, sì, suona il piano oppure il violino, Mister Gray?". Né lui né io potemmo frenare il riso, e diventammo subito amici.
- Il riso non è un brutto modo per cominciare un'amicizia, e è sicuramente il miglior modo di finirla - disse il giovane Lord, cogliendo un'altra margherita.
Hallward scosse il capo. - Tu non capisci che cosa sia l'amicizia, Harry - mormorò, - e del resto neppure che cosa sia l'inimicizia.
Tutti ti piacciono, cioè tutti ti sono indifferenti.
- Questo è terribilmente ingiusto! - esclamò Lord Henry, spingendosi all'indietro il cappello e guardando in su, verso le nuvolette, simili a gomitoli arruffati di lucida seta bianca, che navigavano nella volta turchese del cielo estivo. - Sì, è terribilmente ingiusto da parte tua. Io faccio una gran differenza tra una persona e un'altra. Scelgo gli amici per la loro bellezza, i conoscenti per il loro buon carattere e i nemici per la loro intelligenza. Non ho un solo nemico che sia uno stupido: sono tutti uomini che possiedono un certo potere intellettuale e di conseguenza mi apprezzano tutti. E' una forma di vanità, questa?
Sì, credo che in fondo sia una vanità.
- Lo credo anch'io, Harry. Però, in base alla tua classificazione, io dovrei essere un semplice conoscente.
- Caro il mio vecchio Basil, tu sei ben più che un conoscente.
- E molto meno che un amico. Una specie di fratello, non è vero?
- Oh, i fratelli! I fratelli non mi interessano. Il mio fratello maggiore non vuole morire e quelli minori sembra che non facciano altro.
- Harry! - esclamò Hallward, facendosi scuro in volto.
- Caro amico, non parlo completamente sul serio; però non posso fare a meno di detestare i miei parenti. Penso che dipenda dal fatto che nessuno di noi riesce a sopportare che gli altri abbiano gli stessi nostri difetti. Capisco perfettamente la rabbia della democrazia inglese contro quelli che chiamano i vizi delle classi elevate. Le masse pensano che l'ubriachezza, la stupidità e l'immoralità debbano essere una loro proprietà esclusiva e che quando uno di noi fa una sciocchezza è come se andasse a caccia nella loro riserva. Quando il povero Southwark comparve davanti al Tribunale dei Divorzi la loro indignazione fu davvero magnifica: eppure credo che neppure il dieci per cento del proletariato conduca una vita decente.
- Non sono d'accordo con una sola delle parole che hai detto, e ciò che è peggio, Harry, sono sicuro che non sei d'accordo neppure tu.
Lord Henry si accarezzò l'aguzza barbetta bruna e si batté la punta delle scarpe di coppale con un bastone da cui pendevano delle palline d'ebano. - Come sei Inglese, Basil! E' la seconda volta che fai quest'osservazione. Quando si espone un'idea davanti a un vero Inglese, cosa che è sempre imprudente, l'Inglese non si sogna mai di considerare se l'idea è giusta o sbagliata. La sola cosa alla quale attribuisce importanza è se colui che la formula ci crede lui stesso. Ma il valore di un'idea è assolutamente indipendente dalla sincerità dell'uomo che la espone; anzi è probabile che quanto meno l'uomo è sincero, tanto più intelligente sia l'idea, perché in quel caso non prende il colore né delle sue aspirazioni, né dei suoi desideri, né dei suoi pregiudizi. Ma non ho intenzione di discutere con te di politica, di sociologia o di metafisica. Le persone mi piacciono più dei principii, e le persone che non hanno principii mi piacciono più di qualunque altra cosa al mondo. Parlami ancora del signor Dorian Gray. Lo vedi spesso?
- Tutti i giorni. Non mi sentirei felice se non lo vedessi tutti i giorni. Mi è assolutamente necessario.
- E' straordinario! Credevo che tu non ti saresti mai interessato a niente eccetto che alla tua arte.
- Lui ora è per me tutta la mia arte - disse gravemente il pittore. - A volte penso che nella storia del mondo ci sono solo due eventi che hanno una qualche importanza. Uno è la comparsa di un nuovo mezzo a disposizione dell'arte; l'altro è la comparsa di una personalità nuova, sempre ai fini dell'arte. Quello che per i Veneziani fu l'invenzione della pittura a olio, il volto di Antinoo fu per la tarda scultura greca e il volto di Dorian Gray sarà un giorno o l'altro per me. Non è solo perché lo dipingo, lo disegno, lo schizzo. Naturalmente ho fatto tutte queste cose; ma per me egli è molto più che un modello. Non ti dirò che sono insoddisfatto di quello che ho fatto di lui, né che la sua bellezza è tale che l'arte non può esprimerla. Non esiste nessuna cosa che l'arte non possa esprimere; e so bene che quello che ho fatto dopo aver conosciuto Dorian Gray è buono, è quanto di meglio abbia fatto in vita mia. Ma, in un modo curioso, - mi chiedo se mi capirai - la sua personalità mi ha suggerito un modo completamente nuovo nell'arte, uno stile completamente nuovo; vedo le cose, penso le cose in modo diverso; posso oggi ricreare la vita in una maniera che prima non conoscevo. "Sogno di forma in giorni di pensiero" - chi è che ha detto cosi? Non ricordo; ma questo è quello che Dorian Gray è stato per me. La semplice presenza visibile di quel ragazzo, dato che a me pare poco più che un ragazzo, benché in realtà abbia più di vent'anni, la semplice sua presenza visibile - ah, mi chiedo se puoi renderti conto di tutto quello che significa? Egli traccia per me, inconsciamente, le linee di una nuova scuola, una scuola che dovrà avere in sé tutta la passione dello spirito romantico e tutta la perfezione dello spirito ellenico. L'armonia del corpo e dell'anima - quale immenso valore è in essa! Noi nella nostra stupidità abbiamo separato le due cose e abbiamo inventato un realismo che è volgare e un idealismo che è vuoto. Se tu sapessi, Harry, che cosa è per me Dorian Gray! Ti ricordi di quel mio paesaggio per il quale Agnew mi offrì un prezzo così enorme, ma dal quale non volli separarmi?
E' una delle cose migliori che io abbia fatto; e perché? Perché Dorian Gray era seduto vicino a me mentre lo dipingevo. Da lui a me passava un qualche influsso sottile e per la prima volta in vita mia vedevo in quel semplice paesaggio boscoso il miracolo che avevo sempre cercato, senza mai riuscire a trovarlo.
- Basil, è straordinario! Bisogna che io veda Dorian Gray.
Hallward si alzò e passeggiò su e giù per il giardino. Dopo un po' tornò indietro. - Harry - disse, - Dorian Gray per me è semplicemente un motivo d'arte. Tu forse non vedrai niente in lui: io in lui vedo tutto. Non è mai tanto presente nella mia opera come quando di lui non c'è nessun'immagine. E', come ti ho detto, un suggerimento di una maniera nuova: lo ritrovo nella curva di certe linee, nella grazia e nella finezza di certi colori. Ecco tutto.
- Allora perché non vuoi esporre il suo ritratto? - domandò Lord Henry.
- Perché, senza averne l'intenzione, ci ho messo in una certa misura l'espressione di tutta questa strana idolatria artistica della quale, naturalmente, non ho mai voluto parlare a lui. Lui non ne sa niente e non ne saprà mai niente. Ma la gente potrebbe indovinarlo; e io non voglio mettere a nudo la mia anima davanti alla superficiale curiosità dei suoi occhi. Il mio cuore non finirà mai sotto il microscopio. C'è troppo di me stesso in quel quadro, Harry; troppo di me stesso!
- I poeti non hanno tanti scrupoli; sanno quanto la passione sia utile alla pubblicità. Al giorno d'oggi un cuore spezzato tira parecchie edizioni.
- Per questo li odio - gridò Hallward. - Un artista dovrebbe creare delle cose belle, ma senza mettervi niente della sua anima.
Viviamo in un tempo in cui la gente tratta l'arte come se questa dovesse costituire una forma di autobiografia. Abbiamo perso il senso astratto della bellezza. Voglio mostrare al mondo, un giorno, che cosa sia quel senso; e è per questo che il mondo non vedrà mai il mio ritratto di Dorian Gray.
- Penso che tu abbia torto, Basil; ma non voglio discutere con te.
Discutono soltanto quelli che sono intellettualmente perduti. Ma dimmi: Dorian Gray ti vuole molto bene?
Il pittore rifletté un momento. - Gli piaccio - rispose dopo una pausa; - so che gli piaccio. Naturalmente lo adulo in un modo spaventoso; sento uno strano piacere nel dirgli certe cose, pur sapendo che mi pentirò di avergliele dette. Con me di solito è delizioso e ce ne stiamo seduti nello studio a parlare di mille cose; a volte però non ha nessun riguardo e sembra divertirsi a farmi dispiacere. Allora, Harry, ho la sensazione di aver dato la mia anima a qualcuno che la tratta come se fosse un fiore da mettere all'occhiello, una decorazione che lusinga la sua vanità, un ornamento per una giornata d'estate.
- Le giornate d'estate sono alquanto lunghe, Basil - mormorò Lord Henry. - Forse sarai tu il primo che si stancherà. E' doloroso pensarlo, ma non c'è dubbio che il genio dura più a lungo della bellezza; e questo spiega il fatto che tutti noi facciamo tanti sforzi per istruirci all'eccesso. Nella lotta selvaggia per l'esistenza, vogliamo avere qualche cosa che duri e così riempiamo la nostra mente di ciarpami e di fatti, nella stupida speranza di riuscire a conservare il nostro posto. L'uomo perfettamente al corrente è una cosa spaventosa; assomiglia a una bottega di rigattiere, piena di mostri e di polvere, dove a ogni cosa è attribuito un prezzo superiore al suo valore. Però credo che sarai tu il primo che si stancherà. Un giorno nel guardare il tuo amico ti sembrerà che sia un po' mal disegnato, o non ti piacerà la tonalità del suo colore o un'altra cosa qualsiasi. In cuor tuo gliene farai aspri rimproveri e penserai seriamente che si è comportato molto male con te. Quando verrà a trovarti la volta dopo, sarai assolutamente freddo e indifferente: e sarà un gran peccato, perché questo ti cambierà. Quello che mi hai raccontato è un vero romanzo, un romanzo d'arte, si potrebbe dire; e l'inconveniente di avere un romanzo di qualsiasi tipo consiste nel fatto che dopo si rimane così poco romantici.
- Harry, non dir così. La personalità di Dorian Gray mi dominerà finché vivo. Tu non puoi sentire quello che sento io; sei troppo volubile.
- Ah, mio caro Basil, proprio per questo posso sentirlo. Quelli che sono fedeli conoscono soltanto il lato triviale dell'amore; sono gli infedeli quelli che ne conoscono le tragedie. - E Lord Henry accese un fiammifero sfregandolo contro un piccolo astuccio d'argento e cominciò a fumare una sigaretta, con un'aria presuntuosa e soddisfatta, come se avesse riassunto il mondo intero in una frase. Nelle verdi foglie laccate dell'edera c'era un fruscìo di passeri cinguettanti e sull'erba le ombre azzurre delle nuvole si rincorrevano come rondini. Com'era piacevole quel giardino! e come erano deliziose le emozioni degli altri! Ben più deliziose, a suo parere, delle idee degli altri! La sua anima e le passioni dei suoi amici, ecco le cose affascinanti nella vita. Con un silenzioso divertimento si raffigurò la colazione noiosa alla quale era mancato per essersi trattenuto tanto a lungo con Basil Hallward. Se fosse andato da sua zia vi avrebbe incontrato senza dubbio Lady Hoodbody e la conversazione si sarebbe aggirata sull'alimentazione dei poveri e sulla necessità di case popolari modello. Ogni classe avrebbe predicato l'importanza di quelle virtù delle quali la sua vita non rendeva necessario l'esercizio; i ricchi avrebbero parlato del valore del risparmio, gli oziosi avrebbero fatto sfoggio di eloquenza circa la dignità del lavoro.
Aver evitato tutto questo era una delizia. Pensando a sua zia sembrò che un'idea lo colpisse. Si girò verso Hallward e disse: - Mio caro, ora mi ricordo.
- Ti ricordi che cosa, Harry?
- Dove ho sentito il nome di Dorian Gray.
- Dove? - chiese Hallward, aggrottando leggermente le sopracciglia.
- Non fare quella faccia arrabbiata, Basil. A casa di mia zia, Lady Agatha. Mi disse che aveva scoperto un giovanotto meraviglioso, che doveva aiutarla nell'East End, che si chiamava Dorian Gray. Debbo dichiarare che non mi disse mai che era così bello. Le donne non apprezzano la bellezza, almeno le donne buone.
Mi disse che era molto serio e che aveva un carattere eccellente.
Immaginai subito un tipo occhialuto, coi capelli rossi, orrendamente lentigginoso, con di un paio di piedi enormi. Mi dispiace di non aver saputo che si trattava del tuo amico.
- Io ne sono contentissimo, Harry.
- E perché?
- Non voglio che tu lo conosca.
- Non vuoi che lo conosca?
- No.
- Il signor Dorian Gray è nello studio - disse il servitore uscendo nel giardino.
- Ora mi dovrai presentare - gridò con una risata Lord Henry.
Il pittore si girò verso il domestico che stava, un po' abbagliato, nel chiarore del sole. - Pregate il signor Gray di aspettare, Parker; verrò dentro tra un minuto.
Il servitore si inchinò e cominciò a risalire il vialetto.
Egli allora fissò Lord Henry. - Dorian Gray è il mio più caro amico - disse. - E' una natura semplice e bella; tua zia aveva perfettamente ragione in quel che disse di lui. Non lo guastare.
Non provarti a influenzarlo. La tua sarebbe un'influenza cattiva.
Il mondo è grande e contiene molte creature meravigliose. Non allontanare da me l'unica persona che dà alla mia arte tutto il fascino che questa possiede. La mia vita di artista dipende da lui. Bada, Harry: mi fido di te. - Parlava molto lentamente e pareva che le parole gli uscissero di bocca quasi suo malgrado.
- Quante sciocchezze stai dicendo! - disse Lord Henry con un sorriso e, prendendo Hallward a braccetto, quasi lo spinse in casa.
Capitolo secondo
Appena entrati videro Dorian Gray seduto al pianoforte, che girava loro le spalle e sfogliava le pagine di un volume delle "Scene della Foresta" di Schumann. - Devi prestarmi queste, Basil - gridò. - Voglio impararle; sono proprio deliziose.
- Dipende soltanto dal modo in cui poserai oggi, Dorian.
- Oh, sono stufo di posare e non voglio un ritratto di me stesso a grandezza naturale - rispose il ragazzo girandosi sullo sgabello, con un fare testardo e petulante. Quando vide Lord Henry, un lieve rossore gli imporporò per un momento le guance. Balzò in piedi. - Scusami, Basil, non sapevo che ci fosse qualcuno con te.
- Dorian, questo è Lord Henry Wotton, mio vecchio amico dei tempi di Oxford. Stavo appunto dicendogli come sei bravo a posare e ora tu hai guastato tutto.
- Non però il mio piacere di fare la vostra conoscenza, signor Gray - disse Lord Henry, venendo avanti colla mano tesa. - Mia zia mi ha parlato spesso di voi. Siete uno dei suoi favoriti e anche, temo, una delle sue vittime.
- Attualmente sto sul libro nero di Lady Agatha - rispose Dorian con un'aria di comica contrizione. - Avevo promesso di andare con lei martedì scorso in un club di Whitechapel e mi dimenticai completamente. Dovevamo suonare un duetto insieme - tre duetti, credo. Non so che cosa mi dirà; ho troppa paura per andare a trovarla.
- Oh, vi farò far pace con mia zia. Vi vuole tanto bene! E non credo che importi gran che se non siete andato. Probabilmente il pubblico avrà creduto che fosse un duetto. Quando zia Agatha sta al pianoforte fa un tale fracasso che basta ampiamente per due.
- Questo è molto duro nei suoi riguardi e non molto carino nei miei - rispose Dorian, ridendo.
Lord Henry lo guardava. Certo, era meravigliosamente bello, con quelle sue labbra scarlatte dalla curva delicata, quei suoi occhi azzurri pieni di freschezza, quei suoi capelli d'oro ondulati. Nel suo volto c'era qualcosa che ispirava fiducia a prima vista. Si sentiva che si era conservato immune dalle porcherie del mondo.
Non c'era niente di strano se Basil Hallward lo adorava.
- Avete troppo fascino per darvi alla filantropia, signor Gray, troppo, troppo fascino. - E Lord Henry si lasciò cadere sul divano e aprì il portasigarette.
Il pittore, intento a mescolare i colori e a preparare i pennelli, aveva l'aria preoccupata; e nel sentire l'ultima frase di Lord Henry lo guardò, esitò un istante, poi disse: - Harry, oggi vorrei finire questo ritratto. Troveresti molto scortese da parte mia se ti chiedessi di andartene?
Lord Henry sorrise e guardò Dorian Gray. - Debbo andarmene, signor Gray? - , chiese.
- Oh no, vi prego, Lord Henry. Mi accorgo che Basil è in uno dei suoi momenti di cattivo umore e quando fa il muso non lo posso soffrire. E poi voglio che mi diciate perché non dovrei dedicarmi alla filantropia.
- Questo non so se ve lo dirò. E' un argomento così noioso che bisognerebbe parlare seriamente. Ma io non me ne vado di certo, ora che mi avete chiesto di restare. Sul serio, Basil, ti dò veramente fastidio? Mi hai detto tante volte che ti piaceva che i tuoi modelli potessero conversare con qualcuno.
Hallward si morse il labbro. - Naturalmente devi restare, se Dorian lo desidera. I capricci di Dorian sono legge per tutti, eccetto che per lui stesso.
Lord Henry prese il cappello e i guanti. - Sei molto gentile, Basil, ma proprio paura di dover andar via. Ho promesso di incontrarmi con un tizio all'Orléans. Arrivederci, signor Gray.
Venite un pomeriggio a trovarmi in Curzon Street. Alle cinque sono quasi sempre in casa. Scrivetemi prima di venire; mi dispiacerebbe mancarvi.
- Basil - gridò Dorian Gray - se Lord Henry Wotton se ne va me ne vado anch'io. Tu quando dipingi non apri mai la bocca ed è troppo noioso stare su questa pedana e sforzarsi di avere un'aria piacevole. Digli di restare; ci tengo.
- Resta, Harry, per far piacere a Dorian e per far piacere a me- disse Hallward, fissando intensamente il suo quadro. - E' perfettamente vero che quando lavoro non parlo mai e nemmeno ascolto, e per i miei disgraziati modelli dev'essere terribilmente noioso. Ti prego di restare.
- E il mio uomo dell'Orléans?
Il pittore rise. - In quanto a quello non credo che ci saranno difficoltà. Torna a sederti, Harry. E tu, Dorian, sali sulla pedana e guarda di non muoverti troppo e di non prestare nessuna attenzione a quello che dice Lord Henry. E' un uomo che ha una pessima influenza su tutti i miei amici, tranne me.
Con l'aria di un giovane martire greco, una piccola smorfia di noia sul volto, Dorian Gray salì sulla pedana. Si sentiva attirato da Lord Henry; era tanto diverso da Basil che i due formavano un contrasto delizioso, e aveva una voce così bella. Dopo qualche minuto gli disse:
- Lord Henry, è vero che avete una pessima influenza, come racconta Basil?
- La buona influenza non esiste, signor Gray. Qualunque influenza è immorale; immorale dal punto di vista scientifico.
- Perché?
- Perché influenzare qualcuno significa dargli la propria anima.
Egli non pensa più i suoi pensieri naturali, non brucia più delle sue passioni naturali; le sue virtù non sono naturali per lui e i suoi peccati, se i peccati esistono veramente, sono presi a prestito. Diventa l'eco di una musica altrui, l'attore di una parte che non è stata scritta per lui. Lo sviluppo di noi stessi è lo scopo della vita; ognuno di noi è al mondo per tradurre perfettamente in realtà la propria natura. Al giorno d'oggi la gente ha paura di se stessa. Tutti hanno dimenticato quello che è il più alto di tutti i doveri, il dovere che abbiamo verso noi stessi. Sono caritatevoli, certo; danno da mangiare agli affamati e vestono gli ignudi, ma le loro anime rimangono affamate e nude.
Il coraggio è scomparso dalla nostra razza; in realtà forse non l'abbiamo mai avuto. Il terrore della società che è il fondamento della morale e il terrore di Dio che è il segreto della religione sono le due cose che ci governano. Eppure...
- Gira un pochino la testa verso destra, Dorian, da bravo figliuolo - disse il pittore, immerso nel suo lavoro e consapevole soltanto del fatto che sul volto del ragazzo era comparsa un'espressione che non vi aveva mai vista prima.
- E pure - continuò Lord Henry, con la sua sommessa voce musicale e con quel grazioso gesto della mano che era una sua abituale caratteristica e che lo accompagnava fin dai suoi tempi di scuola a Eton, - credo che se un uomo vivesse pienamente e compiutamente la propria vita, dando forma a ogni sentimento, espressione a ogni pensiero, realtà a ogni sogno, credo che ne deriverebbe al mondo un tale impulso fresco di gioia da farci dimenticare tutte le infermità del medievalismo e da farci tornare all'ideale ellenico e magari a qualche cosa di più bello, di più ricco dell'ideale ellenico. Ma il più coraggioso tra noi ha paura di se stesso.
Nelle rinunce volontarie che rovinano la nostra vita rivive tragicamente la mutilazione del selvaggio. Noi siamo puniti per quello che rifiutiamo a noi stessi; ogni impulso che ci sforziamo di strangolare fermenta nella mente e ci intossica. Il corpo pecca una volta sola e così esaurisce il proprio peccato, dato che l'azione costituisce una forma di purificazione, e allora non resta che il ricordo di un piacere oppure il lusso di un rimpianto. Cedere a una tentazione è l'unico modo di liberarsene.
Se si resiste, l'anima si ammala di bramosia delle cose che ha vietato a se stessa, di desiderio di ciò che le sue leggi mostruose hanno fatto mostruoso e illegale. Qualcuno ha detto che i grandi avvenimenti del mondo avvengono nel cervello; ma è pure nel cervello e solo nel cervello che avvengono i grandi peccati del mondo. Voi, signor Gray, anche voi, con tutta la vostra gioventù che è come una rosa rossa e la vostra adolescenza che è come una rosa bianca, avete avuto passioni che vi hanno terrorizzato, idee che vi hanno riempito di spavento, sogni, di giorno e di notte, che solo a ricordarli vi farebbero salire alle guance il rossore della vergogna...
- Basta! - esclamò Dorian Gray. - Basta! Voi mi stordite. Non so che cosa dire. C'è una risposta a quel che state dicendo, ma non riesco a trovarla. Non parlate; lasciatemi pensare, o, piuttosto, lasciatemi provare a non pensare.
Restò immobile per una decina di minuti, con le labbra semiaperte e gli occhi stranamente splendenti. Si rendeva conto confusamente che dentro di lui agivano influenze completamente nuove, e pure gli sembrava che provenissero in realtà da lui stesso. Le poche parole che gli aveva detto l'amico di Basil, parole dette indubbiamente a caso e piene di paradossi voluti, avevano toccato qualche corda segreta che non era mai stata toccata prima, e che egli ora sentiva vibrare e palpitare di una strana pulsazione.
La musica gli aveva dato un turbamento analogo. La musica l'aveva turbato molte volte; ma la musica non era articolata, non creava dentro di noi un mondo nuovo, anzi piuttosto un altro caos.
Parole! solo parole! ma come erano terribili, chiare, vivide, crudeli! Ad esse non si poteva sfuggire; e di quale magia sottile erano impregnate! Pareva che riuscissero a plasmare cose informi, che avessero una musica loro propria, dolce come quella della viola o del liuto. Solo parole! C'era qualcosa che fosse reale quanto le parole?
Sì, nella sua adolescenza c'erano state cose che non aveva compreso, ma che ora comprendeva. D'improvviso per lui la vita diventò color di fuoco. Gli sembrò di aver camminato in mezzo alle fiamme. Come mai non l'aveva saputo?
Lord Henry lo guardava, col suo sorriso fine. Conosceva il momento psicologico preciso nel quale bisognava non dire nulla. Si sentiva fortemente interessato. Stupito dell'impressione improvvisa che le sue parole avevano prodotto, si ricordò di un libro letto a sedici anni, che gli aveva rivelato molte cose sconosciute prima di allora e si chiese se Dorian Gray stesse passando attraverso un'esperienza analoga. Aveva semplicemente scagliato una freccia nell'aria: aveva forse colpito il bersaglio? Com'era affascinante quel ragazzo!
Hallward continuava a dipingere, con quel suo tocco mirabilmente audace che aveva la vera raffinatezza e la delicatezza perfetta che, almeno nell'arte, scaturiscono esclusivamente dalla forza; e non si accorgeva del silenzio.
- Basil, sono stanco di stare in piedi - gridò a un tratto Dorian Gray. - Bisogna che vada fuori, a sedermi in giardino. Si soffoca qui dentro.
- Mio caro, ti chiedo scusa. Quando dipingo non riesco a pensare a nient'altro. Tu però non avevi mai posato così bene. Sei stato perfettamente immobile e io ho potuto cogliere l'effetto che cercavo: le labbra semiaperte e la lucentezza degli occhi. Non so che cosa ti abbia detto Harry, ma senza dubbio è riuscito a farti avere la più meravigliosa delle espressioni. M'immagino che ti avrà fatto dei complimenti. Non devi credere una sola parola di quello che dice.
- Non mi ha fatto proprio nessun complimento, e forse è per questo motivo che non credo a niente di quello che mi ha detto.
- Sapete benissimo che credete a tutto quanto - disse Lord Henry, guardandolo coi suoi occhi sognanti e languidi. - Usciamo insieme in giardino; in questo studio fa un caldo tremendo. Basil, mandaci una cosa ghiacciata da bere, qualche cosa con delle fragole dentro.
- Certo, Harry. Suona il campanello e quando Parker verrà gli dirò quello che desideri. Voglio finire questo sfondo e vi raggiungerò più tardi. Non trattenermi Dorian troppo a lungo. Non sono mai stato così in forma per dipingere come oggi. Questo sarà il mio capolavoro: è già il mio capolavoro così com'è.
Lord Henry uscì fuori in giardino e vi trovò Dorian Gray, che con il viso sprofondato nei grandi fiori freschi del glicine, ne beveva avidamente il profumo come si beve un vino. Gli si avvicinò e gli mise la mano sulla spalla. - Fate benissimo a fare così - mormorò. - Non c'è niente che curi l'anima come i sensi, così come niente può curare i sensi, come l'anima.
Il ragazzo si riscosse e fece un passo indietro. Era a capo scoperto e le foglie avevano scompigliato i suoi riccioli ribelli intricandone i fili d'oro. Negli occhi aveva un'espressione spaurita come quella delle persone svegliate di soprassalto. Le sue narici finemente disegnate vibravano e un nervo segreto agitava lo scarlatto delle sue labbra facendole tremare.
- Sì - aggiunse Lord Henry, - è questo uno dei grandi segreti della vita: curare l'anima per mezzo dei sensi e i sensi per mezzo dell'anima. Siete un essere meraviglioso. Sapete più di quanto credete di sapere, proprio come sapete meno di quanto desiderate di sapere.
Dorian Gray aggrottò le sopracciglia e girò la testa da un'altra parte. Non poteva difendersi dalla simpatia che gli ispirava quel giovane alto e aggraziato che gli stava vicino. Nella voce sommessa e languida di lui c'era qualcosa di assolutamente affascinante.
Persino le mani, fresche, bianche, simili a fiori, avevano un fascino misterioso; quando parlava si muovevano come una musica e sembravano avere un linguaggio loro proprio. Però aveva paura di lui e si vergognava di aver paura. Perché doveva essere stato un estraneo a rivelargli se stesso? Conosceva Basil Hallward da mesi ma la loro amicizia non lo aveva minimamente cambiato; e ora, di colpo, era comparso nella sua vita qualcuno che sembrava avergli svelato il mistero dell'esistenza. Ma di che cosa doveva aver paura? Non era né uno scolaretto né una ragazzina; quella paura era assurda.
- Andiamo a sederci all'ombra - disse Lord Henry. - Parker ha portato le bibite e se restate ancora sotto questi riflessi vi si sciuperà il colorito. Non dovete lasciarvi abbronzare; non vi starebbe bene.
- E che importa? - gridò Dorian Gray, ridendo e sedendosi sulla panchina all'estremità del giardino.
- A voi dovrebbe importare moltissimo, signor Gray.
- Perché?
- Perché siete così meravigliosamente giovane e la gioventù è l'unica cosa che valga la pena di avere.
- Non ho quest'impressione, Lord Henry.
- No, ora non l'avete. Un giorno, quando sarete vecchio, grinzoso e brutto, quando il pensiero vi avrà solcato la fronte con le sue linee e la passione vi avrà bruciato le labbra col suo fuoco odioso, avrete quest'impressione, l'avrete in un modo terribile.
Adesso, dovunque andate, affascinate il mondo; ma sarà sempre così?... Avete un viso meravigliosamente bello, signor Gray; non aggrottate le sopracciglia, è così; e la Bellezza è una forma di genio, anzi, è più alta del genio perché non richiede spiegazioni.
E' uno dei grandi fatti del mondo, come la luce del sole o la primavera o il riflesso in un'acqua cupa di quella conchiglia d'argento che chiamiamo luna. Non può esser messa in discussione; possiede un suo diritto divino di sovranità; rende come principi quelli che la possiedono. Sorridete? Ah, quando l'avrete perduta non sorriderete... La gente dice a volte che la Bellezza è solo superficiale. Può darsi, ma almeno non è così superficiale come il Pensiero. Per me la Bellezza è la meraviglia delle meraviglie.
Soltanto le persone superficiali non giudicano dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è il visibile, non l'invisibile... Sì, signor Gray, gli Dèi sono stati benevoli con voi, ma gli Dèi si riprendono ben presto ciò che hanno donato. Avete solo pochi anni per vivere veramente, perfettamente, pienamente. Quando finirà la vostra gioventù sparirà insieme con essa anche la vostra bellezza e allora vi accorgerete di colpo che per voi non ci sono più trionfi, oppure che dovete accontentarvi di quei bassi trionfi che il ricordo del passato vi farà sembrare più amari di una sconfitta. Ogni mese che passa vi avvicina a qualche cosa di terribile. Il tempo è geloso di voi e ha dichiarato guerra ai vostri gigli e alle vostre rose. Diventerete giallo, con le guance incavate, con l'occhio smorto. Soffrirete orribilmente... Ah, finché avete la vostra giovinezza fate di essa una realtà. Non sprecate l'oro delle vostre giornate ad ascoltare gente noiosa, a cercare di emendare insuccessi senza speranza, a regalare la vostra vita a gente ignorante, ordinaria, volgare: sono queste le aspirazioni morbose, i falsi ideali del nostro tempo. Vivete!
Vivete la vita prodigiosa che è in voi! Fate che per voi niente vada perduto. Cercate sempre sensazioni nuove, non abbiate paura di niente... Un nuovo Edonismo, ecco quello che serve al nostro secolo; e voi potreste esserne il simbolo visibile. Con una personalità come la vostra non c'è niente che non possiate fare; per lo spazio di una stagione il mondo vi appartiene... Nel momento in cui vi ho conosciuto mi sono accorto che non avevate la minima coscienza di ciò che siete in realtà e di ciò che in realtà potete essere. C'era in voi qualche cosa che mi ha affascinato tanto da farmi sentire il dovere di parlarvi di voi stesso. Ho pensato che se doveste essere sprecato sarebbe una cosa tragica, perché la vostra giovinezza durerà tanto, tanto poco. I fiori di campo più comuni appassiscono, ma tornano a fiorire; nel giugno prossimo il citiso sarà giallo come è adesso; tra un mese la clematide si ornerà di stelle rosse e un anno dopo l'altro il verde scuro delle sue foglie avrà le sue stelle di porpora; ma a noi la gioventù non viene data una seconda volta. Il polso di gioia che batte in noi a vent'anni si intorbidisce, le membra si infiacchiscono, i sensi si consumano; degeneriamo fino a trasformarci in schifosi fantocci, ossessionati dal ricordo delle passioni delle quali avemmo eccessiva paura e delle tentazioni squisite alle quali non avemmo il coraggio di cedere. Giovinezza! giovinezza! nel mondo non esiste assolutamente niente, al di là della giovinezza!
Dorian Gray, sbigottito, ascoltava, con gli occhi sbarrati. Il ramoscello di glicine gli cadde di mano sulla ghiaia. Arrivò un'ape pelosa e vi ronzò intorno per un momento, poi cominciò ad arrampicarsi sul globo ovale e stellato dei suoi piccoli fiori.
Egli restò a guardarla con quello strano interessamento per le cose meschine che tentiamo di svegliare in noi stessi quando qualcosa di più alto valore ci spaventa, o ci agita qualche nuova emozione che non riusciamo a reprimere o qualche idea che ci terrorizza assedia improvvisamente il nostro cervello e ci intima la resa. Poco dopo l'ape volò via e lui la vide introdursi dentro la tromba maculata di un convolvolo. Il fiore sembrò vibrare, poi oscillò dolcemente di qua e di là.
Improvvisamente comparve sulla soglia dello studio il pittore e fece loro cenno di rientrare. Si girarono a guardarsi l'un l'altro e sorrisero.
- Sto aspettando - gridò lui. - Venite dentro. C'è una luce proprio perfetta e potete portare le bibite con voi.
Si alzarono avviandosi insieme per il vialetto. Due farfalle verdi e bianche svolazzarono vicino a loro e sul pero nell'angolo del giardino una calandra cominciò a cantare.
- Siete contento di avermi conosciuto, signor Gray? - disse Lord Henry, guardandolo.
- Sì, ora sì. Chi sa se ne sarò sempre contento?
- Sempre! E' una parola tremenda. Tutte le volte che la sento mi fa rabbrividire. Le donne l'adoperano tanto volentieri; rovinano qualsiasi romanzo a forza di provare a farlo durare in eterno. Per di più è una parola senza senso. L'unica differenza tra un capriccio e una passione che dura tutta la vita è che il capriccio dura più a lungo.
Nell'entrare nello studio Dorian Gray posò la mano sul braccio di Lord Henry. - In tal caso facciamo che la nostra amicizia sia un capriccio - bisbigliò, arrossendo della propria audacia; poi salì sulla pedana e riprese la posa.
Lord Henry si sprofondò in una grande poltrona di vimini e rimase a guardarlo. L'unico rumore che rompeva il silenzio era quello del fruscio e del tocco del pennello sulla tela, eccetto che quando Hallward, ogni tanto, faceva un passo indietro per guardare a distanza la sua opera. Nei raggi obliqui del sole che entravano dalla porta aperta ballava il pulviscolo dorato. Su tutte le cose sembrava aleggiare il profumo pesante delle rose.
Dopo circa un quarto d'ora Hallward smise di dipingere, guardò a lungo Dorian Gray e poi il ritratto, mordendo l'estremità di uno dei suoi enormi pennelli e corrugando la fronte. - E' proprio finito - gridò finalmente; e, chinatosi, tracciò nell'angolo sinistro della tela il suo nome in lettere vermiglie.
Lord Henry si avvicinò ed esaminò il ritratto. Era certamente una mirabile opera d'arte, e, al tempo stesso, mirabilmente somigliante.
- Mio caro, ti faccio le mie più calorose felicitazioni disse. E' il più bel ritratto dell'epoca moderna. Signor Gray, venite a guardarlo anche voi.
Il ragazzo si riscosse, come se si fosse svegliato da un sogno. E' proprio finito? - mormorò, scendendo dalla pedana.
- Proprio finito - disse il pittore. E tu oggi hai posato splendidamente. Te ne sono infinitamente grato.
- E' tutto merito mio - interruppe Lord Henry, - non è vero, signor Gray?
Dorian non rispose, ma passò distrattamente davanti al suo ritratto e si voltò a guardarlo. Nel vederlo si ritrasse indietro e per un attimo le guance gli si arrossarono di piacere.
Un'espressione di gioia apparve nei suoi occhi, come se si fosse riconosciuto per la prima volta. Restò immobile, in ammirazione, rendendosi vagamente conto che Hallward gli stava parlando, senza afferrare il senso delle sue parole. La sensazione della propria bellezza fu per lui come una rivelazione. Non l'aveva mai provata prima di quel momento, i complimenti di Basil Hallward gli erano sembrati semplicemente le cortesi esagerazioni dell'amicizia; li aveva ascoltati, ne aveva riso e se ne era dimenticato, ma non avevano avuto nessuna influenza sulla sua natura. Poi era venuto Lord Henry Wotton col suo strano panegirico della giovinezza, col suo terribile monito della brevità di questa. Lì per lì ne era rimasto turbato; ma ora, nel contemplare l'ombra della propria bellezza, gli balenò davanti la piena esattezza della descrizione.
Sì, sarebbe venuto il giorno in cui il suo volto sarebbe diventato rugoso e avvizzito, i suoi occhi si sarebbero fatti vuoti e scialbi, la grazia della sua figura sarebbe stata infranta e deformata; dalle sue labbra sarebbe scomparso lo scarlatto e dai suoi capelli il fulgore dell'oro. La vita doveva creare la sua anima, ma avrebbe distrutto il suo corpo. Sarebbe diventato orribile, schifoso, goffo. A questo pensiero un acuto senso di pena penetrò in lui come una lama, facendo fremere tutte le fibre delicate della sua natura. I suoi occhi oscurandosi presero il colore dell'ametista e vi passò sopra una nebbia di lacrime. Fu come se una mano gelida gli si fosse posata sul cuore.
- Non ti piace? - gridò Hallward, alla fine, un po' risentito per il silenzio del ragazzo di cui non capiva il significato.
- Certo che gli piace - disse Lord Henry. - A chi potrebbe non piacere? E' una delle cose più grandi dell'arte moderna. Ti darò qualunque cifra tu chieda. Debbo averlo.
- Non è mio, Harry.
- Di chi è?
- Di Dorian, naturalmente - rispose il pittore.
- Può considerarsi ben fortunato.
- Che tristezza! - mormorò Dorian Gray, continuando a tenere gli occhi fissi sul suo ritratto. - Che tristezza! Io diventerò vecchio, orribile, spaventoso, ma questo ritratto rimarrà sempre giovane. Non sarà mai più vecchio di quel che non sia in questo particolare giorno di giugno... Oh, se fosse il contrario! se fossi io a rimanere sempre giovane e il ritratto a invecchiare!
Per questo... per questo darei qualunque cosa; sì, non c'è niente al mondo che non sarei disposto a dare! Darei perfino la mia anima, per questo!
- Sarebbe un affare che a te piacerebbe poco, Basil - esclamò Lord Henry, ridendo. - Sarebbe piuttosto crudele per la tua opera.
- Mi opporrei con tutte le forze, Harry - disse Hallward.
Dorian Gray si girò a guardarlo. - Lo credo, Basil. Tu ami la tua arte più dei tuoi amici. Per te io non conto più di una verde figurina di bronzo; magari meno, direi.
Il pittore lo guardò stupefatto. Questo non era il linguaggio abituale di Dorian. Che cosa era successo? Sembrava estremamente arrabbiato; aveva la faccia rossa e le guance accese.
- Sì - continuò, - per te io conto meno del tuo Ermes d'avorio o del tuo Fauno d'argento. Quelli ti piaceranno sempre; ma io, per quanto ti piacerò? Probabilmente finché non avrò la prima ruga.
Ora lo so, che quando si perde la bellezza, quale che essa sia, si perde tutto; il tuo quadro me l'ha insegnato. Lord Henry Wotton ha perfettamente ragione; la giovinezza è l'unica cosa che valga la pena di avere. Quando mi accorgerò di invecchiare mi ucciderò.
Hallward impallidì e lo prese per mano. - Dorian, Dorian, esclamò - non parlare così! Non ho mai avuto un amico come te e non l'avrò mai. Non sarai mica geloso di cose materiali, tu che sei tanto superiore a qualunque di esse!
- Sono geloso di tutte le cose la cui bellezza non muore. Sono geloso del ritratto che mi hai fatto. Perché deve conservare quello che io dovrò perdere? A me ogni istante che passa toglie qualcosa, ad esso aggiunge qualcosa. Oh se fosse il contrario! Se il ritratto potesse cambiare e io potessi essere sempre quello che sono adesso! Perché l'hai dipinto? Verrà un giorno nel quale mi schernirà, mi schernirà orribilmente! - Gli salirono agli occhi lacrime brucianti, si sciolse dalla mano dell'artista e, gettandosi sul divano, affondò il viso nei cuscini, come se stesse pregando.
- Questa è opera tua, Harry - disse il pittore, amaro.
Lord Henry scrollò le spalle. - E' il vero Dorian Gray e nient'altro.
- Non è così.
- Se non è così, che c'entro io?
- Avresti dovuto andare via quando te l'ho chiesto - borbottò.
- Sono rimasto quando me l'hai chiesto - fu la risposta di Lord Henry.
- Harry, io non posso litigare con i miei due migliori amici nello stesso momento; ma fra tutti e due mi avete fatto odiare l'opera più bella che io abbia mai fatto. Mi è venuta la voglia di distruggerla. Dopo tutto non è che tela e colori e non permetterò che si metta di traverso alle nostre vite e le rovini.
Dorian Gray alzò la testa d'oro dal cuscino e lo guardò, pallido in viso e con gli occhi umidi di pianto, mentre andava verso il tavolino sistemato sotto la finestra dalle alte tende. Che stava facendo? Le sue dita frugavano nel mucchio di tubetti e di pennelli asciutti, cercando qualche cosa. Sì, si trattava del lungo coltello da tavolozza, con la sua sottile lama d'acciaio lucente. L'aveva trovato, finalmente, e stava per lacerare la tela.
Con un sospiro soffocato il ragazzo balzò dal divano e, lanciatosi su Hallward, gli strappò il coltello dalle mani e lo gettò in fondo allo studio. - No, Basil, no! - gridò. Sarebbe un assassinio.
- Sono contento di vederti finalmente apprezzare la mia opera, Dorian - disse freddamente il pittore, non appena si fu rimesso dalla sorpresa. - Non l'avrei mai creduto.
- Apprezzarla? Basil, ne sono innamorato. E' una parte di me stesso, lo sento.
- Va bene. Appena sarai asciutto, sarai verniciato, incorniciato e mandato a casa. Allora potrai fare di te stesso quello che vorrai.
- Attraversò la stanza e suonò per il tè. - Prenderai il tè, naturalmente, Dorian? Anche tu, Harry? Oppure sei contrario a questi piaceri semplici?
- Adoro i piaceri semplici - disse Lord Henry. - Sono l'ultimo rifugio che resti alle persone complicate. Però non mi piacciono le scene, eccetto che al teatro. Che gente assurda siete voi due!
Mi domando chi è che ha definito l'uomo un animale ragionevole; è la definizione più avventata che sia mai stata fatta. L'uomo è molte cose, ma non è ragionevole. Dopo tutto, mi fa piacere che sia così; però vorrei che voialtri due non litigaste per il ritratto. Faresti molto meglio a darlo a me, Basil; questo ragazzo sciocco in realtà non lo desidera, io sì.
- Se lo dai a chiunque altro e non a me, Basil, non te lo perdonerò mai! - gridò Dorian Gray. - E non consento a nessuno di chiamarmi ragazzo sciocco.
- Dorian, sai bene che il ritratto è tuo. Te l'ho dato prima ancora che esistesse.
- E sapete pure che siete stato un po' sciocco, signor Gray, e che in realtà non avete niente da obiettare se vi si ricorda che siete estremamente giovane.
- Stamattina, Lord Henry, mi sarei opposto nel modo più violento.
- Ah, stamattina! Ma da allora in poi avete vissuto.
Bussarono alla porta e il servitore entrò portando un vassoio da tè ricolmo e lo posò su un piccolo tavolino giapponese. Ci fu un rumore di tazze e di piattini e il sibilo di un bricco scanalato di stile giorgiano. Un ragazzo portò due piatti coperti da una campana di porcellana. Dorian Gray si fece avanti e versò il tè; i due uomini si avvicinarono lentamente alla tavola ed esaminarono quello che c'era sotto i coperchi.
- Andiamo a teatro stasera - disse Lord Henry. - Ci sarà di sicuro qualcosa in qualche posto. Ho promesso di pranzare al White, ma si tratta solo di un vecchio amico e posso mandargli un telegramma dicendo che non mi sento bene oppure che non posso andare a causa di un successivo impegno. Questa mi sembra una scusa piuttosto carina; avrebbe tutta la sorpresa della sincerità.
- Che noia, vestirsi da sera - brontolò Hallward. - E poi, quando si hanno indosso, sono così orribili, quei vestiti.
- Sì - rispose Lord Henry, come se fantasticasse, - il costume del Diciannovesimo secolo è detestabile; è così scuro, così deprimente. Il peccato è l'unico elemento di colore che rimanga nella vita moderna.
- Davanti a Dorian certe cose non dovresti proprio dirle.
- Davanti a quale Dorian? Quello che ci sta versando il tè o quello del ritratto?
- L'uno e l'altro.
- Mi piacerebbe andare a teatro con voi, Lord Henry - disse il ragazzo.
- Allora verrete, e verrai anche tu, Basil, non è vero?
- Non posso, veramente. Preferisco di no. Ho un mucchio di cose da fare.
- Allora voi ed io andremo soli, signor Gray.
- Mi piacerebbe moltissimo.
Il pittore si morse le labbra e andò verso il quadro, con la tazza in mano. - Io resterò col vero Dorian - disse tristemente.
- E' questo il vero Dorian? - esclamò l'originale del ritratto, avvicinandosi a lui. - Sono così per davvero?
- Sì, sei proprio così.
- Basil, è meraviglioso!
- Almeno sei così nel tuo aspetto esteriore; ma quello non cambierà mai - sospirò il pittore, - e è già qualche cosa.
- Quanto chiasso si fa riguardo alla fedeltà! - esclamò Lord Henry. - Eppure perfino in amore si tratta di una questione esclusivamente fisiologica. I giovani vorrebbero essere fedeli e non lo sono; i vecchi vorrebbero essere infedeli e non possono:
ecco tutto ciò che si può dire.
- Non andare a teatro stasera, Dorian - disse Hallward. - Rimani a pranzo con me.
- Non posso, Basil.
- Perché?
- Perché ho promesso a Lord Henry Wotton di andare con lui.
- Gli piacerai anche di più se non mantieni la tua promessa. Lui non mantiene mai le sue. Ti prego di non andare.
Dorian Gray rise e scosse il capo.
- Te ne supplico.
Il ragazzo esitò e volse lo sguardo verso Lord Henry che, dalla tavola da tè, stava guardandoli con un sorriso divertito.
- Devo andare, Basil - rispose.
- Benissimo - disse Hallward e andò a posare la tazza sul vassoio.
- E' un po' tardi e se vi dovete vestire è meglio che non perdiate tempo. Addio, Harry. Addio, Dorian; vieni a trovarmi presto. Vieni domani.
- Certo.
- Non lo dimenticherai?
- No, certamente no - gridò Dorian.
- E... Harry!
- Che c'è, Basil?
- Ricordati quello che ti ho chiesto stamattina, quando eravamo in giardino.
- Me ne sono dimenticato.
- Mi fido di te.
- Vorrei potermi fidare di me stesso - disse Lord Henry, ridendo.
- Andiamo, signor Gray. Fuori c'è la mia carrozza e posso accompagnarvi a casa vostra. Addio, Basil; è stato un pomeriggio interessantissimo.
Quando la porta si fu richiusa alle loro spalle, il pittore si lasciò cadere su un divano e un'espressione di sofferenza comparve sul suo volto.
Capitolo terzo
Il giorno dopo, a mezzogiorno e mezzo, Lord Henry Wotton andò a piedi da Curzon Street all'Albany a trovare suo zio, Lord Fermor, un vecchio scapolo, gioviale anche se un po' rude di modi, che la gente in generale chiamava egoista perché non ricavava da lui nessun vantaggio speciale, ma che la buona società chiamava generoso perché dava da mangiare a chi lo divertiva. Suo padre era stato Ambasciatore a Madrid, al tempo in cui Isabella era giovane e nessuno pensava ancora a Prim, ma aveva dato le dimissioni dalla carriera diplomatica, per testardaggine, in un momento in cui era seccato perché non gli era stata offerta l'ambasciata di Parigi, posto al quale pensava di avere pieno diritto di aspirare a causa della sua nascita, della sua indolenza, del buon inglese, dei suoi rapporti e della sua sfrenata passione per i piaceri. Suo figlio, che era segretario del padre, si era dimesso insieme col suo Capo, cosa che allora venne giudicata una sciocchezza, e qualche mese più tardi, succeduto al padre nel titolo, si era dedicato seriamente allo studio della grande arte aristocratica di non fare assolutamente niente. Possedeva due grandi case in città, ma preferiva abitare in un appartamentino perché comportava meno fastidi e mangiava quasi sempre al circolo. Si occupava un po' dell'amministrazione delle sue miniere di carbone nelle Contee del Midland, e di questa macchia di attività si scusava dicendo che uno dei vantaggi di avere del carbone consisteva nel permettere a un signore di lusso di bruciare legna nel proprio caminetto. In politica era conservatore, salvo quando i conservatori erano al potere, periodo durante il quale li copriva di contumelie accusandoli di essere una massa di radicali. Era un eroe per il suo cameriere, che lo tiranneggiava, e il terrore per la maggior parte dei suoi parenti, che lui tiranneggiava a sua volta.
Soltanto l'Inghilterra poteva aver prodotto un tipo come lui, ed egli amava ripetere che il Paese stava andando a rotoli. I suoi princìpi erano fuori dal tempo, ma ci sarebbe stato molto da dire in favore dei suoi pregiudizi.
Entrando nella sua stanza, Lord Henry lo trovò seduto, in una rozza cacciatora, che fumava un sigaro forte e brontolava contro il Times. - Oh, Harry - disse il vecchio gentiluomo, - come mai sei fuori così presto? Credevo che voi giovani eleganti non vi alzaste che alle due e non foste visibili prima delle cinque.
- Per puro affetto di famiglia, zio, te lo assicuro. Voglio qualche cosa da te.
- Denari, mi immagino - disse Lord Fermor, facendo una faccia acida. - Va bene; siediti e raccontami tutto. I giovani d'oggi immaginano che il denaro sia tutto.
- Sì - disse Lord Henry sistemandosi il fiore all'occhiello - e quando diventano vecchi lo sanno. Ma non voglio denaro. Il denaro lo vogliono solo quelli che pagano i loro conti e io, caro zio, non pago mai i miei. Il credito costituisce il capitale di un cadetto e permette di fare una vita deliziosa. Per di più non tratto se non coi fornitori di Dartmoor e quelli di conseguenza non mi disturbano mai. Voglio delle informazioni; non informazioni utili, naturalmente; informazioni inutili.
- Bene, io posso dirti qualunque cosa che si trovi in un Libro Azzurro inglese, Harry, benché oggigiorno quei tipi scrivano un sacco di sciocchezze. Quando io ero in diplomazia le cose andavano meglio. Ma ora sento dire che li fanno entrare per esami. Che cosa ci si può aspettare? Gli esami, caro mio, sono una stupidaggine dall'inizio alla fine. Se uno è un gentiluomo ne sa assolutamente abbastanza; e se non è un gentiluomo tutto quello che sa gli nuoce.
- Il signor Dorian Gray non sta nei Libri Azzurri, zio - disse languidamente Lord Harry.
- Il signor Dorian Gray? e chi è? - gli chiese Lord Fermor, aggrottando le sopracciglia bianche.
- Questo è quello che vorrei sapere, zio; o, per dire meglio, chi è, lo so. E' il nipote dell'ultimo Lord Kelso. Sua madre era una Devereux, Lady Margaret Devereux. Vorrei che tu mi parlassi di sua madre. Com'era? Chi sposò? Tu, ai tuoi tempi, hai conosciuto tutti quanti e potresti aver conosciuto anche lei. In questo momento il signor Dorian Gray mi interessa molto. L'ho conosciuto proprio ora.
- Il nipote di Kelso! - replicò il vecchio gentiluomo. - Il nipote di Kelso! Ma certo: ho conosciuto intimamente sua madre: credo di aver assistito al suo battesimo. Era una ragazza straordinariamente bella, Margaret Devereux, e fece imbestialire tutti gli uomini scappando con un giovanotto squattrinato, un uomo da niente, ti dico: subalterno in un reggimento di fanteria, o qualcosa di simile. Certo, mi ricordo tutta la storia come se fosse successa ieri. Quel povero ragazzo fu ucciso in un duello a Spa, pochi mesi dopo il matrimonio. Riguardo a questo circolò una brutta storia. Dissero che Kelso aveva trovato un cialtrone di avventuriero, un bruto belga qualsiasi, che insultasse suo genero in pubblico, pagandolo per farlo, ti dico, pagandolo; e quel tipo lo infilzò come un piccione. La storia venne soffocata, ma, per Bacco, per un pezzo Kelso al circolo dovette fare colazione da solo. Riportò indietro sua figlia, mi dissero, ma questa non gli rivolse più la parola. Oh sì, un brutto affare. Anche lei morì: morì quello stesso anno. E allora ha lasciato un figlio, è vero?
Questo me l'ero dimenticato. Che tipo di ragazzo è? Se assomiglia alla madre deve essere un bel figliuolo.
- Bellissimo - disse Lord Henry.
- Speriamo che finisca in buone mani - continuò il vecchio.
Dovrebbe avere un sacco di soldi se Kelso ha fatto le cose giuste.
Anche sua madre era ricca; tutta la proprietà di Selby toccò a lei attraverso suo nonno. Suo nonno odiava Kelso, lo considerava un cane rognoso, com'era, del resto. Venne una volta a Madrid quando c'ero io. Per Bacco, mi vergognai di lui. La Regina mi chiedeva sempre di quel nobile inglese che litigava con i vetturini sul prezzo della corsa. Ne avevano fatto tutta una storia. Per un mese non ebbi il coraggio di farmi vedere a Corte. Spero che abbia trattato suo nipote meglio di come trattava i vetturini.
- Non so - disse Lord Henry. - M'immagino che quel ragazzo sarà ricco; ancora non è maggiorenne. So che Selby gli appartiene, me l'ha detto. E... sua madre era molto bella?
- Margaret Devereux era una delle più belle creature che io abbia mai visto. Che cosa possa averla indotta a fare quello che fece io non l'ho mai potuto capire. Avrebbe potuto sposare chiunque avesse voluto. Carlington era pazzo per lei; ma lei era romantica, come tutte le donne di quella famiglia. Gli uomini non valevano gran che, ma, per Bacco, le donne erano meravigliose. Carlington si mise in ginocchio davanti a lei; me l'ha raccontato lui stesso.
Gli rise in faccia, e pure non c'era ragazza a Londra che non gli corresse dietro. A proposito, Harry, parlando di matrimoni stupidi, cos'è questo pasticcio che mi ha raccontato tuo padre, di Dartmoor che vuole sposare un'americana? Le ragazze inglesi non sono abbastanza buone per lui?
- In questo momento, zio, sposare le americane è molto di moda.
- Io sosterrò sempre le ragazze inglesi, di fronte al mondo intero - disse Lord Fermor, picchiando il pugno sulla tavola.
- Le scommesse sono in favore delle americane.
- Durano poco, a quanto mi dicono - brontolò suo zio.
- Un fidanzamento lungo le esaurisce, ma nelle corse ad ostacoli sono straordinarie. Prendono le cose a volo. Non credo che per Dartmoor ci sia nessuna probabilità di salvezza.
- Che famiglia è la sua? - grugnì il vecchio gentiluomo. - Ce l'ha, una famiglia?
Lord Henry scosse il capo. Disse, alzandosi per andarsene: - Nel nascondere i loro genitori le ragazze americane hanno la stessa abilità che hanno quelle inglesi nel nascondere il loro passato.
- Saranno fabbricanti di salsicce, penso.
- Lo spero, zio, nell'interesse di Dartmoor. Mi dicono che, dopo la politica, la fabbricazione delle salsicce in America sia la professione più redditizia.
- E' graziosa?
- Si comporta come se fosse bella. La maggior parte delle americane fa così: è il segreto del loro fascino.
- Perché queste americane non se ne stanno nel loro paese? Ci raccontano sempre che è il paradiso delle donne.
- Sì, e è questa la ragione per la quale, come Eva, sono tanto impazienti di uscirne - disse Lord Henry. - Addio, zio; se mi trattengo ancora sarò in ritardo per la colazione. Grazie per avermi dato le informazioni che desideravo. Mi piace sempre sapere tutto sul conto dei miei nuovi amici e niente sul conto di quelli vecchi.
- Dove fai colazione, Harry?
- Dalla zia Agatha. Mi sono invitato insieme col signor Gray. E' il suo ultimo "protégé".
- Hum! Harry, dì a tua zia di non seccarmi più coi suoi appelli caritatevoli; ne sono stufo. Si direbbe che quella buona donna creda che io non abbia altro da fare che riempire assegni per le sue sciocche ubbie.
- Va bene, zio, glielo dirò, ma senza risultato. La gente filantropica perde ogni senso di umanità: è la caratteristica che li distingue.
Il vecchio gentiluomo emise un brontolio di approvazione e suonò per chiamare il servitore. Attraverso l'arcata, Lord Henry passò in Burlington Street e si avviò verso Berkeley Square. Questa era dunque la storia dei genitori di Dorian Gray. Anche nella forma cruda nella quale gli era stata raccontata, lo aveva commosso, perché lasciava intravedere uno strano romanzo quasi moderno. Una bella donna che rischia tutto per una passione furiosa; poche settimane ardenti di felicità troncate da un delitto ripugnante, proditorio; mesi di strazio silenzioso e finalmente una creatura nata nel dolore; la madre trascinata via dalla morte, il bambino abbandonato alla solitudine e alla tirannia di un uomo vecchio e senza cuore. Sì, lo sfondo era interessante: dislocava, per così dire, quel giovane, lo rendeva più perfetto. Dietro tutte le cose squisite che esistono c'è qualcosa di tragico: il mondo deve essere in travaglio, perché possa sbocciare il più umile dei fiori... Come era stato delizioso la sera prima, a pranzo, seduto davanti a lui al circolo, con gli occhi spalancati e le labbra semiaperte, con un piacere misto di spavento, mentre i paralumi rossi macchiavano di un rosa più intenso la vivente meraviglia del suo volto! Parlare con lui era come suonare un violino perfetto; rispondeva a ogni tocco, a ogni fremito dell'arco... Quando si esercita un'influenza si prova qualche cosa di terribilmente inebriante; non esiste altra attività come quella. Mettere l'anima di una persona dentro una forma graziosa e lasciarvela riposare per un momento; sentire riecheggiare le proprie concezioni intellettuali, con l'aggiunta di tutta la musica della passione e della giovinezza; trasferire in un altro il proprio temperamento come se fosse un fluido sottile o un profumo strano, in tutto questo c'è una vera gioia, forse la gioia più soddisfacente che ci sia rimasta in un tempo limitato e volgare come il nostro, un tempo grossolanamente carnale nei piaceri e grossolanamente volgare nelle aspirazioni... Ed era un tipo meraviglioso, quel ragazzo, che una coincidenza tanto curiosa gli aveva fatto incontrare nello studio di Basil; o almeno di lui si poteva fare un tipo meraviglioso. Aveva la grazia e la candida purezza dell'adolescenza e una bellezza uguale a quella che ci hanno tramandato i marmi greci. Che peccato che una simile bellezza fosse destinata a svanire!... E Basil, dal punto di vista psicologico, com'era interessante! La sua nuova maniera artistica, il suo nuovo modo di guardare la vita, che gli era suggerito così stranamente dalla semplice presenza visibile di uno che non ne aveva neppure lontanamente coscienza; lo spirito silenzioso che vive nell'oscurità dei boschi e vagava invisibile per l'aperta campagna e che improvvisamente, come una Driade, ma non impaurita, si manifestava perché nell'anima di colui che ne andava in giro si era risvegliata quella prodigiosa visione alla quale soltanto si rivelano le cose prodigiose; le linee e le forme delle cose che diventano, per così dire, affinate e acquistano una specie di valore simbolico, come se esse stesse fossero modelli di qualche altra e più perfetta forma, della quale mutano l'ombra in realtà: come era strano tutto questo! Gli tornò in mente qualcosa di analogo nella storia. Non era stato Platone, quell'artista del pensiero, ad analizzarlo per primo? Non era stato il Buonarroti a scolpirlo nel marmo colorato di una quartina di sonetto? Ma nel nostro secolo era una cosa strana... Sì, egli avrebbe cercato di essere per Dorian Gray quello che il ragazzo, senza saperlo, era stato per il pittore che aveva dipinto quel mirabile ritratto; avrebbe cercato di dominarlo anzi, a dire il vero, c'era già riuscito a metà. Si sarebbe impadronito di quello spirito meraviglioso. C'era qualcosa di affascinante in quel figlio dell'amore e della Morte.
Di colpo si fermò e alzò gli occhi verso le case. Si accorse di aver oltrepassato un po' quella della zia e tornò indietro, sorridendo a se stesso. Quando entrò nel vestibolo semibuio, il maggiordomo gli disse che tutti erano già a tavola. Affidò cappello e bastone a uno dei servitori e passò in sala da pranzo.
- In ritardo, come al solito, Harry - gli gridò sua zia, scotendo la testa.
Inventò una scusa qualunque e, sedutosi al posto vuoto accanto a lei, diede un'occhiata in giro per vedere chi c'era.
Dall'estremità della tavola, Dorian Gray lo salutò timidamente, mentre le guance gli s'imporporavano di piacere. Di fronte a lui c'era la Duchessa di Harley, signora di buon carattere e di buon umore, simpatica a tutti quanti la conoscevano, dotata di quelle ampie proporzioni architettoniche che gli storici contemporanei, quando parlano di donne che non sono duchesse, indicano con la parola pinguedine. Vicino a lei, a destra, sedeva Sir Thomas Burdon, deputato radicale che nella vita pubblica seguiva il capo del suo partito e nella vita privata i migliori cuochi, pranzava coi conservatori e pensava coi liberali, in conformità a una regola saggia e ben conosciuta. Il posto a sinistra era occupato dal signor Erskine di Treadley, vecchio signore simpatico e colto, che però aveva preso la brutta abitudine del silenzio perché, come spiegò una volta a Lady Agatha, aveva detto tutto quello che aveva da dire prima di aver raggiunto la trentina. Accanto a lui sedeva la signora Vandeleur, una delle più vecchie amiche di sua zia, vera santa fra le donne, ma così terribilmente infagottata da sembrare un libro di preghiere mal rilegato. Per sua fortuna, dall'altro lato di lei sedeva Lord Faudel, una intelligentissima mediocrità quarantenne, calvo come una dichiarazione ministeriale alla Camera dei Comuni; e lei conversava con lui in quel modo intensamente serio che, com'egli stesso aveva osservato una volta, è l'unico errore imperdonabile nel quale cadono tutte le persone davvero buone e che nessuna di loro riesce mai a evitare interamente.
- Stiamo parlando del povero Dartmoor, Lord Henry - gridò la duchessa, facendogli un cenno gentile del capo attraverso la tavola. - Credi che sposerà veramente quella ragazza?
- Credo che lei sia decisa a chiedergli la sua mano, duchessa.
- Terribile! - esclamò Lady Agatha. - Davvero qualcuno dovrebbe intervenire.
- Mi è stato detto da ottima fonte che il padre di lei ha un negozio di novità americane - disse Sir Thomas Burdon, con un'aria di superiorità.
- Novità americane! e che cosa sono le novità americane? chiese la duchessa, alzando le grosse mani al cielo in un gesto di sorpresa e accentuando il verbo.
- Romanzi americani - rispose Lord Henry, servendosi una quaglia.
La duchessa restò alquanto imbarazzata.
- Non gli badare, cara - sussurrò Lady Agatha. - Non pensa mai quello che dice.
- Quando fu scoperta l'America - disse il deputato radicale, e cominciò a citare dei fatti noiosi. Come tutti quelli che vogliono esaurire un argomento non riuscì che a esaurire gli ascoltatori.
La duchessa sospirò ed esercitò il suo privilegio di interrompere.
- Dio volesse che non fosse stata mai scoperta!- esclamò. - Oggi alle nostre ragazze non resta nessuna possibilità. E' troppo ingiusto.
- Forse, dopo tutto, l'America non è stata mai scoperta - disse il signor Erskine. - Io direi che è stata scoperta come si scopre un delitto.
- Oh, ma io ho visto qualche esemplare delle abitanti - rispose la duchessa, vagamente. - Devo confessare che la maggior parte di loro sono estremamente carine e si vestono bene, anche. Si fanno fare tutti i vestiti a Parigi. Vorrei potermi permettere di fare lo stesso.
- Dicono che gli Americani buoni, quando muoiono, vanno a Parigi- sogghignò Sir Thomas, che possedeva un grande armadio di spiritosaggini usate.
- Davvero! e dove vanno gli Americani cattivi, quando muoiono?
chiese la duchessa.
- In America - mormorò Lord Henry.
Sir Thomas si accigliò. - Ho paura che vostro nipote abbia dei pregiudizii contro quel grande Paese - disse a Lady Agatha. - Io l'ho percorso tutto, viaggiando in vagoni speciali messi a mia disposizione dai direttori delle ferrovie, che in queste cose sono di una cortesia straordinaria. Vi assicuro che visitarlo è una cosa istruttiva.
- Ma dobbiamo proprio vedere Chicago per istruirci? - chiese lamentosamente il signor Erskine. - Non mi sento in grado di sopportare il viaggio.
Sir Thomas agitò la mano. - Il signor Erskine di Treadley possiede il mondo negli scaffali della sua biblioteca. Noi siamo gente pratica, e le cose ci piace vederle, e non leggere quel che se ne dice. Gli Americani sono un popolo estremamente interessante. Sono assolutamente ragionevoli; è questa, a mio parere, la caratteristica che li distingue. Sì, signor Erskine, un popolo assolutamente ragionevole; vi assicuro che gli Americani non fanno sciocchezze.
- Che cosa tremenda! - esclamò Lord Henry. - Io posso sopportare la forza bruta, ma la ragione bruta è insopportabile. L'uso di essa è antisportivo; è un colpo basso vibrato all'intelletto.
- Non capisco - disse Sir Thomas, facendosi rosso in faccia.
- Io sì, Lord Henry - mormorò sorridendo il signor Erskine.
- I paradossi saranno una bella cosa... - aggiunse il baronetto.
- Era un paradosso? - chiese il signor Erskine. - A me non sembrava; ma ammettiamolo pure. Ebbene, la strada dei paradossi è la strada della verità. Per mettere la realtà alla prova bisogna vederla camminare sulla corda. Le verità possiamo giudicarle quando diventano acrobate.
- Mio Dio - disse Lady Agatha, - come discutete, voialtri uomini!
Io non riesco mai a capire di cosa stiate parlando. Oh, Harry, con te sono proprio arrabbiata. Perché cerchi di convincere il nostro caro signor Dorian Gray ad abbandonare l'East End? Ti assicuro che sarebbe prezioso per noi. Andrebbero pazzi per la sua musica.
- Voglio che suoni per me - esclamò Lord Henry sorridendo e lanciando verso il fondo della tavola uno sguardo al quale rispose un'occhiata vivace.
- Ma in Whitechapel sono tanto infelici - continuò Lady Agatha.
- Io ho compassione di tutto, ma non della sofferenza - disse Lord Henry scrollando le spalle. - Per quella non posso sentire compassione; è troppo brutta, troppo orribile, troppo deprimente.
Nelle simpatie moderne per il dolore c'è qualcosa di terribilmente morboso. Si dovrebbe provare simpatia per il colore, per la bellezza, per la gioia della vita. Quanto meno si parla dei dolori della vita, tanto meglio è.
- Eppure l'East End costituisce un problema molto importante osservò Sir Thomas, scrollando gravemente la testa.
- Certo - rispose il giovane Lord. - E' il problema della schiavitù e noi tentiamo di risolverlo divertendo gli schiavi.
L'uomo politico lo guardò fisso. Chiese: - E voi allora che cambiamento proponete?
Lord Henry scoppiò a ridere. - Non c'è niente che vorrei cambiare in Inghilterra, salvo il tempo - rispose. - Ma dato che il diciannovesimo secolo ha fatto fallimento per il suo spreco di simpatia, suggerirei che facessimo appello alla scienza per rimettere le cose a posto. Il vantaggio delle emozioni è che ci portano fuori strada e il vantaggio della scienza è di non essere emozionante.
- Ma noi abbiamo delle responsabilità tanto gravi - si arrischiò a dire timidamente la signora Vandeleur.
- Terribilmente gravi - fece eco Lady Agatha.
Lord Henry guardò il signor Erskine. - L'umanità prende troppo sul serio se stessa. E' questo il peccato originale del mondo. Se l'uomo delle caverne avesse saputo ridere, la storia sarebbe stata diversa.
- Siete una vera consolazione - cinguettò la duchessa. - Ogni volta che sono venuta da vostra zia mi sono sempre sentita un po' colpevole, perché l'East End non mi interessa per niente. In futuro potrò guardarla in faccia senza arrossire.
- Ma il rossore è una cosa che dona, duchessa - disse Lord Henry.
- Finché si è giovani - rispose lei. - Quando una donna vecchia come me arrossisce è un bruttissimo segno. Ah, Lord Henry, vorrei che mi poteste dire come si fa per ridiventare giovani!
Egli rimase un momento sovrappensiero. - Potete ricordarvi di qualche grosso errore che avete commesso nei vostri anni giovanili? - chiese guardandola attraverso la tavola.
- Di molti, ho paura - esclamò lei.
- Allora commetteteli un'altra volta - disse lui. - Per recuperare la giovinezza basta ripetere le proprie pazzie.
- Che teoria deliziosa! - esclamò la duchessa. - Bisognerà che la metta in pratica.
- Che teoria pericolosa! - fu la frase che uscì dalle labbra di Sir Thomas. Lady Agatha scosse la testa, ma non poteva fare a meno di sentirsi divertita. Il signor Erskine ascoltava.
- Sì - aggiunse lui, - questo è uno dei grandi segreti della vita.
La maggior parte della gente di oggi muore di una specie di senso comune strisciante e scopre, quando è ormai troppo tardi, che le sole cose che non si rimpiangono mai sono gli errori.
Tutta la tavola scoppiò in una risata.
Egli giocava con l'idea e ci si ostinava; la lanciava in aria e la trasformava; la lasciava sfuggire e la riafferrava; la rendeva incandescente di immagini, le dava le ali del paradosso. Mentre continuava a parlare, l'elogio della follia si innalzava a filosofia e la Filosofia stessa diventava giovane, afferrava la musica folle del piacere, si vestiva, per così dire, della sua veste macchiata di vino e della sua ghirlanda d'edera, ballava come una Baccante sui colli della vita e scherniva per la sua sobrietà il lento Sileno. I fatti fuggivano davanti a lei come spaventate creature della foresta. I suoi piedi bianchi pestavano l'enorme torchio vicino al quale siede il savio Omar, finché il succo spumeggiante dell'uva non salì in purpuree onde spumose lungo le sue membra nude o colò giù in una schiuma rossa lungo i fianchi gocciolanti, viscidi, del tino. Era un'improvvisazione straordinaria. Egli sentiva gli occhi di Dorian Gray che lo fissavano e la coscienza di avere tra i propri ascoltatori colui del quale voleva affascinare il temperamento sembrava aguzzare il suo spirito e dar calore alla sua immaginazione. Fu brillante, fantasioso, irresponsabile. Gli ascoltatori, presi dal suo fascino, si misero, ridendo, a seguire la sua musica. Dorian Gray non gli toglieva mai gli occhi di dosso; sembrava che fosse stregato. Sulle sue labbra i sorrisi si susseguivano e nei suoi occhi che si oscuravano la sorpresa assumeva un carattere di gravità.
Alla fine, vestita della livrea contemporanea, la Realtà entrò nella stanza sotto forma di un servitore, venuto a dire alla duchessa che la sua carrozza era arrivata.
Essa si torse le mani con finta disperazione. - Che noia! esclamò.
- Devo andare via; bisogna che vada a prendere mio marito al circolo per accompagnarlo da Willis, a una stupida riunione che deve presiedere. Se sono in ritardo lui sarà certamente furioso e io non posso permettermi una scenata con questo cappello; è troppo fragile e una parola dura lo rovinerebbe. No, cara Agatha, bisogna che vada. Arrivederci Lord Henry. Siete proprio delizioso, ma tremendamente demoralizzante. Non so proprio che cosa dire delle vostre idee. Dovete venire una sera a pranzo da noi. Martedì?
siete libero martedì?
- Per voi, duchessa, manderei all'aria chiunque altro - disse Lord Henry con un inchino.
- Ah, questo è molto gentile da parte vostra, e molto mal fatto- esclamò la duchessa. - Allora badate bene di venire - e uscì maestosamente dalla stanza, seguita da Lady Agatha e dalle altre signore.
Quando Lord Henry tornò a sedersi il signor Erskine girò intorno alla tavola, prese una sedia vicino a lui e gli posò la mano sul braccio.
- Voi parlate meglio di un libro - disse. - Perché non ne scrivete uno?
- Mi piace troppo leggere i libri per avere voglia di scriverne, signor Erskine. Certo, mi piacerebbe scrivere un romanzo, un romanzo che fosse piacevole come un tappeto persiano e allo stesso modo irreale. Ma in Inghilterra non esiste un pubblico letterario, salvo che per i giornali, i sillabari e le enciclopedie. Di tutti i popoli del mondo quello inglese è quello che meno possiede il senso della bellezza della letteratura.
- Ho paura che abbiate ragione - disse Erskine. - Anch'io avevo delle ambizioni letterarie, ma ci ho rinunciato da un pezzo. E ora, mio caro giovine amico, se mi permettete di chiamarvi così, posso chiedervi se pensate veramente tutto quello che ci avete detto a colazione?
- Ho dimenticato completamente quello che ho detto - rispose sorridendo Lord Henry. - Cose molto cattive?
- Molto cattive davvero. Per dire la verità, vi considero estremamente pericoloso; e se dovesse accadere qualcosa alla nostra buona duchessa noi tutti vi riterremo il principale responsabile. Però mi piacerebbe parlare della vita con voi. La generazione alla quale appartengo era noiosa. Un giorno o l'altro, quando ne avete abbastanza di Londra, venite fino a Treadley a espormi la vostra filosofia del piacere, assaggiando un certo mirabile Borgogna che ho la fortuna di possedere.
- Ne sarò felice. Una visita a Treadley si può considerare un gran privilegio. C'è un padrone di casa perfetto e una biblioteca non meno perfetta.
- Voi la completerete - rispose il vecchio signore con un cortese inchino. - E ora devo dire addio alla vostra ottima zia. Mi aspettano all'Athenaeum. Questa è l'ora nella quale là ci addormentiamo.
- Tutti, signor Erskine?
- Quaranta di noi, quaranta poltrone. Ci esercitiamo per formare un'accademia letteraria inglese.
Lord Henry si alzò ridendo e disse: - Vado nel Parco.
Mentre stava per varcare la soglia, Dorian Gray lo toccò sul braccio. - Lasciate che venga con voi - mormorò.
- Credevo che aveste promesso a Basil Hallward di andare a trovarlo - rispose Lord Henry.
- Preferirei venire con voi; sì, sento che devo venire con voi.
Permettetemi di venire. Mi promettete di parlare tutto il tempo?
Non c'è nessuno che parli così meravigliosamente come voi.
- Ah, ma per oggi ho parlato più che abbastanza - disse Lord Henry sorridendo. - Tutto quello che desidero adesso è di guardare la vita. Potete venire a guardarla con me, se vi fa piacere.
Capitolo quarto
Un pomeriggio, un mese dopo, Dorian Gray era adagiato in una lussuosa poltrona, nella piccola biblioteca della casa di Lord Henry a Mayfair. Era una stanza simpaticissima nel suo genere, col suo rivestimento di alti pannelli di quercia dai riflessi olivastri, i suoi bordi color crema, il soffitto di stucco e il tappeto di feltro color mattone disseminato di serici tappetini persiani dalle lunghe frange. Su un tavolinetto di legno indiano stava una statuetta di Clodion e accanto a questa un esemplare delle "Cent Nouvelles", rilegato da Clovis Eve per Margherita di Valois e disseminato delle margherite d'oro che quella Regina aveva adottato come impresa. Qualche grande vaso di porcellana turchina con alcuni tulipani stava sul caminetto e attraverso i piccoli vetri piombati della finestra arrivava all'interno la luce color albicocca di una giornata estiva londinese.
Lord Henry non era ancora rientrato. Era sempre in ritardo, per principio, essendo una delle sue teorie che la puntualità è la ladra del tempo. Perciò il ragazzo aveva un'aria piuttosto imbronciata, mentre sfogliava con dita distratte le pagine di un'edizione riccamente illustrata di "Manon Lescaut" che aveva trovato in uno degli scaffali. Il tic-tac monotono dell'orologio stile Luigi Quattordicesimo lo infastidiva. Due o tre volte gli venne l'idea di andarsene.
Finalmente sentì un passo fuori della stanza e la porta si aprì.
- Come sei in ritardo, Harry! - mormorò.
- Mi dispiace, signor Gray, ma non è Harry - gli rispose una voce acuta.
Egli si guardò intorno rapidamente e balzò in piedi. - Vi chiedo scusa. Credevo...
- Avete creduto che fosse mio marito e invece è soltanto sua moglie. Bisogna che mi presenti da me. Vi conosco benissimo dalle vostre fotografie. Mi pare che mio marito ne abbia diciassette.
- Proprio diciassette, Lady Henry?
- Diciamo diciotto, allora. Vi ho anche visto con lui all'Opera l'altra sera. - Rideva nervosamente nel parlare e lo guardava con i suoi occhi vaghi, del colore dei non ti scordar di me. Era una donna strana; i suoi vestiti avevano sempre l'aria di essere stati disegnati in un momento di rabbia e indossati in un momento di burrasca. Era sempre innamorata di qualcuno e poiché la sua passione non era mai ricambiata aveva conservato tutte le sue illusioni. Provava ad avere un aspetto pittoresco, ma riusciva solo a essere sciatta. Si chiamava Victoria ed aveva una vera e propria manìa di frequentare la chiesa.
- Era al "Lohengrin", Lady Henry, mi sembra.
- Sì, a quel caro "Lohengrin". Io preferisco la musica di Wagner a quella di chiunque altro; è tanto rumorosa che si può parlare tutto il tempo senza che gli altri sentano quello che si dice. E' un gran vantaggio, non vi sembra signor Gray?
Dalle sue labbra sottili uscì la stessa risata nervosa, a scatti, e le sue dita cominciarono a giocare con un lungo tagliacarte di tartaruga.
Dorian sorrise e scosse la testa. - Mi dispiace, Lady Henry, ma non sono di questo parere. Durante la musica non parlo mai, almeno durante una buona musica. Se la musica è cattiva, si ha il dovere di annegarla nella conversazione.
- Ah, questa è una delle idee di mio marito, non è vero, signor Gray? Io imparo sempre le idee di mio marito attraverso i suoi amici: è l'unico modo nel quale arrivo a conoscerle. Ma non dovete credere che non mi piaccia la buona musica; l'adoro, ma mi fa paura; mi rende troppo romantica. Ho avuto una vera adorazione per i pianisti, due nello stesso momento, a volte, dice Harry. Non so che cosa ci sia in loro; forse è perché sono stranieri. Sono tutti stranieri, non è vero? Anche quelli nati in Inghilterra dopo un certo tempo diventano stranieri, non è vero? E' proprio un'abilità che hanno e è un complimento per l'arte, la rende davvero cosmopolita, non vi sembra? Non siete venuto mai a uno dei miei ricevimenti, vero, signor Gray? Dovete venire. Non mi posso permettere le orchidee, ma quanto agli stranieri non bado a spese.
Rendono così pittoresco un salotto. Ma ecco qui Harry! Harry, ti cercavo per chiederti una cosa, non so più che cosa, e ho trovato qui il signor Gray. Abbiamo fatto una piacevolissima chiacchierata sulla musica. Abbiamo proprio le stesse idee; o piuttosto no, mi pare che le nostre idee siano del tutto diverse. Ma lui è stato piacevolissimo; sono proprio contenta di averlo visto.
- Ne sono felice, amore mio, felicissimo - disse Henry, inarcando le sopracciglia brune a mezzaluna e guardando i due con un sorriso divertito. - Scusami tanto per il ritardo, Dorian. Sono andato in Wardour Street a cercare un pezzo di broccato antico e ho dovuto combattere delle ore per averlo. Oggi la gente conosce il prezzo di tutte le cose e non conosce il valore di nessuna.
- Ho paura di dovermene andare - esclamò Lady Henry, rompendo un silenzio imbarazzante con una delle sue risate improvvise e sciocche. - Ho promesso alla duchessa di uscire in carrozza con lei. Arrivederci, signor Gray; addio, Harry. Tu pranzi fuori, credo? Anch'io. Forse ti vedrò in casa di Lady Thornbury.
- Credo di sì, mia cara - disse Lord Henry, chiudendo la porta alle sue spalle quando lei scivolò fuori dalla stanza, con l'aria di un uccello del paradiso rimasto tutta la notte all'aperto sotto la pioggia, lasciandosi dietro un vago odore di gelsomino. Poi accese una sigaretta e si lasciò cadere sul divano.
- Dorian - disse dopo qualche boccata - non sposare mai una donna che abbia i capelli color della paglia.
- Perché Harry?
- Perché sono tanto sentimentali.
- Ma a me piacciono le persone sentimentali.
- Non sposarti mai, Dorian. Gli uomini si sposano perché sono stanchi, le donne perché sono curiose, e le une e gli altri restano sempre delusi.
- Non credo che sia probabile che mi sposi, Harry; sono troppo innamorato. Questo è uno dei tuoi aforismi che sto mettendo in pratica, come faccio con tutto quello che dici.
- Di chi sei innamorato? - chiese Lord Henry dopo una pausa.
- Di un'attrice - disse Dorian Gray arrossendo.
Lord Henry scrollò le spalle. - Questo è un "début" alquanto terra terra.
- Harry, se tu la vedessi non parleresti in questo modo.
- Chi è?
- Si chiama Sybil Vane.
- Non ne ho mai sentito parlare.
- Nessuno ne ha sentito parlare, ma un giorno non sarà più così.
E' un genio.
- Caro figliuolo, non ce n'è una di donna che sia un genio. Le donne sono un sesso decorativo. Non hanno mai niente da dire, ma lo dicono in maniera deliziosa. Le donne rappresentano il trionfo della materia sull'intelletto, così come gli uomini rappresentano il trionfo dell'intelletto sulla morale.
- Harry, come puoi parlare così?
- Caro Dorian, è la pura verità. In questo momento sto analizzando le donne e quindi so quello che dico. Non è poi un soggetto tanto astruso come credevo. Ho scoperto che in ultima analisi non esistono che due specie di donne, quelle semplici e quelle dipinte. Quelle semplici sono utilissime. Se vuoi avere la fama di persona rispettabile non hai che da portarle fuori a cena. Le altre sono molto deliziose, ma commettono un errore: si dipingono per cercare di sembrare giovani; le nostre nonne si dipingevano per cercare di avere una conversazione brillante. Il "rouge e l'ésprit" in genere andavano di pari passo; ora tutto questo è finito. Una donna è perfettamente soddisfatta finché può apparire di dieci anni più giovane di sua figlia. Quanto alla conversazione, in tutta Londra ci sono soltanto cinque donne con le quali valga la pena di parlare, e due di esse non possono essere ammesse in una società che si rispetti. Comunque, parlami del tuo genio. Da quanto tempo la conosci?
- Ah, Harry, le tue idee mi terrorizzano.
- Lascia perdere. Da quanto tempo la conosci?
- Da tre settimane circa.
- E come l'hai incontrata?
- Te lo dirò, Harry, ma bisogna che tu mi dimostri un po' di comprensione. Dopo tutto, non sarebbe mai successo se non ti avessi conosciuto. Tu mi hai riempito di un desiderio furioso di conoscere tutto della vita. Per parecchi giorni, dopo averti incontrato, mi sembrò che qualcosa mi pulsasse nelle vene. Quando mi sedevo nel Parco o passeggiavo per Piccadilly guardavo tutti i passanti e mi chiedevo, con una curiosità pazzesca, che genere di vita facessero. Alcuni mi affascinavano, altri mi riempivano di terrore. Nell'aria c'era un veleno squisito. Avevo fame di sensazioni... Così una sera verso le sette decisi di uscire in cerca di avventure. Sentivo che questa nostra Londra grigia e mostruosa, con le sue miriadi di persone, i suoi peccatori sordidi e i suoi peccati splendidi, come dicesti tu una volta, doveva riserbarmi qualche cosa. Immaginavo mille cose e il solo pericolo era sufficiente a procurarmi un senso di delizia. Mi ricordai di quello che mi dicesti quella sera meravigliosa che pranzammo insieme per la prima volta: che il vero segreto della vita è la ricerca della bellezza. Non so che cosa mi aspettassi; ma uscii e mi diressi verso l'Est e poco dopo mi persi in un labirinto di strade sporche e di piazze senza erba. Verso le otto e mezzo passai davanti a un teatrino ridicolo, illuminato da grandi lampade a gas e con dei manifesti vistosi. Un sordido ebreo, che aveva il panciotto più straordinario che abbia mai visto in vita mia, stava sulla porta e fumava un sigaro da pochi soldi. Aveva dei riccetti unti e al centro di una camicia sporca gli brillava un diamante enorme. "Un palco, my Lord?", disse vedendomi e si tolse il cappello con un atto che era di una splendida servilità.
C'era in lui qualche cosa che mi divertì: era un tale mostro! Tu riderai di me, lo so; ma io entrai veramente e pagai una ghinea per un palco di proscenio. Ancora adesso non sono riuscito a capire perché mai l'abbia fatto; eppure se non l'avessi fatto, mio caro Harry, se non l'avessi fatto avrei mancato il più grande romanzo della mia vita. Vedo che stai ridendo: è una vera cattiveria da parte tua!
- Non rido, Dorian, o almeno non rido di te. Ma non dovresti dire il più grande romanzo della tua vita. Tu sarai sempre amato e sarai sempre innamorato dell'amore. Una grande passione è il privilegio di quelli che non hanno niente da fare; è l'unica cosa a cui servono in un paese le classi oziose. Non aver paura; a te sono riservate cose squisite. Questo è soltanto l'inizio.
- Mi credi dunque una natura tanto superficiale? - gridò Dorian Gray, in collera.
- No, credo che tu sia una natura profonda.
- Che cosa vuoi dire?
- Caro ragazzo, le persone che amano una sola volta nella vita sono quelle veramente superficiali. Quello che chiamano lealtà o fedeltà io lo chiamo letargo di abitudini oppure mancanza d'immaginazione. La fedeltà corrisponde nella vita emozionale a quello che nella vita intellettuale è la coerenza: semplicemente la confessione di un insuccesso. Fedeltà! Un giorno o l'altro bisognerà che mi metta ad analizzarla. In essa c'è la passione della proprietà; noi getteremmo via una quantità di cose se non avessimo paura che qualcun altro possa raccoglierle. Ma non voglio interromperti; continua con la tua storia.
- Dunque, mi trovai seduto in un orribile palchetto, con un orribile sipario che mi guardava in faccia. Guardai fuori da dietro la tenda ed esaminai il teatro. Era una cosa pacchiana, tutta amorini e cornucopie, che sembrava una torta nuziale di terz'ordine. La galleria e la platea erano abbastanza affollate, ma le due file di poltrone fruste erano deserte e non c'era un'anima in quello che chiamano, credo, l'anfiteatro. Delle donne andavano in giro con arance e gazose e si faceva un consumo tremendo di noccioline.
- Doveva essere proprio come nell'età d'oro del Dramma inglese.
- Proprio lo stesso, immagino, e molto deprimente. Cominciavo a chiedere a me stesso che diavolo dovessi fare; poi mi cadde sott'occhio il programma. Che cosa credi che si recitasse Harry?
- Direi "Il ragazzo idiota, ovvero Stupido ma innocente". Ai nostri padri piaceva questo genere di drammi, credo. Più invecchio, Dorian, e più ho la sensazione netta che quello che era buono per i nostri padri non è buono per noi. Nell'arte, come in politica, "les grand-pères ont toujours tort".
- Harry, quello che si rappresentava era buono abbastanza anche per noi: era "Romeo e Giulietta". Devo ammettere che l'idea di vedere Shakespeare rappresentato in un misero buco come quello mi infastidì un po'; d'altra parte, in un certo senso, mi sentivo interessato. Comunque, decisi di aspettare il primo atto. C'era una tremenda orchestra, diretta da un giovane ebreo seduto a un pianoforte scortecciato, che riuscì quasi a farmi andare via; ma finalmente si alzò il sipario e la rappresentazione cominciò.
Romeo era un signore anziano e grasso, con le ciglia arricciate, una rauca voce tragica e una figura come un barilotto di birra.
Mercuzio era quasi altrettanto tremendo. La parte era affidata al brillante, che ci aveva introdotto dei lazzi di sua invenzione ed era in rapporti amichevolissimi con la platea. L'uno e l'altro erano grotteschi quanto lo scenario, e questo sembrava uscito da un baraccone di campagna. Ma Giulietta! Harry, immagina una fanciulla appena diciassettenne, con un visino di fiore, una piccola testolina greca con delle ciocche intrecciate di capelli castani scuri, occhi che erano pozzi violacei di passione, labbra come petali di rose: la cosa più adorabile che avessi mai visto in vita mia. Mi dicesti una volta che il "pathos" ti lascia freddo, ma che la bellezza, la sola bellezza può farti venire le lacrime agli occhi. Ti dico, Harry, che riuscivo a mala pena a veder quella ragazza, tante erano le lacrime che mi annebbiavano la vista. E la voce! non avevo mai sentito una voce come quella.
All'inizio era molto sommessa, con certe note profonde, vellutate, che sembravano penetrare nell'orecchio ad una ad una; poi diventò un po' più alta e suonava come un flauto o un oboe lontano. Nella scena del giardino c'era in tutta quella voce l'estasi tremebonda che si sente poco prima dell'alba quando cantano gli usignoli; in altri momenti aveva la passione selvaggia delle violette. Tu sai come possa commuovere una voce. La tua e quella di Sybil Vane sono due cose che non mi usciranno mai di mente. Se chiudo gli occhi le sento, e ognuna di esse dice una cosa diversa, e io non so quale seguire. Perché non dovrei amarla? L'amo, Harry; lei è tutto nella vita per me. Una sera dopo l'altra vado a vederla recitare. Una sera è Rosalinda, la sera dopo Imogene. L'ho vista morire nell'oscurità di una tomba italiana, succhiando il veleno dalle labbra dell'amante; l'ho vista errare nella foresta di Arden, travestita da ragazzino, in pantaloni e farsetto e berrettino. E' stata pazza, e è venuta alla presenza di un Re colpevole e gli ha dato dei rimorsi da sopportare e delle erbe amare da assaporare.
E' stata innocente, e le mani nere della gelosia hanno strozzato quel collo simile a una canna. L'ho vista in tutte le età e in tutti i costumi. Le donne ordinarie non eccitano l'immaginazione; sono limitate al loro secolo, non c'è splendore che sia capace di trasfigurarle. Si conosce la loro mente come si conoscono i loro cappelli: si riesce sempre a trovarle; non c'è mistero in nessuna di essa. La mattina montano a cavallo al Parco e il pomeriggio chiacchierano ai tè. Hanno il loro sorriso stereotipato e le loro maniere alla moda. Sono perfettamente trasparenti. Ma un'attrice!
com'è diversa, un'attrice! Harry, perché non mi hai detto che un'attrice è la sola cosa che valga la pena di amare?
- Perché ne ho amate tante, Dorian.
- Oh, sì: delle creature orrende coi capelli tinti e le facce imbellettate.
- Non disprezzare i capelli tinti e le facce imbellettate; a volte hanno un fascino straordinario - disse Lord Henry.
- Ora mi dispiace di averti parlato di Sybil Vane.
- Non potevi fare a meno di parlarmene, Dorian. Per tutta la vita mi racconterai quello che fai.
- Credo proprio che sia così, Harry. Non posso fare a meno di raccontarti le cose. Hai una strana influenza su di me. Se un giorno commettessi un delitto verrei da te a confessarlo; tu mi capiresti.
- Le persone come te, Dorian, ostinati raggi di sole della vita, non commettono delitti. Ma ti ringrazio lo stesso del complimento.
E ora dimmi - passami i fiammiferi per favore, grazie - quali sono di fatto i tuoi rapporti con Sybil Vane?
Dorian Gray balzò in piedi, colle guance rosse e gli occhi fiammeggianti. - Harry! Sybil Vane è sacra.
- Dorian, le cose sacre sono le sole che valga la pena di toccare - disse Lord Henry, con una strana nota patetica nella voce. - Ma perché andare in collera? Penso che un giorno o l'altro sarà tua.
Quando siamo innamorati si comincia sempre con l'ingannare noi stessi e si finisce sempre con l'ingannare gli altri; e questo è quello che il mondo chiama un romanzo. Almeno immagino che la conoscerai?
- Naturalmente la conosco. La prima sera che ero in teatro, quell'orribile vecchio ebreo venne nel palco dopo lo spettacolo e mi offrì di portarmi dietro le quinte e di presentarmi a lei. Io andai su tutte le furie e gli dissi che Giulietta era morta da secoli e che il suo corpo giaceva in un sepolcro di marmo a Verona. Penso, dalla sua aria smarrita e stupefatta, che abbia avuto l'impressione che avessi bevuto troppo champagne, o qualcosa del genere.
- Non mi sorprende.
- Poi mi chiese se scrivevo su qualche giornale. Gli risposi che nemmeno li leggevo. Sembrò deluso e mi confidò che tutti i critici drammatici erano in combutta contro di lui e che ognuno di loro era disposto a lasciarsi comperare.
- Non mi meraviglierebbe che su questo punto avesse ragione.
D'altronde, a giudicare dall'aspetto, la maggior parte di loro non deve costare affatto cara.
- Comunque, lui aveva l'aria di pensare che la cosa fosse al di sopra delle sue possibilità - rispose Dorian ridendo. - Nel frattempo però in teatro stavano spegnendo le luci e io dovetti andarmene. Voleva che provassi certi sigari che raccomandava caldamente, ma rifiutai. La sera dopo, naturalmente, ritornai.
Appena mi vide mi fece un profondo inchino e mi assicurò che ero un munifico patrono delle arti. Era un essere particolarmente odioso, benché avesse una passione straordinaria per Shakespeare.
Una volta mi disse, con l'aria di esserne fiero, che i suoi cinque fallimenti erano dovuti unicamente al Bardo, come si ostinava a chiamarlo. Sembrava che la considerasse una distinzione.
- Era una distinzione, mio caro Dorian, una grande distinzione. La maggioranza fallisce in conseguenza di investimenti eccessivi nella prosa della vita. Essersi rovinato per la poesia è un onore.
Ma quando parlasti per la prima volta con la signorina Sybil Vane?
- La terza sera. Aveva fatto Rosalinda. Non potei fare a meno di andare sul palcoscenico. Le avevo gettato dei fiori e lei mi aveva guardato, o almeno così m'immaginai. Il vecchio ebreo insisteva; sembrava deciso a portarmi dietro le quinte, e così acconsentii.
E' curioso che non desiderassi conoscerla, non ti pare?
- No, non mi pare.
- Come, Harry? Perché?
- Te lo dirò un'altra volta; ora voglio che tu mi parli della ragazza.
- Sybil? Oh, era così timida, così gentile! C'è in lei qualcosa di una bambina. I suoi occhi si spalancarono con uno stupore delizioso quando le dissi quello che pensavo delle sue interpretazioni. Sembrava che non avesse la minima coscienza delle sue doti. Entrambi dovevamo essere piuttosto nervosi. Sulla soglia del ridotto polveroso, il vecchio ebreo stava ghignando e facendo discorsi elaborati sul nostro conto, mentre noi ci guardavamo l'un l'altro come due bambini. Insisteva a chiamarmi my Lord, tanto che fui costretto ad assicurare a Sybil che non ero niente di simile.
Mi rispose con la massima semplicità: "Avete piuttosto l'aspetto di un principe. Vi chiamerò Principe Azzurro".
- Parola d'onore, Dorian, la signorina Sybil sa fare i complimenti.
- Tu non la capisci, Harry. Mi considerava soltanto un personaggio del dramma. Non sa niente della vita. Abita con la madre, una donna stanca e avvizzita, che la prima sera faceva Madonna Capuleti in una specie di vestaglia di colore rosso cupo e che ha l'aria di aver conosciuto tempi migliori.
- Conosco quell'espressione e la trovo deprimente - mormorò Lord Henry, esaminando i suoi anelli.
- L'ebreo mi voleva raccontare la sua storia, ma gli dissi che non mi interessava.
- Hai fatto benissimo. Nelle tragedie degli altri c'è sempre qualche cosa di infinitamente basso.
- Sybil è l'unica cosa che m'interessa. Che m'importa la sua origine? Dalla testolina ai piedini è assolutamente e interamente divina. Vado a vederla recitare ogni sera, e ogni sera è più meravigliosa.
- Ecco il motivo, credo, per il quale ora non pranzi più con me.
Avevo pensato che dovevi aver per le mani qualche strano romanzo.
Era vero, per quanto non sia esattamente quello che mi aspettavo.
- Caro Harry, tutti i giorni facciamo colazione o ceniamo insieme e sono stato all'Opera con te parecchie volte - disse Dorian, spalancando gli occhi per la meraviglia.
- Arrivi sempre terribilmente in ritardo.
- Sì, ma non posso non andare a veder recitare Sybil esclamò, anche se è solo per un atto. Sono affamato della sua presenza e il pensiero che in quel piccolo corpo d'avorio si nasconde un'anima meravigliosa mi riempie di riverenza e di spavento.
- Stasera puoi pranzare con me, non è vero, Dorian?
Egli scosse la testa. - Stasera è Imogene - rispose - e domani sera sarà Giulietta.
- E quando è Sybil Vane?
- Mai.
- Mi congratulo con te.
- Come sei antipatico! Lei è tutte le grandi eroine del mondo in una persona sola. E' più di una persona. Tu ridi, ma io ti dico che ha talento. L'amo e devo farmi amare da lei. Tu che conosci i segreti della vita, insegnami a stregare Sybil Vane perché mi ami!
Voglio ingelosire Romeo; voglio che tutti gli amanti morti sentano il nostro riso e ne siano rattristati; voglio che un alito della nostra passione agiti la loro polvere e le ridia la coscienza, svegli alla sofferenza le loro ceneri. Mio Dio, come l'adoro, Harry! - Mentre parlava andava su e giù per la camera e sulle guance bruciavano delle macchie di un rosso intenso. Era in uno stato di grande esaltazione.
Lord Henry lo guardava con un sottile senso di piacere. Com'era diverso ormai dal ragazzo timido, spaurito, che aveva conosciuto nello studio di Basil Hallward! La sua natura si era sviluppata come si sviluppa un fiore; si era coperta di una fioritura di fiamme scarlatte. La sua anima era uscita fuori del suo nascondiglio segreto, e il Desiderio le era venuto incontro a metà strada.
- E che cosa pensi di fare? - disse finalmente Lord Henry.
- Voglio che tu e Basil veniate una sera a vederla recitare. Non sono affatto inquieto per il risultato; sono certo che riconoscerete il suo genio. Poi dobbiamo strapparla dalle mani dell'ebreo. E' legata a lui per tre anni, o meglio per due anni e otto mesi a partire da oggi. Naturalmente bisognerà pagargli qualche cosa. Una volta sistemato questo, prenderò un teatro nel West End e la lancerò come si deve. Farà impazzire il mondo come ha fatto impazzire me.
- Non ti sembra che questo sia impossibile, figlio mio?
- Sì, sarà come ti dico. Lei non ha soltanto l'arte, un istinto artistico raffinato in se stessa, ma anche una personalità sua; e tu mi hai detto più volte che quello che fa camminare i tempi non sono i princìpi, ma la personalità.
- Bene, e quando andiamo?
- Vediamo un po'. Oggi è martedì; diciamo domani. Domani farà Giulietta.
- Benissimo. Alle otto al Bristol. Penso io a Basil.
- Harry, ti prego, non alle otto: alle sei e mezzo. Dobbiamo arrivare prima che si alzi il sipario. Dovete vederla nel primo atto, quando incontra Romeo.
- Alle sei e mezzo! Che razza di ora! Sarà come bere un estratto di carne o leggere un romanzo inglese. Facciamo le sette; non c'è una sola persona come si deve che pranzi prima delle sette. Tu vedi Basil nel frattempo, o devo scrivergli io?
- Caro Basil! non lo vedo da una settimana. Faccio malissimo, perché mi ha mandato il mio ritratto in una magnifica cornice che ha disegnato appositamente lui stesso; e, per quanto mi senta un po' geloso perché il ritratto è di un mese intero più giovane di me, devo pure ammettere che sono felice di averlo. Forse è meglio che tu gli scriva. A me dice delle cose che mi infastidiscono; mi dà dei buoni consigli.
Lord Henry sorrise. - La gente ama molto dare quello che avrebbe bisogno di ricevere; è quello che io chiamo un abisso di generosità.
- Oh, Basil è la più cara persona che esista, ma a me sembra che sia un tantino Filisteo. E' una scoperta che ho fatto dopo che ti ho conosciuto.
- Basil, mio caro, mette nella sua opera tutto ciò che c'è di delizioso in lui, e così per la vita non gli restano altro che i suoi pregiudizi, i suoi princìpi e il suo senso comune. I soli artisti che ho conosciuto che fossero personalmente piacevoli sono artisti mediocri. I buoni artisti esistono solo in quello che fanno e di conseguenza non sono affatto interessanti in quello che sono. Un grande poeta, un poeta veramente grande, è l'essere meno poetico che esista; invece i poeti mediocri sono assolutamente affascinanti. Quanto più brutti sono i loro versi, tanto più pittoresco è il loro aspetto. Il solo fatto di aver pubblicato un volume di sonetti di second'ordine rende un uomo assolutamente irresistibile. Egli vive la poesia che non riesce a scrivere; gli altri scrivono la poesia che non riescono a trasformare in realtà.
- Mi chiedo se è proprio così, Harry - disse Dorian Gray, versandosi sul fazzoletto qualche goccia di profumo da una grande bottiglia col tappo d'oro che stava sul tavolo. Deve essere vero, visto che tu lo dici. E adesso me ne vado; Imogene mi aspetta.
Ricordati di domani. Addio.
Mentre usciva, le palpebre pesanti di Lord Henry si abbassarono e si immerse nei propri pensieri. Poche persone, certo, lo avevano interessato come Dorian Gray, eppure l'adorazione di quel ragazzo per un'altra persona non suscitava in lui il minimo senso di fastidio o di gelosia; anzi ne era contento, perché faceva di lui uno studio più interessante. Si era sempre sentito attratto dai metodi delle scienze naturali, ma le materie che costituiscono il soggetto abituale di quelle scienze gli sembravano triviali e senza importanza, e così aveva cominciato col vivisezionare se stesso e aveva finito col vivisezionare gli altri. La vita umana:
era questa, ai suoi occhi, l'unica cosa degna di essere indagata; in confronto con questa non c'era nessuna cosa che avesse un valore qualunque. Era vero che quando si osservava la vita nel suo curioso crogiuolo di pena e di piacere, non ci si poteva nascondere la faccia con una maschera di vetro né impedire che vapori sulfurei turbassero il cervello e intorbidassero l'immaginazione con fantasie mostruose e sogni deformi. C'erano certi veleni così sottili che per conoscerne le proprietà bisognava lasciarsene intossicare, malattie così strane che bisognava subirle se si provava a comprenderne la natura. Però com'era grande la ricompensa! Come diventava meraviglioso il mondo! Osservare la logica curiosamente inflessibile della passione e la variopinta vita emozionale dell'intelletto; osservare dove si incontravano, dove si separavano, in che punto erano all'unisono e in che punto discordanti - che delizia in tutto questo! Che importava il prezzo? Nessuna sensazione si paga mai troppo cara.
Sapeva - e l'idea fece saettare un lampo di piacere nei suoi occhi d'agata bruna - che se l'anima di Dorian Gray si era rivolta a quella fanciulla e si era curvata in adorazione davanti a lei, questo era un effetto delle sue parole, parole musicali dette con intonazione musicale. Quel ragazzo era in larga parte una sua creazione. Egli lo aveva reso precoce e questo era qualcosa. Le persone comuni aspettano che la vita schiuda loro i suoi segreti; ma ai pochi, agli eletti, i misteri della vita sono svelati prima ancora che venga strappato il velo. A volte questo è l'effetto dell'arte e soprattutto dell'arte letteraria, che agisce direttamente sulle passioni e sull'intelligenza; ma ogni tanto una personalità complessa si sostituisce all'arte e ne adempie la funzione, anzi è, a modo suo, una vera opera d'arte, dato che la vita ha i suoi capolavori complicati come li ha la poesia, o la scultura, o la pittura.
Sì, quel ragazzo era precoce. Stava già mietendo le messi mentre era ancora primavera. Il fremito e la passione della giovinezza erano in lui, ma egli cominciava ad acquisirne coscienza.
Osservarlo era una cosa deliziosa. Col suo bel viso e la sua bell'anima era qualcosa che non si poteva fare a meno di ammirare.
Come tutto questo sarebbe finito, o come era destinato a finire, non aveva nessuna importanza. Egli era simile a una di quelle graziose figure in un corteo o in uno spettacolo, le cui gioie ci sembrano lontane, ma i cui dolori stimolano il nostro senso della bellezza e le cui ferite sono come rose rosse.
Anima e corpo, corpo e anima, com'erano misteriosi! Nell'anima c'era dell'animalità e il corpo aveva momenti di spiritualità; i sensi potevano affinarsi e l'intelletto degradarsi. Chi poteva dire dove finiva l'impulso carnale o dove cominciava l'impulso fisico? Com'erano superficiali le definizioni arbitrarie degli psicologi comuni! Eppure, com'era difficile decidere tra le affermazioni delle varie scuole! L'anima è un'ombra che abita nella casa del peccato? oppure il corpo è realmente nell'anima, come pensava Giordano Bruno? La separazione tra spirito e materia è un mistero e l'unione tra spirito e materia è ugualmente un mistero.
Iniziò a chiedersi quando arriveremo a fare della psicologia una scienza così assoluta che ogni più piccola molla della vita ne sia rivelata. Nel suo stadio attuale gli uomini comprendevano sempre male se stessi e raramente comprendevano gli altri. L'esperienza non aveva nessun valore etico; non era altro che il nome dato dagli uomini ai propri errori. I moralisti erano soliti considerarla come una forma di monito, le avevano rivendicato una certa efficacia etica nella formazione del carattere, l'avevano esaltata come qualche cosa che indica la via da seguire e mostra quello che conviene evitare; ma nell'esperienza non c'era nessuna forza motrice: la sua importanza come causa attiva era altrettanto scarsa quanto quella della stessa coscienza. Tutto ciò che essa realmente dimostrava era che il nostro futuro sarebbe come il nostro passato e che il peccato commesso una volta, e con ripugnanza, l'avremmo commesso più volte, e con gioia.
Gli sembrava chiaro che il metodo sperimentale era l'unico che permettesse di arrivare a un'analisi scientifica delle passioni; e Dorian Gray era sicuramente un soggetto che sembrava fatto apposta e che sembrava promettere abbondanti e fruttuosi risultati. Il suo folle amore improvviso per Sybil Vane era un fenomeno psicologico di non trascurabile interesse. Senza dubbio la curiosità c'entrava molto; curiosità e desiderio di esperienze nuove; tuttavia non era una passione semplice, anzi era molto complessa. Il lavorìo dell'immaginazione aveva trasformato l'elemento costituito dall'istinto esclusivamente sensuale dell'adolescenza, mutandolo in qualcosa che al giovane stesso sembrava lontana dal senso e che per questa stessa ragione era ancora più pericolosa. Le passioni che esercitano su noi la tirannia più forte sono quelle intorno alla cui origine ci inganniamo da soli; i più deboli tra i nostri moventi sono quelli della cui natura siamo consapevoli. Avviene spesso che mentre crediamo di stare sperimentando sugli altri stiamo in realtà sperimentando su noi stessi.
Lord Henry stava sognando di queste cose, quando bussarono alla porta e il suo servitore gli ricordò che era tempo di vestirsi per il pranzo. Si alzò e guardò fuori, in strada. Il tramonto colorava d'oro e di scarlatto le finestre superiori della casa di fronte; i vetri erano incandescenti come lastre di marmo arroventate. Più in alto il cielo era come una rosa sfiorita. Pensò al suo amico e alla sua vita color di fiamma e si chiese come tutto questo sarebbe andato a finire.
Tornando a casa verso mezzanotte e mezzo, vide un telegramma sulla tavola del vestibolo. L'aprì: era di Dorian Gray e gli annunciava il suo fidanzamento con Sybil Vane.
Capitolo quinto
- Mamma, mamma, sono tanto felice! - mormorò la fanciulla, nascondendo il viso nel grembo della donna avvizzita e dall'aria stanca, che, girando le spalle alla luce cruda e importuna, sedeva sull'unica poltrona che conteneva il loro frusto salotto.
- Sono tanto felice! - ripeté - e anche tu devi essere felice!
La signora Vane fece una smorfia e posò sul capo della figlia le mani sottili, imbiancate al bismuto. - Felice! - fece eco. - Io sono felice quando ti vedo recitare, Sybil. Tu non devi pensare ad altro che alla tua arte. Il signor Isaacs è stato molto buono con noi e noi gli dobbiamo dei soldi.
La ragazza alzò gli occhi, arrabbiata. - Soldi, mamma? esclamò. E che importanza hanno i soldi? L'amore conta più del denaro.
- Il signor Isaacs ci ha anticipato cinquanta sterline per pagare i nostri debiti e per comperare il corredo occorrente a James; non devi dimenticarlo, Sybil. Cinquanta sterline sono una grossissima somma. Il signor Isaacs è stato molto gentile.
- Non è un signore, mamma, e odio il suo modo di parlarmi disse la fanciulla, alzandosi in piedi e andando verso la finestra.
- Non so che cosa faremmo senza di lui - rispose la vecchia con voce lamentosa.
Sybil Vane scosse la testa e si mise a ridere. - Non abbiamo più bisogno di lui, mamma. Adesso il Principe Azzurro governa le nostre vite. - Qui si fermò. Fu come se una rosa le fosse fiorita nel sangue e le avesse velato le guance. Un respiro rapido schiuse i petali delle sue labbra, che tremarono. Un soffio caldo di passione alitò su lei e mosse le pieghe delicate del suo vestito.
- Lo amo - disse con semplicità.
- Bambina sciocca, bambina sciocca! - fu la frase pappagallesca che ebbe in risposta. Il movimento delle dita adunche, ornate di gioielli falsi, rendeva grottesche le parole.
La fanciulla rise di nuovo. Nella sua voce vibrava la gioia di un uccellino in gabbia. I suoi occhi afferrarono la melodia e le fecero eco, raggianti, quindi si chiusero un istante, quasi per nascondere il loro segreto. Quando si riaprirono c'era passata su una nebbia di sogno.
La saggezza dalle labbra sottili le parlava dalla sedia logora, raccomandando prudenza, citando quel libro di codardia il cui autore si appropria del nome di senso comune. Lei non ascoltava:
era libera nella sua prigione di passione. Con lei c'era il suo Principe, il Principe Azzurro; aveva chiamato la memoria a evocarlo, aveva mandato la sua anima a cercarlo e questa gliel'aveva ricondotto. Il suo bacio tornava a bruciarle le labbra; e le sue palpebre erano calde del suo alito.
Allora la saggezza cambiò metodo e parlò di indagini e di scoperte. Quel giovanotto poteva essere ricco; in quel caso si poteva pensare a un matrimonio. Le onde dell'astuzia mondana si spezzavano contro la conchiglia del suo orecchio; le frecce dell'abilità la sfioravano senza colpirla. Vedeva muoversi le labbra sottili e sorrideva. Di colpo sentì il bisogno di parlare; quel silenzio pieno di parole la disturbava. - Mamma, mamma - esclamò, - perché mi ama tanto? Io so perché lo amo, lo amo perché è quello che l'amore in persona dovrebbe essere. Ma lui, cosa vede in me? Io non sono degna di lui. Eppure, non so perché, per quanto mi senta tanto al disotto di lui, non mi sento umile; mi sento orgogliosa, terribilmente orgogliosa. Mamma, tu hai amato il babbo come io amo il Principe Azzurro?
La vecchia impallidì sotto la polvere da poco prezzo che le incipriava le guance e le sue labbra aride si torsero in uno spasimo di pena. Sybil corse da lei, le gettò le braccia al collo e la baciò. - Perdonami, mamma, lo so che ti addolora parlare del babbo; ma ti addolora solo perché l'hai amato tanto. Non devi avere quell'aria triste. Io sono felice oggi come tu vent'anni fa.
Ah, lasciami essere felice per sempre!
- Bambina, sei troppo giovane per pensare a innamorarti. E poi, che ne sai di quel giovanotto? Non conosci nemmeno il suo nome. E' tutta una storia che non ci conviene affatto; e veramente, in questo momento che James parte per l'Australia, devo dire che avresti dovuto dimostrarmi un po' più di riguardo. Però, come dicevo prima, se è ricco...
- Ah, mamma, mamma, lasciami essere felice!
La signora Vane la guardò e, con uno di quei falsi gesti teatrali che negli attori diventano tanto spesso una seconda natura, la strinse tra le braccia. In quel momento la porta si aprì e un ragazzo coi capelli bruni arruffati entrò nella stanza. Era tarchiato, coi piedi e le mani grandi, e un po' goffo nei movimenti; non era di razza fine come la sorella. Era difficile indovinare la stretta parentela che esisteva tra loro. La signora Vane lo fissò e intensificò il sorriso; mentalmente innalzava suo figlio alla dignità di pubblico e si sentiva sicura che il suo "tableau" era interessante. - Potresti conservare per me qualcuno dei tuoi baci, Sybil, mi pare - disse il ragazzo con un brontolìo bonario.
- Ah, ma a te non piacciono i baci, James - esclamò lei. - Sei un brutto orsaccio. - E corse attraverso la stanza e l'abbracciò.
James Vane guardò teneramente in volto la sorella. - Vieni fuori a fare una passeggiata con me, Sybil. Non credo che rivedrò mai questa orribile Londra, e di certo non desidero rivederla.
- Figlio mio, non dire di queste cose tremende - mormorò la signora Vane, prendendo in mano con un sospiro uno sgargiante costume teatrale e cominciando a rammendarlo. Sentiva una certa delusione perché lui non si era unito al gruppo, cosa che avrebbe accresciuto il carattere teatralmente pittoresco della situazione.
- Perché no, mamma? Io penso così.
- Tu mi addolori, figliuolo. Ho fiducia che tornerai dall'Australia in buone condizioni finanziarie. Credo che nelle Colonie non esiste nessun tipo di società, di quella che merita di essere chiamata società, e perciò quando avrai fatto fortuna dovrai tornare a prendere il tuo posto a Londra.
- Società! - borbottò il ragazzo. - Non voglio sapere niente di tutto questo. Mi piacerebbe fare un po' di soldi per poter portar via dal palcoscenico te e Sybil. Lo detesto!
- Oh, James - disse Sybil ridendo, - come sei poco gentile! Ma vuoi veramente uscire a passeggio con me? Che bella cosa! Avevo paura che tu andassi a dire addio a qualcuno dei tuoi amici, a Tom Hardy che ti ha dato quella orribile pipa oppure a Ned Langton che ride di te perché la fumi. Sei molto caro a concedermi il tuo ultimo pomeriggio. Dove andiamo? Andiamo nel Parco.
- Sono troppo mal vestito - rispose lui, accigliato. - Soltanto la gente elegante va nel Parco.
- Che sciocchezze, James! - sussurrò lei, accarezzandogli la manica della giacca.
Egli esitò un attimo. - Benissimo - disse finalmente, - ma non metterci troppo tempo a vestirti. - Sybil uscì dalla porta come se ballasse; la si poteva sentire cantare mentre saliva le scale correndo. Sopra le loro teste si sentì il ticchettìo dei suoi piedini sul pavimento.
Egli andò su e giù per la stanza un paio di volte, poi, rivolto alla figura immobile sulla sedia, disse: - Mamma, sono pronte le mie cose?
- Tutto pronto, James - rispose lei, tenendo gli occhi fissi sul lavoro. Da qualche mese ormai quando si trovava da sola con questo suo figlio rude e serio si sentiva a disagio. Quando i loro sguardi si incontravano, la sua segreta natura superficiale ne era turbata. Poiché egli non diceva altro, il silenzio diventò intollerabile per lei e cominciò a lamentarsi. Le donne si difendono attaccando, così come attaccano per mezzo di una resa improvvisa e strana. Disse:
- Spero che sarai contento della tua vita marinara, James. Devi ricordarti che te la sei scelta da te. Avresti potuto entrare nello studio di un procuratore; i legali formano una classe molto rispettabile e in campagna vanno spesso a pranzo dalle migliori famiglie.
- Detesto gli uffici e detesto gli impiegati - replicò lui. - Ma hai perfettamente ragione; la mia vita me la sono scelta da me. Ti dico solo una cosa: sorveglia Sybil. Non permettere che le accada niente di male. Mamma, devi vegliare su di lei.
- James, questi sono discorsi strani. Naturalmente veglio su Sybil.
- Sento dire che un giovane signore viene a teatro tutte le sere e che va dietro le quinte a parlare con lei. E' vero? e tu che ne pensi?
- James, tu parli di cose che non capisci. Nella nostra professione siamo abituate a ricevere molte delicate attenzioni.
Io stessa ricevevo parecchi mazzi di fiori alla volta, ai tempi in cui l'arte drammatica era veramente apprezzata. Quanto a Sybil, non so finora se il suo affetto sia serio o no; ma non c'è dubbio che il giovine di cui parli è un perfetto gentiluomo. Con me è sempre cortesissimo; e poi ha tutta l'aria di un uomo ricco e i fiori che manda sono magnifici.
- Però non sai nemmeno come si chiama - disse il ragazzo con asprezza.
- No - rispose la madre, con un'espressione di tranquillità sul viso. - Finora non ha rivelato il suo vero nome. Penso che è davvero romantico da parte sua. Probabilmente appartiene all'aristocrazia.
James Vane si morse le labbra. - Fa' attenzione a Sybil, mamma esclamò; - veglia su di lei.
- Figlio mio, non farmi disperare. Sybil sta sempre sotto la mia custodia speciale. Naturalmente, se quel signore è ricco, non c'è ragione perché lei non possa sposarlo. Sono sicura che è uno dell'aristocrazia; devo dire che ne ha tutto l'aspetto. Per Sybil potrebbe essere un matrimonio brillantissimo. Loro due farebbero una coppia deliziosa; lui è di una bellezza veramente straordinaria: tutti quanti ne sono colpiti.
Il ragazzo borbottò qualcosa tra sé e sé, tamburellando sul vetro della finestra con le sue rozze dita. Era sul punto di girarsi per parlare quando la porta si aprì e Sybil entrò correndo.
- Come siete seri tutti e due! - gridò. - Che è successo?
- Niente - rispose il fratello. - Bisogna pure essere seri qualche volta. Addio, mamma; vorrei pranzare alle cinque. Tutto è imballato, meno le mie camicie, e così non hai bisogno di occuparti di niente.
Il tono che aveva preso con lei l'aveva grandemente urtata e nel suo aspetto c'era qualcosa che le dava un senso di paura.
- Dammi un bacio, mamma - disse la fanciulla. Le sue labbra simili a un fiore sfiorarono la guancia avvizzita riscaldandone il gelo.
- Figlia mia, figlia mia! - gridò la signora Vane, alzando gli occhi al soffitto, in cerca di un loggione immaginario.
- Andiamo, Sybil - disse suo fratello, impaziente, perché odiava le smancerie materne.
Uscirono nella luce del sole, che pareva tremolare al vento, avviandosi giù per la malinconica Euston Road. I passanti guardarono meravigliati quel giovane imbronciato, pesante, vestito di abiti ordinari e mal tagliati, che accompagnava una ragazza così graziosa, dall'aspetto così fine. Sembrava un rozzo giardiniere che portasse a passeggio una rosa.
Di quando in quando James si accigliava quando sorprendeva le occhiate curiose di qualche estraneo. Sentiva quel disagio nell'essere guardato che è proprio dei geni negli ultimi anni della loro vita, ma dal quale la gente ordinaria non si libera mai. Sybil dal canto suo non si rendeva minimamente conto dell'effetto che produceva. L'amore tremava sulle sue labbra sotto forma di riso. Pensava al Principe Azzurro; e, per poter pensare a lui anche di più, non ne parlava, ma chiacchierava della nave sulla quale James stava per imbarcarsi, dell'oro che avrebbe certamente trovato, della bellissima ereditiera alla quale avrebbe salvato la vita dalle mani dei malvagi briganti dalle camicie rosse; dato che lui non era destinato a restare marinaio, o commissario, o quella qualsiasi cosa che stava per diventare, oh, no! La vita del marinaio era terribile. Pensare di essere rinchiuso in un orrendo bastimento, con le onde rauche, incurvate come gobbe immense, che lottavano per soverchiarlo, il vento nero che abbatteva gli alberi e stracciava le vele riducendole a lunghi nastri sibilanti! Avrebbe lasciato il bastimento a Melbourne, dicendo cortesemente addio al capitano, e sarebbe andato alle miniere d'oro. Entro una settimana avrebbe trovato una grossa pepita d'oro puro, la più grossa che mai fosse stata scoperta, e l'avrebbe portata giù alla costa, in un carro scortato da sei poliziotti a cavallo. I briganti l'avrebbero attaccato tre volte, ma sarebbero stati messi in fuga con un'immensa carneficina.
Oppure no: non sarebbe andato per niente nelle miniere d'oro. Sono luoghi orrendi, dove gli uomini si ubriacano, si sparano l'un l'altro nei bar e usano un linguaggio sconcio. Sarebbe diventato un bravo allevatore di pecore; e una sera, cavalcando verso casa, avrebbe visto la bella ereditiera rapita da un bandito su un cavallo nero, gli avrebbe dato la caccia e l'avrebbe liberata.
Lei, naturalmente, si sarebbe innamorata di lui e lui di lei, si sarebbero sposati, sarebbero tornati in patria e avrebbero vissuto a Londra in una casa immensa. Sì, il destino aveva in serbo per lui delle cose magnifiche; ma bisognava che fosse molto buono e non perdesse la calma né spendesse stupidamente il suo denaro. Lei non aveva che un anno più di lui, ma conosceva molto meglio la vita. Doveva promettere, anche, di scriverle con ogni corriere e di recitare le preghiere tutte le sere prima di addormentarsi. Dio era tanto buono e avrebbe vegliato su di lui; lei avrebbe pregato per lui e in pochi anni sarebbe tornato ricco e felice.
Il ragazzo l'ascoltava imbronciato e non rispondeva; l'idea di allontanarsi da casa gli stringeva il cuore.
Ma non era soltanto questo a renderlo scuro e accigliato. Per quanto inesperto fosse, sentiva fortemente tutti i pericoli della posizione di Sybil. Quel giovane elegante che le faceva la corte non poteva significar niente di buono per lei: era un signore, e lo odiava per questo, lo odiava per un certo suo curioso istinto di razza del quale non era responsabile e che appunto per questo dominava ancora più fortemente il suo animo. Si rendeva conto anche della superficialità e della vacuità del carattere di sua madre e vedeva un pericolo immenso per Sybil e per la felicità di Sybil. I figli cominciano con l'amare i genitori; crescendo li giudicano e qualche volta li perdonano.
Sua madre! Voleva chiederle una cosa, una cosa che da lunghi mesi andava rimuginando silenziosamente. Una frase sentita per caso al teatro, una facezia giunta per caso al suo orecchio una sera mentre stava aspettando alle porte del palcoscenico, aveva scatenato in lui una folla di pensieri orribili. Se la ricordava come se fosse stata la sferzata di uno scudiscio sulla faccia. Le sopracciglia gli si corrugarono in un solco a forma di cuneo e si morse le labbra con una smorfia di pena.
- Non ascolti neppure una parola di ciò che ti sto dicendo, James - esclamò Sybil, - e io sto facendo i piani più splendidi per il tuo futuro. Su, dì qualche cosa.
- Che vuoi che dica?
- Oh, che farai il bravo ragazzo e non ci dimenticherai rispose sorridendogli.
Lui scrollò le spalle. - E' più probabile che tu di scordi di me Sybil, e non io di te.
Sybil arrossì. - Che vuoi dire, James? - chiese.
- Hai un amico nuovo, a quel che sento. Chi è? Perché non me ne hai parlato? Non è una buona cosa per te.
- Basta, James - esclamò lei. - Non devi dire niente contro di lui. Lo amo.
- Come, se non sai neanche come si chiama! - replicò il ragazzo.- Chi è? Io ho il diritto di saperlo.
- Si chiama Principe Azzurro. Non ti piace questo nome? Oh, scioccherello, non dovresti mai dimenticarlo. Basta che tu lo veda perché tu pensi che è l'essere più meraviglioso che ci sia al mondo. Un giorno lo conoscerai, quando tornerai dall'Australia. Ti piacerà infinitamente; tutti gli vogliono bene, e io... io lo amo.
Dovresti venire a teatro stasera. Lui ci sarà, e io faccio Giulietta. Oh, come reciterò! Pensa, James, essere innamorata e recitare Giulietta! Avere lui tra gli spettatori, recitare per la sua gioia! Ho paura di spaventare la compagnia; di spaventarla o di entusiasmarla. Essere innamorati significa superare se stessi.
Quel povero tremendo signor Isaacs urlerà "genio!" a tutti quei vagabondi del bar; lui che mi ha predicato come un dogma, staserà mi annuncerà come una rivelazione; ne sono certa. E tutto è suo, soltanto suo, del Principe Azzurro, del mio magnifico innamorato, del mio dio di grazia. Io sono povera vicino a lui; povera! E che vuol dire? Quando la povertà si affaccia alla porta l'amore entra dalla finestra. Bisogna riscrivere i nostri proverbi; sono stati fatti d'inverno e ora è l'estate; ma per me è primavera, tutta una danza di fiori nel cielo turchino.
- E' un signore - disse il ragazzo, con la faccia scura.
- Un Principe! - esclamò lei, musicalmente. - Che vuoi di più?
- Vuole fare di te la sua schiava.
- L'idea di essere libera mi fa rabbrividire.
- Voglio che tu stia in guardia da lui.
- Basta vederlo per adorarlo; basta conoscerlo per confidare in lui.
- Sybil, tu sei pazza per lui.
Lei rise e lo prese per un braccio. - Caro il mio James, parli come se tu avessi cent'anni. Un giorno o l'altro sarai innamorato anche tu e allora saprai cosa vuol dire. Non prendere quell'aria imbronciata. Dovresti essere contento pensando che, benché tu parta, mi lasci più felice di quanto non sia mai stata prima d'oggi. La vita è stata dura per noi due, terribilmente dura e difficile; ma d'ora in poi tutto sarà diverso. Tu te ne vai verso un mondo nuovo, io l'ho trovato. Ecco qui due sedie; sediamoci a guardare la bella gente che passa.
Si sedettero in mezzo a una folla di gente che stava a guardare.
Dall'altra parte del viale le aiuole di tulipani fiammeggiavano come palpitanti cerchi di fuoco. Nell'aria immobile era sospeso un pulviscolo bianco, che sembrava una nuvola tremolante di polvere di giaggiolo. I parasoli dai colori vivaci ballavano e si tuffavano, simili a mostruose farfalle.
Lei faceva parlare il fratello di se stesso, delle sue speranze, dei suoi progetti. Questi parlava lentamente e con sforzo; si passavano l'un l'altro le parole, come in una partita i giocatori si passano i gettoni. Sybil si sentiva oppressa; non riusciva a comunicare la gioia che era in lei. Un vago sorriso curvava quella bocca imbronciata ed era l'unica eco che le riuscisse di ottenere.
Alla fine tacque. Di colpo vide in un lampo capelli d'oro e labbra ridenti e Dorian Gray passò in carrozza aperta con due signore.
Balzò in piedi. - Eccolo! esclamò.
- Chi? - disse James Vane.
- Il Principe Azzurro - rispose, seguendo la vittoria con lo sguardo.
Il fratello scattò in piedi e la afferrò bruscamente per un braccio.
- Fammelo vedere. Qual è? Mostramelo, voglio vederlo - esclamò; ma in quel momento passò in mezzo il tiro a quattro del duca di Berwick, e quando lo spazio rimase sgombro la carrozza era uscita ormai dal Parco.
Sybil, tristemente, mormorò: - E' sparito. Avrei avuto piacere che tu lo vedessi.
- Anch'io. Perché, com'è vero che c'è un Dio in Cielo, se mai ti facesse qualche cosa di male lo ammazzerò.
Lei lo guardò esterrefatta, ma lui ripeté quelle parole, che tagliarono l'aria come un pugnale. Quelli che stavano intorno a loro cominciarono a interessarsi; una signora che era vicino rise.
- Andiamo via, James, andiamo via - mormorò la fanciulla. Egli le tenne dietro testardamente mentre passava attraverso la folla; era soddisfatto di aver detto quello che aveva detto. Quando furono arrivati alla statua di Achille essa si girò, e aveva negli occhi una compassione che si mutò in riso sulle sue labbra. Scosse la testa:
- Sei uno stupido James, un ragazzino bizzoso e nient'altro. Come puoi dire quelle cose orribili? Non sai quello che dici; sei semplicemente geloso e cattivo. Ah, vorrei che tu ti innamorassi; l'amore rende buoni, e quello che hai detto era malvagio.
- Ho sedici anni - rispose lui - e capisco le cose. La mamma non ti può essere di nessun aiuto; non ha idea di cosa significhi sorvegliarti. Ora vorrei non andare più in Australia. Quasi quasi manderei tutto all'aria. Lo farei certamente, se non avessi firmato un contratto.
- Oh, James, non essere così serio ! Sei come uno degli eroi di quegli stupidi melodrammi che alla mamma piaceva tanto recitare.
Non voglio litigare con te. L'ho visto, e per me vederlo basta a rendermi felice. Non litighiamo. So che non faresti mai del male a qualcuno che amo, non è vero?
- No, finché tu lo ami, credo - fu la sua risposta cocciuta.
- Lo amerò sempre! - gridò lei.
- E lui?
- Sempre, anche lui.
- Farà bene.
Essa si spostò da lui; poi rise e gli posò la mano sul braccio.
Non era che un ragazzo.
Al Marble Arch presero un omnibus che li lasciò vicino alla loro modesta casa di Euston Road. Erano le cinque passate e Sybil doveva riposare un paio d'ore prima della recita. James insisté perché lo facesse; disse che preferiva separarsi da lei quando non c'era la mamma. Questa avrebbe sicuramente fatto una scena e lui detestava le scene di qualsiasi tipo.
Si dissero addio in camera di Sybil. Il cuore del ragazzo era gonfio di gelosia e di odio feroce, omicida, contro quell'estraneo che, gli sembrava, si era frapposto tra loro due. Però, quando lei gli gettò le braccia al collo e gli passò le dita tra i capelli si ammansì e la baciò con affetto sincero. Scendendo le scale aveva le lacrime agli occhi.
Al piano di sotto lo aspettava sua madre e, quando entrò, gli rimproverò la sua poca puntualità. Non rispose e si sedette al suo pasto frugale. Le mosche ronzavano intorno alla tavola e passeggiavano sulla tovaglia macchiata. Attraverso il rumore degli omnibus e delle carrozze poteva sentire quella voce monotona che divorava tutti i minuti che gli restavano.
Dopo un po' spinse lontano il piatto e si prese la testa tra le mani. Sentiva di avere il diritto di sapere; se le cose stavano come sospettava avrebbero dovuto dirglielo prima. Sua madre lo guardava, oppressa dalla paura. Le parole le cadevano macchinalmente dalle labbra; le sue dita sgualcivano un logoro fazzoletto di trina. Quando l'orologio batté le sei lui si alzò e andò fino alla porta; poi si girò indietro e la guardò. I loro sguardi si incontrarono e lui vide in quello di lei una frenetica invocazione di pietà che lo rese furibondo.
- Mamma, ho da chiederti una cosa - disse. Gli occhi di lei vagarono intorno alla stanza e non rispose. - Dimmi la verità: ho diritto di sapere. Tu eri sposata col babbo?
Lei emise un profondo sospiro, che era un sospiro di sollievo. Il momento terribile, il momento che aveva temuto, notte e giorno, per settimane, per mesi, era venuto, alla fine, eppure non sentiva nessun terrore. Anzi in una certa misura, per lei era una delusione. La volgare nettezza della domanda voleva una risposta netta. La situazione non era stata preparata gradualmente, era aspra, e le faceva pensare a una prova mal riuscita.
- No - rispose, meravigliata lei stessa della dura semplicità della vita.
- Allora il babbo era un mascalzone? - gridò il ragazzo, stringendo i pugni.
Lei scosse il capo. - Io sapevo che non era libero. Ci amavamo immensamente. Se avesse vissuto avrebbe provveduto a noi. Non dire niente contro di lui, figliuolo; era tuo padre ed era un gentiluomo. Aveva parentele altolocate.
Una bestemmia gli sfuggì dal labbro. - A me non importa niente proruppe; - ma non lasciare che Sybil... Quello che è innamorato di lei, o che dice di esserlo, è un gentiluomo, non è vero? E con parentele altolocate, credo.
Un senso nauseante di umiliazione prese la donna; piegò la testa e si asciugò gli occhi colle mani tremanti. Mormorò:
- Sybil ha una madre. Io non l'avevo.
Il ragazzo ne fu commosso. Venne verso di lei e si chinò a baciarla.
- Mi dispiace se ti ho dato un dolore chiedendoti del babbo disse; - ma non potevo farne a meno. Ora devo andare. Addio. Non dimenticare che ora hai soltanto una figlia a cui badare; e credi a me: se quell'uomo fa del male a mia sorella, io scoprirò chi è, lo ritroverò e lo ammazzerò come un cane. Lo giuro.
La folle esagerazione della minaccia, il gesto passionale che lo accompagnava, le parole pazzescamente melodrammatiche le fecero sembrare più vivida la vita. Si ritrovò in un'atmosfera che le era familiare; respirò più liberamente e per la prima volta da molti mesi provò una vera ammirazione per suo figlio. Le sarebbe piaciuto prolungare la scena sulla stessa scala emozionale, ma lui tagliò corto. C'era da portar giù il bagaglio e da cercare le sciarpe; l'uomo di fatica della pensione andava su e giù; bisognò contrattare col vetturino; il momento andò perso in tutti quei dettagli volgari. Fu con un rinnovato senso di delusione che la madre sventolò dalla finestra il logoro fazzoletto di trina quando il figlio se ne andò. Si rendeva conto che una grande occasione era andata sprecata, ma si consolò dicendo a Sybil quanto sarebbe stata desolata la sua esistenza ora che le restava soltanto una figlia a cui badare. Si ricordò della frase: le era piaciuta.
Della minaccia non disse niente. Era stata formulata vivacemente e drammaticamente. Disse a se stessa che un giorno o l'altro ne avrebbero riso tutti insieme.
Capitolo sesto
- Penso che tu abbia sentito la notizia, Basil - disse Lord Henry, quando Hallward venne introdotto in un salottino privato del Bristol dov'era apparecchiato per tre persone.
- No, Harry - rispose l'artista, consegnando cappello e soprabito al cameriere. - Di che si tratta? Non di politica, spero; quella non m'interessa. Non c'è una sola persona alla Camera dei Comuni che valga la pena di dipingere, anche se molti di loro avrebbero un aspetto un po' migliore se li imbiancassero un po'.
- Dorian Gray si è fidanzato. - Disse Lord Henry fissandolo nel parlare.
Hallward sobbalzò, poi corrugò la fronte. - Dorian fidanzato!
Impossibile!
- E' la pura verità.
- Con chi?
- Con una piccola attrice qualunque.
- Non ci posso credere. Dorian ha troppo buon senso.
- Mio caro Basil, Dorian è troppo saggio per non fare, ogni tanto, una sciocchezza.
- Il matrimonio non è cosa che si possa fare ogni tanto, Harry.
- Salvo che in America - rispose mollemente Lord Henry. - Ma io non ti ho detto che si è sposato; ho detto che si è fidanzato, il che è molto diverso. Io mi ricordo nettissimamente di essere sposato, ma non mi ricordo affatto di essere stato fidanzato.
Quasi quasi, credo di non essere mai stato fidanzato.
- Ma pensa alla nascita di Dorian, alla sua posizione, alla sua ricchezza. Sarebbe assurdo se si sposasse tanto al disotto della sua condizione.
- Basil, se vuoi fargli sposare quella ragazza non hai altro che da dirgli questo: allora lo farà senz'altro. Quando un uomo fa una cosa assolutamente stupida è sempre per il più nobile dei motivi.
- Spero che sia una buona ragazza, Harry. Non vorrei vedere Dorian legato a qualche creatura ignobile che potrebbe avvilire il suo carattere o rovinare la sua intelligenza.
- Oh, meglio che buona: è bella - mormorò Lord Henry, sorseggiando un bicchiere di vermouth e amaro d'arancio. Dorian dice che è bella e in cose di questo genere si sbaglia di rado. Il ritratto che tu gli hai fatto ha accresciuto ai suoi occhi il pregio dell'aspetto personale altrui; ha avuto, tra gli altri, anche quest'effetto eccellente. La vedremo stasera, se quel ragazzo non si è dimenticato dell'appuntamento.
- Dici sul serio?
- Proprio sul serio, Basil. Mi sentirei infelicissimo se pensassi di poter mai essere più serio di quanto lo sono in questo momento.
- Ma tu lo approvi, Harry? - chiese il pittore, andando su e giù per la stanza e mordendosi le labbra. Non è possibile che lo approvi. E' un'infatuazione stupida.
- Ormai non approvo né disapprovo più niente. Significa assumere un atteggiamento assurdo nei confronti della vita. Non faccio mai attenzione a quello che dice la gente ordinaria e non mi immischio mai in quello che fanno le persone simpatiche. Se una personalità mi affascina, per me qualsiasi modo di espressione che quella personalità sceglie è assolutamente delizioso. Dorian Gray si innamora di una bella ragazza che fa la parte di Giulietta e le chiede di sposarlo. Perché no? Se sposasse Messalina non diventerebbe meno interessante per questo. Sai che non sono un campione del matrimonio. Il vero inconveniente del matrimonio è che impedisce di essere egoisti e chi non è egoista è senza colore, manca di individualità. Tuttavia ci sono certi temperamenti che il matrimonio rende più complessi: conservano il loro egoismo e vi aggiungono molti altri "Io"; sono costretti ad avere più di una vita, diventano più altamente organizzati, ed essere altamente organizzati è secondo me l'obiettivo dell'esistenza umana. Inoltre, ogni esperienza ha il suo valore; e del matrimonio si può dire quello che si vuole, ma indubbiamente è un'esperienza. Spero che Dorian Gray faccia di quella ragazza sua moglie, l'adori appassionatamente per sei mesi e d'improvviso sia affascinato da un'altra: come studio sarebbe meraviglioso.
- Harry, tu non pensi una sola parola di tutto questo. Sai benissimo che è come dico io. Se la vita di Dorian fosse rovinata tu ne saresti addolorato più di chiunque altro. Sei molto migliore di quanto pretendi di essere.
Lord Henry si mise a ridere.
- Il motivo per il quale a tutti noi piace pensare tanto bene degli altri è che abbiamo paura per noi stessi. La base dell'ottimismo è il puro e semplice terrore. Ci crediamo generosi perché attribuiamo al nostro prossimo il possesso di quelle virtù che saranno probabilmente di aiuto a noi. Elogiamo il banchiere per poter superare l'attivo del nostro conto e troviamo delle qualità nel bandito nella speranza che risparmi le nostre tasche.
Tutto quello che ho detto lo penso. Provo il massimo disprezzo per l'ottimismo; e in quanto a vite rovinate, non ci sono vite rovinate eccetto quelle il cui sviluppo viene arrestato. Quando si vuole rovinare un carattere non c'è che da riformarlo. Quanto al matrimonio, naturalmente sarebbe una cosa stupida; ma tra uomini e donne esistono altri e più interessanti legami. Io li incoraggerò certamente: hanno il pregio di essere di moda. Ma ecco Dorian in persona. Lui ti dirà più di quanto non potrei dire io.
- Caro Harry, caro Basil, dovete rallegrarvi con me, l'uno e l'altro! - disse il giovane, gettando via il mantello da sera dalle ali foderate di satin e stringendo la mano agli amici, l'uno dopo l'altro. - Non sono mai stato così felice. Eppure mi sembra che sia l'unica cosa della quale per tutta la vita sono andato in cerca.
L'eccitazione e la gioia gli coloravano il viso, facendolo sembrare di una straordinaria bellezza.
- Spero che tu sia sempre felicissimo, Dorian, - disse Hallward;- ma non arrivo a perdonarti interamente per non avermi fatto sapere niente del tuo fidanzamento. A Harry l'hai fatto sapere.
- E io non ti perdono di essere in ritardo per il pranzo interruppe Lord Henry, posando la mano sulla spalla del giovane e sorridendo nel parlare. - Su, sediamoci e vediamo che cosa vale il nuovo chef di qui, e poi ci racconterai come sono andate le cose.
- In verità non c'è gran che da raccontare - esclamò Dorian, mentre si sedevano intorno alla piccola tavola rotonda. - Quello che è accaduto è semplicemente questo. Ieri sera, dopo averti lasciato, Harry, mi vestii, pranzai in quel piccolo ristorante italiano di Rupert Street che tu mi hai fatto conoscere e alle otto me ne andai al teatro. Sybil faceva Rosalinda. Naturalmente la messa in scena era tremenda, e Orlando era ridicolo; ma Sybil!
Vorrei che l'aveste veduta. Quando venne fuori vestita da ragazzo era semplicemente meravigliosa. Portava un farsetto di velluto del colore della borraccina, con le maniche del colore del cinnamono, pantaloncini marroni coi legacci incrociati, un grazioso berretto verde con una penna di falco fermata da un gioiello e un mantello col cappuccio, foderato di rosso cupo. Aveva tutta la grazia delicata di quella figuretta di Tanagra che c'è nel tuo studio, Basil. I capelli le incorniciavano il volto come foglie scure intorno a una rosa pallida. Quanto alla sua interpretazione, bene, la vedrete stasera. E' semplicemente un'artista nata. Seduto nel mio lurido palco ero assolutamente estasiato; mi ero dimenticato di essere a Londra e nel diciannovesimo secolo, ero lontano col mio amore in un bosco non mai visto da alcuno. Dopo la fine della rappresentazione andai a parlarle dietro le quinte. Mentre stavamo seduti insieme, nei suoi occhi apparve un'espressione che non vi avevo mai visto prima d'allora. Le mie labbra si mossero verso di lei e ci baciammo. Non posso descrivervi che cosa provai in quel momento. Mi sembrò che tutta la mia vita si fosse concentrata fino a formare un punto perfetto di gioia color di rosa. Tremava tutta, scossa come un narciso bianco; poi cadde in ginocchio e mi baciò le mani. So che non dovrei dirvi tutto questo, ma non posso farne a meno. Naturalmente il nostro fidanzamento è segretissimo; lei non l'ha detto neanche a sua madre. Non so che cosa diranno i miei tutori. Lord Radley certo sarà furibondo, ma non me ne importa niente. Mi manca meno di un anno per essere maggiorenne e allora potrò fare quello che più mi piace. Basil, non ho avuto ragione a prendere il mio amore nella poesia e a trovare la mia sposa nei drammi di Shakespeare? Quelle labbra alle quali Shakespeare ha insegnato a parlare mi hanno sussurrato nell'orecchio il loro segreto; le braccia di Rosalinda mi hanno abbracciato e Giulietta mi ha baciato sulla bocca.
- Sì, Dorian, penso che tu abbia avuto ragione - disse lentamente Hallward.
- Oggi l'hai vista? - chiese Lord Henry.
Dorian scosse il capo. - L'ho lasciata nella selva di Arden e la ritroverò in un giardino di Verona.
Lord Henry sorseggiava lo champagne con aria pensierosa.
- In che momento preciso hai pronunciato la parola matrimonio? E lei che ti ha risposto? Forse te ne sei completamente dimenticato.
- Caro Harry, non ho trattato la cosa come si tratta un affare commerciale e non ho fatto una domanda formale. Le ho detto che l'amavo e lei mi ha detto che non era degna di essere mia moglie.
Non degna! Se per me il mondo intero è un niente in confronto a lei!
- Le donne sono mirabilmente pratiche - mormorò Lord Henry, ben più pratiche di noi. Nelle situazioni di questo genere noi spesso ci dimentichiamo di parlare di matrimonio, ma loro se ne ricordano sempre.
Hallward gli mise una mano sul braccio.
- Lascia andare, Harry. Hai detto una cosa che ha urtato Dorian.
Lui non è come gli altri uomini e non farebbe del male ad anima viva. La sua natura è troppo bella.
Lord Henry guardò attraverso la tavola.
- Dorian non si offenderà mai con me - rispose. - Se ho fatto quella domanda è stato per la migliore delle ragioni: per l'unica ragione, in realtà, che scusi chi fa qualunque domanda: per pura curiosità. La mia teoria è che sono sempre le donne a chiedere la nostra mano e non noi a chiedere la mano delle donne, eccetto, si capisce, nella vita piccolo borghese; ma i piccoli borghesi non sono gente moderna.
Dorian Gray rise, scuotendo la testa.
- Harry, sei proprio incorreggibile, ma non importa. Non si può andare in collera con te. Quando vedrai Sybil Vane ti renderai conto che l'uomo capace di farle del male sarebbe una belva, una belva senza cuore. Non riesco a capire come uno possa desiderare di coprire di vergogna quello che ama. Io amo Sybil Vane e voglio porla su un piedistallo d'oro; voglio vedere il mondo adorare la donna che è mia. Che cos'è il matrimonio? Un voto irrevocabile. Tu per questo te ne fai beffe; ma non farlo. Io desidero appunto pronunciare un voto irrevocabile. La sua fiducia mi rende fedele, la sua fede mi rende buono. Quando sono con lei deploro tutto quello che mi hai insegnato; essa fa di me un uomo completamente diverso da quello che tu conosci. Sono cambiato: e basta il tocco della mano di Sybil Vane a farmi dimenticare te e tutte le tue teorie erronee, affascinanti, velenose e deliziose.
- E queste sarebbero...? - chiese Lord Henry, servendosi l'insalata.
- Oh, le tue teorie sulla vita, le tue teorie sull'amore, le tue teorie sul piacere. Insomma tutte le tue teorie, Harry.
- Il piacere è l'unica cosa intorno alla quale valga la pena di avere una teoria - rispose lui con la sua lenta voce melodiosa. Ma ho paura di non avere il diritto di rivendicare la paternità della mia teoria: questa appartiene alla natura e non a me. Il piacere è l'esame che ci fa passare la natura, il segno della sua approvazione. Quando siamo felici siamo sempre buoni, ma quando siamo buoni non siamo sempre felici.
- Ah, ma che cosa intendi per essere buono? - chiese Basil Hallward.
- Sì - gli fece eco Dorian, appoggiandosi alla spalliera della sedia e guardando Lord Henry al di sopra dei grappoli pesanti di giaggioli dalle labbra purpuree posti al centro della tavola, che cosa intendi per buono, Harry?
- Essere buono significa essere in armonia con se stesso replicò questi, toccando con le dita pallide e affusolate il gambo esile del suo bicchiere. - La dissonanza consiste nell'essere costretti ad essere in armonia con gli altri. La nostra propria vita, ecco ciò che conta, quanto alle vite del nostro prossimo, se vogliamo fare i saccenti o i puritani possiamo sbandierare le nostre concezioni morali sul loro conto, ma in realtà non ci riguardano.
Inoltre, è l'individualismo che si propone lo scopo più alto. La morale moderna consiste nell'accettare le norme della nostra epoca; io penso che per qualunque uomo colto accettare le norme della sua epoca rappresenti una forma della più grossolana immoralità.
- Però, Harry, chi vive soltanto per se stesso paga indubbiamente un prezzo tremendo - suggerì il pittore.
- Sì, oggi tutto si paga troppo caro. Penso che la vera tragedia dei poveri consista nel fatto che l'unica cosa che possono permettersi è l'abnegazione. I bei peccati, come le belle cose, costituiscono un privilegio dei ricchi.
- Non si paga soltanto in denaro.
- E in che altro modo, Basil?
- Oh, in rimorso, penso, in sofferenza, in... insomma, nell'aver coscienza della propria degradazione.
Lord Henry scosse le spalle.
- Mio caro amico, l'arte medievale è deliziosa, ma le emozioni medievali sono anacronistiche. Naturalmente si può farne uso nella letteratura; ma le sole cose che si possono usare nella letteratura sono quelle che non usiamo nella realtà. Credimi, non c'è uomo civilizzato che si penta mai di un piacere, come non c'è uomo non civilizzato che sappia mai che cosa sia il piacere.
- Io lo so, che cosa è il piacere - esclamò Dorian Gray. Consiste nell'adorare una persona.
- Certo, è meglio questo che essere adorati - rispose lui, giocando con la frutta. - Essere adorati è un fastidio. Le donne ci trattano esattamente come l'umanità tratta i suoi dei: ci adorano e non fanno che infastidirci perché facciamo qualche cosa per loro.
- Io direi che qualunque cosa ci chiedano, esse ce l'hanno donata per prime - mormorò il giovane con gravità. - Sono loro che creano l'amore nella nostra natura e hanno quindi il diritto di chiedercelo in restituzione.
- Verissimo, Dorian - esclamò Hallward.
- Non c'è niente che sia verissimo - disse Lord Henry.
- Questo però è verissimo - interruppe Dorian. - Devi pure ammettere, Harry, che le donne donano all'uomo l'oro più puro della loro vita.
- Può darsi - sospirò l'altro, - ma poi invariabilmente lo rivogliono cambiato in spiccioli, e questo è il guaio. Le donne, come disse una volta un Francese di spirito, ci ispirano il desiderio di fare dei capolavori e ci impediscono sempre di eseguirli.
- Harry, sei tremendo ! Non so perché ti voglio tanto bene.
- Tu mi vorrai sempre bene, Dorian - replicò lui. - Prendete il caffè, voialtri? Cameriere, caffè, fine champagne e sigarette. No, le sigarette non importa, ne ho. Basil, non posso permetterti di fumare il sigaro. La sigaretta è il tipo perfetto del perfetto piacere: è deliziosa e ci lascia insoddisfatti. Che si potrebbe desiderare di più? Sì, Dorian, tu mi vorrai sempre bene. Per te io rappresento tutti i peccati che non hai avuto il coraggio di commettere.
- Quante sciocchezze dici, Harry! - esclamò il ragazzo, accendendo la sigaretta a un drago d'argento dalla cui bocca usciva una fiammella, che il cameriere aveva messo in tavola. Andiamo al teatro. Quando Sybil apparirà sulla scena tu avrai un nuovo ideale di vita. Rappresenterà per te qualcosa che non hai mai conosciuto.
- Ho conosciuto tutto - disse Lord Henry, con un'espressione di stanchezza negli occhi - ma sono sempre pronto per un'esperienza nuova. Temo però che non esista una simile cosa, almeno per me; comunque, può darsi che la tua meravigliosa fanciulla mi dia un fremito. Il teatro mi piace: è tanto più vero della vita. Andiamo, Dorian, tu vieni con me. Mi dispiace Basil, ma nel "brougham" c'è posto soltanto per due; bisognerà che tu venga dietro con una vettura di piazza.
Si alzarono e indossarono i pastrani, bevendo il caffè in piedi.
Il pittore era taciturno e preoccupato. Aveva il cuore oppresso dalla tristezza; non riusciva ad adattarsi all'idea di quel matrimonio, eppure gli sembrava una cosa migliore di tante altre che avrebbero potuto accadere. Dopo qualche minuto scesero le scale tutti insieme. Egli fece la strada da solo, com'era convenuto, e durante tutto il tempo poté vedere davanti a sé i lumi vivaci del piccolo "brougham". Si sentì prendere da uno strano senso di perdita; ebbe la sensazione che Dorian Gray non sarebbe mai più stato per lui tutto quello che era stato in passato. La vita si era frapposta tra loro... Gli occhi gli si offuscarono e fu come se davanti a lui le strade affollate e illuminate si annebbiassero.
Quando la vettura si fermò davanti al teatro gli sembrava di essere invecchiato di parecchi anni.
Capitolo settimo
Quella sera, chi sa perché, la sala era affollata e il grasso impresario ebreo che li ricevette alla porta era tutto raggiante d'un sorriso tremulo e untuoso. Li guidò fino al loro palco con una specie di umiltà pomposa, agitando le grasse mani ingioiellate e parlando a voce altissima. Dorian Gray lo detestava più del solito. Gli sembrava di essere venuto a trovare Miranda e di essere stato ricevuto da Calibano. Lord Henry, invece, sentiva una certa simpatia per lui, o almeno così disse, e insisté per stringergli la mano, assicurandolo che era fiero di fare la conoscenza di un uomo che aveva scoperto un autentico genio e che aveva fatto fallimento per un poeta. Hallward si divertiva a guardare le facce in platea. Il caldo era terribilmente opprimente e l'enorme lampadario fiammeggiava come una dalia mostruosa che avesse i petali di fuoco giallo. I giovanotti del loggione si erano tolti giacche e panciotti e li avevano appesi alla ringhiera. Si parlavano l'un l'altro attraverso il teatro e dividevano le arance con le ragazze sgargianti sedute vicino a loro. In platea certe donne ridevano con voci orribilmente stridule e stonate. Dal bar arrivava il rumore di tappi che saltavano.
- In che razza di posto sei andato a trovare la tua divinità!
disse Lord Henry.
- Sì - rispose Dorian Gray, - è qui che l'ho trovata, lei che è più divina di qualunque creatura vivente. Quando reciterà dimenticherete ogni cosa. Quando è in scena, questi individui volgari, rozzi, con le loro facce ruvide e i loro gesti brutali, diventano tutti diversi. Tacciono e guardano lei; piangono e ridono obbedendo al volere di lei. Lei li rende sensibili come violini, li spiritualizza, e si ha la sensazione che loro e noi siamo della stessa carne e dello stesso sangue.
- Della stessa carne e dello stesso sangue! Oh, speriamo di no!- esclamò Lord Henry che stava esaminando col binocolo il pubblico del loggione.
- Non gli badare, Dorian - disse il pittore. - Capisco quello che vuoi dire e credo in questa fanciulla. Una creatura amata da te deve essere meravigliosa; e una fanciulla capace di produrre l'effetto che hai descritto deve essere fine e nobile.
Spiritualizzare la propria epoca è un'impresa che vale la pena di tentare. Se questa fanciulla può dare un'anima a chi è vissuto senza averla, se può creare il senso della bellezza in gente la cui vita è stata sordida e brutta, se riesce a spogliarli del loro egoismo e a consegnare loro qualche lacrima per dolori che non sono loro, è degna di tutta la tua adorazione, è degna dell'adorazione del mondo. Fai benissimo a sposarla. All'inizio non pensavo così, ma ora lo ammetto. Gli Dei hanno creato Sybil Vane per te; senza di lei saresti stato incompleto.
- Grazie, Basil - rispose Dorian Gray, stringendogli la mano.
Sapevo che mi avresti capito. Harry è così cinico che mi spaventa.
Ma ecco l'orchestra; è spaventosa, ma dura solo cinque minuti circa. Poi si alza il sipario e tu vedrai la fanciulla alla quale sto per dare tutta la mia vita, alla quale ho dato quanto c'è di meglio in me.
Un quarto d'ora dopo, tra un fragore straordinario di applausi, Sybil Vane entrò in scena. Sì, a guardarla era certamente graziosa; una delle più graziose creature, pensò Lord Henry, che lui avesse mai visto. Nella sua grazia timida, nei suoi grandi occhi smarriti aveva qualcosa di una cerbiatta. Nel guardare la sala affollata, entusiasta, le salì alle guance un lieve rossore, simile all'ombra di una rosa in uno specchio d'argento. Fece qualche passo indietro e le sue labbra sembrarono tremare. Basil Hallward scattò in piedi e cominciò ad applaudire; Dorian Gray sedeva immobile, fissandola, quasi rapito in sogno; Lord Henry la osservava attraverso il binocolo e mormorava: Deliziosa, deliziosa!
La scena rappresentava l'atrio della casa dei Capuleti e Romeo, in vesti da pellegrino, era entrato, in compagnia di Mercuzio e degli altri suoi amici. L'orchestra, per quello che valeva, suonò qualche battuta di musica e la danza ebbe inizio. Attraverso la folla di attori goffi e mal vestiti, Sybil Vane si muoveva come una creatura venuta da un mondo superiore. Il suo corpo ondeggiava nel danzare come una pianta ondeggia nell'acqua. Le curve del suo collo erano le curve candide di un giglio e le sue mani sembravano fatte di fresco avorio.
Però sembrava stranamente assente. Quando i suoi occhi si posarono su Romeo non manifestò nessun segno di gioia. Le poche parole che aveva da dire
Buon pellegrin, la mano hai calunniato che sua divozion dimostra in questo: anche una santa un tal tatto ha accettato da un pellegrin, se il tatto è un bacio onesto e il breve dialogo che segue furono detti in un modo assolutamente artificioso. La voce era squisita, ma completamente falsa dal punto di vista del tono; non aveva il colorito giusto, toglieva ai versi ogni vita, rendeva irreale la passione.
Guardandola, Dorian Gray impallidiva. Era imbarazzato e ansioso.
Nessuno dei due suoi amici osava dirgli una parola; trovavano Sybil priva di ogni capacità e si sentivano terribilmente delusi.
Sapevano però che quello che dà la misura di ogni Giulietta è la scena del balcone del secondo atto. Se falliva in quella voleva dire che non c'era niente in lei.
Quando lei apparve nel chiarore lunare il suo aspetto era innegabilmente delizioso; ma la sua teatralità era intollerabile e andò progressivamente aggravandosi.
Il bel passo
Tu sai che sul mio volto sta la maschera della notte, altrimenti ben vedresti di un verginal rossor tingersi tutte le mie guance, s'io penso alle parole che questa notte mi hai sentito dire
fu declamato con la penosa precisione di una scolaretta che abbia imparato a recitare da un maestro di dizione di second'ordine.
Quando si piegò sul balcone e arrivò a quei versi meravigliosi
E allora non giurar. Sebben tu sia ogni mia gioia, non potrei gustare tutte le gioie dell'incontro nostro di stanotte. Fu troppo impreveduto, troppo rapido, troppo all'improvviso troppo simile al lampo, che scompare prima che possa dirsi: "ecco risplende".
Mio dolce, buona notte. Questo nostro bocciuol d'amore maturato al soffio della notte d'estate, potrà aprirsi in mirabile fiore, nell'incontro nostro prossimo.
Pronunciò le parole come se per lei non avessero avuto nessun senso. Non si trattava di nervosismo; anzi, lungi dall'essere nervosa, aveva un controllo assoluto di se stessa. Si trattava semplicemente di arte scadente; un fallimento completo.
Perfino il pubblico volgare e incolto della platea e del loggione smise di interessarsi allo spettacolo, diventò irrequieto e cominciò a parlare ad alta voce e a fischiare. L'impresario, dritto in fondo all'anfiteatro, pestava i piedi e bestemmiava dalla rabbia. L'unica imperturbabile era la ragazza.
Alla fine del secondo atto ci fu una bufera di fischi e Lord Henry si alzò e si infilò il pastrano.
- Dorian, è bellissima - disse, - ma non sa recitare. Andiamo.
- Io resto fino alla fine - rispose il ragazzo, con voce dura e amara. - Mi dispiace infinitamente di averti fatto perdere una serata, Harry. Chiedo scusa a tutti e due.
- Caro Dorian, penso che la signorina Vane debba sentirsi male interruppe Hallward. - Verremo qualche altra sera.
- Vorrei che si sentisse male - replicò lui. - Ma a me sembra che si tratti semplicemente d'insensibilità e di freddezza. E' completamente cambiata. Ieri sera era una grande artista; stasera non è che un'attrice volgare e mediocre.
- Non parlare così di colei che ami, Dorian. L'amore è una cosa ben più meravigliosa dell'arte.
- L'una e l'altro sono soltanto forme di imitazione - osservò Lord Henry. - Ma andiamo via. Dorian, non devi restare qui. Assistere a una brutta rappresentazione nuoce al morale. E poi, non credo che vorrai che tua moglie reciti; e allora che importa se recita Giulietta come una pupattola di legno? E' molto carina; e se della vita sa tanto poco quanto di arte drammatica, sarà un'esperienza deliziosa. Non ci sono che due categorie di persone veramente affascinanti, quelle che sanno assolutamente tutto e quelle che non sanno assolutamente niente. Buon Dio, figliuolo, non fare quella faccia tragica! Il segreto per rimanere giovani è di non avere emozioni che facciano imbruttire. Vieni al circolo con Basil e con me; fumeremo una sigaretta e faremo un brindisi alla bellezza di Sybil Vane. E' bella: che vuoi di più?
- Vattene, Harry - gridò il ragazzo. - Basil, devi andare via. Non vi accorgete che mi si spezza il cuore? - Lacrime cocenti gli salivano agli occhi; le labbra gli tremavano. Corse in fondo al palco, si appoggiò al muro e si prese il viso tra le mani.
- Andiamo, Basil - disse Lord Henry, con una strana tenerezza nella voce. I due uscirono insieme.
Pochi minuti dopo, le luci della ribalta si accesero e il sipario si alzò per il terzo atto. Dorian Gray tornò a sedersi, pallido, altezzoso, indifferente. Il dramma si trascinò; sembrava che non dovesse arrivare mai alla fine. Metà del pubblico uscì ridendo e facendo un gran fracasso con le scarpe pesanti. La rappresentazione era un fiasco completo. L'ultimo atto fu recitato davanti a una sala quasi vuota. Il sipario calò tra le risate e i brontolii.
Non appena fu finito Dorian Gray si precipitò dietro le quinte, nel ridotto. La fanciulla stava in piedi, sola, e aveva sul viso un'espressione di trionfo; era come circonfusa di un alone luminoso. Le labbra semiaperte sorridevano a un segreto noto soltanto a loro.
Lo guardò mentre entrava, e sul suo volto si dipinse una gioia infinita.
- Come ho recitato male stasera, Dorian! - gridò.
- Orribilmente!- rispose lui, fissandola stupefatto.
Orribilmente! E' stata una cosa tremenda. Ti senti male? Non hai idea di che cosa era; non hai idea di quello che ho sofferto.
La fanciulla sorrise.
- Dorian - rispose, soffermandosi nel pronunciare quel nome, con una prolungata musicalità nella voce, come se ai rossi petali della sua bocca fosse stato più dolce del miele - Dorian, avresti dovuto capire. Ma ora capisci, non è vero?
- Capire che cosa? - chiese lui furibondo.
- Perché stasera sono stata così scadente; perché sarò sempre scadente; perché non sarò mai più capace di recitare bene Egli scrollò le spalle. - Credo che tu non ti senta bene. Quando non stai bene non dovresti recitare; ti rendi ridicola. I miei amici erano seccati; io ero seccato.
Sembrò che non lo sentisse. La gioia la trasfigurava; era in preda a un'estasi di felicità.
- Dorian, Dorian - gridò, - prima che ti conoscessi il teatro era l'unica realtà della mia vita. Vivevo soltanto al teatro; pensavo che tutto fosse vero. Una sera ero Rosalinda, un'altra Porzia; la gioia di Beatrice era la mia gioia, i dolori di Cordelia erano i miei dolori. Credevo in tutto. Gli individui volgari che recitavano con me mi sembravano divini; gli scenari dipinti erano il mio mondo. Non conoscevo che ombre e le credevo realtà. Tu sei venuto, oh, amore mio caro, e hai liberato dal carcere la mia anima. Mi hai insegnato che cosa sia la realtà. Stasera, per la prima volta in vita mia, ho scoperto tutta la superficialità, la falsità, la stupidità del vuoto spettacolo al quale avevo sempre preso parte. Stasera per la prima volta mi sono resa conto che Romeo era schifoso, vecchio, truccato, che il chiaro di luna nel giardino era finto, che lo scenario era volgare e che le parole che dovevo pronunciare erano irreali, non erano le mie parole, non erano quelle che avrei voluto dire. Tu mi avevi portato qualche cosa di più alto, qualche cosa di cui tutta l'arte non è che un riflesso; tu mi avevi fatto capire che cosa sia veramente l'amore.
Amore mio, amore mio, Principe Azzurro, Principe della Vita, sono stanca di ombre. Tu sei per me molto di più di quanto possa essere tutta l'arte. Che m'importano le marionette del dramma? Stasera quando sono entrata in scena non riuscivo a capire come mai tutto se ne fosse andato da me. Credevo che sarei stata meravigliosa e mi sono accorta di non essere buona a niente. D'improvviso nella mia anima è balenato il significato di tutto questo, e il saperlo era per me una delizia. Li ho sentiti fischiare e ho sorriso: che mai poteva capire quella gente di un amore come il nostro? Portami via, Dorian. Portami via con te, in qualche posto dove possiamo essere soli. Odio il palcoscenico. Potevo simulare una passione che non provavo, ma non posso simulare una passione che mi brucia come il fuoco. Oh, Dorian, capisci ora che cosa significa?
Recitare una parte d'innamorata, anche se potessi farlo, sarebbe per me una profanazione. Tu me l'hai fatto vedere.
Egli si lasciò cadere sul divano, girando il viso da un'altra parte. - Hai ucciso il mio amore - disse con voce sorda.
Sybil lo guardò meravigliata, ridendo. Egli non disse altro.
Allora lei gli si avvicinò e gli accarezzò i capelli colle sue piccole dita. Si inginocchiò portandosi alle labbra le mani di lui; egli le ritrasse e fu colto da un brivido; poi balzò in piedi e si avviò verso la porta.
- Sì - gridò - hai ucciso il mio amore. Finora svegliavi la mia immaginazione, ora non svegli più neppure la mia curiosità; non produci semplicemente nessun effetto. Ti amavo perché eri meravigliosa, perché possedevi genio e intelligenza, perché traducevi in realtà i sogni dei grandi poeti e davi forma e sostanza ai fantasmi dell'arte. Hai gettato via tutto questo. Sei superficiale e stupida. Mio Dio! che pazzo dovevo essere per amarti! che sciocco sono stato! Ora per me non sei più niente; non voglio più pensare a te, non voglio pronunciare mai più il tuo nome. Tu non sai quello che eri per me, una volta. Sì, una volta... oh, non posso nemmeno pensarci! Vorrei non averti mai vista. Hai rovinato il romanzo della mia vita. Come devi conoscere poco l'amore, se lo accusi di rovinare la tua arte! Senza l'arte non sei niente. Ti avrei resa famosa, splendida, magnifica; il mondo ti avrebbe adorato e tu avresti portato il mio nome. Ora che cosa sei? Un'attrice di terz'ordine con un bel visino.
La fanciulla sbiancò in volto, tremando; giungeva le mani e sembrava che la voce le si gelasse in gola. Mormorò: - Non parli mica sul serio, Dorian? Stai recitando una commedia.
- Recitare? Lo lascio fare a te, che lo fai tanto bene - rispose lui amaro.
La fanciulla si alzò in piedi e gli si avvicinò, attraversando la stanza, con la più nera infelicità dipinta sul volto. Gli mise la mano sul braccio, guardandolo negli occhi. Lui la respinse, gridando: - Non mi toccare!
Un gemito soffocato le sfuggì. Si gettò ai suoi piedi e vi rimase, simile a un fiore calpestato.
- Dorian, Dorian, non mi lasciare! - mormorò. - Mi dispiace tanto di non aver recitato bene, ma pensavo a te tutto il tempo. Ma proverò; ti giuro che proverò. E' stato così improvviso, il mio amore per te; credo che non lo avrei mai saputo se tu non mi avessi baciato, se non ci fossimo baciati. Baciami ancora, amore mio. Non te ne andare da me. Mio fratello... no, non importa, non parlava sul serio; era uno scherzo... Ma tu, non puoi perdonarmi per stasera? Lavorerò tanto, mi sforzerò di migliorare. Non essere crudele con me perché ti amo più di ogni cosa al mondo. Dopo tutto, una volta sola non ti sono piaciuta. Però hai ragione, Dorian; avrei dovuto dimostrarmi più artista. Sono stata una sciocca, ma non ho potuto fare diversamente. Oh, non mi lasciare, non mi lasciare!
Un accesso di singhiozzi appassionati la soffocò. Si raggomitolava per terra come una creatura ferita e Dorian Gray la guardava dall'alto coi suoi begli occhi, e le sue labbra finemente disegnate si atteggiavano a un supremo disprezzo. Le emozioni di quelli che non amiamo più hanno sempre qualcosa di ridicolo. Sybil Vane gli sembrava scioccamente melodrammatica; le sue lacrime e i suoi singhiozzi gli urtavano i nervi. Finalmente, con quella sua voce tranquilla e chiara disse:
- Me ne vado. Non voglio offenderti, ma non ti posso più vedere.
Mi hai deluso.
Lei piangeva silenziosamente. Non rispose, ma gli strisciò più vicina, tendendo le piccole mani alla cieca quasi a cercarlo. Egli girò sui tacchi, uscì dalla stanza e poco dopo era fuori del teatro.
Camminava senza sapere dove andasse. Si ricordò di aver vagato per strade mal illuminate, di essere passato davanti a portoni lugubri e scuri e a case dall'aspetto sinistro. Qualche donna lo chiamò, con voce rauca e risate volgari; gli passarono accanto degli ubriachi che bestemmiavano e parlavano da soli, simili a scimmioni mostruosi. Vide ragazzi grotteschi accovacciati sugli scalini delle porte e sentì grida e bestemmie giungere da cortili bui.
Spuntava l'alba quando si trovò nei pressi di Covent Garden.
L'oscurità si andava dileguando e il cielo, costellato di luci incerte, si incurvava in una perla perfetta. Per la strada lucida e sgombra passavano lentamente enormi carri pieni di gigli oscillanti. L'aria era impregnata dal profumo dei fiori e sulla sua sofferenza la bellezza di questi agiva come un sedativo. Li seguì all'interno del mercato e rimase a guardare gli uomini intenti a scaricare i carri. Un carrettiere in blusa bianca gli offrì delle ciliegie: lo ringraziò, sorpreso che l'altro rifiutasse di accettare denaro, e cominciò a mangiarle distrattamente. Erano state colte a mezzanotte e la frescura lunare le aveva penetrate. Una lunga fila di ragazzi che portavano cesti di tulipani striati e di rose gialle e rosse sfilò davanti a lui, incamminandosi attraverso gli enormi mucchi di legumi, verdi come la giada. Un gruppo di ragazze infangate, senza niente in testa, oziava sotto il portico dai pilastri grigi sbiancati dal sole, in attesa della fine dell'asta; altre si affollavano intorno alla porta girevole del caffè sulla piazza. Alcuni carrettieri dormivano distesi su mucchi di sacchi. Tutt'intorno saltellavano i piccioni dal collo iridiscente e dai piedi rosati, beccando i semi.
Dopo un po' chiamò una vettura di piazza e si fece portare a casa.
Si fermò per qualche minuto sulla soglia, guardando la piazza silenziosa, con le sue finestre cieche, ermeticamente chiuse, e le sue persiane che sembravano fissarlo. Ora il cielo si era fatto di opale puro e contro di esso luccicavano come argento i tetti delle case. Da un camino di fronte saliva un sottile filo di fumo, attorcigliandosi come un nastro violaceo nell'aria color madreperla.
Nella grande lanterna veneziana dorata, residuo di qualche barca dogale, che pendeva dal soffitto del grande atrio dai pannelli di quercia, bruciavano ancora le luci di tre fiammelle tremolanti: sembravano sottili petali azzurri di fiamma, bordati di fuoco bianco. Le spense e, gettando sulla tavola il cappello e il soprabito, si diresse attraverso la biblioteca verso la porta della camera da letto, una grande stanza ottagonale a pian terreno che lui, nel suo recente bisogno di lusso, aveva finito proprio allora di arredare, appendendovi certe curiose tappezzerie del Rinascimento trovate in una soffitta fuori uso di Selby Royal dove stavano ammucchiate. Girando la maniglia della porta gli occhi gli caddero sul suo ritratto dipinto da Basil Hallward. La sorpresa gli fece fare un salto all'indietro; quindi entrò in camera con un'aria alquanto perplessa. Dopo essersi tolto il fiore dall'occhiello sembrò esitare; finalmente tornò indietro, andò verso il ritratto e lo esaminò. Nella debole luce attenuata che riusciva a filtrare attraverso le tende di seta color crema, il volto gli sembrava leggermente cambiato. L'espressione pareva diversa; si sarebbe detto che nella bocca ci fosse una sfumatura di crudeltà. Era indubbiamente una strana cosa.
Si girò, andò alla finestra e tirò su la persiana. Il chiarore dell'alba inondò la stanza e spazzò via le ombre fantastiche, ricacciandole negli angoli oscuri, dove si fermarono rabbrividendo; ma l'espressione strana che aveva osservato nel volto del ritratto sembrava che ci fosse ancora, anzi, che si fosse ulteriormente intensificata. La luce vivida e palpitante del sole gli mostrava intorno alla bocca le linee crudeli, con la stessa chiarezza che se si fosse guardato allo specchio dopo aver commesso qualcosa di tremendo.
Ebbe un sussulto e, preso dalla tavola uno specchio ovale incorniciato di amorini d'avorio, uno dei molti regali di Lord Henry, guardò in fretta dentro le sue lucide profondità. Nessuna linea di quel genere alterava le sue labbra rosse. Che cosa significava?
Si stropicciò gli occhi, si avvicinò al quadro e lo esaminò un'altra volta. Guardando la pittura non vi vide nessun segno di alterazione; eppure non c'era dubbio che l'intera espressione era cambiata. Non era pura immaginazione; era una cosa di una terribile evidenza.
Si lasciò cadere su una sedia e iniziò a riflettere. D'improvviso gli balenò alla mente quello che aveva detto nello studio di Basil Hallward, il giorno in cui il ritratto era stato finito. Sì, lo ricordava perfettamente. Aveva espresso il desiderio pazzesco di poter restare giovane e che invecchiasse il ritratto; che la sua bellezza rimanesse immacolata e la faccia sulla tela portasse il peso delle sue passioni e dei suoi peccati; che le linee della sofferenza e del pensiero solcassero l'immagine dipinta ed egli potesse conservare integra in tutto il suo fiore la grazia delicata dell'adolescenza, della quale aveva acquistato coscienza in quel momento. Il suo voto poteva forse essere stato appagato?
Cose di questo genere erano impossibili; il solo pensarle sembrava mostruoso; eppure il ritratto gli stava di fronte con quella sfumatura di crudeltà nella bocca.
Crudeltà? Era forse stato crudele? La colpa era della ragazza, non sua. L'aveva sognata come una grande artista, le aveva dato il suo amore perché l'aveva creduta grande, e lei lo aveva deluso, era stata superficiale e indegna. Tuttavia, nel ripensarla stesa ai suoi piedi, che singhiozzava come una bambina, lo prese un senso di infinito rammarico. Gli tornò alla mente con quale indifferenza l'aveva guardata. Perché mai era fatto così? Perché mai gli era stata data un'anima simile? Anche lui però aveva sofferto. Durante le tre ore tremende che era durata la rappresentazione aveva vissuto secoli di sofferenza, eternità di torture. La sua vita valeva quanto quella di lei; lei lo aveva quasi distrutto per un momento, anche se lui l'aveva ferita per sempre. E poi le donne sono più adatte degli uomini a sopportare la sofferenza; vivono delle proprie emozioni, pensano soltanto alle proprie emozioni.
Quando prendono un amante lo fanno solo per avere qualcuno con il quale possono avere delle scene: l'aveva detto Lord Henry, e Lord Henry conosceva le donne. Perché inquietarsi a proposito di Sybil Vane? Lei ormai non era più niente per lui.
Ma il ritratto? che dire di questo? Possedeva il segreto della sua vita e raccontava la sua storia. Gli aveva insegnato l'amore per la propria bellezza; ora gli avrebbe forse insegnato l'odio contro la propria anima? Avrebbe mai potuto tornare a guardarlo?
No, era soltanto un'illusione dei suoi sensi sconvolti. L'orribile notte che aveva passato si era lasciata dietro dei fantasmi. Sul suo cervello era caduta improvvisamente quella piccola goccia scarlatta che fa impazzire un uomo. Il ritratto non era cambiato; il solo pensarlo era follia.
Tuttavia questo lo guardava, con la sua bella faccia sciupata e il suo sorriso crudele. Nella luce del sole mattutino i suoi capelli chiari brillavano, gli occhi azzurri incontravano i suoi. Fu preso da un senso d'infinita pietà, non tanto di se stesso, quanto dell'immagine dipinta di se stesso. Questa già si era alterata e si sarebbe alterata ancora. L'oro sarebbe appassito, trasformandosi in grigio; le rose rosse e bianche sarebbero morte.
Per ogni peccato commesso da lui una macchia ne avrebbe sporcato e deturpato la bellezza. Ma egli non avrebbe peccato. Il ritratto, mutato o immutato, avrebbe costituito per lui l'emblema visibile della coscienza. Avrebbe resistito alle tentazioni; non avrebbe più visto Lord Henry, o, almeno, non avrebbe più dato ascolto a quelle teorie sottili e velenose che per la prima volta, nel giardino di Basil Hallward, avevano fatto nascere in lui la passione delle cose impossibili. Sarebbe tornato da Sybil Vane, le avrebbe chiesto perdono, l'avrebbe sposata, avrebbe cercato di tornare ad amarla. Sì, questo era il suo dovere. Lei doveva aver sofferto più di lui. Povera creatura! Era stato crudele ed egoista con lei. Il fascino che lei aveva esercitato sul suo animo sarebbe risorto; sarebbero stati felici insieme e con lei la sua vita sarebbe stata bella e pura.
Si alzò dalla sedia e spiegò un grande paravento davanti al ritratto, rabbrividendo nel guardarlo. - Orribile! - mormorò a se stesso, andando alla finestra e aprendola. Uscì fuori sull'erba e tirò un respiro profondo. L'aria fresca del mattino sembrò dissipare tutte le sue oscure passioni. Pensava soltanto a Sybil, gli tornò una specie di eco indistinta del suo amore e ripeté più volte il nome di lei. Gli uccellini che cantavano nel giardino umido di rugiada sembravano parlare di lei ai fiori.
Capitolo ottavo
Quando si svegliò mezzogiorno era passato da un pezzo. Il suo domestico era entrato più volte in camera, in punta di piedi, per vedere se si muoveva, chiedendosi per quale motivo il suo giovane padrone dormisse così a lungo. Finalmente il suo campanello squillò e Victor entrò pian piano, portando una tazza di tè e un mucchietto di lettere su un piccolo vassoio di Sèvres antico, e tirò le tende di satin oliva bordate di turchino che pendevano davanti alle tre finestre.
- Monsieur ha dormito bene stamani - disse sorridendo.
- Che ore sono, Victor? - chiede Dorian Gray, assonnato.
- L'una e un quarto, Monsieur.
Com'era tardi! Si tirò su a sedere e dopo aver sorseggiato un po' di tè guardò le lettere ad una ad una. Ce n'era una di Lord Henry, portata a mano quella mattina stessa. Esitò un momento, poi la mise da parte e aprì distrattamente le altre. Contenevano la solita collezione di biglietti, di inviti a pranzo o ad esposizioni private, di programmi di concerti di beneficenza e via dicendo, che durante la stagione piovono ogni mattina sui giovanotti del bel mondo. C'era un conto piuttosto grosso, per un servizio da toilette Louis Quinze d'argento cesellato, che non aveva ancora avuto il coraggio di mandare ai suoi tutori, i quali, gente all'antica, non si rendevano conto che viviamo in un'epoca nella quale le cose non necessarie costituiscono le nostre sole necessità; e c'erano molte comunicazioni, scritte in forma molto cortese, di usurai di Jermyn Street che offrivano di anticipare qualunque somma di denaro, in qualunque momento e a un tasso di interesse più che ragionevole.
Dopo una decina di minuti si alzò, indossò una complicata veste da camera di lana del Kashmir ricamata in seta e passò nella stanza da bagno, con il pavimento d'onice. Dopo il lungo sonno l'acqua ghiacciata lo rinfrescò. Sembrava che avesse dimenticato tutto ciò che gli era capitato; ebbe un paio di volte la sensazione vaga di aver preso parte a una strana tragedia, ma la cosa aveva tutta l'irrealtà del sogno.
Dopo essersi vestito passò in biblioteca e si sedette davanti a una leggera colazione alla francese, apparecchiata su un tavolino rotondo vicino alla finestra aperta. Era una giornata incantevole e l'aria calda sembrava impregnata di spezie. Un'ape entrò a volo, ronzando intorno al vaso turchino che gli stava davanti, pieno di rose di un giallo sulfureo. Si sentiva perfettamente felice.
A un tratto l'occhio gli cadde sul paravento che aveva posto davanti al ritratto. Sussultò.
- Troppo freddo per Monsieur? - chiese il servitore, mettendo in tavola una frittata. - Chiudo la finestra?
Dorian scosse il capo. - Non ho freddo - mormorò.
Era vero? Il ritratto era davvero cambiato? Oppure era stata semplicemente la sua immaginazione a fargli vedere un'espressione di malvagità dove c'era invece un'espressione di gioia? Certo, una tela dipinta non poteva alterarsi: era una cosa assurda. Un giorno se ne sarebbe servito per raccontarla come una novella a Basil e farlo sorridere.
Eppure, com'era vivo il ricordo che aveva di tutta la storia!
Prima nella luce tenue del crepuscolo, poi nel chiarore dell'aurora, aveva visto quella sfumatura di crudeltà intorno alle labbra contratte. Ebbe quasi paura che il servitore uscisse dalla stanza; sapeva che appena rimasto solo avrebbe dovuto esaminare il ritratto e aveva terrore della certezza. Quando gli furono portati il caffè e le sigarette e l'uomo si girò per andarsene, provò un desiderio furioso di dirgli di restare; e quando la porta stava chiudendosi dietro di lui lo chiamò. Il domestico si fermò in attesa di ordini.
Dorian lo guardò per un attimo. Disse, con un sospiro: - Victor, non sono in casa per nessuno.
L'uomo si ritirò con un inchino.
Egli allora si alzò da tavola, accese una sigaretta e si lasciò cadere su un divano ampiamente fornito di cuscini collocato di fronte al paravento. Questo era antico, di cuoio dorato spagnolo, pressato e lavorato con un disegno stile Luigi Quattordicesimo piuttosto complicato. Lo esaminò con curiosità e si chiese se avesse mai nascosto prima di allora il segreto di una vita umana.
Doveva spostarlo? e perché non lasciarlo dov'era? a che serviva sapere? Se la cosa era vera, era terribile; e se non era vera, perché preoccuparsene? E se, per un caso o per qualche possibilità ancora più funesta, occhi diversi dai suoi, spiando dietro il paravento, avessero visto quell'orribile cambiamento? Che cosa avrebbe fatto se Basil Hallward fosse venuto e gli avesse chiesto di vedere il suo quadro? Basil l'avrebbe fatto certamente. No; bisognava esaminare la cosa, e subito: tutto era preferibile a quel tremendo stato di incertezza.
Si alzò e chiuse tutte e due le porte; almeno così sarebbe stato solo a contemplare la maschera della sua vergogna. Poi spostò il paravento e vide se stesso, faccia a faccia. Era perfettamente vero: il ritratto si era alterato.
Gli tornò in mente più tardi, e sempre con sua grande meraviglia, che all'inizio si era trovato intento a contemplare il ritratto con un senso di interessamento quasi scientifico. Che si fosse verificato un mutamento simile era cosa incredibile; e tuttavia era un fatto. Esisteva qualche sottile affinità tra gli atomi chimici che sulla tela si erano trasformati in forme e colori e l'anima che era dentro di lui? Era possibile che quelli traducessero in realtà ciò che questa pensava? che rendessero vero ciò che questa sognava? Oppure c'era qualche altra ragione, ancora più terribile? Rabbrividì, si sentì atterrito e, tornato al divano, vi si distese, guardando il ritratto con un orrore frammisto a nausea.
Aveva peraltro la sensazione che questo avesse fatto qualche cosa per lui: gli aveva dato la coscienza dell'ingiustizia, della crudeltà con cui si era comportato con Sybil Vane. Non era troppo tardi per riparare. Sybil poteva ancora essere sua moglie; il suo amore irreale ed egoistico avrebbe ceduto a influenze di tipo più elevato, si sarebbe trasformato in una passione più nobile; e il suo ritratto dipinto da Basil Hallward gli avrebbe fatto da guida nella vita, sarebbe stato per lui quello che per alcuni è la santità, per altri la coscienza e per noi tutti il timore di Dio.
Esistevano dei sedativi per il rimorso, delle droghe capaci di addormentare il senso morale; ma qui c'era un simbolo visibile della degradazione provocata dal peccato, un segno sempre presente della rovina che gli uomini attirano sulla loro anima.
Sonarono le tre, poi le quattro; la mezza fece squillare la sua doppia suoneria; ma Dorian Gray non si muoveva. Provava a raccogliere i fili scarlatti della vita e a intesserli in un disegno; a trovare la strada nel labirinto sanguigno di passione nel quale stava vagando. Non sapeva né cosa fare né cosa pensare.
Finalmente andò alla scrivania e scrisse una lettera appassionata alla fanciulla che aveva amato, implorandone il perdono e accusando se stesso di follia. Coprì una pagina dopo l'altra di parole ardenti di pentimento e di ancora più ardenti parole di dolore. Rimproverare noi stessi è un lusso. Quando ci biasimiamo da soli abbiamo la sensazione che nessun altro abbia il diritto di biasimarci. Non è il sacerdote ad assolverci, ma la confessione.
Quando ebbe finito la lettera Dorian si sentì perdonato.
All'improvviso bussarono alla porta e fuori si sentì la voce di Lord Henry:
- Caro figliolo, bisogna che ti veda. Lasciami entrare subito. Non posso tollerare che tu ti rinchiuda in questo modo.
In un primo tempo Dorian non rispose, anzi rimase perfettamente immobile. I colpi alla porta continuavano, si facevano più forti.
In fondo, era meglio far entrare Lord Henry e spiegargli la vita nuova che si era proposto di condurre, litigare con lui se il litigio diventava necessario, rompere con lui se la rottura era inevitabile. Balzò in piedi, tirò frettolosamente il paravento davanti al ritratto e aprì.
- Dorian - disse Lord Henry entrando, - sono profondamente addolorato di tutto questo; ma tu non devi pensarci troppo.
- Parli di Sybil Vane? - chiese il giovane.
- Sì, naturalmente - rispose Lord Henry, sedendosi e sfilandosi lentamente i guanti gialli. - E' terribile, da un certo punto di vista, ma non è colpa tua. Dimmi: sei andato a vederla in palcoscenico dopo la rappresentazione?
- Sì.
- Ne ero sicuro. Le hai fatto una scenata?
- Sono stato brutale, Harry, assolutamente brutale; ma ora tutto è a posto. Non rimpiango niente di quello che è accaduto; è servito a farmi conoscere meglio me stesso.
- Ah, Dorian, come sono contento che tu la prenda in questo modo!
Temevo di trovarti affogato nei rimorsi e nell'atto di strapparti quei bei capelli ricci.
- Sono passato attraverso tutto questo - disse Dorian, facendo oscillare la testa con un sorriso. - Ora sono perfettamente felice. Per cominciare, ora so che cosa sia la coscienza. Non è quello che mi avevi detto; è la cosa più divina che sia in noi.
Non fartene più beffe, Harry, almeno davanti a me. Io voglio essere buono; non posso sopportare l'idea che la mia anima sia ripugnante.
- Dal punto di vista artistico, questo costituisce un magnifico fondamento per l'etica, Dorian, e me ne congratulo con te. Ma come pensi di cominciare?
- Sposando Sybil Vane.
- Sposando Sybil Vane? - gridò Lord Henry, balzando in piedi e guardandolo, stupito e perplesso. - Ma, caro Dorian. . .
- Sì, Harry, so che cosa stai per dire: qualche cosa di terribile sul matrimonio. Non dirla. Non dirmi mai più cose di quel tipo.
Due giorni fa ho chiesto a Sybil di sposarmi e non mancherò alla mia parola. Sybil sarà mia moglie.
- Tua moglie? Dorian... ma non hai ricevuto la mia lettera? L'ho scritta stamattina e te l'ho fatta portare dal mio servitore.
- La tua lettera? oh, sì, mi ricordo. Non l'ho ancora letta, Harry. Temevo che ci fosse qualche cosa che non mi sarebbe piaciuta. Tu, coi tuoi epigrammi, tagli la vita a pezzetti.
- Allora non sai niente?
- Che cosa vuoi dire?
Lord Henry attraversò la stanza, si sedette vicino a Dorian Gray, gli prese le mani e le tenne strette tra le sue. Dorian disse, - la mia lettera - non ti spaventare - era per dirti che Sybil Vane è morta.
Un grido di strazio uscì dalle labbra del giovane, che balzò in piedi, strappando le mani dalla stretta di Lord Henry. - Morta!
Sybil è morta! Non è vero. E' un'orrenda menzogna. Come osi dire una simile cosa?
- E' verissimo, Dorian - disse Lord Henry, con voce grave. - E' su tutti i giornali di stamani. Ti avevo scritto per pregarti di non vedere nessun altro prima di me. Naturalmente ci dovrà essere un'inchiesta e tu non devi esservi coinvolto. A Parigi una storia di questo genere mette alla moda un uomo, ma a Londra la gente è piena di preconcetti. Qui non si deve fare il proprio "début" con uno scandalo; è una cosa da tener riservata per rendere interessante la propria vecchiaia. Spero che al teatro non sappiano il tuo nome; se non lo sanno siamo a posto. C'è qualcuno che ti abbia visto andare nel suo camerino? Questo è un punto importante.
Dorian non rispose per qualche momento; era paralizzato dall'orrore. Finalmente balbettò, con voce soffocata:
- Harry, hai detto un'inchiesta? Che hai voluto dire? Forse Sybil...? Oh, Harry, questo non posso sopportarlo! Su, sbrigati, dimmi subito tutto.
- Sono sicurissimo che non si tratta di una disgrazia, ma è così che bisogna presentare la cosa al pubblico. A quanto pare, verso mezzanotte e mezzo, quando stava andandosene dal teatro con la madre, disse che aveva dimenticato qualche cosa di sopra. La aspettarono per un po', ma lei non tornò giù. Finirono col trovarla morta, distesa sul pavimento del camerino. Aveva ingoiato qualche cosa per errore, una cosa terribile che adoperano nei teatri; non so che cosa fosse, ma deve contenere dell'acido prussico oppure della biacca. Credo che ci sia dell'acido prussico, perché sembra che la morte sia stata istantanea.
- E' terribile, Harry, è terribile! - gridò il ragazzo.
- Sì, certamente è una vera tragedia; tu però non devi esserci coinvolto. Ho visto sullo Standard che aveva diciassette anni; io l'avrei creduta anche più giovane; aveva l'aria di una bambina e sapeva recitare così poco. Dorian, questa storia non ti deve sconvolgere i nervi. Vieni a pranzo con me, e dopo faremo una capatina all'Opera; canta la Patti e tutti ci saranno. Puoi venire nel palco di mia sorella; ci saranno delle belle donne con lei.
- Dunque io ho assassinato Sybil Vane - disse Dorian Gray, quasi parlando a se stesso; - l'ho assassinata esattamente come se l'avessi scannata con un coltello. Ma le rose non sono meno belle per questo, gli uccelli non cantano meno felici nel mio giardino e stasera devo pranzare con te, poi andare all'Opera e poi, credo, cenare in qualche posto. Che cosa straordinariamente drammatica è la vita! Se avessi letto tutto questo in un libro, credo, Harry, che ci avrei pianto. Ora che è veramente accaduto, e accaduto a me, la cosa mi pare troppo meravigliosa per poterne piangere.
Questa è la prima lettera d'amore appassionata che io abbia scritto in vita mia; è strano che la mia prima lettera d'amore e di passione abbia dovuto essere indirizzata a una fanciulla morta.
Mi chiedo se quegli esseri bianchi e taciturni che noi chiamiamo morti possono sentire qualche cosa. Sybil può sentire, sapere, ascoltare? Oh, Harry, come l'amavo, una volta! Ora mi sembra che siano passati degli anni. Era tutto per me, e poi arrivò quella tremenda serata; fu davvero solo ieri sera? quando recitò così male, quando mi sembrò che il cuore mi si spezzasse. Lei mi spiegò tutto; era una cosa patetica, ma io non fui affatto commosso. La credetti superficiale. All'improvviso capitò una cosa che mi spaventò; non posso dirti che cosa, ma è terribile. Dissi che sarei tornato da lei, sentii che avevo agito male, e ora lei è morta. Mio Dio, mio Dio! che devo fare, Harry? Tu non sai in quale pericolo mi trovo e non c'è niente che mi possa guidare. Lei avrebbe potuto farlo. Non aveva il diritto di uccidersi: è stata egoista.
- Mio caro Dorian - rispose Lord Henry, prendendo una sigaretta dall'astuccio e tirando fuori una scatola da fiammiferi laminata d'oro, - c'è un solo modo con il quale una donna può trasformare un uomo, e cioè annoiandolo così totalmente da fargli perdere qualunque possibile interesse alla vita. Se tu avessi sposato quella ragazza saresti stato molto infelice. Naturalmente l'avresti trattata bene; è sempre facile essere gentili verso le persone di cui non c'importa niente. Ma lei si sarebbe accorta ben presto della tua assoluta indifferenza per lei, e quando una donna fa questa scoperta riguardo al proprio marito o diventa terribilmente goffa oppure si mette a portare dei cappellini elegantissimi che il marito di qualche altra donna deve pagare.
Tutto questo per non parlare dell'errore sociale, che sarebbe stato umiliante e che io, naturalmente, non avrei consentito; ma ti assicuro che in ogni caso tutta la storia si sarebbe risolta in un fallimento completo.
- Ammettiamolo pure - mormorò il giovine, passeggiando su e giù per la stanza, terribilmente pallido; - ma io credevo che fosse mio dovere. Non è colpa mia se questa terribile tragedia mi ha impedito di fare quello che era giusto che facessi. Mi ricordo che tu hai detto una volta che c'è una fatalità che perseguita i buoni proponimenti, e è che questi arrivano troppo tardi. Così, senza dubbio, è capitato ai miei.
- I buoni proponimenti sono vani tentativi di intervenire nelle leggi scientifiche. La loro origine è pura vanità e il loro risultato è assolutamente zero. Ogni tanto ci procurano il lusso di qualcuna di quelle sterili emozioni che hanno un certo fascino per gli esseri deboli. Ecco tutto quello che se ne può dire. Sono come assegni che gli uomini emettono su una banca presso la quale non hanno un conto corrente.
- Harry - esclamò Dorian Gray venendo a sedersi accanto a lui, perché non riesco a sentire questa tragedia così profondamente come vorrei? Non credo di essere senza cuore; tu lo credi?
- Hai fatto troppe sciocchezze durante gli ultimi quindici giorni, Dorian, per avere il diritto di darti questo nome rispose Lord Henry col suo sorriso dolce e melanconico.
Il giovine si imbronciò.
- Questa spiegazione non mi piace, Harry, ma sono felice che tu non mi creda senza cuore. Non sono senza cuore, so di non esserlo; però devo ammettere che questa storia che è accaduta non mi colpisce come dovrebbe. Mi sembra semplicemente lo scioglimento di un meraviglioso dramma; c'è in essa tutta la bellezza terribile di una tragedia greca, una tragedia nella quale io ho avuto gran parte, ma che non mi ha ferito.
- La questione è interessante - disse Lord Henry, che provava un piacere squisito nel giocare con l'egoismo inconscio del ragazzo; - la questione è estremamente interessante. Penso che la vera spiegazione sia questa. Succede spesso che le vere tragedie della vita accadano in modo tanto poco artistico che la loro violenza cruda, la loro assoluta incoerenza, la loro assurda mancanza di significato, la loro totale assenza di stile ci urtano. L'effetto che producono su di noi è lo stesso che produce la volgarità; ci danno l'impressione della pura forza bruta e noi ci ribelliamo. A volte però nelle nostre vite avviene una tragedia che ha in sé elementi artistici di bellezza. Se questi elementi esistono per davvero, tutta la storia risveglia in noi il senso dell'effetto drammatico. Ci accorgiamo di colpo di non essere più attori, ma spettatori del dramma; o, per dire meglio, l'una e l'altra cosa.
Stiamo a guardare noi stessi e la meraviglia dello spettacolo basta ad entusiasmarci. In questo caso, che cosa è veramente successo? Una persona si è uccisa per amor tuo. Vorrei aver provato una simile esperienza; mi avrebbe reso innamorato dell'amore per tutto il resto dei miei giorni. Le persone che mi hanno adorato (non moltissime, ma qualcuna ce n'è stata) hanno sempre insistito nel voler continuare a vivere molto tempo dopo che io avevo smesso di voler bene a loro o loro di voler bene a me. Sono diventate grasse e noiose e quando le incontro si lanciano subito nei ricordi. Com'è tremenda la memoria delle donne! Che cosa spaventosa, e quale completo ristagno intellettuale rivela! Si deve assorbire il colore della vita; ma non si dovrebbe mai ricordarne i dettagli, che sono sempre volgari.
- Dovrò seminare dei papaveri nel mio giardino - sospirò Dorian.
- Non è necessario - replicò il suo compagno. - La vita porta sempre dei papaveri in mano. Certo, ogni tanto le cose vanno per le lunghe. Una volta, per tutta una stagione io non portai che violette, come forma di lutto artistico per un romanzo che non voleva morire. Però finalmente morì e non ricordo più che cosa l'abbia ucciso: credo che sia stata la proposta di lei di sacrificare a me il mondo intero. Quello è sempre un momento tremendo, che ti riempie del terrore dell'eternità. Orbene, mi vuoi credere? La settimana scorsa, in casa di Lady Hampshire, mi trovai seduto a pranzo vicino alla signora in questione e lei si ostinò a ricapitolare tutta la storia, riesumando il passato e scrutando l'avvenire. Io avevo sepolto il mio romanzo in una aiuola di asfodeli: lei lo riportò alla luce e mi assicurò che avevo rovinato la sua vita. Sono costretto a dichiarare che la cosa non suscitò in me la minima ansietà, dato che la vedevo mangiare enormemente a pranzo; ma che mancanza di gusto dimostrò!
Il passato non ha che un solo fascino, quello di essere passato; ma le donne non sanno mai quando il sipario è calato: vorrebbero sempre che ci fosse un sesto atto e non appena l'interesse del dramma è completamente esaurito propongono che continui. Se le si lasciasse fare, ogni commedia avrebbe un finale tragico e ogni tragedia finirebbe in farsa. Sono deliziosamente artificiali, ma non hanno il senso dell'arte. Tu sei più fortunato di me. Ti assicuro, Dorian, che non una delle donne che ho conosciuto avrebbe fatto per me quello che Sybil Vane ha fatto per te. Le donne comuni si consolano sempre. Alcune ci riescono adottando dei colori sentimentali. Diffida sempre di una donna che si veste di viola, qualunque sia la sua età, oppure di una donna che a trentacinque anni ama i nastri rosa: significa sempre che hanno una storia. Ce ne sono altre che trovano un grande conforto nello scoprire improvvisamente le buone qualità dei loro mariti e che ti sventolano in faccia la loro felicità coniugale come se fosse il più affascinante dei peccati. Altre si consolano con la religione.
Una donna mi diceva una volta che i misteri di questa hanno tutto l'incanto di un flirt, e io lo capisco benissimo. E poi, non c'è niente che ci renda più vanitosi che il sentirci chiamare peccatori; la coscienza ci rende tutti quanti egoisti. Davvero, le consolazioni che le donne trovano nella vita moderna sono infinite; anzi, non ho citato la più importante di tutte.
- E sarebbe, Harry? - disse distrattamente il ragazzo.
- Oh, la consolazione più ovvia: portare via l'ammiratore a un'altra quando hanno perso il proprio. Questa è una cosa che nella buona società imbianca sempre una donna. Veramente, Dorian, come doveva essere diversa Sybil Vane da tutte le donne che si incontrano! Per me c'è qualcosa di realmente bello nella sua morte. Mi fa piacere vivere in un secolo nel quale accadono miracoli come questo. Ci fanno credere alla realtà delle cose sulle quali tutti scherziamo: romanzi, passione, amore.
- Tu dimentichi che io sono stato terribilmente crudele con lei.
- Temo che le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà perfetta, più di qualsiasi altra cosa. I loro istinti sono mirabilmente primitivi. Noi le abbiamo emancipate, ma loro sono rimaste, come prima, delle schiave in cerca di un padrone. Amano essere dominate. Sono sicuro che devi essere stato splendido. Non ti ho mai visto veramente e assolutamente in collera, però posso immaginarmi quanto dovevi essere delizioso a guardarti. Dopo tutto, l'altro giorno mi dicesti una cosa che sul momento mi sembrò del tutto immaginaria, ma che ora mi accorgo che era assolutamente vera, e che è la chiave di tutto.
- Che cos'era, Henry?
- Mi dicesti che Sybil Vane rappresentava per te tutte le eroine romantiche; che una sera era Desdemona e l'altra Ofelia; che, se moriva nelle vesti di Giulietta risuscitava in quelle di Imogene.
- Ora non risusciterà più - mormorò il ragazzo, nascondendo il viso tra le mani.
- No, non risusciterà più. Ha recitato la sua ultima parte. Ma tu devi pensare a quella morte solitaria, in quello spogliatoio volgare, come a uno strano e sinistro frammento di qualche tragedia del periodo giacobita, una scena meravigliosa di Webster o di Ford o di Cyril Tourneur. Quella fanciulla non è mai veramente esistita e quindi non è mai veramente morta. Per te almeno, fu sempre un sogno, un fantasma che aleggiava nei drammi di Shakespeare e li abbelliva con la sua presenza, un flauto attraverso il quale la musica di Shakespeare suonava più ricca, più allegra. Quando venne in contatto con la vita la distrusse e questa distrusse lei; e così è scomparsa. Puoi portare il lutto per Ofelia, se così ti piace, cospargerti il capo di cenere perché Cordelia è stata strangolata, imprecare al destino perché la figlia di Brabanzio è morta; ma non sprecare le tue lacrime per Sybil Vane. Lei era meno reale di loro.
Ci fu un silenzio. Il crepuscolo oscurava la stanza. Dal giardino le ombre entravano senza rumore, coi piedi d'argento. I colori, stanchi, si dileguavano dalle cose.
Dopo un certo tempo Dorian Gray alzò gli occhi.
- Harry - mormorò, con qualche cosa che assomigliava a un sospiro di sollievo, - tu hai spiegato me a me stesso. Tutto quello che hai detto io lo sentivo; ma, in certo qual modo, ne avevo paura e non riuscivo a esprimerlo a me stesso. Come mi conosci bene! Ma non parliamo più di quanto è successo. E' stata un'esperienza meravigliosa, e basta. Mi chiedo se la vita mi riserba altre cose altrettanto meravigliose.
- La vita ti riserba tutto, Dorian. Non c'è niente che tu non possa fare, con la tua bellezza straordinaria.
- Ma se diventerò disfatto, vecchio, rugoso, allora che succederà?
- Ah, allora - disse Lord Henry, alzandosi per andarsene, allora dovrai lottare per le tue vittorie; ora come ora, vengono a portartele. No, bisogna che tu resti bello. Viviamo in un'età che legge troppo per essere saggia e che pensa troppo per essere bella. Non possiamo fare a meno di te. E ora faresti meglio a vestirti e a farti portare al circolo: si è già fatto un po' tardi.
- Credo che ti raggiungerò all'Opera, Harry. Sono troppo stanco per mangiare. Qual è il numero del palco di tua sorella?
- 27, credo. E' al primo ordine e sulla porta c'è il nome. Mi dispiace che tu non voglia venire a pranzo.
- Non me la sento - disse Dorian con aria assente. - Però ti sono infinitamente grato per quello che mi hai detto. Sei certamente il mio migliore amico; nessuno mi ha mai capito come te.
- Siamo appena all'inizio della nostra amicizia, Dorian rispose Lord Henry, stringendogli le mani. - Addio; spero di vederti prima delle nove e mezzo. Ricordati che canta la Patti.
Quando lui si richiuse dietro la porta, Dorian Gray suonò il campanello e pochi minuti dopo Victor comparve con le lampade e tirò giù le persiane.
Era impaziente che se ne andasse, e invece sembrava che gli servisse un tempo infinito per fare quel che doveva fare.
Appena fu andato via, Dorian corse al paravento e lo tirò indietro. No, nel ritratto non c'erano altri cambiamenti. Aveva ricevuto la notizia della morte di Sybil Vane prima che la conoscesse lui stesso; aveva coscienza degli eventi della vita non appena si verificavano. Senza dubbio, quella crudeltà perversa che sciupava la bella linea della bocca doveva essere apparsa nel momento stesso in cui la fanciulla aveva bevuto il veleno, qualunque fosse. Oppure i risultati lo lasciavano indifferente? Si limitava forse a prendere cognizione di ciò che accadeva all'interno dell'anima? Questo si chiedeva, sperando di poter vedere un giorno il cambiamento verificarsi sotto i suoi occhi e rabbrividendo a questa speranza.
Povera Sybil! Quale romanzo era stato il suo! Sul palcoscenico aveva rappresentato più volte la morte; poi la morte in persona l'aveva toccata e l'aveva portata via con sé. Come aveva interpretato quella tremenda scena finale? L'aveva maledetto, morendo? No; era morta per amor suo e ormai per lui l'amore sarebbe sempre stato un sacramento. Lei aveva espiato tutto col sacrificio della vita; lui non avrebbe pensato mai più a quello che gli aveva fatto subire, a teatro, quell'orribile sera. Se avesse pensato a lei, l'avrebbe pensata come una meravigliosa figura di tragedia, mandata sulla scena del mondo per mostrare la realtà suprema dell'Amore. Meravigliosa figura tragica? Pensando al suo aspetto infantile, alle sue maniere leggiadre e capricciose, alla sua timida e tremula grazia gli vennero le lacrime agli occhi. Spazzò via in fretta tutto questo e tornò a guardare il ritratto.
Ebbe la sensazione che il momento di scegliere fosse veramente venuto: o forse la scelta c'era già stata? Sì, la vita aveva deciso per lui; la vita e la sua infinita curiosità della vita.
Eterna giovinezza, passione senza limiti, piaceri raffinati e segreti, gioie sfrenate e amori ancora più sfrenati: avrebbe avuto tutto questo. Il ritratto avrebbe portato il peso della sua vergogna, ecco tutto.
Al pensiero della profanazione che attendeva quel bel volto effigiato sulla tela lo prese un senso di pena. Una volta, imitando fanciullescamente Narciso, aveva baciato o finto di baciare quelle labbra dipinte che ora gli sorridevano con tanta crudeltà. Si era seduto, una mattina dopo l'altra, davanti al ritratto ammirandone la bellezza, così che quasi gli era sembrato di esserne innamorato. Ora si sarebbe alterato a ogni capriccio al quale lui avesse ceduto? Era destinato a diventare una cosa mostruosa e ripugnante, da nascondere in una stanza chiusa a chiave, da escludere da quella luce del sole che tante volte col suo tocco aveva fatto sembrare d'oro splendente l'ondulata meraviglia dei capelli? Peccato, peccato!
Per un attimo ebbe l'idea di pregare perché finisse quell'orribile simpatia esistente tra lui stesso e il ritratto. Questo era cambiato in risposta a una preghiera; forse avrebbe potuto restare inalterato in risposta a un'altra preghiera. Ma chi, conoscendo la vita, avrebbe rinunciato alla possibilità di restare giovane per sempre, per quanto fantastica potesse essere una tale possibilità e per quanto fatali potessero essere le conseguenze che comportava? E poi, la cosa era veramente sotto il suo controllo?
Era certo che fosse stata quella preghiera a produrre la sostituzione? Non poteva esistere per tutto questo qualche curiosa ragione scientifica? Il pensiero poteva esercitare un'influenza su un organismo vivente; perché non avrebbe potuto esercitarla su cose morte o inorganiche? O magari, senza nessun pensiero o desiderio cosciente, le cose estranee a noi non potevano vibrare all'unisono con i nostri stati d'animo e con le nostre passioni e l'atomo chiamare l'atomo, nell'amore segreto di qualche strana affinità? Ma poco importava il motivo. Egli non avrebbe mai più tentato con le sue preghiere un Potere terribile. Se il ritratto si alterava, ebbene, si alterasse pure; non c'era niente da fare.
Perché indagare più a fondo?
Anzi, ci sarebbe stato uno strano piacere nel guardarlo. Egli sarebbe stato in grado di seguire la propria mente nei posti più segreti. Quel ritratto sarebbe stato per lui il più magico degli specchi; come gli aveva dato la rivelazione del suo corpo, così gli avrebbe rivelato la sua anima. E quando l'inverno vi sarebbe calato sopra, egli sarebbe rimasto nel punto dove la primavera freme alla vigilia dell'estate. Quando il sangue si sarebbe ritirato dal viso del ritratto, lasciandosi dietro una pallida maschera di gesso dagli occhi plumbei, egli avrebbe conservato lo splendore dell'adolescenza. I fiori della sua bellezza non sarebbero mai appassiti. Come gli Dei della Grecia, sarebbe rimasto forte, agile, giocondo. Che importanza aveva quello che sarebbe accaduto all'immagine dipinta sulla tela? Egli sarebbe rimasto immune, e questo era tutto.
Risistemò il paravento al suo posto davanti al ritratto, con un sorriso, e passò in camera da letto dove già il domestico lo aspettava. Un'ora dopo era all'Opera e Lord Henry si chinava sulla sua poltrona.
Capitolo nono
La mattina dopo, mentre stava facendo colazione, venne introdotto nella camera Basil Hallward.
- Sono felice di averti trovato, Dorian - disse questi con tono grave. - Ero venuto ieri sera, ma mi dissero che eri all'Opera.
Naturalmente sapevo che era impossibile, ma vorrei che tu avessi lasciato detto dov'eri andato veramente. Passai una serata tremenda; avevo quasi paura che a una tragedia potesse seguirne un'altra. Penso che appena ricevesti la notizia avresti potuto mandarmi a chiamare per telegrafo. Io la lessi per puro caso in un'edizione serale del "Globe" che mi capitò in mano al circolo; mi precipitai qui e mi dispiacque moltissimo di non trovarti. Non posso dirti fino a qual punto questa storia mi abbia costernato.
So quanto devi soffrire. Ma dove sei andato? Sei forse andato a trovare sua madre? Per un momento mi venne l'idea di venire a cercarti là; il giornale dava l'indirizzo, dalle parti di Euston Road, non è vero? Poi ebbi paura di essere un intruso, in presenza di uno strazio che non era in mio potere di alleviare. Povera donna, in che stato deve essere! Ed era l'unica figlia! Che cosa ha detto di questa tragedia?
- Caro Basil, e che ne so io? - mormorò Dorian Gray, con un'aria terribilmente annoiata, sorseggiando un vino di un pallido giallo da un delicato bicchiere veneziano che sembrava una bolla di schiuma imperlata d'oro. - Io ero all'Opera; dovevi venire lì. Ho conosciuto Lady Gwendolen, la sorella di Harry; eravamo nel suo palco. E' una donna incantevole, e la Patti ha cantato divinamente. Non parliamo di cose orribili. Se di una cosa non si parla, non è mai esistita; è soltanto l'espressione, come dice Harry, che conferisce realtà alle cose. Incidentalmente ti dirò che non era l'unica figlia di quella donna; c'è anche un figlio.
Credo che sia un simpatico ragazzo, ma non fa l'attore; fa il marinaio, o qualcosa del genere. E ora parlami di te e di quello che stai dipingendo.
- Sei andato all'Opera? - disse Hallward, parlando molto adagio, con una voce in cui vibrava intensamente una nota di sofferenza.- Sei andato all'Opera, mentre Sybil Vane giaceva, morta, nel suo miserabile alloggio? Come puoi parlarmi di altre donne incantevoli e della Patti che canta divinamente, prima ancora che la donna che amavi abbia trovato pace nella tomba? Non sai quali orrori si preparano per quel suo fragile corpo bianco!
- Taci, Basil! Non lo voglio sentire - gridò Dorian, scattando in piedi. - Non dirmi queste cose. Quello che è stato è stato; il passato è passato.
- Ieri, lo chiami passato?
- Che importa quanto tempo sia effettivamente trascorso? Solo gli esseri superficiali hanno bisogno di anni per liberarsi di un'emozione. Un uomo che sia padrone di se stesso può mettere fine a un dolore con la stessa facilità con cui può inventare un piacere. Io non intendo essere alla mercé delle mie emozioni; voglio servirmene, goderle e dominarle.
- Dorian, che cose orribili! C'è qualche cosa che ti ha interamente cambiato. Esteriormente sei sempre lo stesso ragazzo meraviglioso che veniva ogni giorno nel mio studio a posare per il suo ritratto. Allora però eri semplice, naturale, affettuoso; eri la creatura più intatta che esistesse al mondo. Adesso non so che cosa ti abbia preso; parli come se in te non esistesse il cuore, non esistesse la compassione. E' tutta l'influenza di Harry, me ne accorgo.
Il giovine arrossì. Andò alla finestra e guardò per qualche minuto il giardino verde, scintillante sotto la sferza del sole. Disse finalmente:
- Basil, io devo molto ad Harry, più di quanto debba a te. Tu mi hai insegnato soltanto la vanità.
- Ebbene, ora ne sono punito, Dorian, o sarò punito un giorno o l'altro.
- Non so che cosa tu voglia dire, Basil - esclamò lui, girandosi.
- Non so che cosa tu voglia da me. Che vuoi?
- Voglio il Dorian Gray che ho dipinto - disse mestamente l'artista.
- Basil, - disse il giovine, avvicinandosi a lui e mettendogli una mano sulla spalla, - arrivi troppo tardi. Ieri, quando seppi il suicidio di Sybil Vane...
- Suicidio! gran Dio! non c'è nessun dubbio in proposito? gridò Hallward, guardandolo con un'espressione di orrore.
- Caro Basil, non crederai certo che sia stato un banale incidente? Naturalmente si è uccisa.
Il più anziano dei due uomini si prese il viso tra le mani, mormorando: - che orrore! - mentre un brivido lo scoteva tutto.
- No - disse Dorian Gray, - non c'è niente di tremendo in questo:
è una delle grandi tragedie romantiche del nostro tempo. Di regola la vita degli attori è una vita infima; sono buoni mariti, o mogli fedeli, o qualche altra cosa noiosa. Capisci quello che voglio dire: virtù piccolo borghese e roba di questo genere. Ma Sybil era diversa. Ha vissuto la sua più bella tragedia. Era sempre stata un'eroina. L'ultima sera che recitò, la sera che tu la vedesti, recitò male perché aveva conosciuto la realtà dell'amore; quando ne conobbe l'irrealtà morì come avrebbe potuto morire Giulietta e rientrò così nella sfera dell'arte. C'è in lei qualcosa della martire; la sua morte ha tutta la patetica inutilità, tutta la bellezza sprecata del martirio. Ma, come ti dicevo, non devi pensare che io non abbia sofferto. Se tu fossi venuto ieri, in un certo momento, verso le cinque e mezzo, diciamo, o le sei e un quarto, mi avresti trovato in lacrime; neppure Harry, che venne (anzi fu lui a darmi la notizia), aveva un'idea di quello che stavo attraversando. Soffrivo immensamente; ma poi è passato. Io non posso ripetere un'emozione; nessuno può farlo, tranne i sentimentali. Basil, sei terribilmente ingiusto. Sei venuto qui per consolarmi, cosa che è molto gentile; mi trovi consolato, e questo ti rende furibondo. Strano modo di dimostrarmi la tua simpatia! Mi fai ripensare a una storia che mi raccontò Harry, di un certo filantropo che passò vent'anni della sua vita a lottare affinché venisse riparato un abuso o fosse modificata una certa legge ingiusta, non so più esattamente quale delle due cose.
Finalmente ci riuscì e la delusione che provò fu insuperabile. Non aveva più niente da fare, moriva quasi dalla noia e diventò un misantropo indurito. E poi, mio caro Basil, se vuoi veramente consolarmi, insegnami piuttosto a dimenticare l'accaduto oppure a vederlo dal giusto punto di vista artistico. Non è stato il Gautier che ha scritto della "consolation des arts"? Mi ricordo che un giorno nel tuo studio mi capitò in mano un volumetto rilegato in pergamena e gli occhi mi caddero su questa frase deliziosa. Orbene, io non sono come quel giovane di cui mi raccontasti quella volta che andammo insieme a Marlow, che era solito dire che il satin giallo può servire di consolazione a tutte le miserie dell'esistenza. Mi piacciono le belle cose che si possono toccare e maneggiare; dai broccati antichi, dai bronzi verdi, dalle lacche, dagli avori intagliati, da un ambiente raffinato, dal lusso, dalla pompa si può ricavare molto; ma per me vale molto di più il temperamento artistico che tutte quelle cose creano o, quanto meno, rivelano. Diventare spettatore della propria esistenza, come dice Harry, significa sfuggire alle sofferenze dell'esistenza. So che sentirmi parlare così ti sorprende; tu non ti rendi conto del mio sviluppo. Quando mi hai conosciuto ero uno scolaretto; ora sono un uomo, con passioni, pensieri, idee interamente nuovi. Sono diverso, ma per questo non devi volermi meno bene; sono cambiato, ma tu devi restare mio amico. Naturalmente voglio molto bene a Harry; ma so che tu sei migliore di lui: non più forte, perché hai troppa paura della vita, ma migliore; e noi due siamo stati tanto felici insieme!
Basil, non mi lasciare e non litigare con me. Io sono quello che sono, e non c'è altro da dire.
Il pittore era stranamente commosso. Quel ragazzo gli era infinitamente caro e la sua personalità aveva rappresentato una svolta decisiva della sua arte. L'idea di fargli altri rimproveri gli sembrò insopportabile; dopo tutto, la sua indifferenza non era probabilmente che uno stato d'animo del tutto transitorio. C'era tanto di buono, tanto di nobile in lui.
- Va bene, Dorian - disse alla fine, con un sorriso melanconico,- da oggi in poi non ti parlerò più di questo orribile fatto. Spero solo che il tuo nome non venga fatto in relazione ad esso.
L'inchiesta ci sarà questo pomeriggio. Sei stato convocato?
Dorian scrollò la testa e la menzione della parola "inchiesta" fece passare sul suo viso un'espressione di fastidio. Cose di questo genere erano troppo grossolane, troppo volgari.
- Non sanno il mio nome - rispose.
- Lei sì, però.
- Soltanto il nome di battesimo, e quello sono sicuro che non l'ha detto a nessuno. Una volta mi disse che tutti erano molto curiosi di sapere chi ero e che lei diceva invariabilmente che mi chiamavo Principe Azzurro: una cosa molto carina. Basil, devi farmi un disegno di Sybil; mi piacerebbe avere di lei qualcosa di più del ricordo di qualche bacio e di qualche parolina patetica.
- Cercherò di fare qualcosa per farti piacere, Dorian; ma tu devi tornare a posare per me. Senza di te non posso andare avanti.
Egli trasalì ed esclamò:
- Non posso più posare per te, Basil. E' impossibile!
Il pittore lo fissò. - Che sciocchezze, mio caro! - esclamò. Vuoi dire forse che il ritratto che ti ho fatto non ti piace? Ma dov'è?
Perché ci hai messo un paravento davanti? Lasciamelo guardare; è la cosa migliore che io abbia mai fatto. Leva via quel paravento, Dorian; è una vergogna che il tuo servitore nasconda la mia opera in quel modo. Appena sono entrato ho avuto subito la sensazione che la stanza avesse cambiato aspetto.
- Il mio servitore non ne ha colpa, Basil. Credi forse che gli permetta di sistemare per me la mia stanza? A volte mette a posto i fiori, e basta. No, sono stato io. La luce sul ritratto era troppo forte.
- Troppo forte! No di certo, amico mio. La collocazione è ammirevole. Fammelo vedere. - Hallward si diresse verso l'angolo della stanza.
Un grido di terrore proruppe dalle labbra di Dorian, che si lanciò a mettersi in mezzo tra il pittore e il paravento.
- Basil -disse, pallidissimo, - non devi vederlo. Non voglio.
- Non devo vedere la mia opera! non dici sul serio. E perché non dovrei vederla? - esclamò ridendo Hallward.
- Basil, sul mio onore, se cerchi di vederla non ti rivolgerò più la parola. Dico sul serio, nel modo più assoluto. Non ti dò spiegazioni e tu non devi chiederne; ma ricordati che se tocchi questo paravento fra te e me tutto è finito.
Hallward sembrava fulminato e guardava Dorian con il più profondo stupore. Prima di allora non lo aveva mai visto così. Era addirittura livido di rabbia, aveva le mani contratte, le sue pupille erano come dischi di fuoco azzurro e tremava dalla testa ai piedi.
- Dorian!
- Non mi parlare!
- Ma che è successo? Naturalmente, se non vuoi non lo guarderò disse piuttosto freddamente e si avviò verso la finestra. - Però mi sembra davvero abbastanza assurdo che io non debba vedere il mio quadro, tanto più che in autunno lo esporrò a Parigi.
Probabilmente bisognerà che prima ci dia un'altra mano di vernice, e dunque un giorno dovrò pur vederlo. E allora, perché oggi no?
- Esporlo? Lo vuoi esporre? - esclamò Dorian Gray che si sentiva invadere da uno strano senso di terrore. Il suo segreto stava dunque per essere mostrato al mondo? La gente avrebbe contemplato sbigottita il mistero della sua vita? Impossibile! Si doveva fare subito qualche cosa; ma che cosa?
- Sì. Non credo che avrai nessuna difficoltà. George Petit vuol raccogliere tutti i miei quadri migliori per un'esposizione individuale nella Rue de Sèze, che si apre la prima settimana di ottobre. Il ritratto non starà via più di un mese e penso che per quel tempo potrai farne a meno; tanto, sarai di sicuro fuori città, e, del resto, se lo tieni sempre dietro un paravento vuol dire che non ci tieni eccessivamente.
Dorian Gray si passò la mano sulla fronte imperlata di stille di sudore. Aveva la sensazione di essere sull'orlo di un pericolo spaventoso. Gridò:
- Un mese fa mi dicesti che non l'avresti mai esposto: Perché hai cambiato idea? Voialtri che vi piccate tanto di essere coerenti avete gli stessi capricci che hanno tutti, con la sola differenza che i vostri capricci sono piuttosto insensati. Non puoi aver dimenticato che mi assicurasti nel modo più solenne che niente al mondo ti avrebbe indotto a mandarlo a un'esposizione; e a Harry dicesti esattamente la stessa cosa.
Si fermò bruscamente e gli balenò negli occhi uno sprazzo di luce.
Gli tornò in mente che una volta Lord Henry gli aveva detto, tra il serio e il faceto: "Quando vorrai passare un quarto d'ora curioso, fatti dire da Basil perché non vuole esporre il tuo ritratto. L'ha detto a me, e per me è stata una rivelazione". Sì, forse anche Basil aveva il suo segreto; valeva la pena di provare a scoprirlo.
- Basil - gli disse, avvicinandosi a lui e fissandolo in viso, ognuno di noi due ha un segreto. Se mi dici il tuo, io ti dirò il mio. Qual era il motivo che ti spingeva a rifiutarti di esporre il mio ritratto?
Il pittore, suo malgrado, ebbe un brivido.
- Se te lo dicessi, Dorian, potrebbe darsi che tu mi volessi meno bene, e di certo rideresti di me: due cose, l'una e l'altra, che non posso sopportare. Se desideri che non guardi il tuo ritratto mi rassegnerò. Potrò sempre guardare te. Se vuoi che il mio miglior lavoro rimanga nascosto al mondo non importa; la tua amicizia mi preme di più della fama o della reputazione.
- No, Basil, devi dirmelo - insisté Dorian Gray. - Credo di avere il diritto di saperlo.
Il senso di terrore era svanito e vi era subentrata la curiosità; era deciso a scoprire il mistero di Basil Hallward.
- Sediamoci, Dorian - disse il pittore, che sembrava turbato.
Sediamoci, e rispondi soltanto a una mia domanda. Hai osservato nel ritratto qualche cosa di curioso, qualche cosa che sulle prime probabilmente non ti aveva colpito e che ti si è rivelata improvvisamente?
- Basil! - gridò il giovine, stringendo nelle mani tremanti i braccioli della poltrona e fissandolo con occhi sbarrati e furiosi.
- Vedo che è così. Non dire niente: ascolta prima quello che ho da dire io. Dorian, fin dal momento in cui ti conobbi la tua personalità ebbe su me la più straordinaria delle influenze. Fui dominato da te nell'anima, nell'intelletto, nelle facoltà; diventasti per me l'incarnazione visibile di quell'ideale mai visto, il cui ricordo ci perseguita, a noi artisti, come un sogno delizioso. Ti ho adorato; sono stato geloso di tutti quelli con i quali parlavi; ti volevo tutto per me solo; ero felice soltanto quando ero con te e quando eri lontano eri pur sempre presente nella mia arte... Di tutto questo, naturalmente, non ti ho mai fatto sapere niente; e sarebbe stato impossibile perché non l'avresti capito. Io stesso non arrivavo a capirlo: sapevo soltanto che mi ero trovato faccia a faccia con la perfezione e che ai miei occhi il mondo era diventato meraviglioso, troppo meraviglioso forse, perché in certe pazze adorazioni c'è un pericolo, il pericolo di perderle non meno che quello di conservarle. Passarono settimane e settimane, durante le quali andai lasciandomi assorbire sempre più da te; poi ci fu uno stadio ulteriore. Ti avevo disegnato come un Paride, in una delicata armatura, come Adone, in vesti da cacciatore e con la spada lucente in pugno. Ti avevo posto sulla prua della barca di Adriano, nell'atto di guardare il verde e torbido Nilo, e sul margine di uno stagno in un bosco della Grecia, nell'atto di vedere la meraviglia del tuo volto nel tacito argento delle acque.
Tutto questo era stato come l'arte deve essere: inconscio, ideale, lontano. Ma un giorno, un giorno fatale, mi decisi a dipingere un tuo mirabile ritratto, di te come sei veramente; non nel costume di un'epoca morta, ma nelle vesti e nel tempo che sono tuoi. Non so se sia stato il realismo del metodo oppure solo il miracolo della tua personalità che in questo modo mi si presentava senza nebbie e senza veli; certo è che mentre lavoravo a quel ritratto ogni pennellata, ogni striscia di colore sembrava rivelare a me stesso il mio segreto. Ebbi paura che gli altri venissero a conoscere la mia idolatria; ebbi la sensazione di aver detto troppo, di aver messo in quel ritratto troppo di me stesso. Fu allora che presi la decisione di non permettere mai che venisse esposto. Tu ne fosti un po' seccato, ma allora non potevi renderti conto di ciò che esso significava per me; Harry, al quale ne parlai, si mise a ridere, ma di questo poco m'importava. Quando il ritratto fu finito e mi ritrovai solo con esso sentii che avevo ragione... Orbene, qualche giorno dopo il quadro uscì dal mio studio; e non appena fui liberato dal fascino intollerabile della sua presenza mi sembrò di essere stato uno sciocco a immaginare di averci visto qualche cosa oltre queste due: che tu sei straordinariamente bello e che io so dipingere. Anche adesso non posso trattenermi dal pensare che sia un errore credere che la passione che si prova nell'atto di creare si manifesti mai veramente nell'opera creata da noi. L'arte è sempre più astratta di quello che noi immaginiamo; forme e colori ci parlano di forme e colori e nient'altro. Spesso mi sembra che l'arte nasconda l'artista ben più completamente di quanto non lo riveli. Perciò, ricevendo quest'invito da Parigi, decisi di fare del tuo ritratto il pezzo principale della mia esposizione. Non mi venne mai in mente che tu avresti rifiutato. Ora mi accorgo che avevi ragione: quel ritratto non si può mostrare. Dorian, non essere in collera con me per quello che ti ho detto. Come dissi una volta a Harry, tu sei fatto per essere adorato.
Dorian Gray fece un profondo respiro. Le guance ripresero il colorito e un sorriso vagò sulle sue labbra: il pericolo era passato. Per il momento era al sicuro. Tuttavia non poteva difendersi dal provare una compassione infinita per il pittore che gli aveva fatto quella strana confessione e dal chiedersi se un giorno sarebbe toccato anche a lui subire una simile dominazione da parte della personalità di un amico. Lord Henry aveva il fascino di essere molto pericoloso, ma niente di più; era troppo intelligente e troppo cinico perché si potesse volergli veramente bene. Sarebbe mai esistito qualcuno capace di ispirargli una strana idolatria? Era questa una delle cose che la vita gli riservava?
- Mi sembra straordinario, Dorian, che tu abbia visto tutto questo in quel ritratto. L'hai visto veramente?
- Vi ho visto qualcosa - rispose lui, - qualcosa che mi è sembrata molto strana.
- E allora ti dispiace ancora se guardo il ritratto?
Dorian scosse la testa. - Questo non devi chiedermelo, Basil. Non posso assolutamente permettere che tu ti ponga davanti a quel ritratto.
- Ma un giorno lo permetterai?
- Mai.
- Sì, forse hai ragione. E ora addio, Dorian. Sei stato la sola persona nella mia vita che abbia realmente avuto un'influenza sulla mia arte. Quello che ho fatto di buono lo devo a te. Ah, tu non sai quanto mi sia costato dirti tutto quello che ti ho detto.
- Caro Basil - disse Dorian, - che cosa mi hai detto?
Semplicemente che ti sembrava di avermi ammirato troppo. Non è nemmeno un complimento.
- Non voleva essere un complimento: era una confessione e ora che l'ho fatta è come se qualche cosa fosse uscita da me. Forse non si dovrebbe mai tradurre in parole le proprie adorazioni.
- E' stata una confessione che mi ha molto deluso.
- Come? e che cosa ti aspettavi, Dorian? Tu non hai mica visto qualche altra cosa in quel ritratto? Non c'era altro da vedere?
- No, non c'era altro da vedere. Perché me lo chiedi? Ma non devi parlare di adorazione: è sciocco. Tu ed io siamo amici, Basil, e dobbiamo rimanere sempre amici.
- Tu hai Harry - disse melanconicamente il pittore.
- Oh, Harry ! - gridò il ragazzo, con una mezza risata. - Harry passa le giornate a dire delle cose incredibili e le serate a fare delle cose imprevedibili. E' precisamente la vita che mi piacerebbe fare. Però se mi trovassi in un guaio non credo che andrei da Harry. Verrei piuttosto da te, Basil.
- Tornerai a posare per me?
- E' impossibile.
- Il tuo rifiuto è la rovina della mia vita di artista. Nessuno incontra mai due cose ideali; ben pochi sono quelli che ne incontrano una.
- Non posso spiegarti il perché, Basil, ma per te non devo posare mai più. In un ritratto c'è qualche cosa di fatale; il ritratto ha una vita sua propria. Verrò da te a prendere il tè e sarà altrettanto piacevole.
- Per te ho paura che sia anche più piacevole - mormorò Hallward con rimpianto. - E ora addio. Mi dispiace che tu non voglia lasciarmi guardare il ritratto un'altra volta, ma non c'è niente da fare. Capisco perfettamente i tuoi sentimenti.
Appena fu uscito, Dorian sorrise a se stesso. Povero Basil, come era lontano dal conoscere la vera ragione! E com'era strano che, invece di essere stato costretto a rivelare il proprio segreto fosse riuscito, quasi per caso, a estorcere un segreto al suo amico! Quante cose sembravano chiare dopo quella strana confessione! Gli assurdi eccessi di gelosia del pittore, la sua sfrenata affezione, i suoi panegirici esagerati, le sue curiose reticenze - ora capiva tutto questo e ne provava dispiacere; gli sembrava che in un'amicizia così colorita di romanzo ci fosse qualche cosa di tragico.
Sospirò e suonò il campanello. Bisognava nascondere il ritratto a ogni costo. Non poteva correre un'altra volta il rischio di una scoperta. Sarebbe stata una pazzia lasciare che quell'oggetto restasse anche un'ora soltanto in una stanza nella quale poteva entrare uno qualunque dei suoi amici.
Capitolo decimo
Quando entrò il domestico, lo fissò intensamente, chiedendosi se avesse avuto l'idea di dare un'occhiata dietro il paravento. Il servitore, perfettamente impassibile, aspettava ordini. Dorian accese una sigaretta, andò allo specchio e vi diede uno sguardo.
Poteva vedervi riflesso perfettamente il viso di Victor, una maschera placida di servilità. Non c'era quindi da aver paura; tuttavia gli sembrò che fosse bene stare in guardia.
Parlando con estrema lentezza, gli disse di far sapere alla governante che voleva vederla e poi di andare dal fabbricante di cornici pregandolo di mandare immediatamente due dei suoi uomini.
Gli sembrò che nell'uscire il servitore girasse gli occhi verso il paravento. O si trattava di pura immaginazione?
Qualche minuto dopo comparve nella biblioteca la signora Leaf, vestita di seta nera e con un paio di antiquati mezzi guanti di filo sulle mani rugose. Le chiese la chiave dello studio dei ragazzi.
- Il vecchio studio, signor Dorian? - esclamò lei. - Ma è tutto pieno di polvere. Bisogna che lo faccia ripulire e mettere in ordine prima che ci andiate. Ora non è visibile, no davvero.
- Non voglio che sia messo in ordine, Leaf; voglio soltanto la chiave.
- Ma se ci entrate vi coprirete di ragnatele. Sono cinque anni che non è stato aperto; da quando morì Sua Signoria.
Questa menzione di suo nonno lo fece trasalire; conservava di lui un ricorso odioso.
- Non fa niente - rispose. - Voglio soltanto vedere la stanza e basta. Datemi la chiave.
- Eccola - disse la vecchia, rovistando nel mazzo con le mani tremanti e incerte. - Ma non avrete mica l'idea di andarci a stare? Qui è talmente comodo!
- No, no - gridò lui con voce arrogante. - Grazie, Leaf. Non serve altro.
Lei indugiò qualche minuto e cominciò a chiacchierare di certi dettagli dell'andamento domestico. Dorian, sospirando, le disse di fare quello che credeva meglio. La donna uscì dalla stanza, tutta sorridente.
Appena richiusa la porta, Dorian si mise la chiave in tasca e diede un'occhiata in giro. L'occhio gli cadde su una grande coperta di satin purpureo pesantemente ricamata d'oro, un magnifico pezzo di stoffa veneziana della fine del diciassettesimo secolo, che suo nonno aveva trovato in un convento nei pressi di Bologna. Andava proprio bene per avvolgere quell'oggetto spaventoso. Forse era servito più volte per fare da coltre mortuaria; ora doveva servire a nascondere una cosa che aveva una corruzione sua propria, peggiore perfino della corruzione della morte; una cosa generatrice di orrori e che non sarebbe morta mai.
I suoi peccati sarebbero stati per l'immagine dipinta sulla tela quello che il verme è per il cadavere: ne avrebbero disfatta la bellezza, ne avrebbero divorato la grazia, l'avrebbero sfigurata, l'avrebbero resa ripugnante; ma quella cosa avrebbe tuttavia continuato a vivere. Sarebbe vissuta per sempre.
Rabbrividì e per un attimo deplorò di non aver detto a Basil la vera ragione che l'aveva mosso a nascondere il ritratto: Basil lo avrebbe aiutato a resistere all'influenza di Lord Henry e alle influenze ancora più velenose provenienti dal suo stesso temperamento. L'amore che il pittore nutriva per lui, poiché si trattava di un vero amore, non aveva in sé niente che non fosse nobile e intellettuale. Non era quella ammirazione soltanto fisica della bellezza, che nasce dai sensi e muore quando i sensi si stancano; era lo stesso amore che avevano conosciuto Michelangelo, Montaigne, Winckelmann e lo stesso Shakespeare. Basil avrebbe potuto salvarlo; ma ormai era troppo tardi. Il passato poteva sempre essere annullato: bastavano per questo il pentimento, la rinuncia, l'oblio. Ma il futuro era inevitabile. In lui si agitavano passioni che avrebbero trovato uno sfogo terribile, sogni che avrebbero trasformato in realtà l'ombra della loro perversione.
Prese dal divano la grande stoffa porpora e oro che lo ricopriva e andò dietro il paravento tenendola in mano. La faccia sulla tela era più turpe di prima? Non gli sembrò cambiata; tuttavia la repulsione che gli ispirava aumentò. Capelli d'oro, occhi azzurri, labbra rosse, tutto c'era: quello che era alterato era solo l'espressione e questa, nella sua crudeltà, era orribile. In confronto al biasimo che vi vedeva, com'erano stati superficiali i rimproveri di Basil a proposito di Sybil Vane, superficiali, privi di ogni valore! Dalla tela la sua anima stessa lo fissava e lo chiamava a giudizio. Gettò la ricca coltre sul ritratto con un'espressione di sofferenza in viso. Mentre faceva questo, bussarono alla porta; si ritrasse e il domestico entrò.
- Gli uomini sono arrivati, Monsieur.
Disse a se stesso che bisognava liberarsi subito di quell'uomo:
non doveva sapere dove sarebbe stato portato il ritratto. C'era in lui un qualcosa di furbesco; i suoi occhi erano pensosi e traditori. Si sedette alla scrivania e scrisse un biglietto per Lord Henry, pregandolo di mandargli qualche cosa da leggere e ricordandogli l'appuntamento che si erano dati per le otto e un quarto di quella sera.
- Aspettate la risposta - disse, porgendoglielo, - e fate entrare quegli uomini.
Un paio di minuti dopo bussarono di nuovo e il signor Hubbard, il famoso corniciaio di South Audley Street, entrò con un giovane operaio dall'aria piuttosto rozza. Il signor Hubbard era un uomo con l'aspetto florido e con la barba rossa, nel quale l'ammirazione per l'arte era mitigata dall'eterna mancanza di denaro della maggior parte degli artisti con i quali aveva a che fare. Di regola non si allontanava mai dalla sua bottega, ma faceva sempre un'eccezione per Dorian Gray. C'era qualche cosa in Dorian che affascinava tutti quanti: il solo vederlo era un piacere.
- In che cosa posso servirvi, signor Gray? - disse, stropicciandosi le grasse mani lentigginose. - Ho voluto concedermi l'onore di venire personalmente. Proprio in questo momento ho ricevuto una meraviglia di cornice. L'ho comprata a un'asta. Fiorentina antica: credo che provenga da fonthill.
Mirabilmente adatta per un quadro di soggetto religioso, signor Gray.
- Mi dispiace che vi siate disturbato a venire, signor Hubbard.
Passerò certamente a vedere la cornice, per quanto in questo momento l'arte sacra non mi interessi molto; ma oggi voglio soltanto far portare un quadro all'ultimo piano della casa e dato che è piuttosto pesante avevo pensato di pregarvi di prestarmi un paio dei vostri operai.
- Nessun disturbo, Mister Gray. Sono felice di potervi essere utile. Qual è quest'opera d'arte?
- Questa - disse Dorian, rimovendo il paravento. - Potete trasportarla così come sta, con la coperta e tutto? Non vorrei che si graffiasse su per le scale.
- Nessuna difficoltà - disse il gioviale corniciaio, cominciando, con l'aiuto del garzone, a staccare il quadro dalle lunghe catene di bronzo alle quali era appeso. - E ora dove lo portiamo, signor Gray?
- Vi mostrerò la strada, signor Hubbard, se volete avere la cortesia di seguirmi. O forse sarà meglio che andiate avanti voi.
Purtroppo è proprio in cima alla casa. Saliremo per lo scalone che è più largo.
Tenne aperta la porta per loro ed essi uscirono nell'ingresso e iniziarono a salire. Il tipo complicato di cornice aveva reso il quadro molto voluminoso e ogni tanto Dorian dovette dare una mano per aiutare, a dispetto delle proteste ossequiose del signor Hubbard, che sentiva quel vivo dispiacere che sente ogni vero lavoratore nel vedere un signore fare qualcosa di utile.
- Un bel peso da portare - disse l'ometto, ansimando e asciugandosi la fronte lucida, quando furono arrivati all'ultimo pianerottolo.
- Sì - mormorò Dorian - ho paura che sia piuttosto pesante - e aprì la porta che immetteva nella stanza destinata a custodire per lui lo strano segreto della sua vita e a nascondere a ogni sguardo estraneo la sua anima.
Non era entrato in quella stanza da più di quattro anni; da quando l'aveva usata, all'inizio, da bambino, come stanza da giuoco, poi, cresciuto, come studio. Era una camera grande e ben proporzionata, che il defunto Lord Kelso aveva fatto costruire appositamente perché servisse al nipotino che aveva sempre odiato e desiderato di tener lontano, per la sua strana somiglianza con la madre e per altri motivi. A Dorian sembrò che non fosse molto cambiata. C'era l'enorme cassone italiano, coi pannelli fantasticamente dipinti e le modanature dorate annerite dal tempo, nel quale si era acquattato tante volte da bambino. C'era la libreria di legno indiano, piena dei suoi libri di scuola tutti sgualciti. Dietro di questa, pendeva dal muro la stessa logora tappezzeria fiamminga, sulla quale un Re e una Regina scoloriti stavano giocando a scacchi in un giardino, mentre passava un gruppo di falconieri portando sul pugno coperto dal guanto gli uccelli incappucciati.
Come se la ricordava! Nel girare lo sguardo intorno alla stanza, gli tornarono in mente tutti i momenti della sua fanciullezza solitaria; ricordò la purezza immacolata della sua vita di adolescente e gli sembrò orribile che proprio in quella stanza dovesse essere nascosto quel fatale ritratto. Come era lontano, in quei tempi passati, dal pensare a tutto quello che gli riservava il destino!
Ma in tutta la casa non esisteva un posto altrettanto al sicuro dagli sguardi indiscreti. La chiave l'aveva lui e nessun altro poteva entrare. Sotto la coltre di porpora, il volto dipinto sulla tela poteva diventare bestiale, sozzo, immondo. Che cosa importava, se nessuno poteva vederlo? Non l'avrebbe visto neppure lui. Perché avrebbe dovuto assistere al nauseabondo corrompersi della sua anima? Conservava la giovinezza, e questo bastava. E poi, non poteva darsi, dopo tutto, che la sua natura si facesse più bella? Non c'era nessun motivo perché il futuro dovesse essere così pieno di vergogna. L'amore poteva trovarsi sulla sua strada, purificarlo, proteggerlo da quei peccati che sembravano già fermentargli nello spirito e nella carne, quei curiosi peccati ineffigiati ai quali lo stesso mistero dava raffinatezza e fascino. Forse un giorno quell'espressione crudele si sarebbe dileguata dalla scarlatta bocca sensuale ed egli avrebbe potuto mostrare al mondo il capolavoro di Basil Hallward.
No; era impossibile. Ora per ora, settimana per settimana, quella cosa sulla tela invecchiava. Anche se sfuggiva alla bruttezza del peccato non poteva sfuggire a quella dell'età. Le guance si sarebbero incavate, o sarebbero diventate flaccide; rughe giallastre sarebbero apparse intorno agli occhi smorti, rendendoli orribili; i capelli avrebbero perso la lucentezza, la bocca sarebbe diventata semiaperta o cascante, avrebbe assunto quell'aspetto stupido e volgare che hanno le bocche dei vecchi.
Avrebbe avuto il collo grinzoso, le mani fredde, dalle vene azzurrine, il corpo contorto, come lui lo ricordava del nonno che era stato tanto duro per la sua fanciullezza. Bisognava nascondere il ritratto; non c'era altra possibilità.
- Portatelo dentro, signor Hubbard, per favore - disse con voce stanca, girandosi indietro. - Scusatemi se vi ho fatto aspettare tanto; stavo pensando a un'altra cosa.
- Un po' di riposo fa sempre piacere, signor Gray - rispose il corniciaio, che ansimava ancora. - Dove lo mettiamo?
- Oh, in qualunque posto. Qui andrà bene. Non voglio appenderlo; basta appoggiarlo al muro. Grazie.
- Si può guardare l'opera d'arte?
Dorian trasalì. Disse, tenendogli gli occhi addosso:
- Non vi interesserebbe, signor Hubbard.
Si sentiva pronto a saltargli addosso e a gettarlo per terra se avesse osato di sollevare il fastoso velame che copriva il segreto della sua vita.
- Non ho bisogno di disturbarvi oltre. Vi sono davvero grato per aver avuto la gentilezza di venire.
- Niente, niente, signor Gray. Sempre disposto a fare qualunque cosa per voi. - E il signor Hubbard si avviò giù per la scala, seguito dal garzone, che si girò indietro a guardare Dorian con un'espressione di timida ammirazione sul viso rude e sgraziato.
Non aveva mai visto un essere così meraviglioso.
Quando il rumore dei loro passi si fu dileguato, Dorian chiuse la porta e si mise in tasca la chiave. Ora si sentiva al sicuro.
Nessuno avrebbe visto mai quell'orribile cosa; la sua ignominia non sarebbe stata vista da altri occhi se non dai suoi.
Tornando nella biblioteca vide che erano appena passate le cinque e che avevano già portato il tè. Su un tavolino di legno scuro e profumato, riccamente intarsiato di madreperla, dono di Lady Radley, moglie del suo tutore, graziosa ammalata di professione che aveva passato l'inverno precedente al Cairo, c'era un biglietto di Lord Henry e vicino a questo un libro legato in carta gialla con la copertina leggermente lacerata e i margini sporchi.
Sul vassoio del tè era stata deposta una copia della "Saint James' Gazette". Evidentemente Victor era tornato. Si chiese se avesse incontrato nell'ingresso i due che uscivano e fosse riuscito a sapere da loro quello che avevano fatto. Certo si sarebbe accorto della mancanza del quadro; indubbiamente se ne era già accorto quando aveva portato il tè. Il paravento non era stato rimesso a posto e sulla parete era visibile uno spazio vuoto. Una notte, forse, l'avrebbe sorpreso nell'atto di salire le scale pian piano e di tentare di forzare la porta della stanza. Avere una spia in casa era una cosa orribile. Aveva sentito parlare di ricchi signori che erano stati ricattati per tutta la vita da un servo che aveva letto una lettera o sorpreso una conversazione o raccattato un biglietto con un indirizzo o trovato sotto un cuscino un fiore avvizzito oppure un pezzetto sgualcito di trina.
Sospirò, si versò il tè e apri il biglietto di Lord Henry. Diceva semplicemente che gli mandava il giornale della sera e un libro che poteva interessarlo e che alle otto e un quarto si sarebbe trovato al circolo. Spiegò lentamente il giornale e lo scorse. Un segno a matita rossa sulla quinta pagina colpì il suo sguardo: era destinato ad attrarre la sua attenzione sul trafiletto seguente:
INCHIESTA SU UN ATTRICE
Stamane alla Taverna della Campana in Hoxton Road è stata tenuta un'inchiesta dal signor Danby, Coroner distrettuale, sul cadavere di Sybil Vane, giovane attrice scritturata di recente al Royal Theatre di Holborn. E' stato emesso un verdetto di morte accidentale. Sono state espresse molte condoglianze alla madre, che si è dimostrata grandemente afflitta tanto durante la propria deposizione quanto durante la deposizione del Dottor Birrell, che ha eseguito l'autopsia della defunta.
Aggrottò le sopracciglia, stracciò il giornale in due pezzi e, attraversata la stanza, lo gettò via. Com'era brutto tutto questo e come la bruttezza mostrava le cose nella loro orrenda realtà!
Era un po' seccato che Lord Henry gli avesse mandato quella notizia, e certo era stato stupido a segnarla con la matita rossa.
Victor poteva averla letta; conosceva l'inglese abbastanza da poterlo fare. Forse l'aveva letta e aveva cominciato a sospettare qualche cosa. Ma d'altra parte che importava? Che c'entrava Dorian Gray con la morte di Sybil Vane? Non c'era niente da temere.
Dorian Gray non l'aveva uccisa.
Lo sguardo gli cadde sul libro giallo che gli aveva mandato Lord Henry. Che cos'era? Si diresse verso il tavolinetto ottagonale color perla, che gli era sempre sembrato simile al lavoro di strane api egiziane che avessero lavorato l'argento, si sedette in una poltrona e cominciò a sfogliare le pagine. Dopo pochi minuti era completamente assorto nella lettura, perché quello era il libro più strano che avesse mai letto. Gli sembrava di vedersi sfilare davanti, in un corteo muto, i peccati del mondo in vesti squisite, al suono delicato dei flauti. Cose che aveva vagamente sognate diventarono immediatamente reali per lui; cose che non aveva mai sognate gli furono gradualmente rivelate.
Era un romanzo senza intreccio e con un personaggio soltanto; o, per meglio dire, era semplicemente uno studio psicologico su un giovane parigino che passava la vita tentando di realizzare nel diciannovesimo secolo tutte le passioni e i modi di vivere propri di tutti i secoli salvo che del suo e di assommare in se stesso, per così dire, i vari stati d'animo che lo spirito del mondo è venuto attraversando, amando per la pura loro artificiosità quelle rinunce alle quali l'umanità ha dato poco saggiamente il nome di virtù, non meno di quelle ribellioni naturali che i saggi continuano a chiamare peccati. Era scritto in quello stile curiosamente ingioiellato, vivido e oscuro insieme, pieno di frasi di gergo e di arcaismi, di espressioni tecniche e di parafrasi elaborate, che caratterizza l'opera di alcuni tra i migliori artisti della scuola francese dei Simbolisti. Conteneva metafore mostruose come orchidee e non meno raffinate di queste nel colore.
La vita dei sensi vi era descritta coi termini della filosofia mistica. A volte era impossibile dire se si stava leggendo le estasi spirituali di qualche santo del Medio Evo oppure le confessioni morbose di un peccatore moderno. Era un libro velenoso. L'odore pesante dell'incenso sembrava aderire alle sue pagine e sconvolgere lo spirito. Nella mente del giovine, mentre passava da un capitolo all'altro, la pura cadenza delle frasi, la sottile monotonia della loro musica, piena com'era di ritornelli complessi e di movenze elaboratamente ripetute, provocava una specie di "rèverie", una malattia del sogno, che gli toglieva ogni coscienza del finire del giorno e dell'avanzare delle ombre.
Attraverso le finestre brillava un cielo color verderame, senza nuvole e ornato da una stella solitaria. Alla sua luce tenue egli lesse, finché non fu più in grado di leggere. Allora, dopo che più volte il servitore lo aveva avvertito che l'ora era tarda, si alzò e, andato nella stanza vicina, posò il libro sul tavolinetto fiorentino che stava sempre al suo capezzale e cominciò a vestirsi per il pranzo.
Prima che arrivasse al circolo erano quasi le nove. Trovò Lord Henry seduto nel salone, solo e con un'aria molto annoiata.
- Scusami tanto, Harry - gridò; - ma in realtà è tutta colpa tua.
Quel libro che mi hai mandato mi ha talmente affascinato da farmi dimenticare che il tempo passava.
- Sì, lo sapevo che ti sarebbe piaciuto - replicò il suo ospite, alzandosi.
- Non ho detto che mi è piaciuto. Ho detto che mi ha affascinato.
C'è una grande differenza.
- Ah, l'hai scoperto, questo? - mormorò Lord Henry. Passarono in sala da pranzo.
Capitolo undicesimo
Per molti anni Dorian Gray non poté liberarsi dall'influenza di quel libro, e forse sarebbe più giusto dire che non cercò mai di liberarsene. Fece venire da Parigi non meno di nove esemplari non rilegati della prima edizione e li fece rilegare in colori diversi, così che potessero accordarsi con i suoi vari stati d'animo e con le mutevoli fantasie di una natura sulla quale, a volte, sembrava che lui stesso avesse perso ogni controllo.
L'eroe, quel meraviglioso giovane parigino nel quale il temperamento romantico e quello scientifico erano così stranamente mischiati, diventò per lui quasi una prefigurazione di se stesso; e davvero il libro gli sembrava che contenesse la storia della sua vita scritta prima che lui l'avesse vissuta.
In un punto però egli era più fortunato del fantastico eroe di quel romanzo. Egli non conobbe mai, anzi, non ebbe mai motivo di conoscere, quel terrore un po' grottesco degli specchi, delle superfici metalliche lucide, delle acque immobili, dal quale il giovane parigino fu colto tanto presto nella sua vita, dovuto all'improvviso disfacimento di una bellezza che un tempo, a quanto pare, era stata eccezionale. Con una gioia quasi crudele- e forse un po' di crudeltà entra in quasi tutte le gioie, come entra sicuramente in ogni piacere - leggeva l'ultima parte del libro, con la sua descrizione davvero tragica, anche se un po' troppo accentuata, dell'angoscia e della disperazione di un uomo che aveva perso quello che, negli altri e nel mondo, aveva apprezzato di più.
Dato che quella bellezza meravigliosa, che aveva tanto affascinato Basil Hallward e molti altri con lui, sembrava non dovesse mai abbandonarlo. Nemmeno quelli che avevano sentito dire le cose più gravi sul suo conto, poiché ogni tanto si diffondevano per Londra strane voci sul suo modo di vivere e diventavano l'argomento dei pettegolezzi dei circoli, potevano credere di lui, quando lo vedevano, niente di disonorante.
Aveva sempre l'aspetto di chi è riuscito a conservarsi immune da qualunque sporcizia del mondo. Uomini che usavano un linguaggio scurrile stavano zitti, non appena Dorian Gray entrava nella stanza; nel suo volto c'era un che di puro che ai loro occhi sembrava come un rimprovero. La sua presenza era sufficiente a rievocare in loro il ricordo dell'innocenza che avevano macchiato, ed essi si meravigliavano che un essere pieno di fascino e di grazia come lui fosse riuscito a sottrarsi all'impronta di un'età che era insieme sordida e sensuale.
Spesso, tornando a casa da una di quelle sue misteriose e prolungate assenze che facevano nascere tante strane congetture tra quelli che erano o credevano di essere suoi amici, saliva nella stanza chiusa al piano superiore, apriva la porta con la chiave dalla quale non si separava mai e si sistemava, con uno specchio, di fronte al ritratto dipinto da Basil Hallward, guardando ora la faccia cattiva e invecchiata sulla tela, ora il bel volto giovanile che gli sorrideva dal vetro pulito.
L'intensità stessa del contrasto sembrava acuire in lui la sensazione voluttuosa. Di giorno in giorno crescevano in lui di pari passo l'amore per la propria bellezza e l'interessamento alla corruzione della propria anima. Esaminava le linee ripugnanti che solcavano quella fronte rugosa o che circondavano quella pesante bocca sensuale con una cura minuziosa e a volte con una voluttà mostruosa e terribile, chiedendosi a volte se fossero più orribili le impronte dell'età oppure quelle del peccato. Metteva le mani bianche vicino a quelle ruvide e gonfie del ritratto e sorrideva.
Derideva quel corpo deformato e quelle membra infiacchite.
Di notte, quando giaceva insonne nella sua camera delicatamente profumata o nella lurida stanza di qualche taverna malfamata del porto che era solito frequentare sotto falso nome e travestito, c'erano momenti nei quali gli capitava di pensare alla rovina che aveva attirato sulla sua anima, con una compassione tanto più acuta in quanto era squisitamente egoistica; ma quei momenti erano rari. Pareva che quella curiosità della vita che Lord Henry aveva risvegliato in lui per la prima volta quando si erano seduti insieme nel giardino del loro amico, tanto più aumentasse quanto più era appagata. Più sapeva e più desiderava sapere; più soddisfaceva i suoi folli appetiti e più questi diventavano famelici.
Peraltro non aveva abbandonato ogni riguardo, almeno nei suoi rapporti con la società. Un paio di volte al mese durante l'inverno e ogni mercoledì sera durante la "season" londinese era solito aprire la sua bella casa al mondo elegante e faceva venire i più celebri musicisti del momento a deliziare i suoi ospiti con le meraviglie della loro arte. I suoi pranzi, nel preparare i quali era costantemente assistito da Lord Henry, erano famosi sia per la cura nella scelta e nel collocamento degli invitati sia per il gusto squisito dimostrato nella decorazione della tavola, con la disposizione raffinata di fiori esotici, di tovaglierie ricamate, e di posateria antica d'oro e d'argento. Anzi non erano pochi, specialmente tra i giovanissimi, quelli che vedevano o che si immaginavano di vedere in Dorian Gray la vera personificazione di un tipo che avevano sognato più volte durante gli anni di Eton e di Oxford, un tipo che doveva riunire la vera cultura dell'erudito con tutta la grazia, la distinzione e la perfezione di modi, tipiche del cosmopolita. Sembrava loro che lui appartenesse alla compagnia di quelli dei quali Dante dice che avevano cercato di rendersi perfetti mediante il culto della bellezza: era, come il Gautier, uno per il quale "il mondo visibile esisteva".
Per lui, certo, la vita in se stessa era la prima e la più grande delle arti, per la quale tutte le altre arti sembravano costituire solo una preparazione. La moda, che rende universale per un momento quello che in realtà è fantastico, e l'eleganza del vestire e dei modi, che è, nel suo genere, un tentativo di affermare l'assoluta modernità della bellezza, avevano naturalmente un fascino per lui.
Il suo modo di vestire e lo stile particolare che adottava ogni tanto esercitavano una spiccata influenza sui giovani raffinati dei balli di Mayfair e dei circoli di Pall Mall. Lo imitavano in tutto quello che faceva e si sforzavano di riprodurre il fascino casuale delle sue graziose frivolezze, che lui, peraltro, non prendeva interamente sul serio.
Poiché, per quanto fosse fin troppo disposto ad accettare la posizione che gli era stata offerta quasi immediatamente alla sua maggiore età e provasse anzi un piacere sottile all'idea di poter diventare per la Londra dei suoi tempi quello che l'autore del "Satyricon" era stato per la Roma imperiale di Nerone, in fondo al cuore aspirava però ad essere qualcosa di più di un puro "arbiter elegantiarum", che viene consultato sul modo di portare un gioiello o di annodare una cravatta o di tenere il bastone.
Cercava di elaborare un nuovo sistema di vita, che avrebbe dovuto contenere una filosofia razionale e principi suoi propri e attingere nella spiritualizzazione dei sensi la sua più alta realizzazione.
Il culto dei sensi è stato biasimato spesso e a ragione, perché gli uomini sentono un naturale istinto di terrore nei confronti di passioni e di sentimenti che sembrano più forti di loro stessi e che sanno di avere in comune con forme di vita meno altamente organizzate. Ma a Dorian Gray pareva che la vera natura dei sensi non fosse stata mai compresa e che, se questi sono rimasti selvaggi e animaleschi, è solo perché il mondo ha tentato di affamarli per assoggettarli o di ucciderli attraverso la sofferenza, anziché tendere a farne gli elementi di una spiritualità nuova, la cui caratteristica dominante dovrebbe essere un istinto più sottile della bellezza. Nel volgere indietro lo sguardo per contemplare gli uomini che si muovono attraverso la storia un senso di perdita lo ossessionava. A quanto si era rinunziato, e con che meschini risultati! Rifiuti follemente ostinati, forme mostruose di autotortura e di rinuncia, provocate dalla paura, avevano avuto come risultato una degradazione infinitamente più terribile della degradazione immaginaria alla quale gli uomini, nella loro ignoranza, avevano cercato di sottrarsi. La natura, con la sua mirabile ironia, cacciava l'anacoreta nel deserto a vivere con le bestie feroci e dava per compagni all'eremita gli animali dei campi.
Sì, come aveva profetizzato Lord Henry, doveva nascere un nuovo Edonismo, destinato a creare daccapo la vita e a salvarla da quel duro e sgraziato puritanesimo che stava in quei giorni stranamente rivivendo; che indubbiamente avrebbe dovuto avere ai propri servigi l'intelligenza, ma non avrebbe mai dovuto accettare nessuna teoria, nessun sistema che implicasse il sacrificio di una forma qualsiasi di esperienza passionale. Anzi, la sua aspirazione doveva essere l'esperienza stessa, non i frutti dell'esperienza, dolci o amari che siano. Doveva ignorare assolutamente tanto l'ascetismo che mortifica i sensi quanto la volgare dissolutezza che li attutisce; ma doveva insegnare all'uomo a concentrarsi sui momenti di una vita che è essa stessa un momento.
Sono pochi quelli che non si siano svegliati a volte sul far del giorno, sia da una di quelle notti senza sogni che ci fanno quasi innamorare della morte, sia da una di quelle notti d'orrore e di gioia deformi, quando le cellule del nostro cervello sono percorse da fantasmi più paurosi della stessa realtà, animati da quella vita vivace che si nasconde in tutti i grotteschi e che presta all'arte gotica la sua persistente vitalità, poiché si potrebbe quasi dire che questa sia particolarmente l'arte di coloro le cui menti sono state affette dalla malattia del fantasticare. Dita bianche si insinuano pian piano tra le cortine, e queste sembra che tremino. Ombre mute, dalle forme fantastiche, strisciano negli angoli della camera e vi si accovacciano. Fuori si sentono gli uccelli muoversi nel fogliame o il rumore degli uomini che vanno al lavoro o il sospiro e il singhiozzo del vento che scende dai colli e si aggira intorno alla casa silenziosa, come se avesse paura di svegliare quelli che dormono, e pure deve per forza far uscire il sonno dalla sua caverna di porpora. Il sottile velo del crepuscolo si solleva, un velo dopo l'altro; le cose riprendono gradualmente forma e colore, e noi vediamo l'alba rimodellare il mondo nelle sue forme secolari. Gli specchi pallidi riprendono la loro vita riflessa; i lumi senza fiamma sono nello stesso posto dove li avevamo lasciati, e vicino a loro c'è il libro per metà intonso che stavamo studiando, o il fiore, montato sul fil di ferro, che avevamo portato al ballo o la lettera che avevamo avuto paura di leggere o che avevamo riletta troppe volte. Niente ci sembra cambiato. La vita che conosciamo ritorna dalle ombre irreali della notte e dobbiamo riprenderla dal punto in cui l'avevamo lasciata. Si insinua in noi un senso terribile della necessità di continuare a spendere la nostra energia nella stessa serie monotona di abitudini stereotipate, e magari un desiderio violento che le nostre palpebre possano aprirsi una mattina su un mondo che nell'oscurità sia stato rimodellato per la nostra gioia, su un mondo nel quale le cose abbiano nuove forme e nuovi colori e siano cambiate o abbiano nuovi segreti, su un mondo nel quale il passato occupi ben poco spazio o non ne occupi per niente o, comunque, non sopravviva in nessuna forma consapevole di obbligo o di rimpianto, poiché c'è un'amarezza anche nel ricordo della gioia e una pena nel ricordo del piacere.
Sembrava a Dorian Gray che la creazione di mondi simili fosse il vero scopo, o almeno uno dei veri scopi della vita; e, nella sua ricerca di sensazioni che fossero insieme nuove e deliziose e contenessero quell'elemento di stranezza che è tanto essenziale per il romanzo, adottava spesso certi modi di pensare che in realtà sapeva essere estranei alla sua natura. Si abbandonava alle loro influenze penetranti; poi, dopo averne, per così dire, afferrato il colore e aver appagato la propria curiosità intellettuale, li abbandonava con quella curiosa indifferenza che non è incompatibile col vero ardore del temperamento, anzi, stando a certi psicologi moderni, ne costituisce spesso la condizione.
Una volta girò voce che si proponesse di passare al Cattolicesimo; e indubbiamente il rituale cattolico esercitava sempre su di lui una grande attrazione. Il sacrificio quotidiano, ben più terribile in realtà di tutti i sacrifici del mondo antico, lo commuoveva, sia per il superbo rifiuto della testimonianza dei sensi, che per la semplicità primitiva dei suoi elementi e per il "pathos" eterno della tragedia umana che tentava di simboleggiare. Gli piaceva inginocchiarsi sul freddo pavimento di marmo e seguire con lo sguardo il prete nei suoi rigidi paramenti a fiorami, mentre spostava lentamente con le mani bianche il velo del tabernacolo, oppure mentre elevava l'ostensorio ingemmato a forma di lanterna, con l'ostia sottile che, in certi momenti, si direbbe, è davvero il "panis caelestis", il pane degli angeli, o mentre, indossando le vesti della Passione di Cristo, rompeva l'ostia dentro il calice o si batteva il petto per i propri peccati. I turiboli fumanti, che i fanciulli vestiti di trina e di scarlatto agitavano in aria simili a grandi fiori dorati, esercitavano su di lui un loro incanto sottile. Uscendo, era solito guardare con meraviglia i confessionali neri e avrebbe voluto sedere nell'ombra buia di uno di essi ad ascoltare uomini e donne che sussurravano attraverso la grata consumata la vera storia delle loro vite. Ma non cadeva mai nell'errore di fermare il proprio sviluppo intellettuale accettando formalmente un credo o un sistema, o scambiando per una casa nella quale passare la vita un albergo buono solo per passarvi una notte, o qualche ora di una notte senza stelle e senza luna. Il misticismo, col suo mirabile potere di farci sembrare strane le cose che sono comuni e con la sottile antinomia che apparentemente è inseparabile da esso, lo commosse per una stagione; e così pure per una stagione indulse alle dottrine materialistiche del movimento darwiniano di Germania e provò un piacere curioso nel far risalire pensieri e passioni dell'uomo a qualche cellula perlacea del cervello o a qualche bianco nervo del corpo, dilettandosi nella concezione della dipendenza assoluta dello spirito da certe condizioni fisiche, morbose o sane, normali o patologiche. Però, come si è detto prima, nessuna teoria della vita gli sembrava avere una qualche importanza di fronte alla vita stessa. Aveva profondamente coscienza della sterilità di ogni speculazione intellettuale che sia slegata dall'azione e dall'esperimento. Sapeva che i sensi, non meno dell'anima, hanno i loro misteri spirituali da rivelare.
Così a un certo punto si dedicò allo studio dei profumi e dei segreti della loro fabbricazione, distillando oli dall'odore penetrante e bruciando gomme profumate orientali. Scoprì che non esisteva stato d'animo che non trovasse la sua contropartita nella vita dei sensi e si dedicò a scoprire la loro vera relazione, chiedendosi che cosa ci fosse nell'incenso che dispone al misticismo, e nell'ambra grigia che eccita le passioni, e nelle violette che risvegliano il ricordo dei romanzi morti, e nel muschio che turba la mente, e nel "ciampak" che sporca l'immaginazione. Tentò a più riprese di elaborare una vera e propria psicologia dei profumi e di calcolare le diverse influenze delle radici dall'odore soave e dei fiori profumati, pesanti di polline, e dei balsami aromatici e dei legni scuri e fragranti, dello spicanardo che fa ammalare, dell'hovenia che fa impazzire e dell'aloe di cui si dice che abbia il potere di espellere dall'anima la melanconia.
In un altro momento si consacrò per intero alla musica. In una stanza dai lunghi riquadri, col soffitto vermiglio e oro e pareti laccate di verde oliva, cominciò a dare dei curiosi concerti, nei quali zingare folli tiravano fuori una musica selvaggia dalle loro piccole cetre o gravi Tunisini ammantati di giallo pizzicavano le corde tese di liuti mostruosi, mentre negri ghignanti battevano monotoni su tamburi di rame e Indiani snelli, col turbante in testa, soffiavano dentro lunghi tubi di canna o di bronzo e incantavano, o fingevano di incantare, grandi serpenti col cappuccio e orribili bisce cornute. Gli aspri intervalli e le stridenti discordanze della musica barbarica lo commuovevano in certi momenti nei quali tutta la grazia di Schubert, tutta la bellezza dei dolori di Chopin e perfino tutta la potenza delle armonie di Beethoven non avevano sul suo orecchio nessun effetto.
Raccolse da tutte le parti del mondo una collezione degli strumenti più strani che si possano trovare, sia nei sepolcreti delle nazioni estinte, sia presso quelle poche tribù selvagge sopravvissute al contatto con la civiltà occidentale, e amava toccarli e provarli. Possedeva il misterioso "furuparis" degli Indiani del Rio Negro, che le donne non sono ammesse a guardare e che neppure i giovani possono vedere se prima non sono stati sottoposti al digiuno e alla flagellazione; le giare di terra dei Peruviani, che mandano un grido stridente come quello degli uccelli; i flauti, fatti di ossa umane, che Alfonso de Ovalle sentì nel Cile; i verdi diaspri sonori che si trovano nei pressi di Cuzco e che emettono una nota singolarmente dolce. Possedeva zucchine dipinte, piene di ciottolini che scotendole tintinnavano; il lungo "clarin" dei Messicani, nel quale l'esecutore non soffia, ma inala l'aria attraverso di esso; l'aspro "ture" delle tribù delle Amazzoni, che suonano le sentinelle appostate per giorni interi in cima agli alberi e che può essere sentito, dicono, a tre leghe di distanza; il "teponazili" che ha due linguette vibranti di legno e si batte con una bacchetta unta di una gomma elastica ricavata dal succo lattiginoso delle piante; le campane "yotl" degli Aztechi, sospese a grappoli come l'uva; e un enorme tamburo cilindrico, rivestito della pelle di grossi serpenti, come quello che vide Bernal Diaz quando penetrò con Cortez nel tempio messicano e del cui suono lugubre ci ha lasciato una così vivida descrizione. Il carattere fantastico di questi strumenti lo affascinava; e l'idea che l'arte abbia, come la natura, i suoi mostri, esseri dalla forma bestiale e dalla voce orribile, gli procurava uno strano piacere. Però dopo qualche tempo se ne stancò e tornò a sedersi, solo o con Lord Henry, nel suo palco all'Opera, ad ascoltare con estatica voluttà il "Tannhauser", scorgendo nel preludio di quella grande opera d'arte una raffigurazione della tragedia della sua anima.
In un altro momento si diede allo studio delle gemme e apparve a un ballo mascherato nel costume di Anne de Joyeuse, Ammiraglio di Francia, in un abito coperto da cinquecentosessanta perle. Questa passione lo entusiasmò per lunghi anni e si può dire, anzi, che non l'abbandonò mai. A volte passava una giornata intera a sistemare e risistemare nei loro astucci le varie pietre che aveva raccolto: il crisoberillo d'un verde oliva che si muta in rosso alla luce artificiale, il cimofane con la sua striscia d'argento simile a un filo, la crisolite color pistacchio, i topazi rosati o di un giallo vinoso, i carbonchi di scarlatto infuocato con tremule stelle a quattro raggi, i granati di color rosso fiamma, le spinelle arancione e violette, le ametiste con i loro strati alternati di rubino e di zaffiro. Amava l'oro rosso del diaspro solare, la bianchezza perlacea del chiaro di luna, l'arcobaleno frantumato dell'opale. Fece venire da Amsterdam tre smeraldi straordinari per le dimensioni e per la ricchezza del colore e possedeva una turchese "de la vieille roche" che faceva l'invidia di tutti i conoscitori.
Scoprì inoltre storie meravigliose riguardanti le gemme. Nella "Clericalis Disciplina" di Alfonso si leggeva di un serpente che aveva occhi di giacinto vero; e nella storia romanzesca di Alessandro, conquistatore di Emazia, era detto che nella Valle del Giordano questi aveva trovato dei serpenti ai quali erano cresciuti sul dorso dei collari di smeraldi veri. Filostrato ci racconta che c'era una gemma nel cervello del drago e che, mostrandogli delle lettere d'oro e un panno scarlatto, si poteva far cadere il mostro in un sonno magico e ucciderlo. Secondo il grande alchimista Pierre de Boniface, il diamante rende invisibili e l'agata indiana rende eloquenti. La cornalina placa la collera, il giacinto concilia il sonno, l'ametista dissipa i fumi del vino, l'hydropicus fa impallidire la luna, il granato scaccia i demoni.
La selenite cresce e si restringe insieme alla luna e il meloceus, che scopre i ladri, è sensibile soltanto al sangue dei capretti.
Leonardo Camillo aveva visto una pietra bianca, estratta dal cervello di un rospo ucciso in quel momento, che era un antidoto infallibile contro il veleno. Il bezoar, trovato nel cuore del daino arabico, possedeva la virtù di curare la peste. Nei nidi degli uccelli dell'Arabia si trovava l'aspilate, che secondo Democrito proteggeva chi lo portava dai pericoli del fuoco.
Alla cerimonia della sua incoronazione, il Re di Ceylon cavalcò per la sua città con un grande rubino in mano. Le porte del palazzo del Prete Gianni erano "fatte di agata, e c'era incastonato un corno d'unicorno, affinché nessuno potesse portare dentro del veleno". Sulla guglia c'erano due pomi d'oro nei quali c'erano due carbonchi, "affinché l'oro potesse risplendere di giorno e i carbonchi di notte". Nello strano romanzo di Lodge "A Margarite of America", era detto che nella camera della Regina si potevano vedere "tutte le donne caste del mondo, tutte cesellate in argento, che guardavano attraverso begli specchi di crisolite, di carbonchi, di zaffiri e di smeraldi verdi". Marco Polo aveva visto gli abitanti di Cipango mettere delle perle rosa in bocca ai morti. Un mostro marino era stato innamorato della perla che il palombaro portò al Re Perozes e aveva ucciso il ladro, portando il lutto per quella perdita per sette lune. Quando gli Unni attirarono il Re nella grande imboscata, questi, secondo di Procopio, la scagliò lontano, e così non fu più ritrovata, benché l'imperatore Anastasio offrisse per essa cinquecento volte il suo peso in monete d'oro. Il Re di Malabar aveva mostrato a un certo veneziano un rosario composto di trecentoquattro perle, una per ciascuno degli Dei che adorava.
Quando il Valentino, figlio di Alessandro Sesto, visitò Luigi Dodicesimo di Francia, il suo cavallo, stando a Brantôme, era carico di foglie d'oro e il suo berretto era ornato di una doppia fila di rubini che producevano un grande splendore. Carlo d'Inghilterra cavalcò con staffe adorne di quattrocentoventuno diamanti. Riccardo Secondo aveva una veste, valutata trentamila marchi, tutta coperta di rubini. Hall descrive Enrico Ottavo, nell'atto di andare alla Torre per essere incoronato, vestito di "un giubbone d'oro sbalzato, ricamato sul davanti di diamanti e di pietre preziose e al collo una grande collana fatta di grossi rubini". I favoriti di Giacomo Primo portavano orecchini di smeraldi montati in filigrana d'oro. Edoardo Secondo diede a Piers Gaveston un'armatura d'oro rosso tempestata di giacinti, una collana di rose d'oro ornate di turchesi e una calotta "parsemée" di perle. Enrico Secondo portava guanti ingemmati che gli arrivavano al gomito e aveva un guanto da falconiere ornato di dodici rubini e cinquantadue grandi perle ornamentali. Il cappello ducale di Carlo il Temerario, ultimo duca di Borgogna della sua stirpe, aveva pendenti fatti di perle ed era tempestato di zaffiri.
Quanta raffinatezza nella vita di un tempo! che sfarzo nelle sue pompe e nei suoi ornamenti! Era una cosa meravigliosa persino leggere del lusso dei morti.
Più tardi dedicò la propria attenzione ai ricami e alle tappezzerie, che sostituivano gli affreschi nelle stanze gelide delle nazioni nordiche d'Europa. Indagando su quest'argomento e lui aveva sempre una straordinaria facoltà di lasciarsi assorbire momentaneamente da tutto quello di cui si occupava fu quasi rattristato riflettendo sulla rovina che il tempo causa alle cose belle e meravigliose. Almeno a questa egli era riuscito a sottrarsi. Un'estate seguì l'altra, le giunchiglie gialle fiorirono e morirono più volte, notti d'orrore ripeterono la storia della loro ignominia, ma lui restava immutato; non c'era inverno capace di alterare il suo volto e di sciupare il suo fiorire. Quanto era diversa la sorte delle cose materiali! Dove erano scomparse? Dov'era la grande veste color del croco sulla quale gli Dei combattevano coi Giganti, e che brune fanciulle avevano lavorato per la gioia di Atena? Dove l'enorme velario che Nerone aveva teso sul Colosseo di Roma, la titanica vela di porpora sulla quale era raffigurato il cielo stellato e Apollo nell'atto di guidare il carro tirato da biarichi destrieri con le redini d'oro? Avrebbe voluto vedere i curiosi tovaglioli tessuti per il Prete del Sole, sui quali erano raffigurate tutte le leccornie e le vivande che servivano a un festino; la veste mortuaria del Re Cilperico, con le sue trecento api d'oro; le vesti fantastiche che sollevarono l'indignazione del Vescovo di Ponto, istoriate di "leoni, pantere, orsi, cani, foreste, rupi, cacciatori, tutto insomma quello che un pittore può copiare dalla natura", e la veste indossata una volta da Carlo d'Orléans, sulle cui maniche erano ricamati i versi di una canzone che cominciava:
"Madame, je suis tout joyeux", mentre l'accompagnamento musicale delle parole era tracciato in filo d'oro e ognuna delle note, che a quei tempi avevano forma quadrata, era formata da quattro perle.
Lesse della camera preparata al palazzo di Reims per la Regina Giovanna di Borgogna, decorata con "mille trecento ventuno pappagalli fatti a ricamo e blasonati con l'arma del Re e cinquecento sessantuno farfalle, le cui ali erano similmente adorne dell'arma della Regina, il tutto lavorato in oro". Caterina de' Medici ebbe un letto mortuario, costruito per lei, di velluto nero, tempestato di mezze lune e di soli; le cortine erano di damasco, con corone e ghirlande di foglie raffigurate su un fondo d'oro e d'argento, sfrangiate lungo i margini di ricami di perle, che fu sistemato in una camera tutta tappezzata da una serie delle imprese della Regina, ritagliate in velluto nero su stoffa d'argento. Luigi Quattordicesimo aveva nel suo appartamento delle cariatidi ricamate in oro, alte quindici piedi. Il letto di parata di Sobieski, Re di Polonia, era fatto di broccato d'oro di Smirne, sul quale erano ricamati in turchesi dei versetti del Corano; le gambe erano d'argento dorato, magnificamente cesellate e riccamente tempestate di medaglioni smaltati e gemmati. Era stato preso nel campo turco sotto Vienna, e lo stendardo di Maometto era stato sotto le dorature frementi del suo baldacchino.
Così cercò per un anno intero di accumulare gli esemplari più fini di tessuti e di ricami che riuscì a trovare. Si procurò le diafane mussoline di Delhi, finemente tessute di palme di filo d'oro e ricamate di ali iridescenti di scarabei; le garze di Dacca che per la loro trasparenza sono chiamate in Oriente "aria tessuta", "acqua corrente" e "rugiada serotina"; strani panni istoriati di Giava; complicate tappezzerie gialle cinesi; libri rilegati in satin fulvo o in seta di un azzurro chiaro, adorne di "fleurs de lys", di uccelli e di figure: broccati siciliani e pesanti velluti spagnoli; stoffe georgiane adorne di monete d'oro, e Fukusas giapponesi, con i loro ori pendenti nel verde e i loro uccelli dalle piume meravigliose.
Ebbe inoltre una passione speciale per i paramenti ecclesiastici, come quella che nutriva, in verità, per qualsiasi cosa connessa con il servizio della Chiesa. Nei lunghi cassoni di cedro allineati lungo la galleria occidentale della casa aveva deposto molti belli e rari esemplari di quella che è davvero la veste della Sposa di Cristo, che deve indossare porpora, gioielli e lini finissimi per nascondere il corpo pallido ed emaciato, logorato dalle sofferenze delle quali va in cerca e ferito dagli strazi che essa stessa si infligge. Possedeva una sfarzosa cappa di seta cremisina e di damasco d'oro, che ornava un motivo sempre ricorrente di melograne d'oro disposte in inflorescenze stilizzate di sei petali, oltre il quale da tutti e due i lati c'era il motivo delle pigne ricamate in perle. I ricchi bordi dorati erano divisi in pannelli rappresentanti scene della vita della Vergine e sul cappuccio era raffigurata in sete colorate l'incoronazione di Maria; lavoro italiano del quattordicesimo secolo. Un'altra cappa era di velluto verde, ricamato di gruppi di foglie d'acanto in forma di cuori, dai quali spuntavano dei fiori bianchi dal lungo stelo, i cui dettagli erano rilevati con filo d'argento e cristalli colorati. Il fermaglio aveva una testa di serafino lavorata di filo d'oro in rilievo. Il bordo era tessuto in damasco di seta rosso e oro, costellato di medaglioni di vari santi e martiri, tra i quali San Sebastiano. Possedeva inoltre pianete di seta color ambra, di seta azzurra e di broccato d'oro, di damasco giallo e di tela d'oro, ornate di raffigurazioni della Passione e Crocifissione di Cristo e ricamate di leoni, pavoni ed altri emblemi; dalmatiche di satin bianco e di damasco di seta rosa, decorate di tulipani, di delfini e di "fleurs de lys"; paliotti di velluto cremisino e di lino azzurro; e molti corporali, veli omerali e sudarii. Nei mistici uffici ai quali simili cose erano destinate c'era qualcosa che stimolava la sua immaginazione.
Poiché per lui questi tesori e tutto quello che aveva raccolto nella sua bella casa costituivano mezzi per dimenticare, modi per sfuggire, per lo spazio di una stagione, a un terrore che a momenti gli sembrava troppo grande per essere sopportato. Al muro della stanza deserta, chiusa a chiave, nella quale aveva trascorso tanta parte della sua adolescenza, aveva appeso con le sue stesse mani il terribile ritratto, le cui fattezze alterate gli mostravano quale fosse veramente l'abiezione della sua vita e davanti vi aveva disposto, come un sipario, la coltre di porpora e d'oro. Non ci andava per settimane intere, durante le quali dimenticava quella ripugnante cosa dipinta e recuperava la leggerezza del cuore, la sua mirabile allegria, la sua appassionata dedizione alla pura esistenza. Poi improvvisamente, una notte, usciva furtivamente di casa, andava in qualche orribile posto nei pressi di Blue Gate Fields, e vi restava per giorni e giorni, finché non lo cacciavano via. Al ritorno si sedeva di fronte al ritratto, a volte nauseato di quello e di se stesso, altre volte invece pieno di quell'orgoglio dell'individualismo, nel quale consiste per metà il fascino del peccato; e allora sorrideva, con una voluttà segreta, al fantasma deformato costretto a portare il peso che avrebbe dovuto gravare sulle sue spalle.
Dopo qualche anno non poté più sopportare di rimanere a lungo lontano dall'Inghilterra e abbandonò tanto la villa a Trouville che aveva diviso con Lord Henry quanto la casetta di Algeri, tutta circondata da un muro bianco, dove avevano trascorso più di una volta l'inverno. Gli era odioso separarsi dal ritratto che era tanta parte della sua vita e temeva inoltre che durante la sua assenza qualcuno potesse penetrare nella stanza, ad onta delle complicate serrature che aveva fatto applicare alla porta. Si rendeva perfettamente conto che in quel caso niente sarebbe stato rivelato. Era vero che, nonostante tutta la turpitudine e tutta la bruttezza del viso, il ritratto conservava tuttavia una spiccata somiglianza con lui stesso; ma da questo che mai poteva apprendere la gente? Se qualcuno avesse provato a fargli qualche rimprovero gli avrebbe riso in faccia. Quel ritratto non l'aveva dipinto lui; in che cosa poteva riguardarlo il fatto che avesse un aspetto ignobile e ignominioso? E anche se avesse raccontato tutto, chi gli avrebbe creduto?
Tuttavia aveva paura. A volte, mentre si trovava nella sua grande casa nel Nottinghamshire, dove riceveva i giovani eleganti del suo rango, suoi compagni abituali, e faceva stupire tutta la contea per il lusso sfrenato e lo splendore sfarzoso del suo modo di vivere, abbandonava improvvisamente gli ospiti e si precipitava in città per sincerarsi che la porta non fosse stata toccata e che il ritratto fosse ancora al suo posto. E se l'avessero rubato? La sola idea bastava a gelarlo d'orrore. In quel caso il mondo avrebbe certamente conosciuto il suo segreto. Il mondo forse già lo sospettava.
Poiché se era vero che affascinava molti, non erano pochi quelli che diffidavano di lui. Corse il forte rischio di essere bocciato a un circolo del West End, al quale la sua nascita e la sua posizione sociale gli davano tutti i titoli per essere ammesso; e una volta corse voce che, essendo stato introdotto da un amico nella sala da fumo del Churchill, il duca di Berwick e un altro gentiluomo si alzarono con ostentazione e uscirono dalla stanza.
Dopo che ebbe superato i ventotto anni, sul suo conto cominciarono a circolare delle storie curiose. Si disse che era stato visto in rissa con dei marinai stranieri in un'ignobile taverna nelle parti più remote di Whitechapel, e che frequentava ladri e falsari e conosceva i misteri del loro mestiere. Le sue inesplicabili assenze divennero notorie; e quando riappariva in società, in qualche angolo c'erano alcuni che si sussurravano qualche cosa all'orecchio oppure gli passavano vicino sogghignando o lo guardavano con occhio freddo e indagatore, come se fossero decisi a scoprire il suo segreto.
A simili insolenze, a simili tentativi di umiliarlo egli, naturalmente, non prestava la minima attenzione; e nel pensiero dei più le sue maniere franche e bonarie, il suo incantevole sorriso di adolescente, la grazia infinita di quella miracolosa giovinezza che sembrava non abbandonarlo mai, costituivano di per sé una risposta adeguata alle calunnie, come loro le qualificavano, messe in circolazione sul suo conto. Si osservava però che dopo qualche tempo quelli che erano stati più intimi con lui sembravano evitarlo. Donne che lo avevano adorato freneticamente e che per amor suo avevano affrontato tutte le censure della società e sfidato tutte le convenzioni erano viste impallidire di vergogna e di orrore quando Dorian Gray entrava nella stanza.
Ma agli occhi di molti, questi scandali sussurrati non avevano altro effetto che quello di aumentare il suo fascino strano e pericoloso. La sua grande ricchezza costituiva un certo elemento di sicurezza; poiché la società, o almeno la società civilizzata, non è mai molto portata a credere a qualcosa di male sul conto di quelli che sono insieme ricchi e affascinanti. Sente istintivamente che le buone maniere sono più importanti della moralità e attribuisce molto meno valore alla più alta rispettabilità che al possesso di un buon cuoco. Del resto, dopo tutto, sentirsi dire che l'uomo che ci ha offerto un cattivo pranzo e un vino scadente è irreprensibile nella vita privata costituisce una ben magra consolazione. Come ebbe a dire una volta Lord Henry nel corso di una discussione su questo argomento, non bastano neanche le virtù cardinali a compensare una portata servita appena tiepida; e forse in favore di questa sua teoria ci sarebbe non poco da dire, poiché i canoni della buona società sono, o dovrebbero essere, identici ai canoni dell'arte. La forma ha per essa un'importanza addirittura essenziale; dovrebbe accordare l'insincerità dei personaggi di un dramma romantico con lo spirito e con la bellezza che rendono quei drammi così deliziosi per noi. L'insincerità è proprio una cosa tanto terribile? Non credo. E' soltanto un metodo che ci serve a moltiplicare la nostra personalità.
Così almeno pensava Dorian Gray. La psicologia superficiale che concepisce l'Io nell'uomo come una cosa semplice, permanente, degna di fiducia e unica nella sua essenza, lo sorprendeva. Per lui l'uomo era una creatura con miriadi di vite e miriadi di sensazioni, una creatura complessa e multiforme, che portava in sé strane eredità di pensiero e di passioni e la cui carne stessa era infettata dalle mostruose malattie dei morti. Gli piaceva passeggiare per la scura e fresca galleria di quadri della sua casa di campagna guardando i ritratti di coloro il cui sangue scorreva nelle sue vene. C'era Philip Herbert, descritto da Francis Osborne nelle sue "Memoires on the Reigns of Queen Elizabeth and King James" come uno che era "accarezzato dalla Corte per il suo bel viso, che non durò a lungo". La vita che lui conduceva a volte era forse la vita del giovine Herbert? Qualche strano germe velenoso si era forse insinuato da un corpo nell'altro fino a raggiungere il suo? Era stata la sensazione oscura della bellezza deteriorata di quell'uomo a fargli esprimere tanto improvvisamente e quasi senza motivo, nello studio di Basil Hallward, la folle preghiera che aveva tanto radicalmente mutato la sua esistenza? C'era il Sir Anthony Sherard, col giubbetto d'oro, la sopravveste ingioiellata, il collo e i manichini orlati d'oro e l'armatura argentea e nera ammucchiata ai Piedi. Che cosa aveva ereditato da quest'uomo? L'amante di Giovanna di Napoli gli aveva forse trasmesso un'eredità di peccato e di vergogna? I suoi atti erano forse soltanto i sogni che quel morto non aveva osato tradurre in realtà? Qui, dalla tela scolorita, sorrideva Lady Elizabeth Devereux, in cappuccio di velo, pettorale di perle e maniche aperte di color rosa. Nella destra teneva un fiore, mentre la sinistra stringeva una collana smaltata di rose bianche e gialle; su un tavolino al suo fianco, un mandolino e una mela; sulle sue scarpette a punta grandi coccarde verdi. Egli conosceva la sua vita e le strane storie che si raccontavano a proposito dei suoi amanti. C'era in lui qualcosa del suo temperamento? Gli occhi ovali, dalle palpebre pesanti, sembravano guardarlo incuriositi.
Che dire di George Willoughby, coi suoi capelli incipriati e i suoi nei fantastici? Che aspetto malvagio aveva! Il volto era scuro e abbronzato e le labbra sensuali sembravano atteggiate a una smorfia di disdegno. Sulle sue sottili mani gialle, sovraccariche di anelli, cadevano delicate maniche di pizzo. Era stato uno degli uomini alla moda del diciottesimo secolo, legato d'amicizia in gioventù con Lord Ferrars. Che dire del secondo Lord Beckenham, compagno del Principe Reggente nei suoi giorni più sfrenati, uno dei testimoni del suo matrimonio segreto con la signora Fitzherbert? Com'era bello e altero, con i suoi ricci castani e la sua posa insolente! Quali passioni gli aveva tramandato? Il mondo l'aveva tacciato d'infamia; era stato uno degli organizzatori delle orge di Carlton House e sul suo petto brillava la placca della Giarrettiera. Vicino al suo era appeso il ritratto di sua moglie, una donna pallida, co le labbra sottili, vestita di nero. Anche il sangue di lei scorreva nelle sue vene.
Come sembrava strano tutto questo! E sua madre, col volto che ricordava quello di Lady Hamilton e le labbra umide, come se fossero state spruzzate di vino! Sapeva che cosa aveva ricevuto da lei: la sua bellezza e la sua passione per la bellezza altrui. Gli sorrideva nel suo fluente costume di Baccante; i capelli erano inghirlandati di pampini e il vino purpureo traboccava dalla coppa che teneva in mano. Nel ritratto l'incarnato si era avvizzito, ma gli occhi erano ancora meravigliosi per la profondità e per la lucentezza del colore e sembravano seguire tutti i suoi passi.
Come li abbiamo nella nostra propria razza, così abbiamo antenati nella letteratura; molti di questi, forse, anche più vicini a noi per tipo e temperamento e certo con un'influenza di cui siamo ancora più assolutamente consapevoli. A volte sembrava a Dorian Gray che tutta quanta la storia fosse soltanto il racconto della sua stessa vita, non come l'aveva vissuta negli atti e nelle circostanze, ma come la sua immaginazione l'aveva creata per lui, come si era svolta nel suo cervello e nelle sue passioni. Gli sembrava di averle conosciute tutte, quelle strane e terribili figure che erano apparse sulla scena del mondo e avevano reso così meraviglioso il peccato e così raffinata la malvagità; gli sembrava che in modo misterioso le loro vite fossero state una cosa sola con la sua.
Anche l'eroe del mirabile romanzo che aveva tanto influenzato la sua vita aveva conosciuto questa curiosa fantasia. Nel settimo capitolo egli racconta come, incoronato di lauro per proteggersi dal fulmine, era stato Tiberio e si era seduto in un giardino di Capri a leggere gli osceni libri elefantini, mentre intorno a lui si aggiravano nani e pavoni e il flautista imitava burlescamente l'oscillare dell'incensiere; era stato Caligola, e aveva gozzovigliato insieme coi fantini dalla giubba verde nelle loro scuderie e cenato in una mangiatoia d'avorio insieme con un cavallo dai finimenti ingioiellati; era stato Domiziano, e aveva vagato per un corridoio con specchi marmorei alle pareti, guardandosi intorno con gli occhi stravolti, in cerca del luccicare del pugnale che doveva mettere fine ai suoi giorni, ammalato di quell'"ennui", di quel "taedium vitae" che prende coloro ai quali la vita non rifiuta niente; aveva guardato attraverso uno smeraldo trasparente i rossi macelli del circo, e poi era stato trasportato in una lettiga di perle e di porpora, tirata da mule ferrate d'argento, per la Strada delle Melegrane fino a una Casa Aurea e aveva udito la gente acclamare, al suo passaggio, Nerone Cesare; era stato Eliogabalo, e si era imbellettato la faccia, aveva filato la conocchia con le donne e portato da Cartagine la Luna per unirla in mistiche nozze al Sole.
Dorian rileggeva a più riprese questo capitolo fantastico e i due immediatamente successivi, nei quali, come in curiosi arazzi e in smalti abilmente lavorati, erano ritratte le forme terribili e belle di coloro dei quali il vizio, il sangue o la spossatezza avevano fatto dei mostri o dei pazzi: Filippo duca di Milano, che uccise la moglie e le tinse le labbra con un veleno scarlatto affinché il suo amante potesse succhiare la morte dal morto oggetto delle sue carezze; Pietro Barbo, il Veneziano, noto come Paolo Secondo, che nella sua vanità tentò di assumere il nome di Formoso e la cui tiara, valutata duecento mila fiorini, era stata comperata a prezzo di un tremendo peccato; Giovanni Maria Visconti, che aizzava i cani a dare la caccia agli uomini e il cui cadavere assassinato fu coperto di rose da una prostituta che l'aveva amato; il Borgia sul suo cavallo bianco, col Fratricidio seduto in groppa dietro di lui e col mantello macchiato del sangue di Perotto; Pietro Riario, il giovane Cardinale Arcivescovo di Firenze, figlio favorito di Sisto Quarto, la cui bellezza era simile solo alla sua dissolutezza, che ricevette Eleonora d'Aragona in un padiglione di seta bianca e cremisina, pieno di ninfe e di centauri, e indorò un fanciullo perché potesse servire al festino come Ganimede o Ila; Ezzelino, la cui melanconia non conosceva altro rimedio che lo spettacolo della morte, che nutriva per il sangue rosso la stessa passione che altri nutrono per il vino rosso e di cui si diceva che fosse figlio del diavolo e avesse barato giocando ai dadi col padre la propria anima; Giambattista Cibo, che prese per scherno il nome di Innocenzo, nelle cui vene torpide un medico ebreo trasfuse il sangue di tre giovinetti; Sigismondo Malatesta, l'amante di Isotta, Signore di Rimini, bruciato in effigie a Roma come nemico di Dio e dell'uomo, che strangolò Polissena con una salvietta e diede a Ginevra d'Este il veleno in una coppa di smeraldo ed eresse al culto cristiano una chiesa pagana in onore di una ignominiosa passione; Carlo Sesto, che aveva adorato la moglie del fratello tanto furiosamente che un lebbroso lo ammonì della pazzia che stava per coglierlo e che, quando il suo cervello si ammalò e diventò delirante, poteva essere placato soltanto per mezzo di carte saracene che portavano le immagini dell'Amore, della Morte e della Follia; e Grifonetto Baglioni col suo farsetto trapunto, il berretto gemmato e i ricci in forma di acanto, che uccise Astorre con la sposa e Simonetto col suo paggio, e che era di una tale bellezza che quando cadde morente nella piazza gialla di Perugia coloro che l'avevano odiato non potevano trattenere le lacrime e Atalanta, che l'aveva maledetto, lo benedisse.
In tutti costoro c'era un fascino orribile. Egli li vedeva di notte: e di giorno turbavano la sua immaginazione. Il Rinascimento conobbe strane maniere di avvelenare, con un elmetto e con una torcia accesa, con un guanto trapunto e un ventaglio tempestato di gemme, con una sfera da profumi dorata e con una catena d'ambra.
Dorian Gray era stato avvelenato da un libro. C'erano momenti nei quali considerava il male semplicemente come un moto attraverso il quale tradurre in azione la sua concezione del Bello.
Capitolo dodicesimo.
Era il 9 di novembre, vigilia del suo trentottesimo compleanno, come lui ebbe spesso a ricordare in seguito.
Stava tornando a casa a piedi verso le undici, dalla casa di Lord Henry dove aveva pranzato, ed era avvolto in una pesante pelliccia perché la notte era fredda e nebbiosa. All'angolo di Grosvenor Square e South Audley Street gli passò vicino nella nebbia un uomo che camminava molto in fretta, col bavero del pastrano grigio rialzato e una valigia in mano. Dorian lo riconobbe: era Basil Hallward. Fu preso da uno strano, inesplicabile senso di paura.
Non fece nessun segno di averlo riconosciuto e continuò frettolosamente verso casa.
Hallward però l'aveva visto; e Dorian lo sentì prima fermarsi sul marciapiede, poi corrergli dietro e dopo pochi istanti sentì la sua mano posarglisi sul braccio.
- Dorian, che fortuna straordinaria! Ti ho aspettato nella tua biblioteca dalle nove in poi, finché ho avuto compassione del tuo servitore che era stanco e mi sono fatto accompagnar fuori, dicendogli di andare a letto. Parto per Parigi col treno di mezzanotte e desideravo in modo particolare di vederti prima di partire. Quando mi sei passato vicino, mi è sembrato che fossi tu, o piuttosto la tua pelliccia, ma non ero sicuro. Non mi avevi riconosciuto?
- Con questa nebbia, caro Basil? Quasi quasi non riconosco neppure Grosvenor Square. Credo che la mia casa debba essere in qualche posto qui vicino, ma non ne sono affatto sicuro. Mi dispiace che tu parta, perché non ti vedo da secoli. Però tornerai presto?
- No; starò via dall'Inghilterra per sei mesi. Voglio prendere uno studio a Parigi e chiudermici dentro finché non avrò terminato un grande quadro che ho in testa. Non era però di me stesso che ti volevo parlare, Dorian. Eccoci a casa tua. Lasciami entrare un momento: ho qualche cosa da dirti.
- Ne sarò felice. Ma non perderai il treno? - disse Dorian, con aria indolente, mentre saliva i gradini e apriva la porta con la chiave.
Il chiarore della lampada riuscì a farsi strada attraverso la nebbia e Hallward guardò l'orologio.
- Ho un sacco di tempo - rispose. - Il treno non parte che a mezzanotte e un quarto e sono appena le undici. Anzi quando ti ho incontrato stavo andando al circolo a cercarti. Sai, non ho impicci di bagaglio; la roba pesante l'ho spedita e tutto quello che ho con me è questa valigetta, e così in venti minuti posso arrivare facilmente alla stazione.
Dorian lo guardò sorridendo. - Bel modo di viaggiare per un pittore alla moda! Una valigetta e un pastrano! Vieni dentro, altrimenti la nebbia entra in casa. E bada bene di non parlare di cose serie. Oggi niente è serio, o almeno niente dovrebbe essere serio.
Basil scosse la testa nell'entrare e seguì Dorian nella biblioteca. Nel grande caminetto aperto bruciava un bel fuoco di legna; le lampade erano accese e su un tavolino intarsiato c'era una cassetta olandese da liquori, aperta, qualche sifone di soda e alcuni grandi bicchieri di vetro molato.
- Come vedi, Dorian, il tuo servitore mi ha messo proprio a mio agio. Mi ha dato tutto quello che desideravo, comprese le tue migliori sigarette col bocchino d'oro. E' un uomo che ha il senso dell'ospitalità e mi piace molto più di quel Francese che avevi prima. Che ne è successo del Francese, a proposito?
Dorian scrollò le spalle. - Credo che abbia sposato la cameriera di Lady Radley e le abbia aperto a Parigi un negozio di sartoria inglese. Là attualmente, a quanto mi dicono, l'anglomania fa furore. Sembra un po' stupido da parte dei Francesi, non ti pare?
Però, sai, come domestico non era affatto cattivo. A me non piacque mai; però non c'era niente di cui potessi lagnarmi. Spesso ci immaginiamo delle cose che sono perfettamente assurde. Mi era veramente molto affezionato e quando se ne andò sembrava molto afflitto. Vuoi un altro brandy e soda o preferisci del vino del Reno con selz? E' quello che prendo sempre io, e nella stanza vicina ce ne deve essere di certo.
- Grazie, non prendo altro - disse il pittore, togliendosi cappello e pastrano e gettandoli sulla valigia che aveva depositato in un angolo. - E ora, mio caro, ti devo parlare seriamente. Non fare quella faccia accigliata; mi rendi le cose molto più difficili.
- Di che si tratta? - chiese Dorian, con la sua aria arrogante, lasciandosi cadere sul divano. - Spero che non si tratti di me.
Stasera sono stanco di me stesso e vorrei essere qualcun altro.
- Si tratta di te - rispose Hallward con la sua voce grave e profonda, - e io devo dirtelo. Non durerà più di mezz'ora.
Dorian sospirò, accese una sigaretta e mormorò: - Mezz'ora!
- Non mi sembra che sia chiederti molto, Dorian, e se parlo è soltanto per amor tuo. Mi pare giusto che tu sappia che a Londra si stanno dicendo contro di te le cose più spaventose.
- Non voglio saperne niente. Adoro gli scandali degli altri; ma quelli che riguardano me non mi interessano: non hanno il fascino della novità.
- Debbono interessarti, Dorian. Ogni gentiluomo è interessato al proprio buon nome, e tu non vorresti che si parlasse di te come di un individuo turpe e ignobile. Tu, naturalmente, hai la tua posizione, la tua ricchezza e tutto il resto; ma posizione e ricchezza non sono tutto. Bada che io non credo per niente a queste voci, o almeno non posso crederci quando ti vedo. Il peccato è una cosa che si scrive sul viso di un uomo e non può restare celato. La gente parla a volte di vizi segreti. Non esiste niente di simile. Se uno sciagurato ha un vizio, questo si rivela nella linea della bocca, nella pesantezza delle palpebre e perfino nella sagoma delle mani. L'anno scorso un tale (non ne dico il nome, ma tu lo conosci) venne da me per farsi fare il ritratto.
Non l'avevo mai visto prima e non ne avevo mai sentito parlare fino ad allora, benché da allora in poi ne abbia sentito parlare molto. Mi offrì un prezzo stravagante, ma io rifiutai perché nella forma delle sue dita c'era qualcosa che mi era odiosa. Ora so che avevo perfettamente ragione in quello che avevo immaginato sul suo conto; la vita che conduce è terribile. Ma tu, caro Dorian, con la tua faccia pura, aperta, innocente e la tua gioventù mirabilmente intatta non posso credere niente contro di te. Eppure ti vedo molto di rado; allo studio non ci vieni più, e quando sono lontano da te e sento tutte queste cose orribili che la gente va mormorando sul tuo conto non so che cosa dire. Come mai, Dorian, un uomo come il duca di Berwick esce dalla sala di un circolo quando c'entri tu? Come mai ci sono tanti gentiluomini a Londra che non vengono a casa tua e non t'invitano mai a casa loro? Un tempo eri amico di Lord Staveley. La settimana scorsa l'ho incontrato a un pranzo. Accadde che il tuo nome venisse menzionato nel corso della conversazione, a proposito delle miniature che hai prestato all'esposizione al Dudley. Staveley fece una smorfia e disse che tu potevi avere il massimo gusto artistico, ma eri un uomo che a nessuna ragazza perbene dovrebbe essere permesso di conoscere e col quale nessuna donna onesta dovrebbe trovarsi seduta nella stessa stanza. Gli ricordai che ero amico tuo e gli chiesi che cosa intendesse dire. Me lo disse: me lo disse chiaro e tondo davanti a tutti: era orribile. Perché la tua amicizia riesce così fatale ai giovani? C'era quello sciagurato ragazzo della Guardia che si suicidò: tu eri suo grande amico. C'era Sir Henry Ashton, che fu costretto a partire dall'Inghilterra con un nome infamato: tu e lui eravate inseparabili. E Adrian Singleton e la sua fine tremenda? E il figlio unico di Lord Kent e la sua carriera? Ieri ho incontrato suo padre in Saint James Street; sembrava disfatto dalla vergogna e dal dolore. E il giovane duca di Perth? Che razza di vita è la sua attualmente? Qual è il gentiluomo disposto a frequentarlo?
- Basta, Basil. Stai parlando di cose delle quali non sai niente, - disse Dorian Gray, mordendosi il labbro, con una nota di infinito disprezzo nella voce. - Mi chiedi perché Berwick esce dalla stanza quando c'entro io: è perché io so tutto della sua vita, non perché egli sappia qualcosa della mia. Col sangue che ha nelle vene, come potrebbe avere dei precedenti puliti? Mi chiedi di Henry Ashton e del giovane Perth. Sono forse io che ho insegnato i suoi vizi all'uno e il suo libertinaggio all'altro? Se quell'imbecille del figlio di Kent va a cercarsi una moglie sul marciapiede è forse cosa che mi riguarda? Se Adrian Singleton scrive su una cambiale il nome di un suo amico, sono io forse il suo guardiano? So bene quanto chiacchiera la gente in Inghilterra.
Le classi borghesi, intorno alle loro volgari tavole da pranzo, sbandierano i loro pregiudizi morali e mormorano sul conto di quelli che chiamano la dissipazione della gente migliore di loro per darsi l'aria di appartenere alla buona società e di essere intimi delle persone che calunniano. In questo paese basta che un uomo abbia un po' di distinzione e d'intelligenza perché tutte le lingue volgari gli si scatenino contro. E che razza di vita fanno poi quelli che si atteggiano a moralisti? Caro amico, tu dimentichi che questa è la patria dell'ipocrisia.
- Dorian - esclamò Hallward, - la questione è un'altra.
L'Inghilterra ha i suoi difetti, lo so, e la società inglese è tutta quanta fuori strada. Ma è per questa ragione che desidero che tu sia una persona come si deve, e tu non lo sei stato. Si ha il diritto di giudicare un uomo in base all'effetto che produce sui propri amici. Sembra che i tuoi perdano ogni senso dell'onore, di bontà, di purezza. Tu hai istillato in loro la follia del piacere e se sono sprofondati nell'abisso sei tu che ce li hai portati. Sì, ce li hai condotti, eppure puoi sorridere come stai sorridendo in questo momento. Ma c'è anche di peggio. So che tu e Harry siete inseparabili. Almeno per questo motivo, se non per altro, non avresti dovuto rendere proverbiale il nome di sua sorella.
- Basil, attento. Stai andando un po' troppo lontano.
- Io devo parlare e tu devi ascoltarmi e mi ascolterai. Quando tu facesti la conoscenza di Lady Gwendolen il più piccolo soffio di scandalo non l'aveva mai sfiorata. Ora c'è forse a Londra una sola donna rispettabile che uscirebbe con lei in carrozza nel Parco? Se nemmeno ai suoi bambini è stato permesso di vivere con lei! E poi ci sono altre storie: di come sei stato visto uscire fuori all'alba da certe case orribili e penetrare travestito nei covi più luridi di Londra. Sono vere, possono essere vere queste storie? Quando le sentii per la prima volta mi misi a ridere; adesso quando le sento mi fanno rabbrividire. E la tua casa di campagna, e la vita che vi si conduce? Dorian, tu non sai quello che si dice di te. Non ti dirò che non voglio farti una predica.
Mi ricordo che Henry disse una volta che chiunque vuole trasformarsi in un curato dilettante comincia con il dire così per un momento e passa immediatamente a violare la sua promessa. Io voglio farti la predica; voglio che tu faccia una vita che ti assicuri il rispetto di tutti, che tu ti liberi delle persone spaventose che frequenti. Non alzare le spalle in quel modo; non fare l'indifferente. Tu possiedi un'influenza meravigliosa; esercitala per il bene e non per il male. Dicono che corrompi tutti quelli di cui diventi intimo e che basta che tu entri in una casa perché ti segua, in una forma qualsiasi, la vergogna. Se sia così o no, io non lo so: e come potrei saperlo? Ma questo si dice di te. Mi hanno raccontato cose che è impossibile mettere in dubbio. Lord Gloucester era uno dei miei più grandi amici a Oxford. Mi ha fatto vedere una lettera che sua moglie gli scrisse mentre era morente, e sola, nella sua villa di Mentone. Il tuo nome era menzionato nella più tremenda confessione che io abbia mai letto. Gli ho detto che era una cosa assurda, che ti conoscevo a fondo e che eri incapace di azioni di questo genere. Conoscerti?
Mi chiedo se ti conosco davvero. Per poter rispondere a questa domanda bisognerebbe che vedessi la tua anima.
- Vedere la mia anima! - mormorò Dorian Gray, alzandosi dal sofà, pallidissimo di spavento.
- Sì - rispose gravemente Hallward, con un tono di profonda afflizione nella voce, - vedere la tua anima; ma questo può farlo solo Dio.
Dalle labbra del giovine proruppe un'amara risata di scherno.
- La vedrai tu stesso, stasera! - gridò, afferrando un lume che era sulla tavola. - Vieni: è opera tua, e perché non dovresti guardarla? Dopo, se ti fa piacere, potrai raccontarlo al mondo; nessuno ti crederà. Se ti credessero mi vorrebbero ancora più bene; io conosco la nostra epoca meglio di te, nonostante che tu ne parli in modo così noioso. Vieni, ti dico. Hai chiacchierato abbastanza a proposito di corruzione; ora la vedrai in faccia.
In ogni parola che pronunciava vibrava la follia dell'orgoglio.
Batteva il piede in terra col suo modo insolente e fanciullesco e provava una gioia terribile all'idea che qualcun altro stava per condividere il suo segreto e che l'uomo che aveva dipinto quel ritratto, origine di tutte le sue vergogne, sarebbe stato oppresso per tutto il resto dei suoi giorni al ricordo ripugnante di ciò che aveva fatto.
- Sì - aggiunse, venendogli più vicino e guardandolo fisso nei suoi occhi severi, - ti mostrerò la mia anima. Vedrai ciò che tu immagini che Dio solo possa vedere.
Hallward ebbe un sussulto.
- Questa è una bestemmia, Dorian - gridò. - Non devi dire cose come queste. Sai che per te io sono sempre stato un amico fedele.
- Non mi toccare. Finisci quel che hai da dire.
Sul volto del pittore passò come un lampo sinuoso di pena. Si fermò un attimo e fu preso da un senso violento di compassione.
Dopo tutto, che diritto aveva mai di indagare sulla vita di Dorian Gray? Anche se questi aveva fatto solo la decima parte di quello che gli veniva attribuito, quanto doveva aver sofferto! Poi si irrigidì, andò verso il caminetto e si fermò a guardare i ceppi che bruciavano, con le loro ceneri nivee e le loro palpitanti anime di fiamma.
- Sto aspettando, Basil - disse il giovine con voce dura e chiara.
Egli si girò. - Quello che ho da dire è questo - esclamò. - Tu devi darmi una risposta a quelle orribili accuse mosse contro di te. Se mi dici che sono assolutamente false da cima a fondo ti crederò. Negale, Dorian, negale! Non vedi che cosa sto attraversando? Mio Dio! Non dirmi che sei malvagio, corrotto, ignobile!
Dorian Gray sorrise e le sue labbra si atteggiarono al disprezzo.
- Vieni di sopra, Basil - disse calmo. - Io tengo giorno per giorno un diario della mia vita che non esce mai dalla stanza nella quale è scritto. Se vieni con me te lo farò vedere.
- Dorian, verrò con te, se lo desideri. Vedo che ho perso il treno, ma poco male; posso partire domani. Ma stasera non mi chiedere di leggere niente; non desidero altro che una risposta aperta alla mia domanda.
- L'avrai di sopra; qui non potrei dartela. Non avrai da leggere a lungo.
Capitolo tredicesimo
Uscì dalla stanza e cominciò a salire; Basil Hallward gli tenne dietro.
Camminavano senza far rumore, come si fa istintivamente di notte.
La lampada proiettava ombre fantastiche sul muro e sulla scala. Il vento che stava alzandosi fece sbattere qualche finestra.
Quando furono all'ultimo piano, Dorian posò in terra la lampada, estrasse la chiave e la fece girare nella toppa. Chiese, sottovoce:
- Insisti davvero per sapere, Basil?
- Sì.
- Ne sono felice - rispose lui, sorridendo; poi aggiunse, con una certa spietatezza:
- Sei l'unico uomo al mondo che abbia il diritto di sapere tutto sul mio conto, perché con la mia vita hai avuto a che fare molto di più di quanto tu non creda.
Riprese il lume, aprì la porta ed entrò. Una corrente d'aria fredda li investì e il lume, per un attimo, si contrasse in una fiammella di arancione scuro.
- Chiuditi dietro la porta - sussurrò, posando la lampada sulla tavola.
Hallward diede un'occhiata in giro, con un'espressione incuriosita. La stanza sembrava disabitata da anni. Un arazzo fiammingo scolorito, un quadro coperto da un velario, un cassone italiano antico, ecco tutto quello che pareva contenere, oltre a una sedia e a un tavolino. Mentre Dorian Gray stava accendendo una candela consumata a metà posata sul caminetto, vide che tutta la stanza era coperta di polvere e che il tappeto era tutto buchi. Un topo spaurito corse a rifugiarsi dietro i pannelli di legno. C'era un odore umido di muffa.
- Dunque tu credi che Dio solo veda l'anima, Basil? Tira via quella tenda e vedrai la mia.
La voce che parlava era fredda e crudele.
- Dorian - mormorò Hallward, accigliato, - sei matto o fai la commedia?
- Non vuoi farlo? Allora bisognerà che lo faccia io - disse il giovine e strappò dalla bacchetta la tenda, gettandola in terra.
Un'esclamazione di orrore uscì dalle labbra del pittore, quando vide, in quella fioca luce, il viso ripugnante che gli sogghignava dalla tela. Nell'espressione di questo c'era qualche cosa che lo riempì di disgusto e di schifo. Gran Dio! era la faccia stessa di Dorian quella che stava guardando! Quell'orrore, qualunque esso fosse, non aveva però interamente distrutto quella mirabile bellezza; nei capelli diradati c'era ancora un po' d'oro e sulla bocca sensuale un po' di scarlatto; gli occhi deturpati avevano conservato un bel po' della dolcezza del loro azzurro; le nobili curve non erano ancora completamente scomparse da quelle narici cesellate e da quel collo plastico. Sì, era Dorian in persona; ma chi l'aveva fatto? Gli sembrava di riconoscere la sua pennellata e la cornice era quella disegnata da lui. Era un pensiero mostruoso, eppure si sentì spaventato. Prese la candela accesa e l'avvicinò al ritratto. Nell'angolo di sinistra c'era il suo nome, tracciato in lunghe lettere di un vermiglio chiaro.
Era una sporca parodia, una satira infame, ignobile. Non l'aveva fatto lui, eppure era il suo quadro, lo sapeva; e gli sembrò che in un attimo il suo sangue non fosse più di fuoco, ma di ghiaccio inerte. Il suo quadro? Che significava? Perché si era alterato? Si girò e guardò Dorian Gray con gli occhi di un uomo ammalato; la sua bocca si contorse e la sua lingua arida sembrò incapace di articolare una parola. Passandosi la mano sulla fronte la sentì madida di un sudore appiccicoso.
Il giovine, appoggiato al caminetto, lo guardava con quell'espressione che si vede a volte nel viso di coloro che sono assorti in un dramma interpretato da un grande attore. In essa non c'era né vera gioia né vero dolore, ma semplicemente la passione dello spettatore e forse un bagliore di trionfo negli occhi. Si era tolto il fiore dall'occhiello e lo annusava, o fingeva di annusarlo.
- Che significa questo? - gridò finalmente Hallward. La sua voce suonò stranamente stridula ai suoi stessi orecchi.
- Anni fa, quand'ero un ragazzo - disse Dorian Gray schiacciando il fiore nel cavo della mano, - tu mi conoscesti, mi adulasti e mi insegnasti a essere vano della mia bellezza. Un giorno mi presentasti a un tuo amico, che mi spiegò il miracolo della giovinezza, e tu finisti il mio ritratto, che mi rivelò il miracolo della bellezza. In un momento di pazzia, del quale non posso dire neppure adesso se lo deploro o no, io espressi un desiderio, o forse preferisci chiamarlo preghiera...
- Lo ricordo! oh, come lo ricordo bene! Ma no, la cosa è impossibile. La stanza è umida, la muffa deve essere penetrata nella tela, oppure i colori che adoperavo contenevano qualche sciagurato veleno minerale. Ti dico che è una cosa impossibile.
- Ah, che cosa è impossibile? - mormorò il giovine, andando alla finestra e premendo la fronte contro il vetro freddo, appannato dalla nebbia.
- Mi dicesti che l'avevi distrutto.
- Avevo sbagliato. E' questo che ha distrutto me.
- Non credo che sia il mio ritratto.
- Non ci ritrovi il tuo ideale? - disse Dorian, amaro.
- Il mio ideale, come tu lo chiami...
- Come tu lo chiamavi.
- In esso non c'era niente di malvagio o di ripugnante. Tu per me eri un ideale come non mi sarà mai più dato d'incontrare. Questa è la faccia di un satiro.
- E' la faccia della mia anima.
- Dio! che cosa avevo dunque adorato! Gli occhi sono gli occhi di un diavolo.
- Basil, ognuno di noi porta in se stesso il cielo e l'inferno esclamò Dorian con un gesto furioso di disperazione.
Hallward si girò di nuovo verso il ritratto e lo riguardò.
- Dio mio! - disse - se è vero, e se questo è quello che tu hai fatto della tua vita, allora devi essere anche peggiore di quello che si immaginano coloro che parlano male di te!
Tornò ad avvicinare il lume alla tela e la esaminò. La superficie sembrava del tutto inalterata, come lui l'aveva lasciata; evidentemente la bruttura e l'orrore provenivano dall'interno.
Attraverso una strana accelerazione della vita interiore, la lebbra del peccato stava divorandolo lentamente, e il disfacimento di un cadavere in una tomba umida non era ugualmente spaventoso.
La mano gli tremò e la candela cadde dal candeliere sul pavimento, dove rimase scoppiettante. La spense posandovi il piede sopra, poi si lasciò cadere sulla sedia malferma posta vicino al tavolino e si nascose il volto tra le mani.
- Buon Dio, che lezione, che tremenda lezione! - Non ottenne risposta; ma poteva sentire il giovane singhiozzare vicino alla finestra. - Prega, Dorian, prega - mormorò. - Che cosa ci hanno insegnato a dire da bambini? "Non ci indurre in tentazione; perdonaci i nostri peccati; mondaci delle nostre iniquità." Diciamo insieme queste parole. La preghiera del tuo orgoglio è stata esaudita; quella del tuo pentimento sarà forse esaudita. Ti adoravo troppo e ne siamo stati entrambi puniti.
Dorian Gray si girò lentamente e lo guardò cogli occhi imperlati di lacrime. - E' troppo tardi, Basil - balbettò.
- Non è mai troppo tardi, Dorian. Mettiamoci in ginocchio e vediamo se possiamo ricordarci una preghiera. Non c'è in qualche punto un versetto che dice: "Per quanto scarlatti siano i tuoi peccati, io li renderò candidi come la neve"?
- Ormai per me queste parole non significano più niente.
- Taci! non parlare così. Il male che hai già fatto nella tua vita è sufficiente. Mio Dio, ma non vedi quella cosa maledetta che sogghigna verso di noi?
Dorian Gray guardò il ritratto e immediatamente lo prese un senso incontrollabile di odio contro Basil Hallward, come se glielo avesse suggerito l'immagine sulla tela, come se glielo avessero sussurrato all'orecchio quelle labbra ghignanti. Diede una rapida occhiata in giro. Lo sguardo gli cadde su qualche cosa che luccicava sul cassone dipinto che gli stava di fronte. Sapeva cos'era. Era un coltello che aveva portato con sé qualche giorno prima per tagliare un pezzo di corda e che si era dimenticato di riportare via. Si mosse lentamente in quella direzione, passando accanto a Hallward. Appena fu dietro di lui l'afferrò e si girò.
Hallward si muoveva sulla sedia come se fosse sul punto di alzarsi. Gli fu sopra e affondò il coltello nella grande vena che sta dietro l'orecchio, premendo in giù sul tavolino la testa dell'uomo e vibrando un colpo dopo l'altro.
Ci fu un gemito soffocato e il suono orribile di chi affoga nel sangue. Le braccia tese si alzarono convulsamente tre volte, agitando nell'aria le mani con le dita contratte in maniera grottesca. Gli inferse altri due colpi, ma l'uomo non si mosse.
Qualche cosa cominciava a gocciolare sul pavimento. Aspettò ancora un momento, continuando a premere la testa all'ingiù, poi gettò il coltello sul tavolino e rimase in ascolto.
Non sentì niente, eccetto quel rumore di gocce che cadevano sul tappeto logoro. Aprì la porta e uscì sul pianerottolo. In casa il silenzio era completo; nessuno si muoveva. Rimase chino per qualche secondo sulla ringhiera, frugando in giù con lo sguardo quel pozzo di oscurità, nero di tenebre; poi tirò fuori la chiave, ritornò nella stanza e vi si chiuse dentro.
Ancora seduto sulla sedia e allungato sul tavolino, con la testa china, il dorso incurvato e braccia di una lunghezza fantastica, se non fosse stato per quel buco rosso e slabbrato sulla nuca e per la pozza nera e grumosa che andava lentamente allargandosi sul tavolino, si sarebbe potuto dire che l'uomo fosse semplicemente addormentato.
Come tutto si era svolto in un lampo! Si sentiva stranamente calmo; andò alla finestra, l'aprì e uscì sul balcone. Il vento aveva spazzato la nebbia e il cielo era come una mostruosa coda di pavone costellata di miriadi di occhi d'oro. Guardando in giù vide la guardia in perlustrazione che proiettava sulle porte delle case silenziose il lungo raggio della sua lanterna. La macchia violacea di una vettura in cammino comparve sull'angolo, poi svanì. Una donna con uno scialle svolazzante camminava lentamente presso le cancellate, barcollando; di tanto in tanto si fermava e si guardava indietro; a un tratto cominciò a cantare, con voce rauca.
La guardia le si avvicinò e le disse qualcosa, e lei, con una risata, riprese il suo incerto cammino. Un vento freddo spazzava la piazza; le luci del gas oscillavano e diventavano turchine e gli alberi spogli agitavano qua e in là i rami che sembravano di ferro nero. Rabbrividì e tornò dentro chiudendosi dietro la finestra.
Arrivato alla porta girò la chiave e l'aprì. Non diede neppure un'occhiata all'uomo assassinato. Ebbe la sensazione che tutto il segreto della cosa stava nel non rendersi conto della situazione.
L'amico che aveva dipinto il fatale ritratto al quale era dovuta tutta la sua miseria, era uscito dalla sua vita: nient'altro.
Poi gli venne in mente la lampada. Era piuttosto curiosa, un lavoro moresco d'argento opaco, damaschinato di arabeschi di acciaio brunito, tempestato di rozze turchesi. Forse il servitore ne avrebbe notato la mancanza e avrebbe fatto delle domande. Esitò un attimo, poi tornò indietro e la prese dal tavolo. Non poté non vedere quella cosa morta. Come era immobile! Come sembravano orribilmente bianche le mani! Sembrava una spaventosa figura di cera.
Dopo essersi chiusa la porta alle spalle, scese tranquillamente da basso. Il legno degli scalini scricchiolava e sembrava gemere di dolore. Si fermò parecchie volte, in attesa, ma tutto era tranquillo; non era che il rumore dei suoi passi. Giunto nella biblioteca, vide nell'angolo la valigia e il pastrano. Bisognava nasconderli in qualche posto. Aprì un ripostiglio segreto posto in un pannello della parete, un ripostiglio nel quale custodiva i propri curiosi travestimenti e ve li chiuse dentro. Gli sarebbe stato facile bruciarli più tardi. Poi tirò fuori l'orologio. Erano le due e venti.
Si sedette e cominciò a riflettere. Ogni anno, quasi ogni mese, in Inghilterra c'erano degli uomini che venivano impiccati per quello che aveva fatto lui. C'era stata una follia omicida nell'aria; qualche stella rossa si era avvicinata troppo alla terra. Ma che prove c'erano contro di lui? Basil Hallward era uscito da quella casa alle undici e nessuno l'aveva visto rientrare; la servitù era quasi tutta a Selby Royal e il suo domestico era andato a letto...
Parigi! Sì, Basil Hallward era andato a Parigi col treno di mezzanotte, come ne aveva espresso l'intenzione. Date le sue curiose abitudini di riservatezza, prima che nascesse un sospetto sarebbero passati dei mesi. Mesi! Serviva molto meno tempo per distruggere ogni cosa.
Un'idea gli balenò di colpo alla mente. Indossò la pelliccia, si mise in testa il cappello e uscì nell'ingresso. Qui si fermò perché sentiva di fuori, sul marciapiede, il passo pesante della guardia e vedeva riflettersi sulle finestre il chiarore della sua lanterna. Aspettò, trattenendo il respiro.
Dopo un po' tirò indietro il saliscendi e sgusciò fuori, chiudendosi dietro pianissimo la porta, poi cominciò a suonare il campanello. Dopo circa cinque minuti apparve il domestico, mezzo vestito e con un'aria molto assonnata.
- Mi spiace di avervi svegliato, Francis - disse entrando, - ma avevo dimenticato la chiave. Che ore sono?
- Le due e dieci, signore - rispose l'uomo, guardando l'orologio a pendolo e battendo le palpebre.
- Le due e dieci! Com'è tardi! Domani mattina mi dovete svegliare alle nove; ho qualche cosa da fare.
- Benissimo, signore.
- E' venuto nessuno stasera?
- Sì, il signor Hallward. E' rimasto fino alle undici e poi se ne è andato per prendere il treno.
- Oh, mi dispiace di non averlo visto. Ha lasciato detto qualche cosa?
- Nossignore, soltanto che se non vi trovava al circolo vi avrebbe scritto da Parigi.
- Va bene. Non dimenticate di chiamarmi domani mattina alle nove.
- Nossignore.
L'uomo, in pantofole, scivolò giù nel corridoio.
Dorian Gray gettò cappello e pastrano sulla tavola ed entrò nella biblioteca. Passeggiò su e giù per la stanza per un quarto d'ora, mordendosi le labbra e riflettendo; poi prese da uno degli scaffali il libro degli indirizzi e cominciò a sfogliarlo. "Alan Campbell, 152, Hertford Street, Mayfair." Sì, era quello l'uomo che gli serviva.
Capitolo quattordicesimo
La mattina dopo, alle nove, il servitore entrò portando su un vassoio una tazza di cioccolata e aprì le persiane. Steso sul fianco destro, con una mano sotto la guancia, Dorian dormiva tranquillissimo e sembrava un ragazzino stanco del gioco o dello studio.
Il domestico dovette toccarlo sulla spalla due volte, prima che si svegliasse; e quando aprì gli occhi passò sulle sue labbra un vago sorriso, come se egli fosse stato perduto in un sogno delizioso.
Invece non aveva sognato affatto; il suo sonno non era stato turbato da nessuna immagine né gradevole né penosa; ma la gioventù sorride senza nessun motivo, ed è questa una delle sue maggiori attrattive.
Si girò e, appoggiandosi al gomito, cominciò a sorseggiare la cioccolata. Il mite sole di novembre riempiva la camera, il cielo era sereno e c'era nell'aria un piacevole tepore. Pareva quasi una mattinata di maggio.
A poco a poco, con gambe silenziose e insanguinate, gli avvenimenti della notte precedente si insinuarono nel suo cervello, dove si ricostruirono con una spaventosa nitidezza. Il ricordo di tutto quello che aveva sofferto lo fece riscuotere e per un attimo tornò a invaderlo lo stesso curioso sentimento di odio contro Basil Hallward che lo aveva spinto a ucciderlo mentre stava seduto sulla sedia. Si sentì gelare dall'ira. Inoltre c'era il morto, ancora seduto lassù; adesso, anzi, alla luce del sole.
Che orrore! Cose così ripugnanti erano fatte per l'oscurità, non per il giorno.
Ebbe la sensazione che se continuava a rimuginare sull'accaduto avrebbe finito con l'ammalarsi o con l'impazzire. Il fascino di certi peccati sta più nel ricordarli che nel commetterli; sono strani trionfi che soddisfano l'orgoglio più che le passioni e procurano all'intelletto una più vivace sensazione di gioia, più intensa di qualunque gioia che hanno procurato o che potrebbero procurare ai sensi; ma questo non rientrava in quella categoria.
Era una cosa che bisognava cacciare dalla testa, drogare con l'oppio, strangolare per non esserne strangolati.
Quando suonò la mezza, si passò la mano sulla fronte, poi si alzò in fretta e si vestì con cura anche maggiore del solito, mettendo un'attenzione particolare nella scelta della cravatta e della spilla e cambiando più volte anelli. Si intrattenne a lungo anche a colazione, assaggiando i diversi piatti, parlando col domestico di certe livree nuove che pensava di far fare per la servitù di Selby e leggendo la sua corrispondenza. Alcune lettere lo fecero sorridere, altre lo infastidirono. Una la lesse diverse volte, poi la stracciò con una lieve espressione di noia. "Che cosa tremenda, la memoria di una donna!", come una volta aveva detto Lord Henry.
Dopo aver preso una tazza di caffè nero, si asciugò lentamente le labbra col tovagliolo, fece cenno al servitore di aspettare e si sedette alla scrivania a scrivere due lettere. Se ne mise in tasca una e diede l'altra al domestico.
- Francis, portatela subito al numero 152 di Hertford Street e se il signor Campbell non è in città fatevi dare il suo indirizzo.
Rimasto solo, accese una sigaretta e iniziò a disegnare su un foglio di carta, prima dei fiori e dei motivi architettonici, poi dei volti umani. Di colpo si accorse che tutte le facce che disegnava sembravano avere una somiglianza fantastica con quella di Basil Hallward. Aggrottò le sopracciglia, si alzò, andò a uno scaffale e prese un volume, a caso. Era deciso a non pensare a quello che era accaduto, prima che il pensarvi fosse assolutamente necessario.
Si stese sul divano e guardò il frontespizio del libro. Erano gli "Emaux et Camées" del Gautier, nell'edizione dello Charpentier su carta del Giappone, con i disegni del Jacquemart. La rilegatura era in pelle color limone, con un disegno a graticcio dorato, punteggiato di melograne. Gliel'aveva regalato Adrian Singleton.
Sfogliando il libro, gli cadde sotto gli occhi la poesia sulla mano di Lacenaire, la mano gialla e fredda "du supplice encore mal lavée", col suo vello di peli rossicci e i suoi "doigts de faune".
Si guardò le dita bianche e affusolate, rabbrividì leggermente suo malgrado e passò oltre, finché arrivò a quelle belle strofe su Venezia.
Sur une gamme chromatique, Le sein de perles ruisselant, Le Vénus de l'Adriatique Sort de l'eau son corps rose et blanc.
Les domes, sur l'azur des ondes Suivant la phrase au pur contour S'enflent comme des gorges rondes Que soulève un soupir d'amour.
L'esquif aborde et me dépose, Jetant son amarre au pilier, Devant une façade rose, Sur le marbre d'un escalier.
Com'erano deliziose! Nel leggere sembrava di navigare per le grandi strade d'acqua della città color di rosa e di perla, in una gondola nera con la prua d'argento e le tendine scorrevoli. I versi stessi gli sembravano simili a quelle linee diritte d'un azzurro di turchese, che seguono chi si spinge verso il Lido. Le improvvise macchie di colore gli ricordavano lo splendore dei colombi dal collo iridato e opalino, che volano intorno al Campanile diritto e traforato, o passeggiano, con tanta grazia e tanta dignità, attraverso le arcate buie, annerite dalla polvere.
Piegandosi all'indietro, con gli occhi semichiusi, andava ripetendo a se stesso:
Devant une façade rose Sur le marbre d'un escalier.
Tutta Venezia era in questi due versi. Si ricordò l'autunno che vi aveva passato e un meraviglioso amore che l'aveva spinto a sfrenate e deliziose follie. Non c'è posto che non contenga qualche cosa di romantico; ma Venezia, come Oxford, ha conservato lo sfondo per il romanzo; e per chi è veramente romantico lo sfondo è tutto, o quasi tutto.
Durante una parte di quel soggiorno Basil era stato con lui ed era diventato fanatico del Tintoretto. Povero Basil! che orrenda fine era stata la sua!
Sospirò e riprese il volume, cercando di dimenticare. Lesse delle rondini che entrano ed escono a volo in quel piccolo caffè di Smirne, dove gli Hagi siedono contando i grani dei loro rosari d'ambra e i mercanti col turbante fumano le lunghe pipe adorne di nappine, conversando gravemente. Lesse dell'obelisco della Place de la Concorde, che piange lacrime di granito nel suo solitario esilio senza sole e sospira di tornare presso il Nilo tiepido e coperto di loto, là dove sono le sfingi e gli ibis rosa e rossi e gli avvoltoi bianchi dalle unghie dorate e i coccodrilli, con i loro piccoli occhi di berillo, strisciano sul verde fango fumante.
Prese a fantasticare su quei versi che, evocando la musica da un marmo macchiato di baci, parlano di quella curiosa statua che il Gautier paragona a una voce di contralto, quel "monstre charmant" che giace nella camera di porfido del Louvre. Ma dopo un po' il libro gli cadde di mano. Si innervosì e fu preso da un tremendo accesso di terrore. E se Alan Campbell non era in Inghilterra?
Prima che potesse tornare sarebbero passati giorni e giorni.
Poteva magari rifiutarsi di venire. In quel caso, che cosa avrebbe fatto? Ogni minuto aveva un'importanza vitale. Una volta, cinque anni prima, erano stati amicissimi, anzi, quasi inseparabili; poi la loro intimità era bruscamente finita e ora, quando si incontravano in società, il solo che sorrideva era Dorian; Alan Campbell mai.
Era un giovane estremamente intelligente, benché incapace di apprezzare le arti figurative e benché quel po' di senso che aveva della bellezza e della poesia lo dovesse interamente a Dorian. La sua passione intellettuale dominante era la scienza. A Cambridge aveva passato molto tempo nel laboratorio e aveva ottenuto una buona classifica negli esami di scienze naturali del suo corso.
Continuava anzi a dedicarsi agli studi di chimica e aveva un laboratorio suo, nel quale si rinchiudeva per giornate intere, con grande dispiacere di sua madre, che si era messa in testa che doveva presentarsi al Parlamento e aveva una vaga idea che un chimico fosse un individuo che esegue ricette. Era però anche un eccellente musicista e suonava sia il pianoforte che il violino in una maniera molto superiore alla media dei dilettanti; anzi, era stata la musica ad avvicinarlo a Dorian Gray, la musica e quell'attrazione indefinibile che Dorian sembrava avere il potere di esercitare quando voleva e che anzi esercitava spesso senza rendersene conto. Si erano conosciuti in casa di Lady Berkshire la sera che vi suonò Rubinstein, e dopo di allora furono visti sempre insieme all'Opera e negli altri posti dove si faceva della buona musica. La loro intimità continuò per un anno e mezzo. Campbell era costantemente a Selby Royal o nella casa di Grosvenor Square.
Per lui, come per molti altri, Dorian Gray costituiva il tipo di tutto ciò che è meraviglioso e affascinante nella vita. Nessuno seppe mai se c'era stata un lite tra di loro; ma la gente improvvisamente osservò che quando si incontravano si parlavano appena e che Campbell pareva sempre andarsene di buon'ora da qualsiasi ricevimento al quale partecipasse Dorian Gray. Inoltre, era cambiato; a volte era stranamente melanconico, sembrava quasi che non gli piacesse sentire la musica e non suonava mai, adducendo, quando gli veniva chiesto, la scusa che era tanto preso dalla scienza che non gli restava tempo per esercitarsi. Questo indubbiamente era vero; sembrava che si interessasse ogni giorno di più alla biologia e il suo nome apparve un paio di volte in qualche rivista scientifica, in rapporto a certi curiosi esperimenti.
Questo era l'uomo che Dorian Gray stava aspettando. Continuava a guardare l'orologio a ogni secondo e con il passare dei minuti la sua agitazione diventò tremenda. Finalmente si alzò e cominciò a camminare su e giù per la stanza, a lunghi passi furtivi, come un bell'animale in gabbia. Aveva le mani stranamente fredde.
Quello stato di incertezza diventò insopportabile. Gli sembrava che il tempo camminasse con piedi di piombo e che lui stesso fosse trascinato da venti mostruosi verso l'orlo scosceso di un oscuro precipizio. Sapeva quello che lo aspettava colà; anzi, addirittura lo vide e, rabbrividendo, si premette le mani sudate sulle palpebre brucianti, come se avesse voluto privare della vista il cervello e ricacciare i globi oculari dentro le loro cavità. Ma era tutto inutile. Il cervello si nutriva di un cibo suo proprio e l'immaginazione, che il terrore rendeva grottesca, si contraeva e si contorceva come fa un essere vivente per lo spasimo, ballava come un ignobile pupazzo su un palchetto, ghignava attraverso maschere sempre nuove. Poi, bruscamente, per lui il tempo si fermò: quella cosa cieca, dal fiato corto, smise di strisciare, e poiché il tempo era morto, pensieri orribili corsero velocemente verso di lui, trascinarono fuori dalla tomba un futuro spaventoso, glielo fecero vedere: lui lo guardò e l'orrore lo paralizzò.
Finalmente la porta si aprì ed entrò il servitore. Lo guardò con occhi vitrei.
- Il signor Campbell - annunciò il domestico.
Gli sfuggì dalle labbra un sospiro di sollievo e sulle guance riapparve il colorito.
- Fatelo entrare subito, Francis. - Sentiva di essere tornato come era sempre; la vigliaccheria era scomparsa.
Il servitore si ritirò con un inchino e pochi attimi dopo entrò Alan Campbell, molto severo in volto, alquanto pallido, di un pallore reso più intenso dai capelli nerissimi e dalle ciglia scure.
- Sei molto gentile, Alan. Ti ringrazio di essere venuto.
- Mi ero proposto di non mettere più piede in casa tua, Gray, ma tu hai detto che era una questione di vita o di morte.
La voce era dura e fredda. Parlava con lenta decisione e nello sguardo fisso e penetrante che fissò addosso a Dorian c'era un'espressione di disprezzo. Teneva le mani nella pelliccia d'astrakan e sembrava non aver notato il gesto che l'aveva salutato.
- Sì, Alan, è una questione di vita o di morte, e per più di uno.
Siedi.
Campbell prese una sedia vicino al tavolo e Dorian gli sedette di fronte. I loro sguardi si incontrarono. In quello di Dorian c'era una pietà infinita; sapeva che quello che stava per fare era tremendo.
Dopo un attimo di tensione silenziosa, si chinò in avanti e, con molta calma, ma spiando l'effetto che ognuna delle sue parole produceva sul volto di colui che aveva mandato a chiamare, disse:
- Alan, in una stanza chiusa a chiave all'ultimo piano di questa casa, una stanza alla quale, all'infuori di me, nessuno può accedere, seduto a un tavolino c'è un morto. E' morto ormai da dieci ore. Non ti agitare e non guardarmi a quel modo. Chi è l'uomo, perché è morto, come è morto, sono cose che non ti riguardano. Quello che tu devi fare è questo...
- Basta, Gray. Non voglio sapere altro. Se quello che mi hai detto è vero o no è cosa che non mi interessa. Mi rifiuto assolutamente di essere immischiato nella tua vita. Tieni per te i tuoi orribili segreti; non mi interessano più.
- Devono interessarti, Alan. Questo dovrà interessarti. Mi dispiace infinitamente per te, Alan, ma non posso fare diversamente. Tu sei l'unico uomo che possa salvarmi e io sono costretto a farti entrare in questa storia; non ho scelta. Alan, tu sei uno scienziato, ti intendi di chimica e di roba di questo genere. Quello che devi fare è distruggere quella cosa che è disopra: distruggerla in modo che non ne rimanga traccia. Nessuno ha visto quella persona entrare in questa casa; anzi in questo momento tutti credono che sia a Parigi e per parecchi mesi nessuno si accorgerà della sua assenza. Bisogna che, quando se ne accorgeranno, qui non si ritrovi la minima traccia di lui. Tu, Alan, devi cambiarlo e cambiare tutto quello che gli appartiene in un pugno di cenere che io possa disperdere al vento.
- Sei pazzo, Dorian.
- Ah, aspettavo che tu mi chiamassi Dorian.
- Ti dico che sei pazzo. Sei pazzo a immaginarti che io alzerei un solo dito per aiutarti, pazzo a farmi questa mostruosa confessione. Non voglio avere niente a che fare con questa storia, qualunque essa sia. Credi forse che io voglia rischiare la mia reputazione per te? Che importa a me delle tue azioni diaboliche?
- Si tratta di un suicidio, Alan.
- Tanto meglio. Ma chi ce l'ha spinto? Tu, m'immagino.
- Insisti a rifiutare di fare questo per me?
- Naturalmente rifiuto. Non voglio assolutamente entrarci. Quale che sia la vergogna a cui sarai esposto non me ne importa niente; tu la meriti pienamente. Non mi dispiacerebbe affatto vederti svergognato, svergognato pubblicamente. Come osi chiedere a me, a me fra tutti gli uomini di questo mondo, di entrare in un orrore simile? Ti ritenevo un miglior conoscitore del carattere umano; il tuo amico Lord Henry Wotton non può averti insegnato gran che di psicologia, qualunque altra cosa ti abbia insegnato. Niente potrebbe spingermi a muovere un passo per aiutarti. Hai sbagliato indirizzo. Va' da qualcuno dei tuoi amici, non da me.
- Alan, si tratta di un omicidio. L'ho ucciso io. Tu non sai quanto mi abbia fatto soffrire. Quale che sia la mia vita, è lui responsabile di averla fatta o disfatta, molto più di quel povero Harry; anche se l'ha fatto senza intenzione, il risultato è stato identico.
- Omicidio! Gran Dio, Dorian, a questo sei arrivato! Io non andrò a denunciarti; non sono affari miei, e poi, anche senza che io metta le cose in marcia, tu sarai certamente arrestato. Nessuno commette un delitto senza fare qualche stupidaggine. Ma io non voglio entrarci per niente.
- Tu devi entrarci. Aspetta, aspetta un momento, stammi a sentire, soltanto a sentire, Alan. Tutto quello che ti chiedo è di compiere un certo esperimento scientifico. Tu frequenti gli ospedali e gli obitori e gli orrori che compi in quei luoghi ti lasciano insensibile. Se in una schifosa sala anatomica o in un fetido laboratorio tu avessi trovato quest'uomo steso su una tavola di metallo, incavata da rozzi scolatoi per farci scorrere dentro il sangue, lo considereresti soltanto come un magnifico soggetto. Non batteresti ciglio; non ti sembrerebbe di far niente di male; al contrario, penseresti probabilmente di rendere un servigio all'umanità o di accrescere la somma delle conoscenze nel mondo o di appagare la curiosità intellettuale o qualche altra cosa di questo genere. Quello che ti chiedo di fare è semplicemente una cosa che hai già fatto tante volte; anzi, distruggere un cadavere deve essere molto meno orribile dei lavori che sei abituato a fare. E ricordati che costituisce l'unica prova che esista contro di me. Se lo scoprono io sono perduto, e se tu non mi aiuti lo scopriranno di certo.
- Tu dimentichi che io non ho il minimo desiderio di aiutarti. La cosa mi lascia del tutto indifferente. Non mi riguarda affatto.
- Alan, ti supplico. Pensa alla posizione in cui mi trovo. Poco prima che tu arrivassi sono quasi svenuto dal terrore. Anche tu, un giorno, potresti conoscere il terrore. Ma no, non pensare a questo. Considera la questione dal puro punto di vista scientifico. Tu non stai a indagare la provenienza dei cadaveri che servono ai tuoi esperimenti: non indagare adesso. Ti ho già detto fin troppo. Ma ti prego di far questo. Un tempo noi due eravamo amici, Alan.
- Non parlare di quei tempi, Dorian. Sono morti.
- Qualche volta i morti non se ne vanno. Quell'uomo lassù non se ne andrà. E' seduto al tavolino con la testa reclinata e le braccia distese. Alan, Alan, se non vieni in mio aiuto io sono un uomo rovinato. Mi impiccheranno, Alan! Non lo capisci? Mi impiccheranno per quello che ho fatto.
- Non serve a niente prolungare questa scena. Rifiuto assolutamente di fare qualsiasi cosa in quest'affare. E' una pazzia da parte tua chiedermelo.
- Rifiuti?
- Sì.
- Ti supplico, Alan.
- E' inutile.
La stessa espressione di pietà riapparve negli occhi di Dorian; poi questi stese la mano, prese un foglio di carta e vi scrisse qualche cosa. Lo lesse due volte, lo piegò accuratamente e lo spinse attraverso la tavola. Fatto questo si alzò e andò verso la finestra.
Campbell lo guardò stupefatto, poi prese il foglio e l'aprì.
Mentre lo leggeva, il suo volto si fece mortalmente pallido.
Ricadde sulla sedia e fu preso da un orribile senso di nausea. Gli sembrava che il suo cuore battesse, fino a morirne, in qualche cavità vuota.
Dopo un paio di minuti di spaventoso silenzio, Dorian tornò indietro, venne a collocarsi dietro di lui e gli mise una mano sulla spalla.
- Mi dispiace per te, Alan - mormorò; - ma non mi hai lasciato altra alternativa. Ho qui una lettera, già scritta; guarda l'indirizzo. Se non mi aiuti sarò costretto a mandarla e tu sai quale sarà il risultato. Ma tu mi aiuterai; ora ti è impossibile rifiutare. Ho cercato di risparmiarti; mi devi rendere la giustizia di ammetterlo. Sei stato duro, aspro, offensivo; mi hai trattato come nessuno ha mai osato trattarmi; nessun uomo vivente, quanto meno. Ho sopportato tutto; ora sono io che detto le condizioni.
Campbell si prese la testa tra le mani e un brivido lo scosse tutto.
- Sì, sono io che detto le condizioni, e tu sai quali siano. La cosa è semplicissima. Andiamo, non agitarti tanto. La cosa deve essere fatta. Coraggio, su!
Un gemito sfuggì dalle labbra di Campbell, che tremava tutto.
Gli sembrava che il tic-tac dell'orologio sul caminetto dividesse il tempo in tanti atomi separati, ognuno dei quali era troppo tremendo per essere sopportato. Sentiva un cerchio di ferro stringerglisi pian piano intorno alla fronte, come se l'ignominia che gli era stata minacciata gli fosse già caduta addosso. Quella mano sulla sua spalla pesava come se fosse stata di piombo; era insopportabile; sembrava che lo schiacciasse.
- Su, Alan, bisogna che tu decida immediatamente.
- Non posso farlo - disse meccanicamente, come se le parole avessero avuto il potere di mutare i fatti.
- Devi. Non hai scelta. Non perdiamo tempo.
Egli esitò un attimo.
- C'è una stufa nella stanza di sopra?
- Sì, c'è una stufa a gas, con dell'amianto.
- Bisogna che vada a casa a prendere certe cose dal laboratorio.
- No, Alan, non devi uscire di qui. Scrivi su un pezzo di carta quello che ti serve e il mio servitore prenderà una carrozza e ti porterà tutto quanto.
Campbell scarabocchiò poche righe, le asciugò e scrisse su una busta l'indirizzo del suo preparatore. Dorian prese l'appunto e lo lesse attentamente; poi suonò il campanello e lo diede al domestico, ordinandogli di tornare al più presto portando la roba con sé.
Quando il portone si richiuse, Campbell sobbalzò nervosamente, si alzò e andò fino al caminetto. Tremava come se avesse la febbre.
Per una ventina di minuti nessuno dei due pronunciò una parola.
Una mosca ronzava rumorosamente per la stanza e i battiti dell'orologio sembravano colpi di martello.
Quando l'orologio batté il tocco, Campbell si girò e, guardando Dorian Gray, vide che aveva gli occhi pieni di lacrime. Nella purezza e nella finezza di quel volto attristato c'era qualcosa che sembrò renderlo furioso.
- Sei infame, assolutamente infame! - balbettò.
- Taci, Alan. Mi hai salvato la vita - disse Dorian.
- La tua vita! Buon Dio, che vita è la tua! Sei passato di corruzione in corruzione e ora sei arrivato al delitto. Se faccio quello che sto per fare, quello che mi costringi a fare, non è certo alla vita tua che penso.
- Ah, Alan - mormorò Dorian sospirando, - vorrei che tu sentissi per me la millesima parte della pietà che io provo per te.
Dette queste parole si allontanò e si mise a guardare in giardino.
Campbell non rispose.
Dopo una decina di minuti bussarono alla porta ed entrò il servitore, portando una grossa cassa di mogano piena di sostanze chimiche, un lungo rotolo di filo d'acciaio e di platino e due pinze di ferro di forma piuttosto strana.
- La lascio qui questa roba, signore? - chiese a Campbell.
- Sì - disse Dorian. - Ma ho paura di avere un'altra commissione da darvi, Francis. Come si chiama quell'uomo di Richmond che fornisce le orchidee per Selby?
- Harden, signore.
- Appunto, Harden. Andate subito a Richmond, parlate personalmente con Harden e ditegli di mandare il doppio delle orchidee che avevo ordinato e di mandarne il meno possibile di bianche; anzi, di quelle bianche non ne voglio. E' una bella giornata, Francis, e Richmond è un luogo graziosissimo, altrimenti non vi avrei dato questo fastidio.
- Nessun fastidio, signore. A che ora devo tornare?
Dorian guardò Campbell e disse, con voce calma e indifferente:
- Quanto tempo ci vuole per il tuo esperimento, Alan?
La presenza nella stanza di un terzo sembrava infondergli un coraggio straordinario. Campbell aggrottò le sopracciglia e si morse il labbro.
- Circa cinque ore - rispose.
- Allora, Francis, basterà che siate di ritorno alle sette e mezzo. O meglio, tirate fuori quello che mi occorre per vestirmi e prendetevi una serata di libertà. Non pranzo a casa e perciò non ho bisogno di voi.
- Grazie, signore - rispose l'uomo, uscendo dalla stanza.
- Ora, Alan, non c'è un minuto da perdere. Come pesa questa cassa!
La porterò io; tu porta le altre cose.
Parlava con un accento rapido e autoritario e Campbell si sentì dominato da lui. Uscirono insieme dalla stanza.
Quando arrivarono all'ultimo pianerottolo, Dorian tirò fuori la chiave e la fece girare nella toppa; poi si fermò e nei suoi occhi apparve un'espressione turbata. Rabbrividì.
- Non credo che potrò entrare, Alan - mormorò.
- Non fa niente. Non ho bisogno di te - disse freddamente Campbell.
Dorian aprì la porta a metà e in quest'atto vide la faccia del ritratto ghignare alla luce del sole. Davanti ad esso giaceva in terra la cortina lacerata. Gli tornò in mente che la sera prima, per la prima volta in vita sua, si era dimenticato di nascondere la tela fatale. Stava per precipitarsi in avanti, ma si fermò con un brivido.
Che cos'era quell'orribile rugiada rossa che brillava, umida e scintillante, su una delle mani, come se la tela avesse sudato sangue? Che cosa orrenda! In quel momento gli sembrò ancora più orrenda di quella cosa muta che, lo sapeva, era stesa attraverso la tavola; quella cosa la cui ombra grottesca e deforme sul tappeto macchiato mostrava che non s'era mossa, che era ancora là dove lui l'aveva lasciata.
Respirò profondamente, aprì un po' di più la porta ed entrò rapido, con gli occhi semichiusi e girando la testa da un'altra parte, deciso a non guardare il morto nemmeno una volta: poi chinandosi raccolse il panno porpora e oro e lo gettò sul ritratto.
Si fermò perché l'idea di doversi girare indietro lo atterriva. I suoi occhi erano fissi sugli intrichi del disegno che gli stava davanti. Sentì Campbell portare dentro la cassa pesante, i ferri e le altre cose che gli servivano per il suo tremendo lavoro.
Cominciò a chiedersi se lui e Basil Hallward si erano mai conosciuti e, in caso affermativo, che cosa avevano pensato l'uno dell'altro.
- Vattene ora - disse una voce severa dietro di lui.
Si girò e corse fuori, rendendosi appena conto che il morto era stato rigettato sulla sedia e che Campbell stava osservando una faccia gialla e lucida. Nello scendere le scale sentì che la chiave veniva girata nella toppa.
Le sette erano passate da un pezzo, quando Campbell tornò in biblioteca. Era pallido, ma perfettamente calmo.
- Ho fatto quello che mi avevi chiesto di fare - balbettò - e ora addio. Non ci vedremo mai più.
- Mi hai salvato dalla rovina, Alan. Non lo dimenticherò mai disse Dorian con semplicità.
Appena Campbell fu andato via, salì di sopra. Nella stanza c'era un orribile puzzo di acido nitrico; ma quella cosa che era stata seduta al tavolino era scomparsa.
Capitolo quindicesimo
Quella sera alle otto e mezzo, Dorian Gray, vestito con la massima raffinatezza e con un mazzolino di violette di Parma all'occhiello, veniva introdotto da domestici ossequiosi nel salotto di Lady Narborough. Nella fronte gli pulsavano nervi impazziti e si sentiva in preda a una violenta eccitazione; ma quando si chinò sulla mano della padrona di casa lo fece con quel modo disinvolto e aggraziato che era abituale in lui. Forse un uomo non sembra mai trovarsi tanto a suo agio come quando recita una parte; certo è che nessuno, guardando Dorian Gray quella sera, avrebbe potuto credere che egli fosse passato attraverso una tragedia non meno terribile di qualsiasi tragedia dei nostri tempi. Non era possibile che quelle dita affusolate avessero stretto un coltello per commettere un peccato; che quelle labbra sorridenti avessero rinnegato Iddio e la bontà. Egli stesso non poteva non provare un senso di meraviglia per la calma del suo contegno. Per un attimo gustò intensamente la voluttà terribile di una doppia vita.
La compagnia non era numerosa ed era stata raccolta un po' affrettatamente da Lady Narborough, donna molto intelligente, che conservava quelli che Lord Henry era solito chiamare i resti di una bruttezza veramente notevole. Era stata una moglie eccellente per uno dei più noiosi nostri Ambasciatori e ora, dopo aver decorosamente seppellito il marito in un mausoleo di marmo disegnato da lei stessa e aver maritato le figlie con uomini ricchi e piuttosto anziani, si abbandonava ai piaceri del romanzo francese, della cucina francese e dell'"esprit" francese, quando riusciva a trovarne.
Dorian era un suo particolare favorito. Gli diceva sempre che era contentissima di non averlo incontrato da giovane.
- Mio caro, so che mi sarei pazzamente innamorata di voi - era solita dirgli - e che per amor vostro avrei gettato la cuffietta al di là di tutti i mulini. E' una vera fortuna che a quei tempi di voi non si avesse neppure l'idea, e del resto le nostre cuffiette erano così poco graziose e i nostri mulini erano tanto occupati a cercare che si alzasse il vento che non ho mai avuto neanche un flirt con nessuno. Però la colpa è stata tutta di Narborough, che era tremendamente miope. Non c'è gusto a ingannare un marito che non vede mai niente.
I suoi invitati di quella sera erano piuttosto noiosi. Come lei stessa spiegò a Dorian, parlando dietro un ventaglio alquanto consunto, era successo che una delle sue figlie sposate era arrivata all'improvviso per stare da lei e, ciò che è peggio, si era perfino portata dietro il marito.
- Trovo che è una cosa assai poco carina da parte sua.
Naturalmente d'estate io vado a stare da loro, al mio ritorno da Homburg; ma una vecchia come me ogni tanto ha bisogno di un po' d'aria buona e per di più io riesco a svegliarli un poco. Non sapete che razza di vita fanno: pura, purissima vita di campagna.
Si alzano presto perché hanno tante cose da fare e vanno a letto presto perché hanno tante cose alle quali pensare. Dai tempi della Regina Elisabetta non c'è stato uno scandalo in tutto il vicinato e di conseguenza appena hanno pranzato tutti cascano dal sonno.
Voi non sarete seduto vicino a nessuno di loro due; sarete seduto vicino a me e mi farete divertire.
Dorian mormorò un complimento cortese e diede un'occhiata in giro.
Era proprio una compagnia seccante. C'erano due persone che non aveva mai visto prima e il resto si componeva di Ernest Harrowden, uno di quegli esseri mediocri tanto frequenti nei club londinesi, che non hanno un nemico ma sono cordialmente antipatici ai loro amici; di Lady Ruxton, una donna di quarantasette anni, eccessivamente vestita, con un naso aquilino, che cercava sempre di essere compromessa ma era così particolarmente insignificante che nessuno voleva mai prestare fede a qualsiasi cosa si dicesse contro di lei; della signora Erlynne, una nullità che provava a farsi largo, che parlava con una deliziosa balbuzie e aveva i capelli di color rosso veneziano; di Lady Alice Chapman, figlia della padrona di casa, donna noiosa e infagottata, con uno di quei caratteristici visi inglesi che, visti una volta, non si ricordano più, e suo marito, individuo dalle guance rosse e dai baffi bianchi, che, come tanti della sua classe, era convinto che la giovialità scomposta possa compensare un'assoluta mancanza d'idee.
Era un po' seccato di essere venuto, finché Lady Narborough, dando un'occhiata al grande orologio di bronzo dorato che faceva sfoggio delle sue goffe curve sul caminetto drappeggiato di viola, esclamò:
- Com'è antipatico Henry Wotton a essere così in ritardo! L'ho fatto avvertire stamattina, nel dubbio, e mi ha promesso fedelmente di non mancare.
Il fatto che dovesse venire anche Henry era un conforto; e quando la porta si aprì e lui sentì la sua lenta voce musicale che rendeva gradevoli le sue scuse poco sincere non si sentì più seccato.
A pranzo però non riuscì a toccare cibo. I piatti venivano portati via uno dopo l'altro, intatti. Lady Narborough continuava a fargli dei rimproveri per quello che chiamava "un insulto al povero Adolphe, che ha inventato il menu espressamente per voi" e Lord Henry lo guardava ogni tanto, sorpreso di vederlo così taciturno e così distratto. Di quando in quando il maggiordomo gli riempiva il bicchiere di champagne. Beveva avidamente e la sua sete sembrava che aumentasse.
- Dorian - disse finalmente Lord Henry, mentre stavano servendo il "chaudfroid", - che cos'hai stasera? Sei veramente strano.
- Dev'essere innamorato - gridò Lady Narborough - e deve aver paura di dirmelo nel timore che io sia gelosa. Ha perfettamente ragione, perché lo sarei di certo.
- Cara Lady Narborough - mormorò Dorian, sorridendo, - non sono innamorato da una settimana intera; di fatto, da quando Madame de Ferrol è partita.
- Com'è possibile che voialtri uomini vi innamoriate di quella donna! - esclamò la vecchia signora. - Non riesco proprio a capirlo.
- Semplicemente perché si ricorda di voi quando eravate bambina, Lady Narborough - disse Lord Henry. - E' l'unico anello di congiunzione che esista tra noi e le vostre sottanine corte.
- Lord Henry, lei non si ricorda affatto delle mie sottanine corte; ma io mi ricordo perfettamente di lei a Vienna, trent'anni fa, e di come era "décolletée" a quei tempi.
- E' ancora adesso "décolletée" - rispose lui prendendo un'oliva con le sue lunghe dita, - e quando indossa un vestito molto elegante sembra una "edition de luxe" di un cattivo romanzo francese. Possiede un dono eccezionale per gli affetti di famiglia. Quando le morì il terzo marito, i capelli, dal dolore, le diventarono tutti d'oro.
- Come puoi dire di queste cose, Harry? - gridò Dorian.
- E' una spiegazione molto romantica - disse la padrona di casa ridendo. - Ma il terzo marito, Lord Henry! Non vorrete mica dire che Ferrol è il quarto?
- Senza dubbio, Lady Narborough.
- Non ci credo affatto.
- Allora chiedetelo al signor Gray, che è uno dei suoi più intimi amici.
- E' vero, signor Gray?
- Lei me l'assicura, Lady Narborough - disse Dorian. - Le ho chiesto se ha fatto imbalsamare i loro cuori e se se li è appesi alla cintura, come Margherita di Navarra, ma mi ha risposto di no, perché non ce n'era uno che avesse un cuore.
- Quattro mariti! Parola d'onore, questo si chiama "trop de zèle".
- "Trop d'audace", le ho detto io - disse Dorian.
- Oh, mio caro, lei è audace abbastanza per qualsiasi cosa. E' com'è quel Ferrol? Io non lo conosco.
- I mariti delle donne molto belle appartengono alle classi criminali - disse Lord Henry, sorseggiando il vino.
Lady Narborough gli diede un colpetto con il ventaglio.
- Lord Henry, non mi sorprende che il mondo dica che siete molto maligno.
- Qual è il mondo che lo dice? - chiese Lord Henry, inarcando le sopracciglia. - Non può essere che l'altro mondo, poiché questo mondo e io siamo in ottimi termini.
- Tutte le persone che conosco dicono che siete molto maligno gridò la vecchia gentildonna, tentennando il capo.
Lord Henry si fece serio per un momento.
- E' veramente una cosa mostruosa - disse poi - che la gente al giorno d'oggi vada in giro dicendo dietro le spalle degli altri delle cose assolutamente e interamente vere.
- Ma non è incorreggibile? - gridò Dorian, piegandosi in avanti sulla sedia.
- Lo spero - disse la padrona di casa, ridendo. - Ma in verità, se tutti voi siete in adorazione in questo modo ridicolo davanti a Madame de Ferrol, bisognerà che io, per essere di moda, mi trovi un altro marito.
- Voi non vi risposerete mai, Lady Narborough - interruppe Lord Henry. - Siete stata troppo felice. Quando una donna si risposa è perché detestava il primo marito; quando un uomo si risposa è perché adorava la prima moglie. Le donne tentano la fortuna e gli uomini l'arrischiano.
- Narborough non era perfetto - gridò la vecchia gentildonna.
- Se fosse stato perfetto, mia cara signora, non lo avreste amato - fu la risposta. - Le donne ci amano per i nostri difetti. Se ne abbiamo a sufficienza ci perdonano tutto, anche l'intelligenza.
Temo che dopo aver detto questo, Lady Narborough, voi non mi inviterete più a pranzo; però è la pura verità.
- Certo che è la verità, Lord Henry. Se noi donne non vi amassimo per i vostri difetti, che ne sarebbe di voi? Nessuno di voi troverebbe mai moglie: sareste tutti una massa di poveri scapoli.
Del resto non credo che questo vi cambierebbe molto. Oggi tutti gli uomini ammogliati fanno una vita da scapoli e tutti gli scapoli una vita da ammogliati.
- "Fin de siècle" - mormorò Lord Henry.
- "Fin du globe" - rispose la padrona di casa.
- Vorrei che fosse veramente "fin du globe" - disse Dorian con un sospiro. - La vita è una grande delusione.
- Ah, mio caro - gridò Lady Narborough, infilandosi i guanti non mi dite che avete esaurito la vita. Quando un uomo dice così, si capisce che è la vita che ha esaurito lui. Lord Henry è molto maligno, e qualche volta mi dispiace di non essere stata anch'io come lui; ma voi siete fatto per essere buono; ne avete tutto l'aspetto! Bisogna che vi trovi una moglie carina. Non vi pare, Lord Henry, che il signor Gray dovrebbe prender moglie?
- Glielo dico sempre, Lady Narborough - disse Henry con un inchino.
- Allora dobbiamo metterci alla ricerca di un partito adatto.
Stanotte scorrerò con tutta l'attenzione il Debrett e farò un elenco di tutte le signorine che si potrebbero scegliere.
- Con le rispettive età, Lady Narborough? - chiese Dorian.
- Naturalmente, con le età, leggermente ridotte. Ma non si deve fare niente in fretta. Voglio che sia uno di quelli che la "Morning Post" chiama "un matrimonio conveniente" e voglio che entrambi siate felici.
- Quante sciocchezze dice la gente riguardo ai matrimoni felici!- esclamò Lord Henry. - Un uomo può essere felice con qualunque donna, a patto di non amarla.
- Ah, come siete cinico! - gridò la vecchia signora, spingendo la sedia indietro e facendo un cenno col capo a Lady Ruxton. Dovete venire presto a pranzo da me un'altra volta; siete un tonico veramente ammirevole, molto migliore di quelli che mi prescrive Sir Andrew. Però dovete dirmi con chi gradirete trovarvi, perché desidero che sia una riunione piacevolissima.
- Mi piacciono gli uomini che hanno un futuro e le donne che hanno un passato - rispose lui. - A meno che non crediate che riuscirebbe una riunione di sole sottane.
- Ho paura di sì - disse lei, ridendo e alzandosi. - Scusatemi tanto, cara Lady Ruxton - aggiunse. - Non mi ero accorta che non avevate finito la sigaretta.
- Non fa niente, Lady Narborough. Fumo davvero troppo. Da ora in poi voglio moderarmi.
- Non lo fate, Lady Ruxton, per favore - disse Lord Henry. - La moderazione è una cosa fatale. "Abbastanza" significa un pasto; "più che abbastanza" significa un festino.
Lady Ruxton lo guardò incuriosita.
- Venite da me un pomeriggio a spiegarmi questo, Lord Henry. Mi sembra una teoria affascinante - mormorò, uscendo dalla stanza.
- E ora guardate di non rimanere troppo a parlare di politica e di scandali - gridò Lady Narborough dalla soglia. - Altrimenti noi, di sopra, finiremo infallibilmente con il prenderci per i capelli.
Gli uomini risero, e il signor Chapman si alzò con solennità dal fondo della tavola e venne a sedersi a capotavola. Dorian Gray cambiò posto e andò a sedersi vicino a Lord Henry. Chapman cominciò a parlare ad alta voce della situazione alla Camera dei Comuni, sghignazzando sul conto dei suoi avversari. La parola "dottrinario", parola piena di terrore per la mentalità britannica, riappariva periodicamente tra uno scoppio di risa e l'altro. Un prefisso allitterativo serviva da ornamento oratorio.
Egli innalzò l'Union Jack sulle vette del pensiero; e venne dimostrato che la stupidità ereditaria della razza, alla quale lui dava allegramente il nome di sano buon senso inglese, costituiva il più saldo bastione della società.
Le labbra di Lord Henry si atteggiarono a un sorriso. Si girò a guardare Dorian.
- Ti senti meglio, mio caro? - chiese. - Mi è sembrato, a pranzo, che tu non stessi perfettamente.
- Sto benissimo, Harry. Sono stanco, e nient'altro.
- Ieri sera eri delizioso. La piccola duchessa è entusiasta di te.
Mi ha detto che verrà a Selby.
- Mi ha promesso di venire il 20.
- Ci sarà anche Monmouth?
- Oh, sì, Harry.
- A me riesce terribilmente noioso; quasi allo stesso modo in cui riesce noioso a lei. Essa è molto intelligente, troppo intelligente per una donna. Le manca il fascino indefinibile della debolezza, il piede di creta che rende prezioso l'oro della statua. I suoi piedi sono graziosissimi, ma non sono di creta; piedi di porcellana bianca, se preferisci. Sono passati attraverso la fiamma e la fiamma indurisce quello che non distrugge. E' una donna che ha avuto delle esperienze.
- Da quanto tempo è sposata? - chiese Dorian.
- Da un'eternità, mi ha detto lei. Credo, in base all'annuario della nobiltà, che siano dieci anni; ma dieci anni con Monmouth devono essere stati un'eternità e con un po' di tempo in soprappiù. Chi altri viene?
- Oh, i Willoughby, Lord Rugby e sua moglie, la nostra padrona di casa di stasera, Geoffrey Clouston, il solito gruppo. Ho invitato Lord Grotrian.
- Mi piace - disse Lord Henry. - Molti non sono di questo parere, ma io lo trovo simpatico. Qualche volta è troppo ben vestito, ma in compenso è sempre troppo ben educato. E' un tipo molto moderno.
- Non so se potrà venire, Harry. Può darsi che debba andare a Montecarlo con suo padre.
- Ah, le famiglie, che fastidio! Cerca di farlo venire. A proposito, Dorian, ieri sera sei scappato via prestissimo. Che hai fatto, dopo? Sei andato direttamente a casa?
Dorian gli lanciò un'occhiata furtiva e si accigliò.
- No, Harry - disse finalmente. - Sono tornato a casa che erano quasi le tre.
- Andasti al circolo?
- Sì - rispose lui; poi si morse le labbra. - No, ho sbagliato.
Non sono andato al circolo; ho passeggiato. Non mi ricordo che cosa ho fatto... Ma quanto sei curioso, Harry! Vuoi sempre sapere che cosa ha fatto la gente, e io voglio sempre dimenticare quello che ho fatto. Sono rientrato alle due e mezzo, se vuoi sapere l'ora esatta. Avevo lasciato la chiave a casa e il mio servitore dovette venire ad aprirmi. Se desideri qualche testimonianza a conferma di questo, puoi interrogarlo.
Lord Henry scrollò le spalle.
- Mai caro mio, e che vuoi che me ne importi? Andiamo di sopra, in salotto. No, grazie, signor Chapman, niente sherry. Dorian, ti è successo qualcosa. Dimmi che cosa. Stasera non sei il solito Dorian.
- Non ci badare, Harry. Sono irritabile e di cattivo umore. Verrò a trovarti domani o dopo. Fa' le mie scuse a Lady Narborough; io non salgo. Me ne vado a casa; bisogna che vada a casa.
- Va bene, Dorian. Spero di vederti domani per il tè. Viene la duchessa.
- Cercherò di venire, Harry - disse lui uscendo dalla stanza.
Durante il tragitto in carrozza fino a casa sua, si rese conto di essere di nuovo in preda a quel senso di terrore che credeva di aver soffocato. Le domande puramente casuali di Lord Henry gli avevano fatto perdere per un attimo il controllo dei propri nervi, e invece bisognava avere i nervi a posto. C'erano certe cose pericolose che bisognava distruggere. Ebbe un sussulto: la sola idea di toccarle gli era odiosa.
Eppure bisognava che lo facesse, non c'era dubbio. Chiuse a chiave la porta della biblioteca, e aprì il ripostiglio segreto nel quale aveva gettato il pastrano e la valigia di Basil Hallward. Ardeva un fuoco enorme, e lui vi aggiunse un altro ciocco. Il puzzo del panno e del cuoio bruciati era orribile. Per consumare tutto quanto ci vollero tre quarti d'ora. Finì con l'essere colto dalla nausea e dal capogiro. Accese alcune pastiglie algerine in un braciere traforato di rame e si inumidì le mani e la fronte con un aceto muschiato rinfrescante.
A un tratto trasalì. I suoi occhi si fecero stranamente lucenti, e si morse nervosamente il labbro inferiore. Tra due finestre c'era un grande mobile fiorentino a cassetti, d'ebano intarsiato d'avorio e lapislazzuli. Lo contemplò come se fosse stato un oggetto affascinante e spaventoso insieme, come se contenesse qualche cosa che desiderava ardentemente e che pur tuttavia quasi odiava. Il suo respiro si accelerò; una bramosia furiosa lo prese.
Accese una sigaretta e la gettò via. Le palpebre si abbassarono tanto che le lunghe ciglia frangiate toccavano quasi la guancia.
Continuava a fissare il mobile. Finalmente si alzò dal divano sul quale stava disteso, andò verso il mobile, l'aprì e toccò una molla nascosta. Un cassetto triangolare uscì lentamente.
Istintivamente, le sue dita si mossero verso il cassetto, vi affondarono e si chiusero su un oggetto. Era una scatola cinese di lacca nera e come impolverata d'oro, lavorata in modo complicato, recante sui lati un motivo di onde che si incurvavano, adorna di cordoncini di seta dai quali pendevano cristalli rotondi e nappine fatte di fili metallici intrecciati. L'aprì. Conteneva una pasta verde, dall'aspetto di cera, che mandava un odore stranamente pesante e persistente.
Esitò per qualche minuto, con un sorriso stranamente immobile sul volto; poi, tremando benché l'atmosfera della stanza fosse terribilmente calda, si alzò e guardò l'orologio. Erano le dodici meno venti. Rimise a posto la scatola, chiuse gli sportelli del mobile e passò in camera da letto.
Mezzanotte stava battendo l'aria scura con i suoi colpi di bronzo, quando Dorian Gray, vestito di panni ordinari e con una sciarpa avvolta intorno al collo, uscì di casa senza far rumore. In Bond Street trovò una vettura pubblica con un buon cavallo; la chiamò e diede sottovoce un indirizzo al cocchiere. Questi scosse la testa.
- Troppo lontano per me - mormorò.
- Ecco qui una sovrana - disse Dorian; - e se camminate in fretta ne avrete un'altra.
- Benissimo, signore - rispose l'uomo. - In un'ora ci saremo.
Quando il suo passeggero fu salito, fece girare il cavallo e si mise a correre velocemente in direzione del fiume.
Capitolo sedicesimo
Cominciava a cadere una pioggerella gelata e i lampioni stradali, velati da quella nebbia che si scioglieva, avevano un aspetto spettrale. Le bettole stavano chiudendo e intorno alle loro porte si raggruppavano sagome scure di uomini e di donne. Da qualche bar arrivava il rumore di orribili risate; in qualche altro alcuni ubriachi litigavano urlando.
Steso nel fondo della vettura, con il cappello calcato sulla fronte, Dorian Gray guardava distrattamente la sordida vergogna della metropoli, ripetendo a se stesso ogni tanto le parole che gli aveva detto Lord Henry, il giorno in cui si erano conosciuti:
"curare l'anima per mezzo dei sensi e i sensi per mezzo dell'anima.
Sì, il segreto era quello. L'aveva provato più volte e ora l'avrebbe provato di nuovo. C'erano delle taverne per fumatori d'oppio dove si poteva comperare l'oblio; spelonche d'orrore dove il ricordo dei peccati vecchi poteva essere cancellato dalla follia di peccati nuovi.
In cielo pendeva bassa una luna che sembrava un teschio giallastro. Ogni tanto una grande nuvola informe vi stendeva sopra un lungo braccio nascondendola. I lampioni a gas diventavano meno numerosi e le strade più strette e più sinistre. A un certo punto il cocchiere si smarrì e dovette tornare indietro per mezzo miglio. Il vapore saliva su dal cavallo che affondava gli zoccoli nelle pozzanghere. I finestrini laterali della carrozza erano appannati da una nebbia di flanella grigia.
"Curare l'anima per mezzo dei sensi e i sensi per mezzo dell'anima!" Come suonavano al suo orecchio queste parole! Certo, la sua anima era mortalmente ammalata. Era vero che i sensi potevano curarla? Del sangue innocente era stato versato; che cosa poteva espiarlo? Ah, per questo non esisteva nessuna espiazione; ma se il perdono era impossibile, l'oblio era ancora possibile, e lui era deciso a dimenticare, a estinguere quella cosa, a schiacciarla come si schiaccia la biscia che ci ha morso. Del resto, con che diritto Basil gli aveva parlato in quel modo? Chi l'aveva fatto giudice degli altri? Le cose che aveva detto erano tremende, orribili, intollerabili.
La carrozza continuava ad andare avanti e a lui sembrava che rallentasse a ogni passo. Aprì lo sportello e gridò all'uomo di accelerare. Cominciava a sentirsi roso dalla laida fame dell'oppio; gli bruciava la gola e le sue mani delicate si intrecciavano nervosamente. Percosse furiosamente il cavallo col bastone. Il cocchiere rise e frustò; egli a sua volta rispose con una risata e l'uomo tacque.
Il cammino sembrava interminabile e le strade erano come una ragnatela nera. La monotonia diventò insopportabile e la nebbia che si infittiva provocò in lui un senso di paura.
Passarono vicino a certe solitarie fornaci di mattoni. Qui la nebbia era più rada e lui poté vedere gli strani forni a forma di bottiglia, con le loro lingue di fuoco simili a ventagli di color arancione. Un cane abbaiò al loro passaggio e nell'oscurità si sentì lontano il grido di un gabbiano errante. Il cavallo inciampò in una buca, poi fece uno scarto e prese il galoppo. Dopo qualche tempo lasciarono la strada sterrata e ricominciarono a percorrere rumorosamente vie mal selciate. La maggior parte delle finestre era buia, ma ogni tanto contro qualche persiana illuminata da una lampada si delineavano delle ombre fantastiche. Le guardò con curiosità. Si muovevano come marionette mostruose, gesticolando come persone vive. Le odiò; nel suo cuore c'era una rabbia sorda.
Mentre giravano un angolo, una donna gridò qualche cosa verso di loro da una porta aperta e due uomini rincorsero la carrozza per un centinaio di metri. Il cocchiere li prese a frustate.
Si dice che la passione faccia del pensiero un circolo chiuso.
Certo, le labbra di Dorian Gray, che egli mordeva continuamente, andavano formando e riformando, con un'interazione odiosa, quelle parole sottili che parlavano di anima e di sensi, finché egli arrivò a trovarvi, per così dire, la piena espressione del suo stato d'animo e a giustificare, con un'approvazione di tipo intellettuale, passioni che senza una simile giustificazione avrebbero continuato a dominare il suo spirito. Quel solo pensiero dominante strisciava da una cellula all'altra del suo cervello; e il frenetico desiderio di vivere, che di tutti gli appetiti umani è il più terribile, ridiede forza a tutti i suoi nervi tremanti e a tutte le sue fibre. La bruttezza, che un tempo gli era stata odiosa perché rendeva reali le cose, ora gli diventò cara per quello stesso motivo. La rissa violenta, la taverna schifosa, la violenza cruda della vita dissoluta, perfino la turpitudine del ladro e del reietto, per l'impressione intensamente attuale che suscitavano, erano più vive di tutte le forme graziose dell'arte, di tutte le ombre sognanti del canto. Erano quello che gli serviva per dimenticare. In tre giorni sarebbe stato libero.
Improvvisamente la carrozza si fermò con uno scossone all'imbocco di un vicolo oscuro. Al disopra dei tetti bassi e delle file ineguali dei comignoli si alzavano, neri, gli alberi dei bastimenti. Ghirlande di nebbia pendevano dai pennoni come vele spettrali.
- E' da queste parti, signore, non è vero? - chiese il cocchiere attraverso lo sportellino, con voce rauca.
Dorian si riscosse e guardò in giro. - Qui va bene - rispose. Tirò fuori in fretta la mancia che aveva promesso al cocchiere, gliela diede e si incamminò di buon passo in direzione della banchina.
Qua e là, a poppa di qualche bastimento brillava una lanterna e la luce si rifletteva nelle pozzanghere, frantumandosi. Da un vapore in partenza che stava rifornendosi di carbone veniva un chiarore rosso. Il marciapiede scivoloso sembrava un mantello bagnato.
Si diresse frettolosamente verso sinistra, girandosi indietro ogni tanto per vedere se qualcuno lo seguiva. Dopo sette o otto minuti arrivò a una casetta trasandata, incastrata tra due fabbriche spoglie. A una delle finestre del piano superiore c'era una luce.
Si fermò e bussò in un modo particolare.
Dopo un po' tempo sentì un rumore di passi e la catena venne sganciata. La porta si aprì silenziosamente ed egli entrò senza dire una parola alla figura goffa e deforme che al suo passaggio si schiacciò nell'ombra. All'estremità dell'ingresso pendeva una tenda verde, tutta strappata, che ondeggiò e si scosse alla raffica di vento entrata con lui dalla strada. La scostò e penetrò in una stanza lunga e bassa che sembrava essere stata in passato una sala da ballo. Lungo le pareti si allineavano vivaci fiammelle di gas, attenuate e contorte negli specchi macchiati dalle mosche che stavano loro di fronte; dietro di esse c'erano degli sporchi riflettori di stagno simili a tremuli dischi luminosi. Il pavimento era coperto di segatura color ocra, ridotta qua e là a fanghiglia dalle pedate e macchiata di anelli scuri di liquore versato. Alcuni Malesi, accovacciati vicino a un piccolo braciere, giocavano con gettoni d'osso, mostrando i denti bianchi nel parlare. In un angolo un marinaio si era abbandonato sul tavolino, con la testa nascosta tra le braccia, e vicino al bar, dipinto con colori vivaci, che occupava tutta una delle pareti, stavano due donne sparute e si facevano beffe di un vecchio che si spazzolava le maniche della giacca con un'espressione disgustata. - S'immagina di avere addosso le formiche rosse - disse ridendo una di loro mentre passava Dorian. L'uomo la guardò spaventato e cominciò a piagnucolare.
In fondo alla stanza c'era una scaletta che portava a una camera buia. L'odore pesante dell'oppio investì Dorian mentre si affrettava su per gli scalini malfermi. L'aspirò profondamente e le sue narici ebbero un fremito di voluttà. Quando entrò, un giovanotto dai capelli biondi lisci, curvo su una lampada nell'atto di accendere una pipa lunga e sottile, guardò verso di lui e fece esitando un cenno col capo.
- Sei qui, Adrian? - brontolò Dorian.
- E dove vuoi che sia? - rispose l'altro con aria distratta. Non c'è più uno degli amici che mi rivolga la parola.
- Ti credevo partito dall'Inghilterra.
- Darlington non vuol fare niente. Mio fratello ha finito col pagare la cambiale. Neppure Giorgio mi rivolge la parola... Me ne infischio - aggiunse con un sospiro. - Finché si ha questa roba non si ha bisogno di amici. Credo di averne avuti troppi, di amici.
Dorian trasalì e guardò in giro le forme grottesche distese in atteggiamenti fantastici sui materassi laceri. Quelle membra contorte, quelle bocche spalancate, quegli occhi sbarrati e spenti lo affascinavano. Conosceva gli strani paradisi nei quali costoro stavano soffrendo e gli oscuri inferni che insegnavano loro i segreti di qualche nuova gioia; stavano meglio di lui, che era imprigionato nel pensiero, di lui, al quale la memoria, come una malattia orribile, stava divorando l'anima. Ogni tanto gli sembrava di vedere gli occhi di Basil Hallward che lo guardavano.
Però sentì che non poteva rimanere; la presenza di Adrian Singleton lo disturbava. Voleva essere in qualche posto dove nessuno sapesse chi era; voleva evadere da se stesso.
- Me ne vado in quell'altro locale - disse dopo una pausa.
- Sulla banchina?
- Sì.
- Ci sarà di certo quella gatta idrofoba. Qui non la lasciano più entrare.
Dorian scrollò le spalle.
- Sono stufo delle donne che ci amano; sono molto più interessanti quelle che ci odiano. E poi la roba è migliore.
- Più o meno la stessa.
- A me piace di più. Vieni a bere qualcosa. Bisogna che prenda qualcosa.
- Non voglio niente - mormorò il giovinotto.
- Non importa.
Adrian Singleton si alzò a fatica e seguì Dorian al bar. Un meticcio, con un turbante cencioso e una giacca logora, fece sorridendo un ripugnante saluto spingendo davanti a loro una bottiglia d'acquavite e due bicchieri. Le donne si avvicinarono, cominciando a chiacchierare. Dorian girò loro le spalle, dicendo qualcosa sottovoce ad Adrian Singleton.
Sul viso di una delle donne passò un sorriso che era tortuoso come un criss malese.
- Ci diamo delle grandi arie, stasera - disse, sarcastica.
- Non parlarmi, per Dio - gridò Dorian, sbattendo il piede per terra. - Che vuoi? denaro? Eccolo. Non parlarmi mai più.
Negli occhi acquosi della donna si accesero per un attimo due scintille rosse, poi si spensero, lasciandoli scialbi e vitrei.
Scosse la testa e raccattò dal banco le monete, con dita avide, mentre la sua compagna la guardava con invidia.
- E' inutile - sospirò Adrian Singleton. - Non voglio ritornare. A che servirebbe? Qui sono perfettamente felice.
- Mi scriverai se ti serve qualche cosa, non è vero? - disse Dorian dopo una pausa.
- Forse.
- Allora, buona notte.
- Buona notte - rispose il giovanotto, risalendo gli scalini e passandosi un fazzoletto sulle labbra aride.
Dorian si avviò verso la porta, con un'espressione di pietà sul volto. Mentre scostava la tenda, una risata ripugnante uscì dalle labbra dipinte della donna che aveva preso il suo denaro. Con un singhiozzo e con voce rauca, disse:
- Ecco il Patto col Diavolo!
- Maledetta! - rispose lui. - Non chiamarmi in questo modo.
Lei fece schioccare le dita.
- Preferisci che ti chiamino Principe Azzurro, eh? - gli gridò dietro.
A queste parole il marinaio assonnato scattò in piedi, lanciando in giro un'occhiata furibonda. Il rumore della porta che si chiudeva colpì il suo orecchio. Corse fuori, come se inseguisse qualcuno.
Sotto la pioggia gelida Dorian Gray si affrettava lungo la banchina. L'incontro con Adrian Singleton l'aveva stranamente turbato. Si chiese se veramente era lui il responsabile della rovina di quella giovane esistenza, come gli aveva detto Basil Hallward con un insulto così infamante. Si morse il labbro e per un attimo i suoi occhi si rattristarono... Però, che gliene importava, alla fine? La vita di un uomo è troppo breve perché uno si carichi sulle spalle il peso degli errori degli altri. Ognuno vive la propria vita e paga il suo prezzo per viverla. Era un peccato, peraltro, che per una colpa sola si dovesse pagare tante volte, anzi, pagare e ripagare continuamente. Nei suoi rapporti d'affari con l'uomo il Destino non chiude mai il conto.
Gli psicologi ci dicono che ci sono certi momenti nei quali la passione per il peccato, o per quello che il mondo chiama peccato, domina a tal punto la persona che ogni fibra del corpo, come ogni cellula del cervello, diventa istinto, con impulsi tremendi. In quei momenti, uomini e donne perdono il libero arbitrio e vanno verso la loro fine terribile, come automi. A loro è tolta la facoltà di scegliere, e la coscienza è spenta o, se anche continua a vivere, vive solo per dare alla ribellione il suo fascino e alla disobbedienza il suo incanto. Poiché, come i teologi non si stancano mai di ripetere, tutti i peccati sono peccati di disobbedienza. Quando quello spirito eccelso, stella mattutina del male, precipitò dal cielo, precipitò come ribelle.
Indurito, concentrato nel fare il male, con la faccia sporca e l'anima affamata di ribellione, Dorian Gray si affrettava, accelerando il passo; sennonché mentre svoltava in un portico buio che gli era servito spesso come scorciatoia per raggiungere il posto malfamato verso il quale era diretto, di colpo si sentì afferrare da dietro e, prima che avesse il tempo di difendersi, fu gettato contro il muro e una mano brutale lo prese alla gola.
Lottò furiosamente per salvarsi e, a prezzo di uno sforzo inaudito, riuscì a strappare via da sé quelle dita che l'attanagliavano. In un secondo sentì lo scatto di una pistola e vide il lampo di una canna lucente puntata contro la sua testa e la sagoma scura e tarchiata dell'uomo che gli stava di fronte.
- Che cosa volete? - disse ansimando.
- Fermo - disse l'uomo. - Se vi muovete sparo.
- Siete impazzito. Che cosa vi ho fatto?
- Avete distrutto la vita di Sybil Vane - fu la risposta - e Sybil Vane era mia sorella. Voi siete responsabile della sua morte e io ho giurato di farvela pagare con la vita. Vi ho cercato per anni interi, ma non avevo nessun indizio, nessuna traccia. Le due persone che avrebbero potuto descrivervi erano morte. Di voi non sapevo niente, salvo il vezzeggiativo con il quale lei vi chiamava. Stasera l'ho sentito per caso. Chiedete perdono a Dio perché stanotte morirete.
Dorian Gray si sentì male dalla paura. Balbettò: - Non l'ho mai conosciuta; non ho mai sentito questo nome. Voi siete pazzo.
- Fareste meglio a confessare il vostro peccato, perché morirete, com'è vero che io mi chiamo James Vane.
Passò un attimo tremendo, durante il quale Dorian non sapeva che dire né che fare.
- In ginocchio! - ruggì l'uomo. - Vi dò un minuto per riconciliarvi con Dio. Stanotte m'imbarco per l'India e prima devo fare questo lavoro. Un minuto e basta.
Dorian Gray si sentì cadere le braccia. Non sapeva che fare, quando gli balenò nel cervello una speranza pazzesca. - Fermo!
gridò. - Da quanto tempo è morta vostra sorella? Ditelo, presto!
- Da diciotto anni - disse l'uomo. - Perché questa domanda? Che importano gli anni?
- Diciotto anni! - rise Dorian Gray, con un accento di trionfo nella voce. - Diciotto anni! Mettetemi sotto un lampione e guardatemi in faccia!
James Vane esitò un attimo, non comprendendo quello che l'altro volesse dire: poi afferrò Dorian Gray e lo trascinò fuori dal portico.
Per quanto la luce fosse fiacca e oscillante sotto i colpi di vento, bastava tuttavia a fargli vedere l'orribile errore nel quale apparentemente era caduto; poiché il viso dell'uomo che aveva voluto uccidere aveva tutto il fiore dell'adolescenza, tutta la purezza immacolata della gioventù. Sembrava che non potesse avere molto più di vent'anni, poco più, al massimo, di quanti ne aveva sua sorella nel momento in cui si erano separati, tanti anni prima. Era evidente che non poteva essere questo l'uomo che aveva distrutto la vita di lei.
Lasciò la presa e indietreggiò.
- Mio Dio, mio Dio! - gridò. - E io vi avrei assassinato!
Dorian Gray trasse un profondo respiro.
- Siete stato a due dita dal commettere un terribile delitto, galantuomo - disse, guardandolo severamente. - Vi servirà a imparare che nessuno deve farsi strumento della propria vendetta.
- Vi chiedo perdono, signore - balbettò James Vane. - Mi sono ingannato. Una parola sentita per caso in quella caverna maledetta mi ha fuorviato.
- Fareste meglio ad andarvene a casa e a mettere via quella pistola, se non volete avere qualche guaio - disse Dorian, girando sui tacchi e incamminandosi lentamente per la strada.
James Vane rimase immobile sul marciapiede, esterrefatto, tremando dalla testa ai piedi. Dopo un po', un'ombra nera che era venuta strisciando lungo il muro fradicio uscì fuori alla luce e gli si avvicinò furtiva. Sentì una mano posarglisi sul braccio; trasalì e si guardò intorno. Era una delle donne che stavano bevendo al bar.
- Perché non l'avete ucciso? - sibilò costei, mettendo la faccia stravolta vicinissima a quella di lui. - Lo sapevo che l'avevate seguito quando vi siete precipitato fuori da Daly. Imbecille!
Dovevate ammazzarlo; ha un sacco di soldi e non c'e nessuno che sia più cattivo di lui.
- Non è l'uomo che vado cercando - rispose l'altro, - e non voglio i soldi di nessuno. Voglio la vita di un uomo. L'uomo del quale voglio la vita deve avere una quarantina d'anni e questo è poco più che un ragazzo. Ringrazio Iddio di non essermi macchiato le mani del suo sangue.
La donna scoppiò in una risata amara.
- Poco più che un ragazzo! - ripeté, sarcastica. - Andiamo, galantuomo! Saranno quasi diciott'anni che il Principe Azzurro ha fatto di me quella che sono adesso.
- Bugiarda! - gridò James Vane.
La donna alzò un braccio verso il cielo.
- Davanti a Dio vi sto dicendo la verità.
- Davanti a Dio?
- Possa farmi diventare muta se non dico il vero. E' il peggiore di tutti quelli che frequentano questo locale. Dicono che si è venduto al diavolo per la sua bella faccia. Sono quasi diciott'anni che lo conosco e da allora in poi non è cambiato molto. Io sì - aggiunse con un'occhiata furtiva e dolorosa.
- Lo giuri?
- Lo giuro - fu l'eco rauca che uscì da quella bocca piatta. Però non mi tradite con lui - gemette. - Mi fa paura. Datemi qualche soldo per la camera.
Egli si strappò via da lei con una bestemmia e si precipitò verso l'angolo, ma Dorian Gray era scomparso. Si girò indietro, ma anche la donna era sparita.
Capitolo diciassettesimo
Una settimana dopo, Dorian Gray era seduto nella serra di Selby Royal e parlava con la graziosa duchessa di Monmouth, che era sua ospite insieme col marito, un sessantenne dall'aspetto stanco.
Era l'ora del tè e la luce attenuata della grande lampada dal paralume di pizzo collocata sulla tavola, illuminava le porcellane delicate e gli argenti martellati del servizio al quale la duchessa presiedeva. Le sue mani bianche si muovevano con grazia e le sue rosse labbra carnose sorridevano di qualcosa che Dorian le stava dicendo: Lord Henry, adagiato in una poltrona di seta, li guardava. Su un divano color pesca c'era Lady Narborough che fingeva di ascoltare il duca, che le descriveva l'ultimo scarabeo brasiliano che aveva aggiunto alla sua collezione. Tre giovanotti molto ben vestiti, in smoking, offrivano pasticcini ad alcune signore. C'erano dodici ospiti in casa e per il giorno seguente si aspettava l'arrivo di altri.
- Di che cosa state parlando voi due? - disse Lord Henry, andando verso il tavolino e posandovi sopra la tazza. - Gladys, spero che Dorian ti abbia detto del mio piano di ribattezzare ogni cosa. E' un'idea deliziosa.
- Ma io non ho nessuna voglia di essere ribattezzata, Henry rispose la duchessa, fissandolo con i suoi magnifici occhi. Sono soddisfattissima del mio nome e sono certa che il signor Gray è soddisfattissimo del suo.
- Mia cara Gladys, non vorrei modificare né l'uno né l'altro per tutto l'oro del mondo. Sono entrambi perfetti. Pensavo soprattutto ai fiori. Ieri colsi un'orchidea per mettermela all'occhiello; era una mirabile cosa, tutta macchiata, efficace come i sette peccati mortali. Senza pensarci, ne chiesi il nome al giardiniere e questi mi rispose che era un bell'esemplare di Robinsoniana o un'altra tremenda cosa di questo genere. E' una triste verità che abbiamo perduto il dono di dare alle cose dei nomi graziosi. I nomi sono tutto. Io non litigo mai con le cose; litigo soltanto con le parole, e questa è la ragione per la quale in letteratura detesto il realismo volgare. L'uomo che chiama vanga una vanga dovrebbe essere costretto a maneggiarla; è l'unica cosa per la quale sia adatto.
- E a te, allora Harry, come dovremmo chiamarti? - chiese lei.
- Il suo nome è Principe Paradosso - disse Dorian.
- L'ho riconosciuto subito - esclamò la duchessa.
- Non lo voglio sentire - disse Lord Henry, ridendo e sedendosi.- A un'etichetta non si sfugge più. Rifiuto il titolo.
- I re non possono abdicare - fu il mònito che venne da quelle labbra graziose.
- Vuoi dunque ch'io difenda il mio trono?
- Sì.
- Io annunzio le verità di domani.
- Preferisco gli errori di ieri - rispose lei.
- Gladys, mi hai disarmato - esclamò lui, vedendola così ostinata.
- Dello scudo, ma non della lancia.
- Contro la bellezza non scendo mai in lizza - disse lui con un gesto della mano.
- E' qui che sbagli, Harry, credi a me. Attribuisci alla bellezza un valore veramente eccessivo.
- Come puoi dire questo? Ammetto che penso che sia meglio essere belli che buoni; ma d'altra parte non c'è uomo più disposto di me ad ammettere che è meglio essere buoni che brutti.
- Dunque la bruttezza è uno dei sette peccati mortali? - gridò la duchessa. - E che succede allora della tua similitudine a proposito dell'orchidea?
- La bruttezza è una delle sette virtù mortali, Gladys. Tu, che sei una buona conservatrice, non devi sottovalutarle; la birra, la Bibbia e le sette virtù mortali hanno fatto della nostra Inghilterra quello che è.
- Dunque tu non ami il tuo paese? - chiese lei.
- Ci vivo.
- Sì, per poterlo criticare meglio.
- Vorresti che accettassi il verdetto che ha pronunciato l'Europa?
- Che dicono di noi?
- Che Tartufo è emigrato in Inghilterra e vi ha aperto bottega. E' roba tua questa?
- Te la regalo.
- Non saprei che farmene. E' troppo vero.
- Non aver paura. I nostri compatrioti non riconoscono mai una descrizione.
- Sono gente pratica.
- Sono più astuti che pratici. Quando fanno i ragionieri fanno bilanciare la stupidità dalla ricchezza e il vizio dall'ipocrisia.
- Eppure abbiamo fatto cose grandi.
- Ci sono state imposte cose grandi, Gladys.
- E' un peso che abbiamo saputo portare.
- Soltanto fino al palazzo della Borsa.
Lei scosse la testa ed esclamò:
- Io ho fede nella razza.
- Per me la decadenza ha un fascino maggiore.
- E l'arte? - chiese lei.
- E' una malattia.
- L'amore?
- Un'illusione.
- La religione?
- Il surrogato elegante della fede.
- Sei uno scettico.
- No di certo. Lo scetticismo è il principio della fede.
- Ma che cosa sei?
- Definire è limitare.
- Dammi un filo.
- I fili sfuggono di mano. Ti smarriresti nel labirinto.
- Mi fai girare la testa. Parliamo di qualcun altro.
- Il nostro ospite costituisce un argomento delizioso. Anni fa lo battezzarono Principe Azzurro.
- Ah, - gridò Dorian, - non ricordarmelo!
- Il nostro ospite è piuttosto antipatico stasera - rispose la duchessa, arrossendo. - Sono convinta che crede che Monmouth mi abbia sposato per ragioni puramente scientifiche, come il miglior esemplare di farfalla moderna che poteva trovare.
- Spero però che non vi bucherà con gli spilli, duchessa - disse ridendo Dorian.
- Oh, signor Gray, questo lo fa già la mia cameriera quando è arrabbiata con me.
- E riguardo a cosa si arrabbia con voi, duchessa?
- Per le cose più insignificanti, ve l'assicuro, Mister Gray. Di solito perché arrivo alle nove meno dieci e le dico che devo esser vestita per le otto e mezzo.
- E' una donna irragionevole! Dovreste licenziarla.
- Non oso, signor Gray. Inventa persino dei cappelli per me. Vi ricordate quello che portavo al garden-party di Lady Hillstone?
No, però siete molto gentile a far finta di ricordarvene. Orbene, era lei che l'aveva fatto, con niente; ma tutti i bei cappelli sono fatti di niente.
- Come tutte le buone riputazioni, Gladys - interruppe Lord Henry.
- Ogni volta che produciamo un effetto qualunque ci facciamo un nemico. Per esser popolari bisogna essere mediocri.
- Con le donne no - disse la duchessa, scuotendo la testa - e le donne governano il mondo. Ti assicuro che noi non possiamo sopportare la mediocrità. Noi donne, come ha detto non so più chi, amiamo con gli orecchi, come voi uomini amate con gli occhi, se pure siete capaci di amare.
- Mi sembra che non facciamo mai altro - disse Dorian a mezza voce.
- Ah, ma allora non amate mai veramente, signor Gray - rispose la duchessa, fingendo la tristezza.
- Cara Gladys - gridò Lord Henry, - come puoi dire questo? Il romanzo vive di ripetizione e la ripetizione trasforma un appetito in arte. Del resto, ogni volta che amiamo è l'unica volta che abbiamo amato. La diversità dell'oggetto non modifica l'unicità della passione; semplicemente la intensifica. Nella vita non possiamo avere, al massimo, che una grande esperienza e il segreto della vita consiste nel ripetere quell'esperienza il più spesso possibile.
- Anche se ne siamo usciti feriti, Harry? - chiese la duchessa dopo una pausa.
- Soprattutto se ne siamo usciti feriti - rispose Lord Henry.
La duchessa si girò a guardare Dorian, con una curiosa espressione negli occhi.
- E voi che ne dite, signor Gray? - chiese.
Dorian esitò un attimo, poi mosse la testa all'indietro e rise.
- Io sono sempre d'accordo con Henry, duchessa.
- Anche quando ha torto?
- Harry non ha mai torto.
- E la sua filosofia vi rende felice?
- Non ho mai cercato la felicità. E chi vuole la felicità? Ho cercato il piacere.
- E l'avete trovato?
- Spesso. Troppo spesso.
La duchessa sospirò.
- Io vado in cerca di pace - disse, - e stasera non ne avrò se non vado a vestirmi.
- Aspettate che vada a prendervi qualche orchidea, duchessa gridò Dorian, scattando in piedi e incamminandosi giù per la serra.
- Stai flirtando con lui in un modo vergognoso - disse Harry alla cugina. - Faresti meglio a stare attenta. E' un uomo molto affascinante.
- Se non lo fosse non ci sarebbe battaglia.
- Greci contro Greci, dunque?
- Io sto dalla parte dei Troiani. Combattevano per una donna.
- Ma furono sconfitti.
- Esistono cose peggiori della cattura - replicò lei.
- Stai galoppando a briglia sciolta.
- E' l'andatura che fa la vita - fu la risposta.
- Lo scriverò nel mio diario stasera.
- Che cosa?
- Che un bimbo scottato ama il fuoco.
- Io non sono neanche strinata. Ho le ali intatte.
- Le puoi adoperare per qualsiasi cosa, ma non per fuggire.
- Il coraggio è passato dagli uomini alle donne. Per noi è un'esperienza nuova.
- Hai una rivale.
- Chi?
Egli rise e sussurrò: - Lady Narborough. Lo adora.
- Desti tutte le mie apprensioni. Per noi che siamo romantiche l'appello dell'antichità è fatale.
- Romantiche? Se possedete tutti i metodi della scienza.
- Gli uomini ci hanno istruito.
- Ma non vi hanno spiegato.
- Dà una definizione del sesso femminile - disse lei, per sfida.
- Sfingi senza segreti.
Lei lo guardò sorridendo, poi disse:
- Quanto ci mette Gray! Andiamo ad aiutarlo. Non gli ho ancora detto di che colore è il mio vestito.
- Ah, Gladys, ma sei tu che devi adattare il vestito ai suoi fiori.
- Questa sarebbe una resa prematura.
- L'arte romantica comincia dal punto culminante.
- Bisogna che mi lasci aperta la via della ritirata.
- Come i Parti?
- Quelli si rifugiavano nel deserto, ma io non posso.
- Alle donne non è sempre permesso scegliere - rispose lui; ma aveva appena finito la frase che dall'estremità più lontana della serra arrivò un gemito soffocato, seguito dal tonfo cupo di una cosa pesante che cadeva. Tutti balzarono in piedi; la duchessa si fermò, paralizzata dall'orrore, e Lord Henry, con gli occhi pieni di spavento, si lanciò tra le palme ondeggianti e trovò Dorian Gray steso, a faccia in giù, sul pavimento di mattonelle; uno svenimento che assomigliava alla morte.
Lo portarono immediatamente nel salotto azzurro e lo adagiarono su uno dei divani. Dopo un po' riprese i sensi e si guardò intorno, con un'espressione attonita.
- Che è successo? - chiese. - Oh, sì, mi ricordo. Sono al sicuro qui, Harry? - Cominciò a tremare.
- Mio caro Dorian - rispose Lord Henry, - sei semplicemente svenuto; nient'altro. Forse ti sei stancato troppo. Faresti meglio a non scendere per pranzo. Ti sostituisco io.
- No, voglio scendere - disse, lottando per rimettersi in piedi.- Preferisco scendere. Non devo stare solo.
Andò in camera sua e si vestì. Finché rimase seduto a tavola, sembrò che si volesse abbandonare all'allegria più sfrenata; ma ogni tanto un brivido di terrore lo percorreva tutto, se ripensava che aveva visto, schiacciata come un fazzoletto bianco contro la finestra della serra, la faccia di James Vane che lo spiava.
Capitolo diciottesimo
Il giorno dopo non uscì di casa, anzi passò la maggior parte del tempo in camera da letto, ammalato di un frenetico terrore della morte e pur tuttavia indifferente alla vita in se stessa. La coscienza di essere braccato, insidiato, inseguito aveva cominciato a dominarlo. Bastava che le cortine tremassero al vento per farlo sussultare. Le foglie morte trasportate contro i vetri piombati gli sembravano simili alle risoluzioni che non aveva tradotto in atti, ai rimpianti che non riusciva a frenare. Se chiudeva gli occhi, rivedeva la faccia del marinaio intento a guardare attraverso il vetro appannato e gli sembrava che l'orrore tornasse a posargli la mano sul cuore.
Ma forse era stata solo la sua immaginazione a evocare fuori della notte la vendetta e a mettergli davanti agli occhi gli orribili aspetti del castigo. Se la vita reale era un caos, nell'immaginazione c'era però qualcosa di terribilmente logico:
era questa che sguinzagliava il rimorso sulle orme del peccato, che faceva sì che ogni delitto portasse i suoi frutti deformi. Nel mondo comune dei fatti, né i malvagi erano puniti né i buoni ricompensati: il successo andava ai forti, l'insuccesso colpiva i deboli: nient'altro. Per di più, se qualche estraneo si fosse aggirato intorno alla casa, i domestici o i guardiani lo avrebbero visto; se nelle aiuole fosse stata scoperta qualche impronta i giardinieri lo avrebbero segnalato. Era stata senza dubbio pura immaginazione; il fratello di Sybil Vane non era tornato indietro per ucciderlo; era partito a bordo del suo bastimento chi sa per dove, per naufragare in qualche burrasca invernale. Da lui almeno era al sicuro. Quell'uomo non sapeva nemmeno chi egli fosse; non poteva saperlo. La maschera della gioventù lo aveva salvato.
Peraltro, se si trattava di una semplice illusione, non era tremendo pensare che la coscienza potesse far nascere simili paurosi fantasmi e dare loro forma visibile e farli muovere sotto i nostri occhi? Che razza di vita sarebbe stata la sua, se le ombre del suo delitto dovevano spiarlo giorno e notte dagli angoli silenziosi, schernirlo da luoghi segreti, sussurrargli all'orecchio durante il festino, svegliarlo dal sonno con gelide dita! Quando gli si insinuò nel cervello quest'idea, il terrore lo fece impallidire e gli sembrò che l'aria fosse diventata improvvisamente più fredda. Che momento di pazzia furiosa era stato quello nel quale aveva ucciso il suo amico! Com'era orribile il solo ricordo di quella scena! La rivedeva tutta quanta; tutti i dettagli spaventosi gli tornavano in mente con un orrore intensificato. L'immagine del suo delitto usciva dalla nera caverna del tempo, terribile e drappeggiata di scarlatto. Quando Lord Henry entrò alle sei, lo trovò in lacrime, come uno al quale si spezzi il cuore.
Soltanto il terzo giorno si arrischiò a uscire. Nell'aria serena, profumata di resina, di quella mattinata invernale c'era qualcosa che sembrava restituirgli l'allegria e l'ardore di vivere. Ma questo cambiamento non era dovuto solo alle condizioni fisiche dell'ambiente; era la sua stessa natura che si era ribellata contro l'angoscia eccessiva che aveva tentato di sovvertire e distruggere la perfezione della sua calma. Succede sempre così nei temperamenti raffinati e complessi; le loro passioni violente o li fiaccano o devono piegarsi, o uccidono l'uomo o muoiono esse stesse. I dolori superficiali, come gli amori superficiali, vivono a lungo; gli amori e i dolori veramente grandi sono distrutti dalla loro stessa pienezza. Inoltre, si era convinto di essere stato vittima della propria immaginazione terrorizzata e ora ripensava alla sua paura con una certa pietà mista a un certo disprezzo.
Dopo colazione passeggiò per un'ora in giardino con la duchessa, poi attraversò il parco in carrozza per raggiungere i cacciatori.
La brinata scricchiolante copriva il metallo turchino e una sottile striscia di ghiaccio orlava il laghetto tranquillo e ricco di canne.
Al limitare del bosco di pini vide Sir Geoffrey Clouston, il fratello della duchessa, che estraeva dal fucile due cartucce vuote. Saltò giù dalla vettura e, dopo aver detto al "groom" di riportare a casa la cavalla si avviò verso l'ospite tra i rami secchi e i cespugli irti.
- Buona caccia, Geoffrey? - chiese.
- Non troppo, Dorian. La maggior parte degli uccelli dev'essere uscita all'aperto. Credo che andrà meglio nel pomeriggio, quando passeremo su un terreno nuovo.
Dorian si unì a lui. L'aria aromatica e frizzante, le luci brune e rosse che apparivano nel bosco, le grida rauche dei battitori che si alzavano ogni tanto e alle quali seguivano gli spari secchi dei fucili lo affascinavano e gli davano un delizioso senso di libertà. La noncuranza della felicità, la suprema indifferenza della gioia si erano impadronite di lui.
Di colpo, a una ventina di metri da loro, una lepre, con gli orecchi dalla punta nera dritti, spinta in avanti dalle lunghe zampe posteriori, sbucò da un folto cespuglio di erbe aride correndo come una freccia in direzione di un folto di ontani. Sir Geoffrey imbracciò il fucile; ma nella grazia dei movimenti dell'animale c'era qualcosa che affascinò stranamente Dorian Gray e lo fece gridare subito:
- Non sparare, Geoffrey. Lasciala vivere.
- Che sciocchezza, Dorian! - rise il suo compagno e mentre la lepre stava per balzare nel folto sparò. Si sentirono due gridi:
quello di una lepre ferita, che è tremendo, e quello di un uomo in agonia, che è ancora più tremendo.
- Signore Iddio! - esclamò Sir Geoffrey. - Ho colpito un battitore! Ma che idiota, a mettersi così davanti ai fucili! Voi, laggiù, smettete di sparare! - gridò a voce altissima. C'è un ferito.
Il capo dei guardacaccia arrivò di corsa con un bastone in mano.
- Dove, signore? dov'è? - gridò; e nello stesso momento il fuoco cessò su tutta la linea.
- Qui - rispose Sir Geoffrey, furibondo, affrettandosi verso il folto. - Perché diavolo non tenete indietro i vostri uomini? Per oggi la mia caccia è rovinata.
Dorian li seguì con lo sguardo mentre penetravano nel boschetto di ontani, scostando i rami esili e flessuosi. Dopo poco tornarono fuori, trascinandosi dietro un corpo nella luce del sole. L'orrore gli fece girare la testa; gli sembrò che la sventura lo seguisse dovunque. Sentì Sir Geoffrey chiedere se l'uomo era proprio morto e il guardacaccia rispondere affermativamente. Tutto il bosco, improvvisamente, gli sembrò pieno di volti umani; sentì il calpestìo di migliaia di piedi e il ronzio sommesso delle voci. Un grande fagiano dal petto di rame venne a svolazzare tra i rami sulle loro teste.
Dopo pochi momenti che, nello stato di turbamento in cui era, gli sembrarono ore interminabili di sofferenza, sentì una mano che gli si posava sulla spalla; trasalì e si girò.
- Dorian - disse Lord Henry, - sarà meglio dire che per oggi la battuta è sospesa. Continuarla non farebbe buona impressione.
- Harry, vorrei che fosse sospesa per sempre - rispose, amaro. E' tutta una cosa ripugnante e crudele. Quell'uomo è...
Non riuscì a finire la frase.
- Temo di sì - rispose Lord Henry. - La scarica l'ha colpito in pieno petto. La morte deve essere stata istantanea. Vieni, andiamo a casa.
Camminarono fianco a fianco per una cinquantina di metri in direzione del viale, senza pronunciare una sola parola; poi Dorian guardò Lord Henry e disse, con un profondo sospiro:
- Brutto presagio, Harry; bruttissimo presagio.
- Che cosa? - chiese Lord Henry. - Ah, sì, quest'incidente. Ma, amico mio, era inevitabile. La colpa è tutta dell'uomo; perché si è messo davanti ai fucili? E poi la cosa non ci riguarda.
Naturalmente è piuttosto seccante per Geoffrey. Impallinare i battitori non è una bella cosa; la gente pensa che chi l'ha fatto sia uno che spara all'impazzata, e Geoffrey non lo è; è un tiratore molto preciso. Ma parlarne non serve a niente.
Dorian scosse la testa.
- E' un brutto presagio, Harry. Ho la sensazione che qualcosa di orribile stia per succedere a qualcuno di noi; a me, forse aggiunse, passandosi la mano davanti agli occhi con un gesto di paura.
L'altro rise.
- Dorian, al mondo c'è una sola cosa orribile, la noia; è l'unico peccato che non trova perdono. Ma non è probabile che noi ne soffriremo, a meno che a pranzo questa gente non continui a chiacchierare di questa storia. Bisognerà che faccia sapere che è un argomento da considerare vietato. Quanto ai presagi, non esiste niente di simile. Il destino è troppo saggio e troppo crudele per mandarci degli araldi. E poi, Dorian, a te che diavolo potrebbe accadere? Tu hai tutto quello che si può desiderare al mondo; non c'è uomo che non sarebbe felice di fare a cambio con te.
- Harry, non c'è uomo con il quale io non farei a cambio. Non ridere; ti sto dicendo la verità. Quel disgraziato contadino che è morto poco fa sta molto meglio di me. Io non ho paura della morte:
è la venuta della morte che mi atterrisce. Mi sembra di sentire in quest'aria di piombo il battito delle sue ali mostruose. Buon Dio!
non vedi laggiù dietro gli alberi muoversi un uomo, che mi aspetta, che mi spia?
Lord Henry guardò nella direzione che additava quella mano inguantata.
- Sì - disse sorridendo, - vedo il giardiniere che ti aspetta.
Probabilmente vorrà chiederti che fiori vuoi avere in tavola stasera. Sei nervoso in un modo incredibile, Dorian; quando torniamo in città devi farti visitare dal mio medico.
Vedendo avvicinarsi il giardiniere, Dorian trasse un sospiro di sollievo. Questi si toccò il cappello, diede un'occhiata esitante a Lord Henry, poi tirò fuori una lettera e la porse al padrone.
- Sua Grazia mi ha detto di aspettare la risposta - mormorò.
Dorian si mise in tasca la lettera e disse freddamente:
- Dite a Sua Grazia che sto venendo.
L'uomo si girò e si diresse rapidamente verso la casa.
- Quanto piace alle donne fare le cose pericolose! - disse Lord Henry. - E' una delle qualità che più ammiro in loro. Una donna flirterà con chiunque, a condizione che ci sia qualcuno a guardare.
- Quanto piace a te dire le cose pericolose, Harry! In questo caso sei del tutto fuori strada. La duchessa mi piace moltissimo, ma non l'amo.
- E la duchessa ti ama molto, ma le piaci meno; e dunque l'accordo è perfetto.
- Harry, tu stai parlando di scandali e per uno scandalo non esiste la più piccola base.
- La base per qualunque scandalo è una certezza immorale - disse Lord Henry, accendendo una sigaretta.
- Tu sacrificheresti chiunque per il gusto di fare un epigramma.
- Il mondo va all'altare spontaneamente - fu la risposta.
- Vorrei poter amare - gridò Dorian Gray, con una nota profondamente patetica nella voce. - Ma mi sembra di aver perduto la passione e dimenticato il desiderio. Mi sono concentrato troppo su me stesso; la mia personalità mi è diventata un peso. Voglio evadere, andarmene, dimenticare. Sono stato uno sciocco a venire qui. Credo che telegraferò a Harvey di allestire lo yacht; a bordo si è al sicuro.
- Al sicuro da che cosa, Dorian? Tu ti trovi in qualche pasticcio.
Perché non mi dici di che si tratta? Sai bene che ti aiuterei.
- Non posso dirtelo, Harry - rispose tristemente, - e forse non è che una mia immaginazione. Questo disgraziato incidente mi ha sconvolto. Ho un orribile presentimento che qualche cosa di simile accadrà a me.
- Che sciocchezze!
- Speriamo; ma non riesco a difendermi da questa sensazione. Ah, ecco la duchessa, che sembra Artemide in tailleur. Come vedete, duchessa, sono tornato.
- Ho sentito tutto, signor Gray - rispose lei. - Il povero Geoffrey è fuori di sé. E sembra che voi gli avevate chiesto di non tirare a quella lepre. Che cosa strana!
- Sì, molto strana. Non so che cosa mi abbia spinto: un capriccio, penso. Sembrava la più graziosa di tutte le cose viventi. Però mi dispiace che vi abbiano detto di quell'uomo; non è un argomento attraente.
Lord Henry intervenne:
- E' un argomento noioso. Non ha nessun valore psicologico. Ah, se Geoffrey l'avesse fatto apposta, questo lo renderebbe molto interessante. Mi piacerebbe conoscere uno che avesse commesso un vero assassinio.
- Che brutte cose, Harry! - gridò la duchessa, - non è vero, signor Gray? Harry, il signor Gray sta male di nuovo: sta per svenire.
Dorian, con uno sforzo, si irrigidì e sorrise.
- Non è niente, duchessa - mormorò. - Ho i nervi terribilmente in disordine, ecco tutto. Temo di aver camminato troppo stamani. Non ho sentito quello che ha detto Harry; era una cosa molto brutta?
Bisognerà che tu me la ridica un'altra volta. Credo che dovrò andare a coricarmi. Mi scuserete, non è vero?
Erano arrivati al grande salone che portava dalla serra alla terrazza. Quando la porta vetrata si fu chiusa dietro le spalle di Dorian Gray, Lord Henry si girò a guardare la duchessa con i suoi occhi sonnolenti e le disse:
- Sei molto innamorata di lui?
Lei non rispose per qualche momento e rimase a contemplare il paesaggio.
- Vorrei saperlo - disse finalmente.
Lui scosse la testa.
- Saperlo sarebbe fatale. Quello che affascina è l'incertezza. La nebbia rende meravigliose tutte le cose.
- Si può smarrire la strada.
- Mia cara Gladys, tutte le strade finiscono nello stesso punto.
- Qual è?
- La delusione.
- E' stata il mio "début" nella vita - sospirò lei.
- E' venuta da te con una corona in testa.
- Le foglie di fragola mi hanno stancato.
- Ma ti stanno bene.
- Soltanto in pubblico.
- Ne sentiresti la mancanza - disse Lord Henry.
- Non intendo separarmi neanche da un petalo.
- Monmouth ha gli orecchi.
- I vecchi sono duri d'orecchio.
- Non è mai stato geloso?
- Vorrei che lo fosse stato.
Egli diede un'occhiata in giro, come se cercasse qualcosa.
- Che cerchi? - gli domandò essa.
- Il bottone del tuo fioretto - rispose lui. - L'hai lasciato cadere.
Lei rise. - Sì, ma la maschera ce l'ho ancora.
- Rende più graziosi i tuoi occhi - fu la risposta.
Essa rise, e i suoi denti si mostrarono, simili a semi bianchi in un frutto scarlatto.
Di sopra, Dorian Gray, in camera sua, era disteso su un divano e il terrore scuoteva tutte le fibre del suo corpo. Per lui la vita, di colpo, era diventata un peso troppo ripugnante per sopportarlo.
La morte tremenda di quel disgraziato battitore, ucciso nel boschetto come un animale selvatico, gli era parsa come una prefigurazione della morte che avrebbe colpito anche lui. Le parole pronunciate da Lord Henry per un capriccio passeggero di cinismo faceto gli avevano dato le vertigini.
Alle cinque suonò per il servitore e gli diede ordine di fare le valigie in tempo per il direttissimo notturno per la capitale e di fargli avere la carrozza alla porta per le otto e mezzo. Era deciso a non passare un'altra notte a Selby Royal. Era un posto di malaugurio; la morte vi si aggirava in pieno sole e l'erba della foresta era stata sporcata di sangue.
Scrisse poi un biglietto a Lord Henry, dicendogli che andava in città per consultare un medico e pregandolo di fare gli onori di casa durante la sua assenza. Stava introducendolo nella busta quando bussarono alla porta e il servitore lo informò che il capo guardacaccia voleva vederlo. Si rabbuiò e si morse le labbra.
- Fatelo entrare - mormorò dopo un attimo di esitazione.
Appena l'uomo fu entrato, Dorian tirò fuori da un cassetto il libretto degli assegni e l'aprì davanti a lui.
- Suppongo che siate venuto per quel disgraziato incidente di stamattina, Thornton - disse nel prendere la penna.
- Sissignore - rispose il guardacaccia.
- Era ammogliato quel poveretto? Aveva qualcuno a carico? chiese Dorian, con aria annoiata. - Se è così, non vorrei che rimanessero in miseria e manderei loro qualsiasi somma di denaro che vi sembri necessaria.
- Non sappiamo chi sia, signore. E' per questo che mi sono permesso di venire da voi.
- Non sapete chi sia? - disse distrattamente Dorian. - Che volete dire? Non era uno dei vostri uomini?
- Nossignore. Mai visto prima. Sembra un marinaio.
A Dorian Gray cadde di mano la penna. Gli sembrò che il suo cuore avesse smesso di battere di colpo.
- Marinaio? - gridò. - Marinaio, avete detto?
- Sissignore. Ha l'aria di essere stato una specie di marinaio; tatuato su tutt'e due le braccia e così via.
- Non gli si è trovato niente indosso? - disse Dorian, piegandosi in avanti e guardandolo cogli occhi spalancati. Niente che riveli il suo nome?
- Un po' di denaro, non molto, e una pistola a sei colpi. Non c'era nessun nome. Ha l'aria di una persona per bene, ma rozza:
una specie di marinaio, pensiamo noi.
Dorian si alzò. Una speranza terribile gli era balenata e lui vi si aggrappò follemente.
- Dov'è il cadavere? - esclamò. - Presto! voglio vederlo subito.
- In una stalla vuota alla Home Farm. La gente non ha piacere di avere in casa quella specie di cose; dicono che un cadavere porta disgrazia.
- Alla Home Farm! - Andate subito là e aspettatemi. Dite a uno dei miei "grooms" di portare fuori il mio cavallo. No, non importa; andrò io stesso alle scuderie. Guadagneremo tempo.
Meno d'un quarto d'ora dopo, Dorian Gray galoppava a tutta forza giù per il lungo viale. Gli sembrava che gli alberi gli sfilassero accanto come una processione di spettri e che delle ombre furiose gli si gettassero attraverso la strada. A un certo punto la cavalla fece uno scarto davanti a un pilastro bianco e per poco non lo sbalzò di sella. La sferzò sul collo con lo scudiscio.
Fendeva come una freccia l'aria crepuscolare e gli zoccoli facevano volare i sassi.
Arrivò finalmente alla Home Farm. Nel cortile aspettavano due uomini. Saltò giù di sella gettando le redini a uno di loro. Nella stalla più lontana si vedeva il bagliore di una lampada. Qualcosa gli disse che là c'era il cadavere; si affrettò verso la porta e mise la mano sul paletto.
Si fermò per un attimo, perché provava la sensazione di essere sul punto di scoprire una cosa che avrebbe fatto o disfatto la sua esistenza; poi spalancò la porta ed entrò.
Nell'angolo più lontano il cadavere di un uomo vestito di una rozza camicia e di un paio di calzoni turchini era steso su un mucchio di sacchi. Gli avevano messo un fazzoletto sudicio sul viso; accanto, scoppiettava una candela da pochi soldi, infilata in una bottiglia.
Dorian Gray rabbrividì. Sapeva che la mano che doveva tirar via il fazzoletto non poteva essere la sua e chiamò uno dei contadini.
- Levagli quella roba dal viso. Voglio vederlo - disse, aggrappandosi allo spigolo della porta per reggersi in piedi.
Quando il contadino ebbe rimosso il cencio, fece un passo avanti e un grido di gioia gli sfuggì dalle labbra. L'uomo ucciso nel boschetto era James Vane.
Restò per qualche minuto a osservare il cadavere. Tornando a casa aveva gli occhi pieni di lacrime, perché sapeva di essere in salvo.
Capitolo diciannovesimo
- E' inutile che tu mi dica che sarai buono - esclamò Lord Henry, tuffando le dita bianche in una coppa piena d'acqua profumata all'essenza di rose. - Tu sei perfetto e ti prego di non cambiare.
Dorian Gray tentennò il capo.
- No, Harry. In vita mia ho fatto troppe azioni tremende e non ne farò più. Ieri ho cominciato quelle buone.
- Dove eri ieri?
- In campagna, solo, in un piccolo albergo.
- Caro figliuolo - disse Lord Henry sorridendo, - in campagna chiunque può essere buono, perché non ci sono tentazioni; e è questa la ragione per la quale quelli che vivono in campagna sono così assolutamente privi di civiltà. La civiltà non è affatto una cosa facile da raggiungere. L'uomo vi può arrivare in due modi:
essendo colto oppure essendo corrotto. La gente di campagna non ha nessuna possibilità di essere né l'una né l'altra cosa e perciò rimane stagnante.
- Cultura e corruzione - fece eco Dorian. - Ho conosciuto qualcosa dell'una e dell'altra. Adesso mi sembra terribile che le due cose debbano sempre trovarsi assieme, perché ho un nuovo ideale, Harry.
Sarò diverso; credo anzi di essere già diverso.
- Non mi hai ancora detto in che cosa consisteva la tua buona azione; oppure hai detto di averne compiuta più di una? - chiese il suo compagno, versandosi sul piatto una piccola piramide cremisina di fragole senza gambo e facendovi cadere sopra una bianca nevicata di zucchero attraverso un cucchiaio traforato a forma di conchiglia.
- Te lo dirò, Harry; non è una storia che potrei raccontare a nessun altro. Ho risparmiato una persona. La frase sembra vanitosa, ma tu capisci che cosa voglio dire. Era molto bella e assomigliava mirabilmente a Sybil Vane; credo che la prima cosa che mi ha attratto verso di lei sia stata questa somiglianza. Ti ricordi di Sybil, non è vero? Quanti anni sono passati! Hetty, naturalmente, non apparteneva alla nostra classe; era una ragazza di villaggio, ma io l'amavo veramente; sono sicurissimo che l'amavo. Durante tutto questo meraviglioso mese di maggio che abbiamo passato, andavo a vederla due o tre volte la settimana.
Ieri ci siamo incontrati in un orto. I fiori del melo le cadevano continuamente sui capelli e lei rideva. Stamattina all'alba dovevamo partire insieme, ma improvvisamente ho preso la decisione di lasciarla simile a un fiore, così come l'avevo trovata.
- Credo che la novità dell'emozione debba averti procurato un fremito di vero piacere, Dorian - interruppe Lord Henry. - Ma sono in grado di portare il tuo idillio alla conclusione. Tu le avrai dato qualche buon consiglio e le hai spezzato il cuore: e questo è il modo col quale hai incominciato a riformare te stesso.
- Harry, sei tremendo! Non devi dire queste cose orrende. Il cuore di Hetty non è spezzato. Naturalmente ha pianto, si capisce; ma ha schivato la vergogna e può vivere, come Perdita, nel suo giardino fiorito di menta e di girasoli.
- E piangere il suo infedele Florizello - disse Lord Henry, ridendo e appoggiandosi alla spalliera della sedia. - Mio caro Dorian, hai delle idee curiosamente puerili. Credi che ora quella ragazza potrà accontentarsi di una persona del suo rango? Un bel giorno, immagino, sposerà qualche rozzo carrettiere o qualche contadino. Orbene, il fatto di averti conosciuto e di averti amato le insegnerà a disprezzare il marito e sarà infelicissima. Dal punto di vista morale, non posso dire di apprezzare eccessivamente la tua grande rinuncia; anche come inizio è meschino. E poi, chi ti dice che in questo momento Hetty non stia galleggiando in qualche stagno, come Ofelia, alla luce delle stelle, tutta attorniata da graziosi gigli acquatici?
- Harry, tutto questo è veramente intollerabile. Prima metti tutto sul ridere, poi suggerisci le tragedie più spaventose. Mi dispiace di avertelo raccontato. Di quello che mi dici non me ne importa niente; so di aver fatto bene ad agire come ho agito. Povera Hetty! stamattina, passando davanti al podere, ho visto alla finestra il suo viso che sembrava un cespo di gelsomini. Non ne parliamo più e non provare a convincermi che la prima buona azione che ho compiuto da anni, il primo piccolo sacrificio che mi sono imposto, sia in realtà una specie di peccato. Voglio diventare migliore di quello che sono e lo diventerò. Parlami di te stesso.
Che c'è di nuovo in città? Da molti giorni non sono andato al circolo.
- La gente parla ancora della scomparsa del povero Basil.
- Avrei creduto che a quest'ora si fossero stancati di questo soggetto - disse Dorian, versandosi del vino e facendosi scuro in volto.
- Caro figliuolo, sono solo sei settimane che ne parlano, e il pubblico britannico non è proprio in grado di affrontare la tensione mentale che comporta l'avere più di un argomento ogni tre mesi. Però negli ultimi tempi sono stati fortunatissimi; hanno avuto la mia causa di divorzio e il suicidio di Alan Campbell e ora hanno la scomparsa misteriosa di un artista. Scotland Yard insiste nel sostenere che l'uomo col pastrano grigio che partì per Parigi il 9 novembre col treno di mezzanotte era il povero Basil e la polizia francese dichiara che Basil non è mai arrivato a Parigi. Immagino che tra una settimana si dirà che l'hanno visto a San Francisco. E' una cosa strana, ma di tutti quelli che spariscono si dice che sono stati visti a San Francisco.
Dev'essere una città deliziosa, dotata di tutte le attrattive dell'altro mondo.
- Che cosa credi che sia successo a Basil? - chiese Dorian, alzando il bicchiere di borgogna contro luce e meravigliandosi lui stesso di poter discutere la faccenda con tanta tranquillità.
- Non ne ho la minima idea. Se Basil ha voluto nascondersi, la cosa non mi riguarda; se è morto non voglio pensare a lui. La morte è la sola cosa che mi atterrisce e che odio.
- Perché? - disse il giovane, con fare stanco.
- Perché - disse Lord Henry, passandosi sotto il naso il graticcio dorato di una scatola aperta di vinaigrette, oggi si può sopravvivere a qualunque cosa, eccetto che a quella. Nel diciannovesimo secolo la morte e la volgarità sono gli unici fatti che non si possono eliminare a furia di spiegazioni. Andiamo a prendere il caffè nella sala da musica, Dorian. Devi suonarmi un po' di Chopin. L'uomo con il quale è scappata mia moglie suonava Chopin divinamente. Povera Victoria! Io le ero molto affezionato.
Senza di lei la casa sembra vuota. Certo, la vita coniugale è solo un'abitudine, una cattiva abitudine, ma si rimpiange la perdita anche delle peggiori abitudini. Forse sono quelle che si rimpiangono di più, perché formano una parte così essenziale della personalità.
Dorian non disse niente, ma si alzò da tavola, passò nella stanza vicina, si sedette al pianoforte e lasciò vagare le dita sull'avorio bianco e nero dei tasti. Dopo che fu portato il caffè, si fermò e disse, fissando Lord Henry:
- Harry, ti è mai venuto in mente che Basil sia stato assassinato?
Lord Henry sbadigliò.
- Basil era molto popolare e portava sempre un orologio da pochi soldi. Perché dovrebbero averlo assassinato? Non era abbastanza intelligente da avere dei nemici. Certo, per dipingere aveva un genio meraviglioso; ma un uomo può dipingere come Velasquez e però essere perfettamente insignificante, e Basil in verità era piuttosto insignificante. Mi ha interessato una volta soltanto, quando mi disse, anni fa, che nutriva un'adorazione frenetica per te e che tu eri il motivo dominante della sua mente.
- Io volevo molto bene a Basil - disse Dorian, con una nota di tristezza nella voce. - Ma la gente non dice che è stato assassinato?
- Sì, qualche giornale l'ha detto; ma a me non sembra per niente probabile. So bene che a Parigi ci sono dei posti tremendi, ma Basil non era tipo da frequentarli. Non conosceva la curiosità; era questo il suo difetto capitale.
- Che diresti, Harry, se ti dicessi che Basil l'ho assassinato io?
- disse Dorian fissandolo intensamente dopo aver parlato.
- Direi, mio caro, che stai posando per un personaggio per il quale non sei tagliato. Qualunque delitto è volgare, così come qualunque volgarità è un delitto. Tu, Dorian, non sei tipo da commettere un assassinio. Mi dispiace se parlando in questo modo offendo la tua vanità, ma ti assicuro che è così. Il delitto appartiene esclusivamente alle classi inferiori e io non gliene faccio un rimprovero. Mi immagino che per loro il delitto sia quello che per noi è l'arte, e cioè semplicemente un mezzo per procurarsi delle sensazioni straordinarie.
- Un mezzo per procurarsi delle sensazioni? Credi dunque che un uomo che ha commesso un omicidio una volta potrebbe tornare a commettere lo stesso delitto? Non dirmi questo.
- Qualunque cosa, a farla troppo spesso, diventa un piacere esclamò Lord Henry ridendo. - Questo è uno dei più importanti segreti della vita. Penso però che l'omicidio sia sempre un errore; non si dovrebbe mai fare niente di cui non si possa parlare dopo un pranzo. Ma lasciamo in pace il povero Basil.
Vorrei poter credere che abbia incontrato una fine così veramente romantica, ma non posso; penso che sia caduto nella Senna da un omnibus e che il conducente abbia soffocato lo scandalo. Sì, credo che la sua fine debba essere stata questa. Mi sembra di vederlo ora, disteso sul dorso sotto quelle acque verdastre, coi barconi che gli passano sopra e lunghe alghe che gli si impigliano nei capelli. Sai, non credo che avrebbe potuto più fare gran che di buono; negli ultimi dieci anni la sua maniera era molto peggiorata.
Dorian sospirò e Lord Henry attraversò la stanza e cominciò ad accarezzare sulla testa un curioso pappagallo giavanese, un grosso uccello dalle piume grigie, col ciuffo e la coda di colore rosa, che si teneva in equilibrio su una bacchetta di bambù. Quando le sue dita affusolate lo toccarono, calò la crosta biancastra delle palpebre rugose sugli occhi che sembravano di vetro nero e cominciò a dondolarsi avanti e indietro.
- Sì - aggiunse, girandosi e togliendo di tasca il fazzoletto, la sua maniera era molto peggiorata. Mi sembrava che avesse perso qualcosa: aveva perso un ideale. Quando venne meno la grande amicizia tra voi due, smise di essere un grande artista. Che cosa vi ha separato? Immagino che lui ti annoiasse, e se è così non te l'avrà mai perdonato; è questa l'abitudine di tutti i seccatori. A proposito, che ne è stato di quel meraviglioso ritratto che ti fece? Non mi sembra di averlo mai visto dopo che fu dipinto. Oh, sì, mi ricordo che qualche anno fa mi dicesti che l'avevi spedito a Selby e che era stato rubato o si era smarrito durante il tragitto. Non l'hai più riavuto? Che peccato! Era un vero capolavoro. Mi ricordo che lo volevo comperare, e sarebbe stato meglio se l'avessi fatto. Apparteneva al periodo migliore di Basil. Dopo, la sua opera era quel curioso miscuglio di cattiva pittura e di buone intenzioni che da sempre a un uomo il diritto di aspirare a essere chiamato un artista inglese rappresentativo.
Facesti qualche inserzione per ritrovarlo? L'avresti dovuto fare.
- Non ricordo - disse Dorian. - Credo di averlo fatto. Ma a me in realtà non piacque mai. Mi dispiace di aver posato per quel ritratto. Il ricordo mi è odioso. Perché ne parli? Mi ricordava sempre quei curiosi versi di un dramma, Amleto, credo, come dicono?
Come il ritratto di un'afflizione, Un volto senza un cuore.
Sì, a questo somigliava.
Lord Henry rise.
- Quando un uomo tratta artisticamente la propria vita, il suo cervello è il suo cuore - rispose, lasciandosi cadere in una poltrona.
Dorian Gray scosse la testa ed eseguì piano qualche accordo sul pianoforte. - Come il ritratto di un'afflizione - ripeté, - un volto senza un cuore.
L'altro si appoggiò alla spalliera e lo guardò con gli occhi semichiusi.
- A proposito, Dorian - disse, - che cosa guadagna un uomo com'è esattamente la citazione? - se acquista il mondo intero e perde la sua anima?
La musica si interruppe su una stonatura e Dorian Gray trasalì e guardò l'amico.
- Perché questa domanda, Harry?
- Mio caro - disse Lord Henry, inarcando le sopracciglia per la sorpresa, - te l'ho fatta perché credevo che tu potessi darmi una risposta, ecco tutto. Domenica scorsa passavo per il parco e vicino al Marble Arch c'era una piccola folla di gente mal vestita che ascoltava un volgare predicatore da strada. Nel passare, sentii quell'uomo che urlava al suo uditorio quella domanda e mi colpì come abbastanza drammatica. Londra è piena di effetti curiosi di questo genere. Una domenica piovigginosa; un cristiano trasandato con l'impermeabile addosso; un cerchio di facce poco sane sotto un soffitto ininterrotto di ombrelli gocciolanti, e una frase meravigliosa lanciata nell'aria da labbra stridule e isteriche. Nel suo genere era davvero una cosa eccellente, una cosa suggestiva. Mi venne voglia di dire a quel profeta che l'arte ha un'anima, ma l'uomo no; però ho paura che non mi avrebbe compreso.
- Harry, non parlare così. L'anima è una terribile realtà. Può essere comperata, venduta, barattata; può essere avvelenata o resa perfetta. C'è un'anima in ognuno di noi; lo so.
- Ne sei proprio sicuro, Dorian?
- Sicurissimo.
- Ah, allora dev'essere un'illusione. Le cose delle quali ci sentiamo assolutamente sicuri non sono mai vere; questa è la fatalità della fede e la lezione del romanzo. Che aria seria hai!
Non essere così serio. Che cosa abbiamo in comune, tu ed io, con le superstizioni del nostro tempo? No; abbiamo rinunciato a credere nell'anima. Suonami qualcosa, Dorian; suonami un Notturno, e mentre suoni dimmi sottovoce come hai fatto a conservare la giovinezza. Devi avere un segreto. Io ho solo dieci anni più di te e sono grinzoso, logorato, giallo. Sei veramente meraviglioso, Dorian. Il tuo aspetto non è mai stato così incantevole come stasera; mi ricorda il giorno che ti vidi per la prima volta. Eri un po' insolente, molto timido e assolutamente straordinario.
Naturalmente sei cambiato, ma nell'aspetto no. Vorrei che tu mi dicessi il tuo segreto. Per recuperare la gioventù farei qualunque cosa, salvo che fare ginnastica, alzarmi presto ed essere rispettabile. La gioventù! non c'è niente che le stia alla pari.
Parlare dell'ignoranza della gioventù è assurdo; ormai gli unici dei quali ascolto le opinioni con un certo rispetto sono tutti molto più giovani di me. Mi sembra che siano più avanti di me, che la vita abbia rivelato loro le sue ultime meraviglie. Quanto agli anziani, io contraddico sempre gli anziani; lo faccio per principio. Quando chiedi la loro opinione su una cosa successa ieri, ti danno solennemente le opinioni che erano diffuse nel 1820, quando si portavano le calze lunghe, si credeva a tutto e non si sapeva assolutamente niente. Com'è bello il pezzo che stai suonando! Mi chiedo se Chopin l'abbia scritto a Maiorca, con il mare che piangeva intorno alla villa e gli spruzzi salmastri che battevano sui vetri. E' mirabilmente romantico. Che fortuna che ci sia rimasta un'arte che non è imitativa! Non smettere; stasera ho voglia di musica. Mi sembra che tu sia Apollo giovane e che io sia Marsia che ti sta ad ascoltare. Dorian, anch'io ho i miei dolori, dei quali non sai niente neanche tu. La tragedia della vecchiaia non sta nell'essere vecchi, ma nell'essere giovani. A volte la mia stessa sincerità mi stupisce. Ah, Dorian, come sei felice! Che vita meravigliosa è stata la tua! Hai bevuto di tutto, a lunghi sorsi; hai morso l'uva a piena bocca; niente ti è rimasto nascosto; e per te tutto questo non è stato niente di più che un suono musicale. Non ti ha distrutto; sei sempre lo stesso.
- Non sono lo stesso, Harry.
- Ma sì, che sei lo stesso. Chi sa come sarà il resto della tua vita! Non rovinarla con le rinunce. Attualmente sei un tipo perfetto; non renderti incompleto. Ora sei assolutamente senza difetti; non scuotere la testa, perché sai che è così. E poi, Dorian, non trarre in inganno te stesso. La vita non è una questione di nervi, di fibre, di cellule costruite lentamente, nelle quali il pensiero si nasconde e la passione ha i suoi sogni.
Tu puoi pensare di essere al sicuro e credere di essere forte. Ma una sfumatura di colore vista per caso in una stanza oppure in un cielo mattutino, un profumo speciale che ti piacque un tempo e che porta con sé ricordi delicati, un verso di una poesia dimenticata che torna a caderti sotto gli occhi, una cadenza di un pezzo di musica che da anni non suoni più, ti dico, Dorian, che è da cose come queste che dipendono le nostre vite. Il Browning ne ha detto qualcosa, ma sono i nostri sensi a immaginarle per noi. Ci sono dei momenti in cui l'odore del "lilas blanc" mi colpisce improvvisamente, e allora devo rivivere il mese più straordinario della mia esistenza. Vorrei poter fare a cambio con te, Dorian. Il mondo ha sparlato di noi due, ma ti ha sempre adorato e ti adorerà sempre, perché tu sei il tipo del quale il nostro tempo va in cerca e che ha paura di aver trovato. Sono felice che tu non abbia mai fatto niente, che tu non abbia scolpito una statua o dipinto un quadro o prodotto niente al di là di te stesso. La vita è stata la tua arte. Hai musicato te stesso e le tue giornate sono i tuoi sonetti.
Dorian si alzò dal pianoforte e si passò la mano nei capelli.
- Sì - mormorò, - la vita è stata deliziosa; ma non farò più la stessa vita, Harry, e tu non devi dirmi queste cose stravaganti.
Tu non sai tutto sul mio conto; e credo che se tu lo sapessi anche tu ti allontaneresti da me. Tu ridi; non ridere.
- Dorian, perché hai smesso di suonare? Ricomincia e suona un'altra volta quel notturno. Guarda quella grossa luna color del miele, sospesa nell'aria del crepuscolo: aspetta di essere affascinata da te e se tu suoni verrà più vicina alla terra. Non vuoi? Allora andiamo al circolo. Abbiamo passato una serata deliziosa e dobbiamo concluderla deliziosamente. Al White c'è qualcuno che desidera immensamente conoscerti, il giovane Lord Poole, il figlio maggiore di Bournemouth. Ha già copiato le tue cravatte e mi ha pregato di esserti presentato. E' un uomo simpaticissimo e mi ricorda un po' te.
- Spero di no - disse Dorian, con un'espressione rattristata negli occhi. - Ma stasera sono stanco, Harry. Non vengo al circolo; sono già quasi le undici e vorrei andarmene a letto presto.
- Allora rimani. Non hai mai suonato così bene come stasera. Nel tuo tocco c'era qualcosa di meraviglioso; aveva più espressione di qualunque altra volta che ti ho ascoltato.
- E' perché da ora in avanti sarò buono - rispose lui, sorridendo.
- Sono già un po' cambiato.
- Per me non puoi cambiare, Dorian - disse Henry. - Tu e io saremo sempre amici.
- Eppure una volta mi avvelenasti con un libro e io non dovrei perdonartelo, Harry. Promettimi che non presterai mai quel libro a nessuno; è nocivo.
- Figlio caro, stai già cominciando a fare il moralista. Tra poco te ne andrai in giro a fare il convertito e il missionario e a mettere in guardia la gente contro tutti i peccati di cui ti sei stancato. Sei troppo delizioso per fare una cosa del genere; e poi non serve a niente: tu ed io siamo quello che siamo e saremo quello che saremo. In quanto a essere avvelenato da un libro, non esiste una cosa così. L'arte non ha nessuna influenza sull'anima; annulla il desiderio di agire; è superbamente sterile. I libri che la gente chiama immorali sono i libri che fanno vedere al mondo la sua ignominia, e basta. Ma non stiamo a discutere di letteratura.
Vieni da me domani. Monto a cavallo alle undici; potremmo uscire insieme e dopo ti porterò a colazione con Lady Branksome. E' una donna incantevole e vuole consultarti riguardo a certi arazzi che pensa di comprare. Oppure vogliamo fare colazione con la nostra piccola duchessa? Mi ha detto che adesso non ti vede più. Ti sei forse stancato di Gladys? Me l'aspettavo; quella sua lingua è troppo abile per non finire con l'urtare i nervi. In ogni caso sii qui alle undici.
- Devo proprio venire, Harry?
- Certamente. In questo momento il parco è bellissimo. Non credo che ci siano mai stati tanti gigli dall'anno in cui ti ho conosciuto in poi.
- Va bene. Alle undici sarò qui - disse Dorian. - Buona notte, Harry.
Arrivato sulla soglia, esitò un attimo, come se avesse avuto qualche altra cosa da dire; poi sospirò e uscì.
Capitolo ventesimo
Era una bella serata, tanto calda che Dorian prese il soprabito sul braccio e non si avvolse nemmeno la sciarpa di seta intorno al collo. Mentre andava verso casa fumando una sigaretta, gli passarono accanto due giovanotti in abito da sera e sentì uno di loro sussurrare all'altro: "Quello è Dorian Gray". Gli tornò in mente il piacere che era solito provare una volta quando la gente lo indicava, o lo guardava, o parlava di lui. Ora era stanco di sentir pronunciare il suo nome. Il fascino del modesto villaggio dove negli ultimi tempi era andato tanto di frequente consisteva per metà nel fatto che nessuno sapeva chi fosse. Alla fanciulla dalla quale era riuscito a farsi amare aveva detto più volte che era povero e lei gli aveva creduto: una volta le aveva detto che era cattivo e lei aveva riso e gli aveva risposto che i cattivi sono sempre molto vecchi e molto brutti. Com'era dolce il suo riso! sembrava il canto di un cardellino. E quanto era graziosa, col suo vestito di cotone e i suoi grandi cappelli! Non sapeva niente, ma possedeva tutto quello che lui aveva perduto.
Arrivato a casa trovò il servitore che lo aspettava; lo mandò a letto, si adagiò sul divano della biblioteca e cominciò a riflettere su alcune delle cose che Lord Henry gli aveva detto.
Era proprio vero che non si poteva mai cambiare?
Sentì un desiderio violento della purezza immacolata della sua adolescenza; la sua adolescenza candida e rosea, come Lord Henry l'aveva chiamata un giorno. Sapeva di aver sporcato se stesso, di aver riempito di corruzione la propria mente e di orrore la propria fantasia; di aver esercitato un'influenza deleteria sugli altri e di aver provato in questo una gioia terribile; e sapeva che di tutte le vite che si erano incontrate con la sua, quella che aveva portato all'ignominia era la più bella e la più promettente. Ma tutto questo era irreparabile? Non c'era nessuna speranza per lui?
Ah, che momento mostruoso di orgoglio e di passione era stato quello nel quale aveva pregato perché il ritratto portasse il peso dei suoi giorni e a lui restasse intatto lo splendore dell'eterna giovinezza! Il suo fallimento era interamente colpa di quel momento. Sarebbe stato meglio per lui se ogni peccato della sua vita avesse portato con sé la propria punizione, sicura, rapida.
Nella punizione c'è la purificazione; non "perdona a noi i nostri peccati", ma "colpisci noi per le nostre iniquità", questa dovrebbe essere la preghiera rivolta dall'uomo a un Dio di giustizia.
Sul tavolino c'era lo specchio curiosamente intagliato che Lord Henry gli aveva regalato tanti anni prima e, come per il passato, gli amorini dalle candide membra vi ridevano tutt'intorno. Lo prese, come aveva fatto in quella notte d'orrore, quando aveva osservato per la prima volta il cambiamento nel fatale ritratto e aveva guardato in quella superficie lucida con occhi sconvolti, pieni di lacrime. Un giorno, una persona che lo aveva furiosamente amato gli aveva scritto una lettera pazzesca, che finiva con queste parole idolatre: "Il mondo è cambiato perché tu sei fatto d'avorio e d'oro. La curva delle tue labbra riscrive la storia".
Queste frasi gli tornarono alla mente e se le ripeté più volte; poi ebbe disgusto della propria bellezza e, gettando in terra lo specchio, lo schiacciò con il tallone fino a ridurlo un mucchio di schegge d'argento. Era la sua bellezza che lo aveva rovinato, la bellezza e la giovinezza per la quale aveva pregato; senza quelle la sua vita avrebbe potuto essere priva di ogni macchia. Per lui la bellezza era stata solo una maschera, la giovinezza una beffa.
Che cos'era, dopo tutto, la giovinezza? Un periodo acerbo, immaturo; un periodo di stati d'animo superficiali e di pensieri malsani. Perché ne aveva indossato la livrea? La giovinezza era stata la sua rovina.
Meglio non pensare al passato, che nessuno aveva più il potere di modificare; doveva pensare a se stesso e al proprio futuro. James Vane era sepolto in una tomba anonima nel cimitero di Selby; Alan Campbell si era sparato nel suo laboratorio, una sera, senza rivelare il segreto che era stato costretto a conoscere. Quel po' di agitazione a proposito della scomparsa di Basil Hallward sarebbe svanita ben presto; stava già attenuandosi. Da quel punto di vista era perfettamente al sicuro. Del resto, quello che più opprimeva il suo spirito non era la morte di Basil Hallward; quello che lo sconvolgeva era la morte vivente della sua anima.
Basil aveva dipinto il ritratto che gli aveva rovinato la vita e lui non poteva perdonarglielo; quel ritratto era stato la causa di tutto. Basil gli aveva detto cose insopportabili e lui tuttavia le aveva tollerate pazientemente; l'omicidio era stato semplicemente la pazzia di un momento. Quanto ad Alan Campbell, il suo suicidio l'aveva commesso da solo, vi si era deciso da solo. Era una cosa che non lo riguardava.
Una nuova vita: ecco quello che gli serviva, quello che aspettava.
Certo l'aveva già iniziata; se non altro, aveva risparmiato una creatura innocente. Non avrebbe mai più tentato l'innocenza.
Voleva essere buono.
Il pensiero di Hetty Merton lo spinse a chiedersi se il ritratto nella stanza chiusa fosse cambiato. Certo non doveva più essere orribile come prima. Forse, se la sua vita diventava pura, gli sarebbe riuscito di scacciare da quel viso tutte le impronte delle malvagie passioni. Forse i segni del male erano già scomparsi; doveva andare a vedere.
Prese la lampada dalla tavola e si avviò su per le scale. Mentre apriva la porta, un sorriso di gioia gli illuminò il viso stranamente giovanile e si fermò un attimo sulle sue labbra. Sì, sarebbe stato buono e quell'oggetto ripugnante che aveva tenuto nascosto non sarebbe più stato per lui una fonte di terrore. Gli sembrava già che il peso gli fosse stato tolto dalle spalle...
Entrò pian piano, chiuse la porta a chiave dietro di sé, com'era suo abitudine, e strappò via dal ritratto la cortina purpurea.
Diede in un grido di pena e di sdegno. Nessun cambiamento era visibile, sennonché negli occhi c'era un'espressione di furbizia e sulla bocca la piega sinuosa dell'ipocrisia. Era ancora una cosa disgustosa, più disgustosa di prima, se possibile; e quella rugiada scarlatta che macchiava la mano sembrava più accesa, più somigliante a sangue versato di fresco. Cominciò a tremare. Era stata soltanto la vanità a spingerlo a compiere la sua unica buona azione? Oppure il desiderio di una sensazione nuova, come aveva accennato Lord Henry, con il suo sorriso di scherno? O quella passione di recitare una parte che ci fa fare a volte delle cose che sono migliori di noi stessi? O tutte queste cose insieme? E perché la macchia rossa si era allargata? Sembrava essersi insinuata su per le dita grinzose, come un'orrenda malattia. Sui piedi dipinti c'era del sangue, come se ci fosse gocciolato sopra; c'era sangue perfino sulla mano che non aveva impugnato il coltello. Confessare? Significava forse che avrebbe dovuto confessare? Costituirsi e lasciarsi mettere a morte? Rise. L'idea gli sembrò mostruosa; e poi, anche se avesse confessato, chi gli avrebbe creduto? Nessuna traccia della vittima esisteva in nessun posto; tutto quello che gli apparteneva era stato distrutto; le cose che si trovavano al piano di sotto le aveva bruciate lui stesso. La gente avrebbe detto semplicemente che era impazzito; e se avesse insistito a raccontare quella storia avrebbero finito con il rinchiuderlo in un manicomio... Tuttavia, il suo dovere era di confessare, di subire l'ignominia in pubblico, di espiare pubblicamente. C'era un Dio che chiamava gli uomini a dire i loro peccati alla terra come al cielo. Qualunque cosa facesse non l'avrebbe mondato finché non avesse detto il suo peccato. Il suo peccato! Scrollò le spalle. La morte di Basil Hallward gli sembrava ben poca cosa; pensava invece a Hetty Merton, poiché lo specchio della sua anima nel quale stava specchiandosi era uno specchio ingiusto. Vanità? curiosità? ipocrisia? Nella sua rinuncia non c'era stato altro? C'era stato qualcosa d'altro, o almeno così credeva; ma chi poteva dirlo?... No, non c'era stato altro. L'aveva risparmiata per vanità, si era messo la maschera della bontà per ipocrisia, aveva sperimentato la rinuncia per curiosità: ora se ne rendeva conto.
Ma quell'omicidio doveva seguirlo per tutta la vita? Doveva sempre essere schiacciato dal suo passato? Doveva veramente confessare?
Mai. Contro di lui esisteva solo un frammento di prova, il ritratto stesso. La prova era quella: l'avrebbe distrutto. Perché l'aveva conservato tanto a lungo? Un tempo aveva provato piacere nel seguirne il cambiamento e l'invecchiamento, ma negli ultimi anni non l'aveva provato più. Gli aveva fatto passare notti insonni; quand'era lontano era stato costantemente spaventato dall'idea che potesse essere guardato da occhi estranei; aveva portato la melanconia nelle sue passioni; il solo ricordo di esso era bastato a guastargli molti momenti di gioia; era stato come una coscienza per lui. Sì, era stato come la coscienza. Lo avrebbe distrutto.
Si guardò intorno e vide il coltello che aveva ucciso Basil Hallward. Era stato ripulito più volte, finché non c'era rimasta la più piccola macchia; era lucido e brillava. Come aveva ucciso il pittore, così avrebbe ucciso l'opera del pittore e tutto quello che essa significava. Avrebbe ucciso il passato; morto questo, sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso quella mostruosa vita dell'anima e senza le orrende ammonizioni di questa sarebbe stato in pace. Afferrò l'arma e colpì il ritratto.
Si sentì un grido e un fracasso: un grido così orribilmente straziante che i servi spaventati si svegliarono e uscirono dalle loro camere. Due signori che passavano di sotto sulla piazza si fermarono a guardare la grande casa, poi ripresero il cammino finché incontrarono un agente e lo portarono indietro. L'agente suonò più volte il campanello ma nessuno rispose. La casa era tutta al buio, eccetto una luce a una finestra dell'ultimo piano.
Dopo un po' si allontanò, fermandosi in un portico vicino a sorvegliare la casa.
- Di chi è questa casa? - chiese il più anziano dei due signori.
- Del signor Dorian Gray - rispose la guardia.
Si guardarono l'un l'altro con un sorrisetto e si allontanarono.
Uno dei due era lo zio di Sir Henry Ashton.
Dentro, nel quartiere della servitù, i domestici mezzo vestiti si parlavano tra di loro bisbigliando; la vecchia signora Leaf piangeva e si torceva le mani; Francis era pallido come un morto.
Dopo un quarto d'ora circa, prese con sé il cocchiere e uno dei lacchè e salì le scale. Bussarono, ma nessuno rispondeva; gridarono, ma tutto taceva. Finalmente, dopo un vano tentativo di forzare la porta, salirono sul tetto e si calarono sul balcone. Le finestre cedettero con facilità; i serramenti erano vecchi.
Entrando, trovarono, appeso al muro, uno splendido ritratto del loro padrone, come lo avevano visto l'ultima volta, mirabile di gioventù e di bellezza eccezionali. Steso sul pavimento c'era il cadavere di un uomo in abito da sera, con un coltello nel cuore.
Aveva il viso avvizzito, rugoso, repellente. Solo dopo aver esaminato gli anelli poterono identificarlo.
- F I N E
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