giovedì 1 luglio 2010
M E T E L L O - Vasco Pratolini .- (Integrale - 1a Edizione 1955- Premio Viareggio)
M E T E L L O
Vasco Pratolini.
Una storia italiana.
Vallecchi Editore, Firenze 1955.
PARTE PRIMA
CAPITOLO 1.
Metello Salani era nato in San Niccolò, ma fino ai quindici anni, non vi aveva mai abitato. La sua famiglia era di quel Rione, e ciascuno ha le discendenze che si ritrova. Suo padre, renajolo, era stato anarchico e tutti, tra Piazza de' Mozzi e la Colonna, l'avevano conosciuto, per la sua bassa statura e il suo pugno proibito. Lo chiamavano Caco, e non perché quella gente sapesse di mitologia, ma per via del gruppo del Bandinelli ch'è sotto Palazzo Vecchio, e per dire ch'era uno che soltanto un Ercole l'avrebbe potuto castigare. Dapprima, si raccontava, egli se n'era offeso, poi aveva saputo che Caco era una specie di ladrone e questo gli aveva fatto piacere siccome i ladri, lui che era onesto, li stimava. Era stato amico non di Pietro ma di Giovanni Gori, e sputava se gli rammentavano Bakunin. Quando Bakunin abitava alle spalle di Santa Maria del Fiore, giusto durante il primo anno di Firenze Capitale, Caco e il suo amico Leopoldo (*), un altro anarchico dal pugno proibito, un ginnasta di circo finito caffettiere in Piazza Piattellina, erano andati a trovarlo nella casa di via de' Pucci dove, si diceva, la tavola era sempre apparecchiata, per gli amici e per gli sconosciuti, bastava avessero fame. Non che Poldo e Caco fossero affamati, erano le due dopo mezzanotte e magari avevano sete, volevano conoscere Bakunin per dirgli che la smettesse di «mazzineggiare e di fare all'amore con Beppe Dolfi, rivoluzionario dai piedi dolci e fornajo infido» - e gli era stato chiuso l'uscio in faccia ad entrambi, «da una cameriera in divisa».
Tutto questo Metello non poteva dire di saperlo; i più anziani, come Betto e come Pestelli, glielo avevano raccontato. Sua madre era morta dandolo alla luce, e pochi mesi dopo suo padre era annegato in Arno, mentre cavava rena secondo il suo mestiere. Gli dissero che la madre era una specie d'angelo che travedeva per il suo uomo piccolo ma forte, e gli scodellava figlioli che poi, avesse il sangue guasto o che, non sopravvivevano più di qualche giorno o qualche mese, quando non abortiva. Certo, ella non si nutriva come una signora, e di ricorrere alla Beneficenza (o all'Ospedale degli Innocenti per il latte artificiale, ché occorreva chiederlo con un po' di umiltà per ottenerlo, dal momento che il suo era veleno) Caco non glielo permetteva. Così gli erano morti «un maschio e due piscione». Caco, in coteste circostanze, pigliava una sbornia, costringeva la moglie a seguirlo con in braccio il morticino, la faceva sedere sugli scalini di Palazzo Vecchio, lui saliva sopra la base del monumento raffigurante Ercole e Caco e teneva un comizio: «Mi chiamano Caco, come quello lì, statemi a sentire...»; e finiva una volta di più alle murate per offese al potere costituito, per invito alla sedizione, o soltanto per ubriachezza molesta, a seconda dell'umore del Delegato.
La morte della moglie, e il nuovo figlio che aveva messo a balia, dicevano l'avessero cambiato. «La verità è che son rimminchionito» egli rispondeva. «E' perché sono rimasto solo. Una donna come quella dove la trovo?». E proprio adesso che sembrava avesse davvero qualcosa da dimenticare, invece di ubriacarsi almeno una volta la settimana come prima, aveva smesso di bere, e non passava giorno che non fosse sull'Arno a lavorare. Lui che durante il Lustro dell'Abbondanza, quando la rena si vendeva come pane e non si faceva in tempo ad approdare che c'erano i carri delle Imprese di Costruzioni pronti a caricarla, usciva col barcone un giorno sì e tre no; ora, in pieno Decennio della Carestia che la rena si ammucchiava sul greto come i covoni nei campi, e i covoni diventavano pagliaj tanto era misera la richiesta, era il primo a trovarsi in Arno appena spuntava l'alba, disposto a cedere una giornata di lavoro per due centesimi. Si era inimicato tutti i compagni di Porticciola che vivevano del suo stesso mestiere; e se qualcuno si azzardava a fargli delle rimostranze, lui borbottava tra i denti: «Ho da pagare la balia. Questo deve vivere. L'ho promesso a lei»; si sputava sul palmo delle mani come per impugnare la pala, stringeva i pugni, li agitava per l'aria e gridava: «Sotto, vi piglio anche tre per volta, chi vuol provare?».
Una mattina, sul finire del '73, l'Arno era quasi in piena, da arrischiarvisi a patto che battesse il sole, invece più che caligine c'era una nebbia che da Ponte alle Grazie non si distingueva Giardino Serristori; lo stesso, Caco decise di uscire col barcone. «Sto sull'Arno da quando ero in fasce» usava dire, e quel tratto, segnato a metà dalla cloaca chiamata la Botte, avrebbe potuto percorrerlo ad occhi chiusi. «A tu per tu con l'Arno, Ercole sono io». Cotesta mattina, chi si affacciava alla spalletta poteva immaginarsi che l'Arno fosse scomparso sotto una nuvola grigia e nera, Caco era solo sul fiume; si portò verso il centro, col barcone, dove sapeva lui, e a colpi di reni e di sgrullate alla pertica che frugava il fondo, cominciò a tirar su le prime palate di rena. Ogni tanto tornava indietro, poiché l'empito del fiume, sia pure lentamente, lo trascinava verso la cloaca. Lavorava da due o tre ore, era forse a metà del carico che si era ripromesso e la nebbia invece di diradarsi, si infittiva. D'un tratto, il barcone incontrò la corrente che dalla Botte affluisce nel fiume e per un lungo tratto, anche in tempo di magra, l'impazza. Il barcone, pesante com'era, si mise a girare su sé stesso. Caco tentò di guadagnare nuovamente il largo puntando la pertica sul fondo con tutte le sue forze, ma il barcone ne ricevé una controspinta tanto violenta che lo sbilanciò. Caco si trovò sospeso sull'acqua, aggrappato alla pertica, contro la quale un attimo dopo il barcone, preso nel mulinello, venne a cozzare. L'urto lo sbalzò dalla pertica, e il barcone gli fu sopra: egli andò giù a piombo, come se il barcone fosse la lastra che lo chiudeva per sempre nel suo sarcofago d'acqua.
Rincine è un paese del Mugello, al confine con la Val di Sieve, e ancora in quel tempo non c'erano diligenze; lasciata Contea-Londa bisognava inerpicarsi sù per i viottoli e le strade carraje. La terra è avara, ci cresce il castagno, il leccio, e i contadini non potendo avere una stalla, hanno un ovile. Le donne, appena gravide di tre mesi, già mettono voce in città, attraverso le procaccine; ma siccome non sono quasi mai fior di ragazze, non sono una razza pregiata, difficilmente gli capitano delle fortune. Del resto chi, avendo da scegliere, darebbe al proprio figlio una balia «delle montagne di Contea»? A parte la miseria tra cui vivono, non hanno, logicamente, nemmeno latte da buttar via. Ma se la terra è avara, l'aria è buona, d'alta collina, e le aiuta. I figli loro, pur divezzati avanti tempo, e nutriti per anni dell'essenziale, diventano uomini da reggere un aratro. Se non le donne come balie, i braccianti di Contea, di Vicchio e Dicomano, sono apprezzati. E' gente di fatica, parca per forza di cose, e diffidente, gelosa del nulla che possiede, ma salda di carattere e buona di cuore, a suo modo.
Quando nella casa dei Tinaj si seppe della morte di Caco (gli era stata spedita una lettera per sollecitare il mensile e il corriere l'aveva riportata con su scritto: «per morte del ricevente») il capo famiglia fece vestire il figlio Eugenio e la nuora perché andassero a Firenze a restituire il bambino:
«Ditegli a questo Caco che ci vogliono dieci cittadini per coglionare un contadino, e sono sempre pochi».
I due tornarono, e Isolina teneva ancora in braccio il piccolo Metello.
«E' morto perdavvero».
«E non ha un parente a cercarlo col lanternino».
Il Tinaj sbatté il cappello sulla panca del focolare: «Sono le nostre fortune!» gridò.
Dopo cena, accesa la pipa di terracotta, si era già calmato; la famiglia: Eugenio, la nuora, le due figlie ragazze, il bambino di Isolina in collo alla nonna, era lì che l'ascoltava:
«Da un po' di tempo, a Rincine "ci fa buca". Quando càpita una disgrazia, ruzzola qui, e infila l'uscio di questa casa».
Isolina accennò col mento al piccolo Metello, che ora teneva al seno: «Come si fa a riportarlo giù e affidarlo agli Innocenti? Dite voi!».
Era una donna giovane, e forse gli ci s'era affezionata perché alla sua prima maternità e al suo primo baliatico, e se una parzialità le riusciva era sempre a danno della sua creatura.
«Si fa» disse il vecchio Tinaj. «Chissà non sia la sua fortuna. Uno di questi giorni, tornerete a Firenze apposta».
Eugenio si teneva il pugno dentro l'altra mano; senza alzare il capo, disse:
«Abbiamo già provato, ma non l'hanno preso. Ci vogliono le carte». Tirò fuori un foglio dalla tasca e lo agitò nell'aria. «Si deve andare al Municipio di Firenze, con dei testimoni, e davanti a un notaro... l'hanno scritto qui».
Isolina aggiunse: «Hanno detto: chi ci garantisce che questo bambino si chiama così? E che al mondo non ha più nessuno? Intanto, ci ha vojaltri».
«Ci vogliono le carte» ripeté Eugenio.
«E portare dei testimoni».
«In Municipio, e davanti a un notaro».
«Bisognerà tornare a Firenze tre o quattro volte almeno. Ci costerà una ventina di lire».
«Averle» disse il vecchio. Poi disse: «Allora, portatelo alla Ruota».
«Ma questo non è mica un innocentino?» azzardò Isolina. «Ha un babbo e una mamma che l'hanno riconosciuto, anche se sono morti».
Seguì un lungo silenzio, infine Eugenio alzò il capo, disse:
«Ci hanno preso il nome. Ora agli Innocenti sanno che questa creatura è nelle nostre mani. Se non ci facciamo più vivi dice che avviseranno i carabinieri di Contea».
«Sono le nostre fortune!» ripeté il vecchio. E insolitamente bestemmiò.
Le donne si fecero il segno della croce.
Fino a quindici anni, Metello visse in campagna, a pascolare le pecore, assieme a Olindo, suo fratello di latte. Anche se il vecchio Tinaj se l'era portato un'invernata di gelo, e le due ragazze si erano sposate (una con un contadino di Londa ed era poi andata a morire di parto, là nelle Americhe dov'erano emigrati; l'altra, più fortunata, col sottofattore, e aveva ritirato con sé la madre) la famiglia lo stesso era cresciuta. Nel corso dei quindici anni, a Eugenio e Isolina erano nati altri tre figlioli, tutti maschi anche questi, a scala; e Metello era uno dei cinque, non c'era distinzione. Un orizzonte d'ininterrotti crinali aveva delimitato il suo sguardo di fanciullo: alte colline chiudevano la valle, coi castagni, i lecci, i cipressi, gli ulivi nani, e la Sieve fatta apposta per stanarvi i granchi disotto i massi e tuffarvisi là dove fa ansa e durante l'estate forma una gran gora. Fu un'età felice, forse per questo egli faticava a ricordarsene. Gli tornavano in mente certi nomi del gregge: Nerina, Pomera, Sorda; e il suono dei campani, i tramonti col cielo basso e viola che mettevano sgomento più dei temporali. Anche, l'odor di salvia e fagioli che esalava dal tegame collocato in mezzo al tavolo, la sera: vi si attingeva ciascuno col suo cucchiajo, un boccone dopo l'altro. E la volta che per poco Olindo non annegava nella gora, «come tuo padre in Arno», gli aveva detto mamma Isolina: così aveva saputo com'era morto suo padre. La volta, ancora, che trovarono il Guardia della fattoria impiccato a un castagno, e babbo Eugenio era stato arrestato come tutti i contadini di Rincine, di Londa e di Contea, siccome il Guardia non si era ucciso: qualcuno l'aveva appeso al castagno, dopo averlo pugnalato.
Se si è felici nell'incoscienza, sì, fu un tempo felice. Lo chiamavano, Olindo e gli altri ragazzi pastori, "il cittadino", e questo, invece di adirarlo, lo compiaceva, gli dava importanza. Lui rispondeva: «Un giorno torno a Firenze e ve lo fo vedere io!». Nessuno gli sapeva replicare, ridevano. «Cosa credi sia Firenze?» a volte gli dicevano. «Non c'è più lavoro nemmeno per i muratori». Tanti, dei loro padri e fratelli, ch'erano stati muratori in città, ora erano tornati ai campi, o emigrati in Belgio dove ci sono le miniere, o in Bassa Italia dove costruivano le Ferrovie. Ma come in lui c'era un orgoglio di cui non avrebbe saputo spiegare la ragione, così essi, nel ripetergli ch'egli non era uno dei loro, non mettevano né astio né cattiveria, se ne sarebbe ricordato. Un'umiliazione, un torto, se davvero sono tali e ne soffriamo, è difficile che ce ne dimentichiamo. Del resto, Firenze era lontana quasi trenta chilometri, più lontana della luna che certe sere, sull'aja, pareva infilata nello stollo, e da toccare arrampicandosi in cima al pagliajo.
Una di coteste sere che spannocchiavano il granturco, egli aveva detto a Cosetta:
«Ho le sorbe nascoste dentro il pagliajo».
Lei lo aveva seguìto. Era una bambina dei contadini di Norceto, un podere vicino, era bionda e portava digià il fazzoletto in testa.
«Cosa mi dai se le dividiamo?».
«Vorresti un bacio?».
Gliene aveva messa in bocca una, e lei lo aveva baciato.
«E per tutta la manciata?» ella chiese.
«Voglio qualcosa di più».
«Vorresti fare alla pecora e al montone?».
Lui si era sentito avvampare in viso; ma senza dargli il tempo di rispondere, Cosetta era scappata.
Di questo, certo che si ricordava, era un ricordo che chiamava l'altro, di quando aveva già dodici anni, e babbo Eugenio era stato arrestato per via del Guardia, la stessa estate, e poi l'avevano rilasciato. Il Guardia nuovo era più perfido di quello morto: se due pecore sconfinavano in bandita, rincorreva lui e Olindo e li sferzava col frustino sulle gambe: un bruciore per giorni e giorni che non si resisteva a tenerci sopra il lenzuolo. Ora alle pecore badavano i fratelli più piccoli, lui e Olindo lavoravano nei campi coi genitori. Cosetta si fece trovare più spesso sulla sua strada: un bacio e scappava. Egli non le poteva chiedere di fidanzarsi, magari in segreto, dal momento che si era lasciata baciare anche da Olindo, una volta, per un pugno di more. E una sera Metello l'aveva colta di sorpresa, alle spalle, che stanava i granchi nella Sieve, l'aveva rovesciata sul greto, ma era forte quanto lui, più forte se riuscì a sfuggirgli anche cotesta sera.
E venne un tempo peggiore, l'ultimo: alla Fattoria li avevano presi di mira, ci fu un raccolto più magro del solito, gli ripeterono che trascuravano la terra, che erano troppe bocche e poche braccia: il sottofattore in persona, con cui erano imparentati, gli minacciava la disdetta; il Guardia nuovo, col fucile in spalla, sembrava star di casa sul podere. Babbo Eugenio diceva: «Non si può durare»; parlava di Belgio e di miniere. «Fossero stati altri tempi» diceva «sarei potuto andare a Firenze a fare il manovale, in tre o quattro anni sarei diventato muratore. Ci perseguiterebbero anche lì. E l'America è troppo lontana: mi parrebbe di non poter più tornare. In Belgio ci si arriva col treno».
Finché trovarono chi aveva ucciso il vecchio Guardia e babbo Eugenio, che ormai aveva fatto le carte, lo stesso si decise a partire. Qualche mese dopo scrisse che Isolina e i ragazzi lo raggiungessero. Ma non Metello, non l'avevano adottato e quindi «non gli davano il permesso». «Almeno per ora» gli disse mamma Isolina. «Tu ormai sei un uomo e queste cose le devi capire. Chissà non sia la tua fortuna. Ci fanno il regalo di prenderti in Fattoria. Ubbidisci, lavora, fatti benvolere. Del resto, in Fattoria ora ci hanno ridato la stima e non vai a stare da degli estranei; c'è la sorella del babbo, c'è la nonna. Hai visto la nonna, non ci si è trovata bene?».
E da un certo giorno in avanti, è come al primo canto del gallo; per bujo che sia, non è più notte, se aguzzi lo sguardo vedi baluginare l'alba, il ricordo ha una diversa consistenza.
Il treno era scomparso dietro la svolta, là dove avrebbe trovato il passaggio a livello che divideva la strada carraja. Era il tramonto, era estate, giugno, il giugno dell'87. Isolina e i ragazzi non avevano sventolato il fazzoletto, erano rimasti ammucchiati a un solo finestrino, a guardar lui e la nonna che li guardavano: Isolina col più piccolo in braccio, la nonna con le mani sotto il grembiule: non pareva nemmeno che le due donne piangessero. L'ultimo a parlargli era stato Olindo, nell'orecchio:
«Se con Cosetta ci riprovi, fammelo sapere».
C'era ancora nell'aria il fumo della locomotiva, e il fischio si faceva sempre più lontano. D'un tratto tacque anche la campanella della stazione, e si sentirono cantare i grilli e abbajare un cane. La nonna disse: «Andiamo». Fuori, c'era il carro della fattoria, e il bracciante che li aveva accompagnati: erano discesi, col carro, fino in Valdarno dove passava la ferrovia.
«Tra un'ora saranno a Firenze» disse il bracciante avviando i buoi.
La nonna disse: «Speriamo non si sbaglino nel cambiar treno. Dovranno cambiare sette volte. Gli hanno scritto tutto, e un'anima buona che gli legga, Dio non gliela farà mancare».
Metello le sedeva accanto, con le gambe fuori il carro che si era mosso e stava per superare il passaggio a livello.
Il bracciante gli disse: «Vedrai che ti troverai bene fattoria, cittadino. Meglio che in Belgio. E almeno la domenica, mangerai come non hai mai mangiato».
La nonna gli aggiustò il berretto: «Ricòrdatelo: specie col Guardia, sii rispettoso».
Il carro sobbalzò sulle rotaje, e per il brusco movimento, siccome non si teneva con la mano, Metello fu spinto avanti, istintivamente mise i piedi in terra e si trovò ritto in mezzo al binario.
«Ma sei ciucco?» esclamò la nonna.
Il carro era già sulla strada, distante una diecina di metri, il bracciante tratteneva i buoi. «Su, monta» disse, e gli fece cenno con la testa. «Capa di rapa».
C'era un gran silenzio, si erano zittiti anche i grilli: vicino volava un moscon d'oro; uno dei buoi mugghiò, l'altro gli fece eco. Metello era rimasto fermo, guardava il carro e la vecchia e l'uomo che l'aspettavano.
«Ooh!» fece il bracciante. «Sei assordito?».
«Metello» disse la nonna.
Lui li guardava; e d'improvviso, voltò le spalle, e fuggì, lungo il binario, e poi sul tratto di terra battuta parallelo le rotaje, dalla parte dov'era andato il treno. Non udiva le grida e i richiami, correva, gli rombava la testa, ma correva, la strada ferrata tagliava in due i campi, deserti a quell'ora. Forse l'uomo lo rincorse per un po', forse la nonna dette voce a quelli della stazione: seppe, molto tempo dopo, che era stata tale la loro sorpresa che quando si decisero ad inseguirlo, egli era già scomparso dietro la curva, e dentro la galleria. Alla stazione si rifiutarono di avvertire Pontassieve.
«Dove volete che vada? Bocca che mangia non si perde».
Dentro la galleria, egli riprese fiato, e di nuovo, intimorito dal bujo ma non spaventato, staccò la corsa. Quando uscì dall'altro capo del tunnel, pur breve, era sera fonda, fu come se ne accorgesse d'un tratto, si era lasciato dietro le spalle le ultime case di Rignano e sapeva già dove andava e cosa voleva. Andava a Firenze, dove era nato e che non conosceva; e avrebbe vissuto da solo, col proprio lavoro, lontano dal Guardia e dalla gente della fattoria, lui che era un cittadino, e non aveva nessuno al mondo. Gli sembrava - e ora i grilli cantavano più forte, si erano destate le rane, abbajavano i cani, saliva in cielo la luna piena a illuminargli il cammino e a quella luce splendevano tutti bianchi i sassi dell'Arno in secca tra i campi e la ferrovia, che Isolina, Olindo e i «fratelli» più piccoli fossero partiti tanto tempo prima, tanto che nemmeno si ricordava bene i loro visi. Per un momento gli parve d'aver dimenticato i nomi dei più piccini, correndo se li ripeteva: Vittorio, Carlo, e l'ultimo, quello ancora in sottanino? Ascanio! l'avevano chiamato come il sottofattore.
Un treno gli veniva incontro, si udiva il fischio, quindi apparve il muso della locomotiva che vomitava faville e lo sbuffo di fumo. Egli si inoltrò per un viottolo e raggiunse la strada maestra. Il treno passava alle sue spalle, e sulla strada avanzava un barroccio carico di fieno: il frastuono del treno, la presenza del barrocciajo come appollajato sulle stanghe, gli ridestarono il senso del pericolo: riprese a correre fin dove cominciavano altre case. Forse era Pontassieve: c'era scritto, sulla prima di quelle case, come a Contea, come a Rincine. Allora capì che non saper leggere era una grande disgrazia, come portarsi addosso una malattia: lui vedeva i segni neri sulla parete calcinata, ma gli occhi non gli servivano, era come fosse cieco.
Al di là delle case, ritrovò il suo fiume: l'attraversava un ponte che immetteva a un grosso paese. Era Pontassieve? A capo del ponte, c'era una fontana, si dissetò. Era stanco e si sedé sulla spalletta. Passò un secondo carro di fieno e il barrocciajo, sdrajato questo sulla cima del carico, arrestò il cavallo davanti a lui, per accendersi il mezzo toscano. Da quell'altezza, gli disse:
«Ti ha lasciato solo la dama, giovanotto?».
Metello era sudato, ansante, appena dissetatosi alla fontana, tuttavia sorrise, quasi gridò:
«Macché, non sono di qui. Sono di Pontassieve».
Il barrocciajo rispose: «Ho capito, sei un furbo».
Ora Metello sapeva di trovarsi davvero a Pontassieve, si allontanò girando al largo dal paese, ancora sulla strada maestra, la luna sembrava fare il suo stesso cammino. Col primo sole entrava in Firenze, passando sotto Porta alla Croce; si spinse avanti ancora pochi passi e si trovò in pieno Mercato. Così vestito com'era, piantato con le mani nelle tasche, era nel suo ambiente, nessuno avrebbe potuto immaginare la sua avventura, e ora la sua curiosità, la sua stanchezza e la sua fame. Era un ragazzo alto e quadrato per la sua età, col ciuffo nero sulla fronte, le mani grandi, un berretto in testa, la camicia abbottonata ai polsi e al collo, il gilè sopra, senza giacca, le scarpe di vacchetta impolverate e i calzoni lunghi fin sugli stinchi: tale da sembrare che avesse non quindici anni appena compiuti, ma diciotto, diciannove, e capace di affrontare la fatica con disinvoltura. Attorno a lui, dei facchini di piazza scaricavano dai carri le casse della frutta, le palle dei cavoli fiori, le arance e i mandarini ch'egli toccava per la prima volta; altri facchini accorrevano per trasportare la merce nei depositi. Più avanti, i venditori al dettaglio sistemavano i loro banchi, v'era grande animazione e vocìo, il sole già scottava. Metello si sentiva stanco e aveva fame; era come intontito e di curiosità e di stanchezza e di sonno e di fame. Una voce lo riscosse: «Ehi, tu, sei qui coi carri o per dare una mano? Sotto, mi manca gente stamattina. Quattro centesimi l'ora, ti sta bene?».
Lui non rispose, non si girò nemmeno a guardare chi gli aveva parlato e se davvero quelle parole erano state rivolte a lui. Si avviò a uno dei carri, presentò le spalle e si caricò di una cassa.
CAPITOLO 2.
Non gli fecero festa, i suoi colleghi. «Da dove sei uscito? Perché hai accettato un centesimo di meno?» gli chiesero. E siccome lui non rispondeva, anche perché aveva il fiato grosso per via del caldo e della fatica, gli si velava lo sguardo, uno di costoro, un giovane dai grossi baffi e una verruca sulla guancia, che il padrone aveva chiamato Linari, trovò il modo di urtarlo e di farlo cadere lungo disteso. Il padrone gli voltava le spalle, e Metello poté rialzare la cassa e raccogliere i limoni che si erano sparpagliati sul marciapiede.
«Ce ne ho di bisogno» borbottò mentre ammucchiava le gabbie, poco dopo, e costui gli era nuovamente vicino.
Un altro, un uomo dai capelli bianchi e il viso pieno di rughe, gli ossi gli bucavano la camiciola, disse: «Se accetti quattro centesimi tu, a me che secondo loro "son per l'oche" e non reggo più di mezzo quintale, cosa dovrebbero dare?».
«Si meriterebbe ma un ceffone» disse Linari passando. Aveva solino e cravatta, portava in spalla una cassa di mezzo quintale come fosse vuota.
«Ma lasciatelo campare» intervenne il terzo.
Era un uomo di mezza età, coi baffi anche lui, e tutto calvo, col cranio bruciato dal sole, e gli occhi che gli ridevano. Sembrava una persona di riguardo, piuttosto che uno scaricatore, malgrado sudasse come gli altri e fosse trasandato. «Non lo vedete com'è giovanino?».
«Per questo deve imparare» disse quello dalla verruca. «Hanno ancora la bocca di latte e ci vengono a togliere il pane».
«Si vede che non gli manca l'appetito» disse il calvo.
Metello li ascoltava, cercando di non guardarli in viso.
«Ce ne ho di bisogno» ripete.
«Si è capito» disse il vecchio. «Non lo farai spero per una poltrona al Pagliano».
Suonò mezzogiorno, e gli fecero la paga; la giornata per loro era finita. Metello si trovò in mano tre soldi: un diecione e metà centesimi. Di fronte al Mercato c'era un'osteria la cui presenza, scoperta fin dal suo arrivo, lo aveva aiutato a mantenersi in piedi quelle cinque ore, e a sostenere la fatica: un piatto di pasta dipinto sull'insegna, da un lato, in mezzo una scritta, e dall'altro lato un fiasco di vino.
I suoi compagni di lavoro, entrarono ch'egli mangiava la pastasciutta aiutandosi col pane; si sedettero al suo tavolo; chiesero, per prima cosa, il vino: lo versarono anche a lui che non l'aveva ordinato. Sembravano meno astiosi, ora; il giovane dalla verruca gli riempì il bicchiere.
«Quanti anni hai?» gli chiese il calvo.
Metello stava col viso sul piatto, e masticava.
«Dì la verità, sei proprio di Firenze?».
«Non sappiamo nemmeno come ti chiami».
«Avanti» insisté il calvo. «Io mi chiamo Betto».
«Ossia, il Maestro. Anzi, il Troncia» disse Linari.
«Per caso, stamani, non eri appena uscito di carbonaja, quando sei arrivato?».
Metello non conosceva quella parola, carbonaja, usata, era evidente, per dir tutt'altra cosa; né sapeva che dietro il Mercato c'era la prigione, ma capì che se non entrava nelle grazie di costoro, i Carabinieri l'avrebbero riportato alla Fattoria; e nello stesso tempo, fu come se intuisse che solo facendosi amici cotesti uomini egli poteva conquistare per sempre la libertà incontro alla quale aveva marciato una notte intera. Lo sguardo era sempre più velato, via via che mangiava gli sembrava di perdere le forze invece di riacquistarle. Bevve d'un fiato il suo bicchiere di vino, e disse - era pur sempre, anche se cascante dal sonno, un ragazzo cresciuto contadino:
«Ce ne ho di bisogno. Sono solo al mondo. Mio padre è morto in Arno».
«Quando?» gli chiese qualcuno, forse il Maestro, lui nemmeno più li distingueva l'uno dall'altro. «Una quindicina d'anni fa?».
Metello annuì, e spostato il piatto, appoggiò la fronte sul braccio. Sentì ancora bestemmiare e vibrare un pugno sul tavolino, che tremò.
«Ma allora è vero».
Il Maestro disse: «E' il suo ritratto».
«Il figliolo di Caco».
«32 l'orfano, 26 il renaiolo»: questo era il vecchio che parlava, Pestelli.
Metello già dormiva, il sonno greve di un ragazzo di quindici anni che aveva camminato la notte intera, faticato tutta una mattina, a digiuno, vinto ora dalla stanchezza, dal cibo rapidamente ingojato, e dalle emozioni. Per quanto lo scuotessero, non riuscirono a svegliarlo. Betto dové prenderselo sulle spalle e trasportarlo così, attraverso Santa Croce, Ponte alle Grazie, Giardino Serristori, fino nella sua camera di San Niccolò, sottostante la camera dove Metello era nato.
Betto lo ospitò quella notte e finché poté. Era stato amico di suo padre, viveva solo, e gli piaceva il vino. La sera, ciò che gli restava, lo beveva. Allora, gli occhi celesti spiritati, usciva in strada e provocava chiunque si prestasse al suo scherno; se era la ronda che incontrava, lui digià ammonito, le si avventava contro. Sortiva di prigione ogni volta, «deciso a ricominciare, ma sul serio». «C'è scritto» diceva «in un opuscolo di Cafiero...». Sapeva parlare, aveva studiato; un suo fratello era funzionario al Genio Civile; suo padre, avvocato, era stato con Giuseppe Montanelli a Curtatone. «Quello che faccio quando bevo» egli diceva «è contro tutte le mie idee»; ma non resisteva a lungo: si ubriacava e usciva a gridare per le strade:
«Ladri! Umberto boja! Metteremo le bombe a Pitti! A San Pietro, al Quirinale! La faremo noi la Comune! Viva Cafiero!».
Lo raccoglievano, se non incontrava i poliziotti, tra le aiuole di Giardino Serristori, vicino casa, preda delle convulsioni: sempre lì andava, come una bestia che istintivamente cercasse la tana dove nascondersi e dove riparare.
«Non credere che tutti gli anarchici si comportino come mi comporto io» diceva a Metello, quand'era in sé. «I veri anarchici non sono né come me né come tuo padre, buonuomo ma che mi assomigliava in queste cose, non lo imitare. L'anarchia è una grande idea. E' la libertà delle libertà, non soltanto la libertà di bere. Non sono gli uomini come me che la possono insudiciare. C'è Cafiero, c'è Kropotkin, c'è stato Bakunin, c'è stato Godwin, c'è stato Stirner, questi due un po' meno. C'è stato Proudhon, tieniti a mente questi nomi, li devi studiare. C'è stato, qui in San Niccolò, Remigio Benvenuti, faceva il calzolajo e stava accanto alla Porta. Io e tuo padre non gli si legava le scarpe».
«E mia madre?» chiedeva Metello.
«Tua madre» diceva Betto, gli si addolcivano gli occhi un istante, questo al ragazzo non sfuggiva, «se fosse stata una donna di chiesa, l'avrebbero messa sull'altare. Invece era atea, le piaceva la libertà, le piaceva la vita, qualunque fosse. Era una bella donna, alta, come stai venendo su te che per il resto sei il ritratto di tuo padre». E taceva. Una delle prime sere, gli aveva detto: «Devi sapere che lei era anche la più forte, non tuo padre. Quando tu nascesti e lei morì, io ero in prigione. Ci rimasi un anno quella volta. E un altro ne feci a Lipari. Tornai che anche tuo padre non c'era più da un pezzo. Te, non sapevo che esistevi».
Della famiglia da cui proveniva, dei suoi genitori e di suo fratello ancora vivo, non parlava mai: si diceva che l'avessero diseredato. E se Metello gli chiedeva: «Perché lavori in piazza, dal momento che hai un'istruzione?», Betto rispondeva: «Lavoro in piazza perché è il più bel lavoro. Scarico, a giornata, quando mi piace, non ho padroni. E anche perché in piazza c'è la sola gente con cui vado d'accordo e con cui merita parlare».
Egli fu per Metello il padre che Metello non aveva conosciuto, ma che poteva immaginarsi uguale, certo meno istruito di Betto, non meno generoso, non meno amico. Gli proibì di tornare in Mercato e di scaricare. «E il più bel lavoro del mondo, ma non fa per te. Devi darti un mestiere». Andò a Rincine per parlare con quella gente della Fattoria, casomai fosse ricorsa ai Carabinieri, e per prendergli almeno l'altra camicia e la giacchetta che mamma Isolina gli aveva lasciato. Tornò e disse: «Si erano già messi l'animo in pace e senza essere stati dai Carabinieri. La vecchia, la nonna, ti manda a dire: «Dio t'aiuti». Dice che non avevi altra roba che quella che indossavi quando sei scappato».
Ma se non in Mercato, lo stesso bisognava lavorare. «Scegliti un mestiere» gli disse Betto. «Ma sceglitelo da te, se ce n'è uno che ti piace. Il cappio al collo mettitelo con le tue mani. Cosa sai fare?». Niente egli sapeva fare, se non zappare la terra, badare alle pecore e portare dei pesi. «Che mestiere ti garberebbe, sentiamo?». Metello lo guardò e gli rispose - era soltanto un ricordo della sua fanciullezza contadina che la presenza delle impalancate nel centro della città e sui lungarni, gli aveva ravvivato:
«Il muratore».
Non gli fu difficile occuparsi; bastava si contentasse della paga più bassa, e dimostrasse di reggere alla fatica: entrò come manovale sotto l'Impresa Badolati che aveva in appalto la costruzione di un'ala dei nuovi portici e dell'arco trionfale in Piazza Vittorio. Lavorava dieci ore al giorno e guadagnava sette centesimi l'ora, più di uno scaricatore. E la fatica non era maggiore e la sorveglianza del caporale non diversa da quella del Guardia. Ma egli era giovane, felice di vivere, ormai e per sempre cittadino. Dall'alto dei ponti, dove saliva con i cofani di calcina sulla spalla, non era più la luna ma la Cupola di S. Maria del Fiore che gli sembrava di toccare. A sera, si appartava con Betto al tavolo dell'osteria dove avrebbero cenato, o seduti cavalcioni, l'uno di fronte all'altro, sulla spalletta dell'Amo, su una panchina di Giardino Serristori, mai in casa, sarebbero occorsi i denari per la candela, e Betto gli insegnava a leggere e a scrivere: presto Metello seppe fare la sua firma, combinare una lettera da spedire in Belgio, e ripetere a memoria lunghi brani del libro di Francesco Pezzi sui fatti del 1879, che gli era servito da sillabario. E a notte, se Betto non era rientrato, quando la Chiesa davanti casa batteva le due, Metello si vestiva, andava al Giardino Serristori: raccoglieva il suo amico folgorato dall'alcool e spesso contuso per via delle convulsioni in cui si era dibattuto: ora era lui che lo portava in spalla fino a casa.
Ma una notte, sul finire del settembre 1890, Metello non lo trovò bocconi tra le aiuole del Giardino, né altrove; nemmeno le guardie lo avevano preso, nessuno. Betto scomparve così, e per sempre.
Dall'indomani della scomparsa di Betto, Metello diventò vero italiano e vero uomo: prima ancora di essere elencato nei registri del Comune, si trovò registrato negli elenchi della Polizia. Egli era stato contadino, viveva da qualche tempo in città, in un Quartiere di operaj e di artigiani, era quindi in grado di capire, e soccorreva la sua giovane età un'ancestrale esperienza, il pericolo che correva presentandosi sulla porta del Commissariato a chiedere notizie del suo amico. Ma nessuno si era mosso per aiutare Betto, né al Mercato né tra la gente del Quartiere. Dicevano:
«Ubriaco com'era, "tutto in cesta" secondo il solito, sarà cascato in Arno. E se non è affogato, è alle Murate, non sarebbe la prima volta. Presto o tardi ritorna».
«In ogni caso non lascia a piangere nessuno».
Nemmeno Metello aveva pianto: mai, anche se si faceva male, o ne buscava picchiandosi per delle rivalità tra pastori, anche sotto le frustate del Guardia, le lacrime non gli uscivano: sentiva soltanto, sempre, un gran rancore, di cui presto si dimenticava, come qualcosa gli si fosse conficcato in petto e un respiro dopo l'altro se ne liberasse. Ma ora, questo groppo durava. Betto lo aveva ospitato e nutrito, gli aveva insegnato a leggere e scrivere, era suo amico. Metello gli voleva bene; e diversamente da come diceva di volere bene ai Tinaj, a mamma Isolina e Olindo in specie: nel voler bene ad essi, non aveva mai sofferto, nemmeno quando li aveva visti partire; ora invece, pensando a Betto, pativa. Se si trovava in carcere, gli avrebbe portato da mangiare. Teneva il berretto in mano, aveva le scarpe pulite, la giacca abbottonata e i capelli ravviati quando, non aveva ancora oltrepassato la soglia, gli venne incontro il piantone.
«Sono un amico del (***) Betto».
«Di chi?».
«Del Maestro».
«Vieni, passa».
Lo tennero due giorni in carbonaia; gli usarono il riguardo, siccome era minorenne e incensurato, di non mandarlo alle Murate, mentre erano in corso gli accertamenti. Ma già durante il primo interrogatorio, dopo avergli fatto ripetere la propria storia e in che rapporti fosse e perché cercasse Betto, il Delegato gli disse:
«Il Maestro non è alle Murate e non è da nessuna parte. Se è affogato come dicono, lo ripescheranno. E se non lo ripescano, lo ripeschiamo noi. Tu, dimènticatelo. Chiaro?».
Perché? Sembrava che il Delegato ne sapesse molto di più, e non glielo volesse dire.
«Piuttosto, parliamo un altro poco di te. Chi era tuo padre, lo sai?».
«Faceva il renajolo, e anche lui è affogato. Lui davvero».
«Ecco» disse il Delegato. «Ci siamo capiti».
Capiti? Egli aveva detto una verità sotto la quale non c'era nessun sottinteso.
«Tu sei giovane, e ancora in tempo sei. La strada di tuo padre, del Maestro e di gente come loro, sai dove ti porta, oltre che in Arno? Qui, ti porta, e poi alle Murate e poi a Portolongone. Alza il viso» gli ordinò. «Rendo l'idea?».
Era un uomo più che bruno, nero, aveva i capelli divisi a metà, lustri e ondulati. Gli parlava con un tono in apparenza paterno, ma con l'intenzione di mettergli paura; e proprio per questo, siccome si capiva che cercava di impaurirlo, Metello non aveva paura. Nondimeno, era meglio se non lo guardava: gli occhi, che aveva ugualmente neri e sembrava vibrassero mentre lo fissavano, al contrario delle sue parole, lo intimorivano. Sopra la sua testa, c'erano due ritratti che Metello aveva imparato a conoscere: re Vittorio, che era morto, e re Umberto, che non aveva il pizzo ma aveva i baffi più lunghi, i capelli ritti, e di lui in San Niccolò, si diceva: «Volta la carta e pèggiora». Tra i due ritratti, sulla parete tutta scura, con grande chiazze d'umido, c'era il segno di un crocefisso, come se l'avessero tolto o come se fosse stato dipinto di giallo, senza il Cristo, sul muro, e piano piano si fosse stinto. Il Delegato aveva seguìto lo sguardo di Metello, puntò l'indice all'indietro, e gli chiese:
«Gli vuoi bene?».
Metello annuì.
«Saresti disposto al sacrificio della vita per difendere il suo Regno?».
Erano le stesse domande che gli rivolgeva il priore di Rincine, facendogli baciare i santini. Ripeté di sì.
«Proprio?».
Poi con Olindo ne ridevano, siccome babbo Eugenio, appena il prete voltava le spalle, diceva: «Quelli si son messi la sottana e hanno risolto il problema, beati loro!». Ma mamma Isolina voleva si rispondesse: «Sia fatta la Sua volontà». Trattenne un sorriso, e rispose:
«Sia fatta la Sua volontà».
«Tu a Portolongone finisci» disse il Delegato.
Chiamò il piantone e lo fece condurre in guardina.
Era una stanza quadra, alta di soffitto, e con l'inferriata che dava su un cortile, a un pianterreno. C'era una ragazza che cantava da mattina a sera:
"La donna è mobile,
qual piuma al vento,
muta d'accento..."
e non la si poteva mai vedere siccome la sua finestra era d'angolo e sovrastava la rimessa. Questa, con l'ingresso, era evidente, dall'altra parte dell'isolato, appestava il cortile di sterco e di orina di cavallo: era autunno e tuttavia, in certe ore, per grande che fosse, dentro il camerone non si respirava. Ora Metello sapeva di persona cos'era una carbonaja: non ancora il carcere, ma digià gli bastava. Gli fecero compagnia, durante le quarantotto ore che vi rimase, dapprima due borseggiatori e un magnaccia che aveva ferito la sua amante e non era valso a nulla che costei giurasse d'esser caduta. Gli insegnarono a fumare il toscano, e come si trattano le donne e si estrae un orologio dal panciotto, occorreva andare a scuola.
«Quando esci» gli disse il più anziano dei borseggiatori: un bruno sui trent'anni, alto e magro che sbagliava l'occhio a momenti: «vai da Ilarione in Malborghetto. Digli che ti ho mandato io. Digli:
'mi manda il Lunghino'. In poche lezioni diventi professore».
Gli parlarono dei mille modi di far l'amore; e i due borseggiatori gli dimostrarono come ci si può trastullare a vicenda. Erano arrivati uno a distanza di poche ore dall'altro, e speravano, dissero, di venire destinati nella stessa cella, alle Murate. Mentre così si divertivano, il Lunghino diceva all'altro, un biondo che sembrava più giovane di età, malgrado i baffi e il riporto sulla fronte: «Di' la verità: ti sei fatta pigliare perché sapevi che mi avevano pizzicato». Quello che si vantava di aver ferito la propria donna, disgustato dallo spettacolo intervenne, e si azzuffarono. Entrò il piantone e li trovò che giocavano alla morra. Quando imbrunì vennero a prenderli per portarli alle Murate, così per la prima volta nella sua vita Metello vide più uomini legati a una stessa catena. Sull'alba ebbe due nuovi amici che gli tennero compagnia per tutta la seconda giornata, la ragazza sempre cantava.
«E' Michela, la conosco» disse uno dei due. «Abita dall'altra parte della strada». Era anche lui un ladruncolo, colto in fragrante, ammise, sull'omnibus che da Porta alla Croce conduceva a Piazza della Signoria. «Povera figliola, è più in galera di noi. Sta sempre a letto, non fa che pettinarsi e cantare. E' inferma, non può camminare. Le gambe è come non le avesse, le ha come le aveva a cinque o sei anni. Le tiene dentro delle calze nere di lana. Ma se non gliele guardi, il resto è uno splendore. Di giorno non vuole che si salga, nemmeno per cento lire. E' tutta bionda, ha due occhi, e un petto! Comincia a lavorare la sera. C'è sempre la fila».
L'altro, Metello non l'avrebbe più scordato. Si chiamava Sante Chellini ed era nato, fu lui a dirlo siccome venne il discorso: «nemmeno a farlo apposta, il giorno che cacciarono il Granduca». Faceva il muratore, era un collega, lavorava sui Lungarni, ed era stato arrestato perché aveva preso a pugni, e segnato, il caporale.
«Me le ha strappate dalle mani» disse. «Bevevo al fiasco dell'acqua, e mi volle sentire il fiato. Diceva che avevo nascosto l'altro fiasco del vino, e che ero ubriaco sul lavoro. Ce l'aveva con me da un pezzo, non perché non rendo, lo sa quanto me se rendo e come conosco il mio mestiere, ma perché secondo lui metto su gli altri, per via della paga». Ora si pentiva del proprio gesto, pensando a sua madre che restava senza aiuto, e alla sua ragazza che faceva la sarta ed era di una famiglia perbene: già i suoi parenti vedevano di malocchio che si fossero fidanzati. «Gli chiederò scusa in Tribunale, a quel farabutto» aggiunse. «Farò di tutto per uscire prima possibile. Ma ormai, è andata. Gli ci voleva una lezione. Mi era salito il sangue alla testa. Se non me lo levano dalle mani, lo disfò».
E da lui, per la prima volta, Metello sentì parlare di socialismo, di uguaglianza, di lavoro che andava pagato «secondo il sudore». Cose che nemmeno Betto gli aveva saputo dire, e che «gli stavano più a mano». La ragazza sempre cantava, era di nuovo sera, il ladruncolo era andato e tornato dall'interrogatorio, il Chellini diceva:
«Ora che si è fondato questo nuovo Partito, gli resterà sempre più difficile farci del male. Siamo tutti riuniti, e con uomini come Costa e come Turati, ma che manovale sei se non li hai mai sentiti nominare? con loro a capo, si sa dove si va. Ma ti sembra giusto?» commentò «che un filone di pane ci costi due ore di lavoro? L'importante è non lasciarsi trascinare alle vie di fatto personali, com'è successo a me qualche ora fa. Ma quando te le levano dalle mani» ripeté. «Perché, non ti credere, in certi casi i caporali, sono più carogne loro degli Impresari. E' gente come noi, che s'è venduta».
Entrò il piantone, che forse stava ad origliare, disse:
«Già vi conoscete».
«Facciamo lo stesso mestiere» Metello disse.
«Ma non ci si era mai visti prima d'ora» aggiunse Chellini.
«Via» disse la guardia. «C'è il cellulare».
Il muratore e il ladruncolo si avviarono.
«Ciao Chellini» disse Metello.
«Ciao figliolo».
La guardia lo sospinse.
Non poterono nemmeno darsi la mano.
Metello uscì di guardina la stessa sera, dopo che l'ebbero schedato come figlio di Caco, discepolo del Maestro e amico del Chellini muratore. Congedandolo, il Delegato gli disse: «Ora, giovanotto, dipende da te. Ricórdati che ti teniamo gli occhi addosso». Egli tornò al lavoro, ed aveva preso la sua decisione: togliersi quegli occhi di dosso il più presto possibile. Intanto, ragazzo di diciotto anni, soggiacendo ad un pensiero, il più costante tra quelli che l'avevano accompagnato l'intera settimana, il sabato dipoi, riscosso il salario, salì le scale della casa di Michela. Le gambe della ragazza non gli fecero impressione, non le guardò. O non le vide.
CAPITOLO 3.
Metello arrivò a vent'anni ch'era non un altro uomo ma un uomo diverso da quello che sarebbe diventato se fosse rimasto a Rincine, bracciante di fattoria. La città dove era nato lo riconobbe e lo confortò; gli aperse la mente e gli irrobustì il cuore. Gli dette un pane che per quanto sudato, spesso lo inorgoglì, e piuttosto che spengere, alimentò nel suo spirito, vagliandole, quelle doti di caparbietà, di equilibrio, di furberia anche, radicatesi in lui durante la sua fanciullezza contadina. Scomparso Betto, viveva solo, e a cominciare dal filone di pane, gli occorrevano sei centesimi ogni mattina. Egli si trovava al principio di quella scala che parte dal manovale e conduce al mezzomuratore, al muratore, al primomuratore: una lunga ascesa che non ha vette ma ripiani. In cima, con le braccia conserte, sta il caporale.
Il lavoro era la sua risorsa, e gli piaceva. E come gli piaceva il lavoro, gli piacevano le sottane. Dopo la sua prima esperienza con Michela, aspirava a dei sentimenti un poco più puliti. Non ancora supponeva di doversi innamorare, ma di fidanzarsi, di correre, come aveva imparato a dire, la cavallina. Sui «ponti» si respira a pieni polmoni, come in campagna, malgrado la fatica: via via che si sale, la città diventa in basso sempre più piccina, si abbraccia con uno sguardo. E tra la gente che si vede andare e venire, ci sono le ragazze che fanno le sarte, le sigaraje o le ricamatrici e che ti ascoltano, non gli importa se devi ancora fare il soldato, sono disposte ad aspettare, quando sanno che hai un mestiere nelle mani. Questo era un motivo di più per agognare il giorno in cui avrebbe lasciato il cofano di manovale e impugnato la cazzuola e il filo a piombo del muratore. Del resto, cosa gli aveva detto il Chellini?
«Più bravo diventerai nel mestiere, più ti verrà chiaro di essere uno sfruttato».
Chellini non l'aveva più incontrato; gli avevano dato quattro anni per lesioni colpose, e tutti quei muratori lo conoscevano e lo portavano in palma di mano: a maggior ragione, quindi, ora che ricordava le sue parole Metello le trovava facili da capire. Gli bastava intenderle come una norma di vita, e riferendole all'ambiente del suo lavoro si proponeva di trovarsi d'accordo coi suoi compagni nel resistere, se il caporale avesse preteso di imporre un sopruso. Tuttavia, mai essere il primo a farsi avanti né mai l'ultimo a tirarsi indietro. Mai doversi pentire di aver offerto i polsi alle manette. Certo, egli non avrebbe perpetuato le idee di suo padre e di Betto, così come non desiderava di fare la loro fine. Il tempo gli avrebbe poi dimostrato se tutto questo era possibile o se era comunque un'illusione.
Già egli si accorgeva che gli anarchici diventavano sempre meno, dispersi o in galera che fossero, era sopra i socialisti che si posavano gli occhi della Polizia. E più la sua mano. Erano un'altra pasta d'uomini, costoro, forse più ignoranti, meno generosi, se non a parole, avevano tutti una famiglia da mantenere, ma con le idee più chiare. Nondimeno, se nasceva una discussione, bastava un anarchico, sia pur l'ultimo e analfabeta, ma non erano quasi mai analfabeti anche se facevano un mestiere, per tener testa a un gruppo di socialisti.
«E' vero o no» gli dicevano «che più si combatte insieme e più s'avvicina il giorno in cui ci sarà un mondo senza classi, senza più sfruttati e senza più sfruttatori?».
«Poniamo di sì» l'anarchico rispondeva.
«Come poniamo? Il numero fa o non fa la forza?».
«Il numero fa gregge. Collettive sono le pecore che hanno sempre bisogno di tre cose: del pastore, del cane e del bastone. L'individuo è libero e arbitro di tutte le sue azioni».
«Parli come un capitalista».
«E vojaltri come dei preti».
E venivano alle mani.
E nel migliore dei casi: «Con te non si può discutere. Voi anarchici siete dei Poeti».
Erano dei Poeti, non gente come noi, che il cervello si avrà piccino, ma lo sappiamo adoperare. Sul lavoro, ad averli per amici, si sarebbero fatti in quattro per insegnarti il modo di calibrare un mattone e, come Betto, tolti la camicia per aiutarti in caso di bisogno. Presi uno a uno, erano d'un altro mondo, «dei Poeti», Metello si ripeteva: scacciavano una mosca anche quando sarebbe stato facile schiacciarla e nello stesso tempo non ci avrebbero pensato due volte, dandosi l'occasione, di mettere una bomba e fare una carneficina; predicavano il furto, ed erano le persone più oneste che gli fosse mai capitato d'incontrare. Sempre meno gli capitava di incontrarne.
E poi, gli anarchici non avevano dei capi, forse perché non si riconoscevano nei capi, ed anche questo li dipingeva. Ma se c'è un uomo istruito o più intelligente di te, che vuole il mondo vada per lo stesso verso in cui tu vuoi che vada, perché non seguirlo e starlo ad ascoltare? I socialisti volevano delle cose concrete e i capi non gli mancavano: tanto per incominciare, come aveva detto il Chellini, volevano che il lavoro fosse pagato secondo il sudore. Ossia, che per prima cosa aumentassero i salari e diminuissero le ore di fatica. Si era aperta anche una Camera del Lavoro: e il suo segretario e fondatore, Sebastiano Del Buono, era una persona disinteressata come un anarchico, e con la testa sulle spalle. Viveva del suo stipendio d'impiegato delle Ferrovie e le ore che gli restavano libere e parte della notte le passava tra la sede, allo Strozzino (una sola stanza dove quando s'era in dieci bisognava stringersi per entrare) la periferia e la campagna, a tener comizi e a scriver manifesti, a dar consigli, e incoraggiare. Ti lasciava all'uscita del cantiere per andare a quella della Manifattura; dopo aver parlato con le sigaraje, passava a una riunione di lavoranti stipettaj, magari di parrucchieri. Se eri disoccupato, finiva col cavarsi di tasca l'ultimo diecino, e si dava il caso che per suo conto dovesse poi saltar la cena. Lo si chiamò, in seguito, l'Angelo Rosso o l'Angelo Senzali. Aveva una voce esile che anche se saliva di tono, non si arrochiva mai, usava espressioni talmente naturali che sembrava avesse fatto tutta la vita il muratore piuttosto che l'impiegato. Portava le lenti strette sul naso, i baffoni e la barba, le punte del solino rivoltate, il fiocco largo che gli toccava il bavero della giacca dai due lati: da questo si capiva che lavorava con la testa e non con le mani, anche se il vestito era sempre lo stesso, trasandato. E dallo sguardo, sempre calmo, dolcissimo, ridente, dietro quegli occhiali. Aveva un suo modo di dire che era questo: «Mi sembra bene, non ti pare?». Oppure: «Mi sembra male, non ti pare?». Un giorno, anni dopo, allorché poté conoscerlo più da vicino, discutevano di come andavano le cose durante lo sciopero dei muratori, l'estate del 1902, Metello disse: «Così e così»; Bastiano gli replicò, secco, con un'energia che Metello non gli sospettava: «E' una risposta da sagrestano. Ci siamo proposti il minimo: se lo strappiamo è una vittoria, altrimenti c'è da ricominciare da capo». Sorrise, gli posò una mano sulla spalla: «Non ti pare?» gli disse. E malgrado la barba, sembrò a Metello di vederlo arrossire.
E c'era Pescetti, lui davvero un oratore, tra poco lo si sarebbe portato alle Elezioni, era un avvocato, anche lui con la barba, ma senza gli occhiali, piccolo di statura, strascicava una gamba; e non faceva mistero di non aver dubbi sull'esistenza del Signore. Ma appunto per questo, Marx e il Vangelo erano per lui una cosa sola. Ed egli era, per i socialisti fiorentini, Costa Turati Barbato e Cipriani messi insieme. Le sue parole erano tutto fuoco; e se Del Buono era un angelo, lui era un santo armato, San Giorgio socialista, e nemmeno, ma a suo modo, Savonarola. A un certo momento s'interrompeva per raccontare una barzelletta che invece di spegnerlo, cotesto fuoco, era come se ci buttasse sopra dell'olio. Si tornava in cantiere col cuore sollevato. Lo si chiamava Beppino, quando se ne parlava sul lavoro, o il signor Giuseppe, ma sempre Pescetti se gli si rivolgeva la parola. Lui ti pigliava sotto il braccio e insieme si andava a bere una mescita, due, tre.
«Voi giovani, voi sì che lo vedrete il sol dell'avvenire. Ma ce ne saranno di guerre da combattere prima di allora» diceva. Parlava come uno di noi. Diceva: «guerre», per dire prove da superare, lotte coi padroni e col Governo, contro il Re e contro il Papa che seppure si erano voltati le spalle, rispetto al popolo continuavano ad essere quello ch'eran sempre stati: «zuppa e panbagnato» diceva. «Fino alla distruzione della società borghese e del capitale»; il che, nel corso degli anni, avrebbe significato: e fame e carcere e fucilate. Tutte cose per Metello di là da venire.
Gli bastava essere, allora, e dimostrarsi, solidale: andare ai comizi, leggere l'Avanti!, iscriversi alla Camera del Lavoro, ma non al Partito. Del resto, difficilmente l'avrebbero accettato; era troppo giovane e «immaturo». Né lui vi ambiva. Prima di potersi mettere alla pari con uomini non diciamo come Pescetti o come Del Buono, ma come Chellini o qualcun altro dei suoi compagni di lavoro, Metello sapeva di dover diventare un bravo muratore. Non era un alibi, ma un ragionamento che quadrava con la sua situazione. Quale interesse avrebbe avuto a buttarsi nella mischia? Egli era solo al mondo; se un giorno gli fosse mancato il lavoro, giusto coi due soldi di Del Buono avrebbe mangiato l'indomani. E aveva vent'anni; lavorare gli piaceva, ma anche andare con le ragazze. Pescetti stesso, che si voleva fosse casto addirittura, forse per questo non c'era sigaraja che non lo adorasse e come socialista e come uomo, cosa aveva detto durante il suo comizio in Piazza dell'Unità? Aveva detto, per inciso, parlando della povertà a cui si è costretti, e dell'impossibilità, anche per chi ha del lavoro, di formarsi una famiglia, e una volta formata, di non farle mancare l'essenziale:
«E' forse un lusso anche l'amore?».
Non abitava più in San Niccolò, ma in una camera mobiliata nei «fondacci del Madonnone», il Quartiere dei lavandaj, al confine con la borgata di Rovezzano, dove andava la sera a cambiarsi e tornava poi a dormire. Aveva lasciato San Niccolò perché coloro che gli tenevano gli occhi addosso capissero che non aveva messo radici nell'ambiente che era stato di Betto e di Caco. Ormai anche per lui, non c'era altro da pensare: Betto se l'era preso l'Arno, come suo padre. E una ferita fa presto a risarcire quando si ha vent'anni e la vita sembra c'insegua, resta la cicatrice, che prima o poi darà le sue trafitture, non ora. Né aveva stretto delle particolari amicizie in quei due anni: conoscenze, di lavoro di sindacato di Quartiere. Era un bel giovane, gli crescevano i baffi, le sue spalle si allargavano, sapeva portare il solino e la cravatta, aveva il vestito della domenica; e non era scontroso, stava allo scherzo, alla battuta. Quando rientrava e i lavandaj avevano bisogno di un aiuto per caricare le ceste dei panni, o il vinajo per tirar giù dal carro le damigiane, lo chiamavano; e siccome non aveva nascosto d'essere stato contadino, spesso quegli ortolani di Rovezzano si servivano di lui, vanga e zappa le sapeva ancora usare, così arrotondava la giornata. Dagli ortolani, a volte restava a cena, risparmiando il piatto caldo della sera che altrimenti consumava all'osteria. E insieme al vestito delle feste, ora aveva il cappello e una spilla d'alpacca sulla cravatta, con la capocchia che sembrava una perla vera.
Nella casa di uno degli ortolani, c'era una sposa dai trenta ai quaranta, rimasta vedova da due anni e senza figlioli. Era andata maestra a Rovezzano, e costì si era sposata, lasciando la scuola per lavorare negli orti e in casa. Ora viveva coi suoceri, loro tre soli, ed ella aveva dieci, cento cervelli che la pensavano, da Rovezzano fin oltre il Madonnone. Avrebbe ereditato quei due ettari di terra, ed era ancora fresca, tutta una voglia, lo dicevano gli occhi. Rispetto a lei, Metello era un ragazzo, ma forte, allegro, che zappava come si fosse alzato allora, invece di essere stato dieci ore su e giù coi cofani di calcina. Viola lo chiamava per reggere il cesto mentre coglieva la verdura e sembrava indugiasse apposta, così chinata, per lasciarsi vedere il seno sotto il corsetto che ogni volta finiva per accorgersi di avere sbottonato.
«Cosa guardi?» Viola gli diceva, rialzandosi e tenendosi le mani alle reni. Allora il seno sembrava anche più nudo tanto premeva la veste. Egli taceva, timoroso di perdere il lavoro con cui arrotondava la giornata. La guardava un attimo, poi si fingeva che il vecchio o la vecchia l'avessero chiamato; sentiva che Viola rideva alle sue spalle, era uno squittìo più che una risata. Ma una sera che i vecchi erano davvero dentro casa, e c'era appena una falce di luna, l'orto tutto in ombra e l'Arno che scorreva al di là della scarpata, Metello lasciò cadere la cesta e prese Viola tra le braccia. Lei piuttosto che difendersi, gli si strinse addosso, offrendogli la bocca che lui cercava.
«Stupido» gli disse. «Ce n'è voluto».
E ormai da un mese, a notte, è presto notte per gli ortolani che debbono trovarsi in Mercato con le prime luci, Metello entrava dalla porta sui campi lasciata socchiusa. I due vecchi dormivano dall'altro lato della casa. Come Viola l'aveva istruito, egli accendeva uno zolfino e se lo portava accosto al viso, perché il cane smettesse di abbajare. L'animale lo riconosceva, gli si strusciava alle gambe, fin dalla prima sera, poi trottava nel bujo, uggiolando. Viola era digià nel letto, pulita e odorosa come una signora. Fu la sua grande avventura, l'amante ch'egli non si sarebbe mai sognato e che mai più avrebbe avuto nel corso della sua vita. Si spogliava tutto nudo, com'era lei, e perché lei lo voleva.
«Dimmelo, se hai la fidanzata» gli chiedeva. «Non sono gelosa».
Egli la rassicurava, ed ella restava incredula, o fingeva.
«Sicché, non ti rubo a nessuno» commentava.
Presto, capendo di dover favorire una sua amorosa manìa, egli si dispose a mentirle: pensava a Cosetta che poteva immaginarsi ormai donna, e gliene parlava. Ma aveva vergogna di sé, e consumato l'amore, si risentiva.
«Basta. Quello che ti ho detto è tutta una bugia».
Viola si stringeva al suo fianco, e lo carezzava.
«Non ci posso credere di essere la prima donna che hai avuto».
Le tremava la voce, egli la sentiva come rabbrividire, e ne era indispettito.
«Anche questa è tutta una bugia» protestava.
Cadeva nel sonno, di schianto, ogni volta, mentre ancora Viola lo carezzava; e il suo ultimo pensiero, era sempre lo stesso: di dispetto, e con un'ombra di timore, adesso, siccome capiva che lei rimaneva desta, quasi a vegliarlo.
Al mattino, il vecchio era partito col suo barroccio quando la suocera bussava alla porta, prima di uscire per la messa.
«Viola, svégliati. Io vado».
Metello apriva gli occhi, e scopriva l'amante che gli sorrideva, l'indice sulle labbra.
«Va bene, mamma, buongiorno» ella diceva.
Egli si alzava e Viola gli preparava la colazione, il pane e companatico da portare sul lavoro. Ella era già vestita e pettinata, col corsetto e il grembiule freschi stirati; e ironica, ridente, come nulla mai fosse accaduto. Tornava ad essere la nuora del padrone che gli dava il lavoro necessario ad arrotondargli la giornata, e intanto lo provocava. Non si lasciava nemmeno baciare. Lo guidava fuori la porta, facendogli strada. Gli sfiorava appena la mano, dentro la quale, una mattina lasciò scivolare la spilla, un altro giorno un cavurrino, e poi uno scudo, e poi due:
«Còmprati un cappello, vedrai ti starà bene, la domenica».
Fuori era l'alba, passavano i carri dei lavandaj; come portata dall'eco giungeva la voce dell'uomo del traghetto, là dove l'Arno piega verso la città, dirimpetto alla Nave; e vista in prospettiva, sul fondo di via Aretina, la ciminiera delle Cure, col suo pennacchio, era più alta del Campanile di Santa Maria del Fiore. Egli respirava a pieni polmoni, il filone imbottito sotto l'ascella, oltrepassava Porta alla Croce lasciandosi alle spalle il Mercato. Una di coteste mattine, gli ballavano nichellini e soldoni dentro la tasca, bevuto il grappino al Caffè del Canto alle Rondini, comperò un mezzo toscano e l'accese. Credeva che gli sarebbe girata la testa come quella volta in guardina, invece fu un'aggiunta di calore al calore della colazione e della grappa. Arrivato sul lavoro, sfregò al muro la cicca e la ripose nel taschino del gilè. Era sabato, e quella stessa sera, nel far le paghe, il caporale gli disse che dalla prossima settimana avrebbe potuto considerarsi mezzo muratore. Questa era la volontà dell'Impresario, l'Ingegner Badolati, che dirigeva di persona i lavori, andava su e giù dai «ponti» e la sua mano d'opera la sapeva valutare. Subito Metello pagò da bere, come doveva, ai compagni manovali e muratori della sua squadra. Egli era alto, agile, giovane, rispettoso; uno dei più anziani tra costoro, Renzoni, che questo mestiere lo faceva da trent'anni, alzando il bicchiere alla sua salute, esclamò:
«E bravo Cipressino».
Fu un soprannome che gli rimase.
CAPITOLO 4.
La sua relazione con Viola si protrasse tutto marzo, il marzo del 1892. Ci fu sempre il caldano ai piedi del letto, e un mazzo di giaggioli che Viola cambiava ogni giorno anche se non era appassito, sul cassettone. Metello non fu mai preso d'amore per lei; nemmeno si accorse di godere una donna in qualche modo eccezionale, che avrebbe lasciato un segno nella sua vita. Se non altro: il gusto della pulizia, della proprietà d'abito e di modi che Viola gli istillò ed ai quali egli si assuefece, volendo piacerle, e perché i loro rapporti, sulla cui durata egli non si era mai illuso, potessero continuare il più possibile. La sicurezza, infine, nel trattare con le donne, dopo l'esperienza fatta con Viola. Quella baldanza che o si acquisisce a vent'anni o mai più. La nostra fortuna con le donne è subordinata al nostro successo di esordienti che ci persuade di essere nati, almeno sotto questo punto di vista, fortunati. E di cui le donne subiscono il richiamo: è come ne portassimo addosso diciamo l'odore. Càpita a Don Giovanni, come càpita a D'Annunzio, o a un muratore. Viola e non Michela fu l'esordio di Metello, la sua iniziatrice.
Tutto quello che essa gli offriva, non soltanto se stessa, ma quei pochi denari e il filone imbottito, il cappello, la spilla, i gemelli da polso: c'era, su ogni verso, raffigurato un cane; Metello li rivendé a Napoli, quando vi fu a compiere il servizio militare: non lo imbarazzava. Dal momento che Viola poteva disporne senza sacrificio, egli non si sentiva umiliato. Ed aveva troppo equilibrio, troppo senso dell'opportunità, e una naturale riservatezza, per lasciarsi provocare dai pettegolezzi che tutt'attorno Rovezzano, si facevano su Viola. Quegli ortolani e lavandaj, mentre caricavano i carri, o sedevano all'osteria, si tiravano il berretto sulla testa col dito, ed esclamavano:
«Macinerebbe un reggimento, la Violona».
Dicevano che suo marito, «un pezzo di figliolo che non passava da quella porta», si era ridotto in cenere per tenerla buona. Perciò era morto, e per il patema d'animo della gelosia che lo rodeva. C'era, nondimeno, in queste volgarità, come una specie di rispetto, di soggezione.
«Per il resto» dicevano «è una signora. Istruita, lavoratrice».
Durante i cinque anni di matrimonio, nessuno aveva avuto di che malignare alle sue spalle.
«Ma prima di sposarsi».
«E subito dopo essere rimasta vedova».
«E ora poi».
A sentirli, Viola ne faceva "di pelle di becco"; ma la rispettavano, siccome non aveva mai dato scandalo e «quel che dona» concludevano «è roba sua».
Battevano le mani sul tavolo, in una gran risata. La verità era che anche senza scandalo, le cose si risanno; uno è messo alla porta, è giovane, beve un bicchiere di vino, e gli si scioglie la lingua. Era diventato il segreto di Stenterello: «come in Africa gli schiavi», i braccianti a opra, qualche ora della giornata, non li sceglieva il suocero, ma lei. Ruffiani e sordi loro malgrado, i due vecchi li rigirava come dei burattini.
«Travedono per i suoi occhi».
«Come se volere o volare non gli avesse ammazzato il figliolo».
«Ora non esageriamo. Lui avrebbe sempre potuto dire: 'bambina, tirati in là, voglio dormire'. E se l'uzzolo non le passava, la prima volta che l'avesse vista svoltare con qualcuno, sotto al bastone».
Qui affiorava la causa che muoveva quelle lingue, e tutto si spiegava.
«La lasceranno erede d'ogni cosa, della terra e della casa. Non è molto, ma nemmeno è poco».
«Aggiungici quei due occhi e quel "davanzale"».
E bicchieri scolati, e sacchi lasciati cadere dalle risate.
«Lei è come fosse digià la padrona. Si cura di ogni cosa. Non le resta che andare in piazza a contrattare. Ma preferisce stare un'ora di più a letto, la mattina».
«E non c'è che dire, è sempre a giorno. Le novità non le lascia freddare».
«Se uno si stacca da sé, le fa un piacere. Altrimenti, ci pensa lei, quando è stufa: lo butta giù dal letto e da quel po' di lavoro».
Questo si diceva all'osteria, allorché si rimaneva in pochi e si era bevuto e ci si dimenticava di doverle del rispetto.
«In due anni, che si sappia, quanti ne avrà cambiati?».
Si richiamavano alla mente dei nomi, uno dopo l'altro, aiutandosi sulle dita, e scoprivano ch'era tutta gente che stava per fare o era appena tornata dal servizio militare, e ripetevano la volgarità del reggimento e della Violona. Ma parlavano per Metello, gli ammiccavano, e lui scuoteva la testa, sorrideva, stava allo scherzo, alla battuta. Né riferiva a Viola i discorsi uditi all'osteria, siccome mai essa gli aveva dimostrato di interessarsene. Anche i loro convegni, curava sempre meno di mantenerli segreti, o così a lui pareva. Egli dubitò che la suocera ne fosse a conoscenza. Una mattina, incontrandola che tornava dalla messa, si era tolto il berretto e la vecchia lo aveva guardato in un certo modo. Ma come di rassegnazione più che di rimprovero.
«Tua suocera mi deve aver visto uscire di casa, l'altra mattina».
«Loro vedono quello che voglio io» disse Viola.
Allora, la gente aveva ragione! Ma egli non andava più oltre col pensiero, Viola era lì e lo invitava a riversarsi sul suo seno. Il suo profumo, l'animosità e la sapienza con cui gli si dava, lo stordivano. E di sera in sera, le sue domande, fatte apposta, sembrava, per mettergli timore.
«Se rimango incinta, tu che fai?».
«Di solito, in questi casi ci si sposa».
«Toglitelo dalla mente fin da ora».
«Cosa volevi ti rispondessi?».
Ella rideva, era uno squittìo, e gli chiudeva la bocca con un bacio.
«Alla tua Cosetta, bambini glie ne hai dati?».
«Era Cosetta una bambina, non mi frastornare».
Poi cadeva schiantato nel sonno, mentre Viola lo carezzava.
All'inizio dell'estate, nella settimana di San Giovanni, si vedeva lontanissimo Palazzo Vecchio illuminato, una sera Metello stava acquistando mezzo toscano, dentro l'appalto, e alle sue spalle qualcuno, come rivolto a un interlocutore, disse:
«Cosa non bisogna fare, per mantenersi la posizione! Anche darsi al fumo, dal momento che gli piace il fiato di sigaro».
Metello si voltò, colui che aveva parlato lo conosceva. Era Moretti, l'uomo che egli aveva sostituito, se non nello zappare la terra, nel letto di Viola. Era un giovanotto alto quanto lui e della sua stessa età, dagli occhi chiari e i baffi arricciolati. Faceva lo stuccatore e doveva essere stato disoccupato: l'aveva intravisto alla Camera del Lavoro, e poi ritrovato a Rovezzano dove era nato e dove abitava. Dapprima aveva trascorso molte sere in sua compagnia: una volta erano andati dietro a due sigaraje, poi l'amico si era arreso siccome le ragazze abitavano dalle parti del Madonnone. «Con la "pratica" che ho alle mani, non voglio correre rischi» gli aveva confidato. Non gli aveva detto altro, forse perché aveva creduto di avergli detto troppo. Era anche lui socialista, si erano trovati bene insieme, ma da un certo giorno Moretti gli aveva tolto il saluto. E siccome in certi casi, si diventa vili, per non approfondire la verità e non vedersi costretto a parlarne con Viola, Metello lo aveva ricambiato della stessa indifferenza.
Ma adesso si trovavano nell'appalto, con tanti occhi addosso e tanti orecchi tesi. Metello fece lo sguardo di chi non capisce e chiede spiegazioni; e Moretti subito l'accontentò, siccome disse, ironico, preciso:
«Come stai a viole?».
Tutte quelle facce intorno, e ora una gran risata. Metello non si poteva sottrarre. Si avvicinò a Moretti di un passo, con aria ancora più stupita che offesa, e quando fu sicuro d'arrivar per primo, gli dette un pugno in viso. Fu una cazzottata che continuò fuori l'appalto, sul piazzale, con la gente che gli faceva cerchio e tentava, ma senza troppo calore, di dividerli. E' la legge: quando due si picchiano, si picchiano, c'è un motivo.
Finché qualcuno disse: «Arrivano i Carabinieri».
Subito i due avversari si ricomposero come poterono, e all'unisono si buttarono le braccia al collo.
«E' stato un incontro a pugno chiuso. Come quelli che fanno ora in America».
«S'è letto sui giornali e ci siamo voluti provare» dissero.
«Sono degli "sportimanne"» commentò una voce.
I Carabinieri la presero per buona; ed essi entrarono nel Caffè e si guardarono allo specchio, distanti l'uno dall'altro. Avevano due facce che sembravano mascheroni. Un labbro di Metello, quello di sotto, si gonfiava a vista d'occhio, come quando si soffia dentro l'involucro di un pallone.
Preferì non farsi vedere da Viola, così conciato: disertò il letto dell'amante che l'aspettava. Cotesta sera, e per sempre. Non l'esito del pugilato né l'opinione della gente, lo decise, ma le parole con cui l'aveva accolto il caporale, l'indomani.
«Ti sei picchiato per la politica?».
«No, è stato per una donna».
«Per una donna o per chi vuoi tu, mi dici, ridotto in coteste condizioni, cosa mi rendi sul lavoro? E' da un po' di tempo, proprio da quando non sei più manovale, che batti la fiacca, come rimediamo? Oggi intanto, vai a casa, vai. Torna domani».
Nemmeno Viola l'aveva più cercato. Egli aveva perso il lavoro con cui arrotondava la giornata, ma presto gli sembrò d'esser rinato. Tutto quel tempo, durante il quale aveva pure intensamente vissuto, a ripensarlo, gli sembrava come avvolto dentro una cosa buia. Come aveva vissuto? Dall'alba fino a sera sempre in attesa che facesse scuro. Ora il caporale gli aveva restituito la stima; e ragazze non gli sarebbero mancate. Questo era ciò che gli restava della sua avventura con Viola. Le doveva della riconoscenza? Provava piuttosto, per lei, una decisa avversione. Era meglio se non la rivedeva: pensava non occorressero delle spiegazioni. Ed evitarla era facile: bastava ignorare la Via Privata che conduceva diretti alla Nave, lei non usciva dai suoi orti, se non per la messa la domenica mattina: tutto le andava incontro, gli uomini che si sceglieva, come la sarta, come la donna che una volta la settimana le lavava la testa e la pettinava.
Egli frequentò sempre di più la Camera del Lavoro; e dopocena il Caffè, l'appalto e l'osteria; quei lavandaj tornarono a chiamarlo se c'era una fatica. Con Moretti erano di nuovo amici, erano della stessa classe, forse avrebbero fatto il soldato insieme: poi Moretti, alla visita di controllo, venne riformato, per un difetto al cuore che non aveva mai supposto d'avere. Così passarono dei mesi, venne l'autunno del '92, e come s'impratichiva sempre più del mestiere, lasciava una ragazza e si fidanzava con un'altra.
Dapprima fu una pantalonaja, stava di casa in Parione, e non voleva camminare a braccetto. «Qualcuno ci può vedere». E non si lasciava baciare, nemmeno in via del Purgatorio ch'era senza lampioni. «Non mi ha mai baciato nessuno. Prima vieni in casa». Era sì tutta petto, ma aveva il naso a patata, la bocca larga. «Ciao, bambina». Non gli riuscì mai, anni dopo, quando l'incontrava, di ricordarsi il suo nome. Ma Pia, un tipo fine, una ricamatrice, la indusse, una domenica, a raggiungere, passo passo, l'Albereta. Lei si faceva baciare, e poi subito: «Quando vieni in casa?». La seconda domenica si rifiutò di tornare all'Albereta. «Se non hai intenzioni serie è meglio che ci lasciamo». Piangeva, gli era venuto il singhiozzo; egli si commosse. «Domani, domani sera. Dillo ai tuoi genitori». Le passò il singhiozzo e fu tutta un sorriso. Non all'Albereta, ma dietro il Giramontino, e fino a un certo punto, ma fino a quel certo punto, lei si lasciò fare. Si era tolta il cappello e l'aveva deposto sull'erba; i suoi capelli erano un oro, e le sue mani, bianchissime, di fata: ne avesse presa una, senza sforzo gliel'avrebbe potuta stritolare. Era bella come un quadro; sembrava una di quelle illustrazioni dove si vedeva la Regina Margherita nel Parco di Racconigi. «Domani... Domani...». Ma quella sera, Metello ci ripensò. Gli conveniva? Non era un po' troppo delicata? E fu la volta di un donnino che gli arrivava alle spalle. Lei davvero sembrava che una mano invisibile la stringesse alla vita, e come si preme un tubetto, schizzava fuori il seno: le stecche del busto ci stavano per figura. «Mi chiamo Garibalda, ma in casa mi chiamano Baldina». Si fece baciare sull'angolo di via del Purgatorio, gli morse la lingua, e poi scappò. Faceva la sarta, l'indomani egli era ad aspettarla sotto la «scuola». Ella apparve, tutta rossa in viso, gli si fece incontro e senza riprendere fiato: «Vada via, per l'amor di Dio» gli disse. «Mi ero messa con lei per far dispetto al mio fidanzato, ma stamani abbiamo fatto pace. Io gli ho confessato tutto, e lui ha detto che si augura d'incontrarla, prima o poi. Per l'amor di Dio!».
Di frasca in frasca, finì che Metello venne chiamato sotto le Armi e partendo, non lasciava nessuno che l'avrebbe pensato. Gli scrissero, e non sempre, se lui scriveva per primo: quelli del Belgio, per dirgli una volta di più che tra Rincine e là, la loro situazione non era certo migliorata: ora anche Olindo lavorava in miniera, e in quanto al servizio militare, il Console si era messo d'accordo con la Società per ottenergli una proroga; il Moretti, di tanto in tanto gli dava le notizie di Rovezzano: ora Viola pare ci avesse un lavandaio; e il Chellini, col quale si era ritrovato sul lavoro qualche giorno prima di partire. Una postale, infine, gli venne da Corsiero, dal quale, portandogli sul ponti i cofani della calcina, aveva ricevuto le prime nozioni del mestiere. Era un primomuratore, sapeva fare i giochi di prestigio con le carte e aveva la passione di leggere, ma non libri di studio, d'avventure. Ora, gli scriveva, doveva entrare in Ospedale per operarsi a un rene, ci aveva «battuto» anni avanti precipitando dalle impalcature, e ne avrebbe approfittato, «c'è sempre un compenso alla disgrazie», per rileggersi in pace "I Tre Moschettieri" e "Vent'anni dopo".
Ma tutti, mai una volta che avessero accompagnato le buone nuove e gli auguri, magari con un cavurrino! Durante tre anni di ferma, ricevé cinque lire, gliele mandò Del Buono a cui, come a Pescetti, si ricordò in occasione del Primo Maggio, con una cartolina. Pescetti gli dové rispondere con tante belle parole che Metello non lesse mai poiché la lettera, intestata Camera dei Deputati, l'avevano aperta al Comando e sequestrata. Come risultato, per il fatto di avere scritto a un Onorevole, e specificamente a quello, gli inflissero trenta giorni di semplice e quindici di rigore.
Era ancora in cella quando ricevé una lettera di Moretti, in cui l'amico lo informava che Viola si trovava incinta, aveva la pancia forse di otto mesi ormai, e nessuno era ancora riuscito a sapere chi fosse stato. Se qualcuno, gli riferiva Moretti, si mostrava incuriosito dinnanzi a lei, lei gli diceva: «Guardate, guardate pure. Finalmente sono piena. E lo terrò tutto per me, questo bambino, è solo mio. Ho avuto dei ganzi, sissignore, me li salutate. Questa porta, d'ora in avanti, resta chiusa».
Moretti concludeva: «Fatti tutti i calcoli, io ho pensato, che ne dici Metello? Fosse tuo?».
CAPITOLO 5.
L'età che va dagli anni ventuno ai ventiquattro, è decisiva per la vita di un uomo, per un figlio di popolo in specie. Egli si è definitivamente licenziato dall'adolescenza; ha conosciuto l'amore, la fatica, il dolore e tutto sembra averlo irrobustito. Il suo sangue è una rosa che stioppa; la sua ansia di vita morde i giorni come il bambino morde la mela. Egli ha fiducia in se stesso, e negli uomini, anche se crede di diffidarne, come nelle cose che tocca, nei colori che vede. La natura, di cui egli è una forza, coi suoi turbamenti e tentazioni, comunque lo esalta. Ha interessi, affetti, ideali che assorbono interamente i suoi entusiasmi, le sue ritensioni, e la sua fede. Quale che sia. E quali che siano la sua educazione, la sua levatura mentale, le sue risorse morali, siccome il suo corpo è sano e l'assiste, egli ha il mondo nel pugno, l'avvenire davanti a sé, un destino a cui non suppone di potersi sottrarre. E' a questo punto che la Patria lo chiama per compiere il servizio di leva. Lo arresta nel suo slancio, brucia la strada alle sue spalle, eleva un muro sul suo avvenire. Al suo ritorno, con un'esperienza che non potrà in nessun modo agevolarlo tanto è estranea alla realtà e alle esigenze della vita civile, egli dovrà ricominciare daccapo. Sarà stato, nel migliore dei casi, come prigioniero dentro un pozzo, diciamo dentro un vaso di spirito, un acquario. Nei tempi di pace, si fa il soldato come da ragazzi si fa una malattia. E la si offre alla Patria, al cui nome non possiamo restare insensibili. Durante alcuni anni, la nostra vita si ferma, vegeta, il nostro corpo suda e ingrassa, la «sboba» lo nutre. Il nostro cervello si piglia questa lunga vacanza. Per minuscoli che fossero stati fino allora i nostri pensieri, essi abbracciavano fatti e cose diversi, li agitavamo, se ne tiravano delle conclusioni Ora, la prima regola che ci viene imposta è di non avere un'opinione, un punto di vista, un'iniziativa personali. Trascorre questo giorno sterminato, fatto di tre anni, di millenovantacinque albe e tramontar di sole, tra una sveglia, un rancio, un'adunata, una marcia, un'ispezione. I nostri problemi sono tutti lì: le pezze da piedi, la gavetta da lavare, le scarpe la bajonetta le giberne da lustrare, il meccanismo di caricamento e sparo, nuovo modello '91, il giuramento da mandare a memoria, la branda o i «castelli» da rassettare, pancia in dentro e petto in fuori, il sergente il maresciallo il tenente il capitano: secondo plotone terza compagnia; e poi: battaglione reggimento divisione... Siamo stanchi, la sera, più di quando si lavorava. E coi soldi che mancano, dove si deve andare? La cinquina se ne va in un'ora, c'entrano dieci sigarette e un litro di vino. A Napoli c'è il Vesuvio, si vede di lontano, c'è Posillipo, Mergellina, Santa Lucia, il Vomero è una collina, luoghi più che conosciuti sentiti dire. Esci di caserma, ti fermi alla prima bettola e ci trovi l'ora della ritirata. O vai in Villa Comunale dove vengono le serve, ma bisogna essere di bocca buona, essere nati e rimasti contadini. Le amicizie, che si fanno tra commilitoni, sembra non debbano mai finire: siamo in realtà tanti condannati che contano «meno cento, meno novantanove, meno novantotto» i giorni che li separano dalla libertà. Allorché il treno ti riporta in congedo, ogni sussultare delle ruote sulle rotaje ti fa dimenticare una di quelle amicizie che pareva avessero a durar tutta la vita. Ne scordi, di lì a un mese, perfino il nome. «Mascherini? ci ho fatto il soldato insieme. Dov'è andato a finire? Un ragazzo in gamba». Non hai altro da dire. Hai servito la Patria, ti sei affezionato a un tenente o un capitano: questo ti resta; non sei scontento, è la tua laurea di uomo; è una costumanza ed è un dovere che non ti dispiace di aver rispettati, scuoti la testa e sorridi. Ora, a tu per tu con la vita di prima, scopri di dover ricominciare tutto daccapo.
Metello, come lui diceva, «scontò» trentasei mesi e non si sottrasse alla norma; anche nella sua vita, furono tre anni su cui venne tirato un frego. Conobbe Napoli per disteso, ma nell'unica direzione che dalla Caserma dei Granili conduce fino a Bagnoli: una marcia ripetuta mesi e mesi, con lo zaino affardellato pesante venti chili, e due «alt»: alla Torretta e poi ad Agnano. Si arrivava sfiniti, si crollava su un prato, e si rientrava; altri quindici chilometri, questa volta tutta una tirata. Il signor maggiore camminava in testa, batteva il frustino sui gambali. Col timore d'essere mandati in Abissinia: c'era stata Dogali, Adua: si tendeva l'orecchio ogni mattino, dalla camerata, alla voce dello strillone, e si guardava negli occhi il sottufficiale di giornata. Si scampò. Anche si scampò di venir distaccati in Sicilia a dar la caccia a quei banditi: fu mandata, del suo Reggimento, una sola compagnia, la terza, e tornarono, del resto, tutti vivi. Gli si ventilò la possibilità che in quanto muratore dovesse passare dalla Fanteria al Genio e di essere trasferito a Vicenza, all'altro capo d'Italia, ma era in carcere in quei giorni, per via della lettera di Pescetti, e ci rimase. In prigione, a Napoli e in Fanteria.
Ora, lo tenevano d'occhio. Erano state chieste a Firenze le informazioni secondo le quali egli era un «socialista anarchico», uno schedato. Il sergente gli disse:
«Tu, coi tuoi precedenti, te li sogni i gradi di caporale».
Egli rispose, ma non per spregio, gli sembrò di dire una cosa spiritosa:
«Diventar "caporale" non è mai stata la mia ambizione».
Usciva allora di prigione e ci tornò per una terza settimana.
Questo gli risparmiò di far parte dei plotoni che dovettero caricare gli scioperanti pastaj riunitisi sulla piazza di Gragnano; già gli avevano tolto l'onore di sfilare in parata per la Festa dello Statuto. Ma anche, siccome era muratore, lo misero al lavoro: c'era sempre una crepa sul muro, un davanzale, uno scalino da rattoppare.
Napoli fu per Metello il Rettifilo, via Toledo, Piazza Plebiscito, e via Sergente Maggiore, via de' Fiorentini, quando gli sembrava di non aver altro da fare e si voleva prendere una distrazione. Non soltanto la mancanza di denaro, ma la divisa un poco lo umiliava; e dové adattarsi a quelle domestiche della Villa Comunale, seppure non erano, per lui che aveva avuto Viola, proprio il suo tipo. Col tempo, "fece ghega" insieme a un livornese, uno di Cascina, un fiorentino di Porta Romana: Mascherini, che negli anni dipoi non seppe mai dove fosse finito. Leoni, quello di Cascina, riceveva denaro, suo padre era mobiliere, ed egli era tirato ma finiva per offrire. Fu un sodalizio che durò a lungo: si frequentarono le bettole di Forcella, del Vasto e del Pendino, rioni che chiamano sezioni, come chi dicesse Sezione San Niccolò o Madonnone. Ebbero a che fare con la gente, per quei vicoli traversi o tutti in salita, dove la miseria e la sporcizia erano pari all'animazione che vi si trovava. Entrarono, piuttosto che in via Sergente Maggiore, in alcuni di quei "bassi", dietro una sottana: ragazze tutte more di capelli, dai volti appassiti e i grossi seni. I bambini giocavano al di là della tenda. Non ci si toglieva nemmeno le mollettiere. Poi magari si restava a cena con tutta la famiglia, si diventava amici, ci tenevano in conto di figlioli: era gente come noi, come il livornese che non viveva meglio dietro la Darsena, come Mascherini che aveva il babbo fiaccherajo. E un po' ci si vergognava. Si vuotavano le tasche dell'ultimo soldino, come per farci perdonare. Cose trapassate nella memoria, viste e vissute da dentro la campana.
Erano avventure di Vico Gelso e Conte di Mola, nomi di un'intricata e irricostruibile topografia: a due passi, comunque, da via Toledo e dal Castello. Più in là c'era "basciopuorto", e poi Borgo Loreto: ci stava la "guapparia", non ci si poteva passare, se la ronda ti c'incontrava erano dieci di semplice e cinque di rigore. Si preferiva, certe sere, Teatro San Ferdinando dove c'era Pulcinella. Anche se si capiva poco di quel che diceva, la trama resultava chiara: Pulcinella faceva ridere come Stenterello perché come Stenterello aveva sempre fame.
Questo era il suo ricordo di Napoli, dove pure risiedé tre anni: tante immagini di un tempo in cui spontaneamente si era persuaso di non dover pensare ma saltare alla sbarra, marciare, ramazzare, mettere i tacchi uniti e la bajonetta in prospettiva a due palmi dal naso, durante il "presentat'arm!" Delle sue avventure degli ultimi tempi, in compagnia del livornese, di Leoni e Mascherini, già allora si perdeva il sapore, e il rimorso: la disciplina della Caserma, le cancellava. Ed avevano sempre la preoccupazione, non c'era giorno che un superiore non glielo ricordasse, di essere picchiati e spogliati ad indugiare in uno di quei "vichi". Perciò non tornarono quasi mai dentro lo stesso "basso" e non andavano mai più di due volte dietro la medesima sottana.
S'imparò, anche, a mangiate cose che non s'eran mai mangiate, che seppure si conoscevano, si disprezzavano e che quella gente, al contrario, inseguiva dandosi daffare tutta una giornata: le "maruzze" ch'erano arselle ma d'una diversa specie, le pannocchie di granturco lessate, i piedi di porco. Costoro n'eran ghiotti, forse perché erano sempre stati più poveri e meno raffinati di noi. «E' tutto dire». E s'imparò, infine, la loro lingua. Gli sembrò che quel dialetto non avesse più misteri: provavano in branda, prima del "silenzio", divertiti, a ripassarne il vocabolario, una trentina di parole, ma si poteva avere e dir tutto con quelle sole: "iammo 'ncoppa abbascio; guaglio' picceré paisà; appiccia stuta arapi scetete cucchete; aiza pava chiano-chià chedé; mammeta patete sora frate; ricchione mazzo purchiacca; pummarola pizza panzarotto cazone; jettasanghe vieneaccà chitevvivo vaffammocca fetentone; songo stongo numefido 'nguajato". Altre ancora, di cui mai compresero il significato, e che di volta in volta gli venivano rivolte come dei complimenti, come delle ingiurie? "npiso scapucchiò cavulicchiò ranciofellò".
Mascherini diceva: «Viva Garibaldi che ci ha rimescolato».
E un giorno la campana si solleva, l'acquario si prosciuga, si esce dal vaso di spirito, sei congedato e torni a respirare. Lentamente il cervello riesce a connettere più distesi pensieri, ma la libertà appena riconquistata, subito propone, e in termini inconfutabili e crudeli, il bisogno del pane e del lavoro. C'è tutto da ricominciare, con tre lire in tasca e il vecchio vestito di borghese, che ora ci va stretto ed ha perduto la sua tinta originale. A Firenze, cosa l'aspettava? Egli voleva credere che sarebbe stato facile riavere il posto in cantiere e potere affittare una camera, disporsi all'avvenire. Intanto, allontanandosi da Napoli, guardandola un'ultima volta dal finestrino del treno, fece questa riflessione: «Se non venivo qui a fare il soldato, chissà il mare quando l'avrei conosciuto».
E fu, senza ch'egli se lo dicesse, un modo di consolarsi e di pensare che dopotutto, anche dall'esperienza più negativa e più vieta, qualcosa si riesce sempre a salvare.
Metello non gli aveva risposto, due anni prima, così non era più in rapporto con Moretti. Con nessuno del resto, escluse le rare cartoline scambiate con Del Buono con Corsiero e con Chellini. E le notizie mandate e ricevute dai Tinaj, ch'erano sempre in Belgio, loro, in occasione delle ricorrenze. Rispondere a Moretti significava affrontare la questione, esprimere il proprio parere su Viola, e siccome era certo che la sua lettera avrebbe fatto il giro di Rovezzano, pubblicamente letta di appalto in osteria, aveva preferito tacere. Ora che ci andava ripensando, non aveva cambiato opinione. Nessun «richiamo del sangue» lo agitava. E l'atteggiamento di Viola, e più il suo silenzio, gli davano ragione. Se il figlio di Viola era suo, soltanto Viola lo poteva sapere, «e forse nemmen lei». Comunque, non era un fatto che lo commovesse. Pur conservando adesso un amabile ricordo di Viola, ma non affetto e tanto meno stima, non si sarebbe certo precipitato a bussare alla sua porta e indagare sulla paternità della creatura. Viola andava per i quaranta ed egli non aspirava alla terra ch'essa avrebbe ereditato dai suoceri. Gli sarebbe parso, oltretutto, d'esser comprato. Curiosità di rivedere Viola e di conoscere come si fossero sistemate le cose, non negava di averne, ma si sarebbe guardato dal far qualcosa che lasciasse supporre a un suo interessamento più circoscritto e preciso. Avrebbe, anzi, fatto addirittura a meno di tornare a Rovezzano, se non dopo essersi di nuovo sistemato.
Concluse le formalità militari, depositata al bagagliajo la cassetta di legno dov'era racchiuso tutto quanto possedeva, siccome era primo pomeriggio si mise alla ricerca di lavoro. Di cantiere in cantiere, al tramonto, dopo averne visitati sei, ed essere passato di rifiuto in rifiuto, non sapendo che fare, e trovandosi solo, più straniero che a Napoli in questa città che era la sua, prese la diligenza e andò a Rovezzano. Quando ne discese, raggiunto l'appalto, era dicembre, spirava la tramontana e tutti sembrava fossero tappati dietro i muri e gli sporti, non occorse ch'egli rivolgesse delle domande perché quanto lo incuriosiva non gli fosse immediatamente rivelato. Moretti non abitava più a Rovezzano: aveva messo laboratorio in città e vi si era trasferito.
«Coi quattrini della moglie, è naturale. Ha sposato, come non te l'ha scritto? la figlia di un impiegato del Catasto. Gli ha portato in dote cinquemila lire, e lui ci s'è aperto un laboratorio. Fa le cornici, oltre che stuccare. Hanno digià un bambino».
Così vennero all'argomento che premeva loro, e anche lui, erano andati all'osteria e brindavano al suo ritorno. Offriva uno di quei lavandaj presso il quale Metello aveva prestato dei servizi, anni prima: Fantoni, un uomo grosso e gonfio, che ogni parola che diceva sembrava la gustasse, come si succhiava i baffi intinti di vino.
«Ma anche Viola. Ti ricordi di Viola? Anche lei ha avuto un bambino, si è sposata. Roba di un pajo d'anni fa. Ce ne volle a persuaderla. Era gravida, poi partorì e ancora non si decideva a sposare. Le sarebbe piaciuto continuare a correre la cavallina. Ce l'hanno quasi costretta, e proprio i suoceri del suo primo marito, minacciando di diseredarla. E perché questo che ha sposato sarebbe stato capace di commettere una pazzia».
«Chi ha sposato?» chiese Metello, distrattamente più che poté, sorseggiando il vino.
«Ti preme, eh?» disse il lavandajo.
Così capì che tutti, come gli aveva scritto Moretti, gli attribuivano il figlio di Viola.
«Per curiosità» egli disse.
«E chi vuoi l'abbia sposata? Il babbo del bambino. Bonechi, Alfredino, lo devi aver conosciuto, ha lavorato anche lui da me, faceva il facchino, il bracciante, secondo gli capitava. Sposandosi s'è sistemato, ha risolto il problema. Stanno sempre in casa dei vecchi suoceri. Ha diciotto anni meno di lei. Vuol dire che quando lei, m'intendi? lui s'arrangerà. Come dice il proverbio? Quel ch'è fatto è reso. Intendiamoci, si fa per dire. Viola, a quanto si sa, è ridiventata una moglie modello, come durante il primo matrimonio. Questo sarà difficile si lasci ingannare: lei non ha più quegli anni e lui ha una salute! Insomma, s'è quietata. Travede per il bambino. Sembra la prima donna che abbia avuto un figliolo».
Poi gli dissero: «Lui ha trovato la vigna. In fantasia e in concreto. E' un bravo ragazzo. Vien sempre qui a bere. E appena è di libera uscita, vola a casa, e si dà daffare negli orti. Ma la notte deve dormire in caserma. Già, non ti s'è detto: è soldato. Gli hai lasciato la "stecca", anche se non vi conoscete! Lei ha unto qualche ruota e l'hanno fatto rimanere a Firenze».
Lo salutarono che l'oste metteva le bande; egli aveva parlato di Napoli, dei "bassi" e della vita militare.
Fantoni gli aveva chiesto: «Tu che intenzioni hai?».
Uno e poi un altro e poi un altro si erano schiarita la voce.
«Cerco un'Impresa che mi dia del lavoro».
«Qualche ora per arrotondare la giornata, da me la potrai sempre fare».
«Non ho ancora deciso se torno a stare di casa a Rovezzano» egli aveva concluso.
Era notte e anche l'ultima diligenza era partita; ma per quanto l'aria fosse fredda e tirasse la tramontana, un vento che sembrava annunciare la neve, non gli faceva fatica incamminarsi a piedi verso la città. Gli rimanevano due lire e pensava di non doversene disfare per un letto e domani non saper come mangiare. Avrebbe dormito, quella notte, dentro la stazione. Riposò invece nella camera di Viola, accanto a lei, col caldano ai piedi del letto e i fiori sul cassettone, ma senza commettere peccato, uscendone anzi, la mattina dopo, con una fiducia nella vita, se possibile anche maggiore.
Egli procedeva rasente le case, per ripararsi dal vento e badava, nel bujo, dove metteva i piedi; istintivamente, per accorciare il cammino, imboccò la Strada Privata che conduceva al traghetto e che, alla fine del muraglione posto a difesa degli orti contro il fiume, si riallacciava con via Aretina. Venne così a costeggiare la casa di Viola. Quando ci si trovò davanti, alzò gli occhi e vide la sua finestra mezza illuminata e lei dietro i vetri che teneva scostata la tendina. Ella si portò l'indice alle labbra e gli fece cenno di aspettare. Il cane si era messo ad abbajare, ma subito tacque siccome Viola era apparsa e lo carezzava. Metello la seguì attraverso il cancello, e poi la porta, il lungo corridoio fin nella camera ch'egli conosceva e dove in apparenza nulla era cambiato. Viola si chiuse la porta alle spalle e gli stese la mano. Lei si era cambiata: era come più bella e nello stesso tempo invecchiata. Metello non avrebbe saputo darsene una spiegazione. Forse per via dei capelli, che non più ondulati dai ferri e col gran rullo sulla fronte, ma tirati sopra le tempie e raccolti in una crocchia, sottolineavano l'ovale scarno del viso, e le pieghe tra le narici e gli angoli della bocca, segnate come rughe. Il vestito chiuso al collo, stretto alla vita, conferiva al suo corpo il risalto di sempre, lo stesso vi premeva il seno. Ma v'era come una pesantezza, una gravità in tutta la sua persona: erano i suoi occhi, ora anche Metello lo capiva, o meglio la loro luce, non più ilare e tentatrice come una volta, ma quieta, assopita. Dové distogliervi il proprio sguardo, e si sentì confuso.
«Come stai?» ella gli chiese, trattenendogli la mano. «Sono contenta di vederti, ti aspettavo. Ero in farmacia a prendere i sali per il bagno del bambino, quando sei sceso dalla diligenza. Non dubitavo che saresti venuto subito, stasera».
Così dicendo era andata verso la culla, sistemata allato del letto, e rincalzava le coperte sotto la gola del bambino. Questi dormiva su un fianco, la guancia sul cuscino, succhiava le due dita di mezzo, furbescamente riparandosi pareva, con l'altra mano. Cauta, Viola lo ricompose; la boccuccia rimase socchiusa, in un'espressione come imbronciata. Ella si rivolse a Metello:
«Ha due anni e due mesi, e non mi sono ancora decisa a fargli il lettino»,
Egli le stava di spalle, era intimidito più che commosso, e sempre più confuso. Non trovò di meglio che dire: «Come si chiama?».
«Simone. E' nato il giorno di San Simone. Se è vero il proverbio» aggiunse «da grande andrà pazzo per le ballotte e il vin nuovo».
Aveva messo due sedie una di fronte all'altra, al piedi del letto, davanti al caldano, quasi meccanicamente, come per sottolineare e con le parole e con i gesti, la propria disinvoltura.
«Siedi» gli disse. «Non ti vuoi sedere?».
Egli ubbidì, e lei gli fu di fronte, ma vicina. Lo guardava, e per non sostenere il suo sguardo, egli fissava le mani ch'ella aveva intrecciate per le dita e posava sul grembo. Le stesse che l'avevano accarezzato fino ad irritarlo, e ch'erano la sola parte apparentemente trascurata del suo corpo, per via del lavoro negli orti a cui si applicavano. Ci fu un silenzio, infine lei disse:
«Perché non mi guardi? Se uno di noi dovesse sentirsi in colpa, dovrei essere io».
«Colpa di che?» egli disse. La sua voce era risuonata stranamente ebete, roca.
«Ma sì che ti avranno parlato del bambino! Possibile non ti abbiano detto che è tuo?».
Ora egli sollevò gli occhi e la guardò in viso. Viola gli sorrise, poi con un gesto vezzoso, scosse la testa, e disse, lentamente, persuasa:
«Non è tuo. Non è di nessuno. E' soltanto mio. Nemmeno io, volendo, potrei dire chi è l'uomo ch'era qui con me la notte in cui l'ho concepito. Vedi, non mi vergogno. Mi sono mai vergognata? Io l'ho messo al mondo. Ed ora porta il nome di Alfredo. Doveva avere un nome, mi sono convinta che avevano ragione. Mi sbagliavo a credere il contrario. Con tutto il mio diploma di maestra, non pensavo ai dispiaceri cui sarebbe andato incontro, nella vita, senza avere un nome. Il mio non gli sarebbe bastato. Ero ancora esaltata dalla felicità di averlo avuto. Non riflettevo. Ma poi, sono tornata in me. Per questo ho sposato Alfredo, non perché mi mettessero paura le sue scenate. O perché quei vecchi mi minacciassero di lasciare gli orti alla Chiesa. I vecchi mi vogliono troppo bene, e gli sono troppo necessaria finché vivono. Lo dicevano, ma non sarebbero mai stati capaci di diseredarmi. E Alfredo, sì, mi si era affezionato, ma sarebbero bastate cento lire ogni tanto per tenerlo buono».
C'era un gran silenzio fuori, come in una notte di quattro anni prima, pareva che anche il vento si fosse placato, e malgrado il lume sul cassettone, dalla fiammella abbassata per non offendere il bambino, si vedeva al di là delle tendine e dei vetri, ch'era uscita la luna. Egli ascoltava Viola e faceva fatica a seguire le sue parole, si trovava impacciato, e non ancora riusciva a togliersi di dosso l'impressione ricevuta vedendola dietro i vetri della finestra: come di qualcuno che ti colga alle spalle di sorpresa. Disse:
«Io non ti avrei fatto nessuna domanda. Non avevo nemmeno l'intenzione di cercarti, per il momento. E' stato un caso. Mi dispiace se non ti trovi bene. Quando sono entrato m'era parso che tu fossi contenta».
«Ma certo che sono contenta» ella l'interruppe. «Sono contenta e sono felice. Non lo vedi com'è bello?» aggiunse, voltando la faccia verso il bambino. «Non lo vedi come cresce bene? E' sano come un agnello. Fa tutto un sonno dalle otto di sera alle otto di mattina».
Sembrò a Metello ch'ella sospirasse, ma di gioja di materna commozione, o forse fu soltanto il gesto ch'ella fece di ergersi sul busto un istante, mentre si toccava i capelli sulla nuca.
«L'ho aspettato tutta la vita, vuoi non sia felice?»
E si alzò, con un moto improvviso, come d'impazienza.
«Tu sarai stanco» gli disse. «Ti vuoi riposare? Stenditi pure sul letto».
Egli si schermì, e Viola credé di intuirne la ragione: «Siamo sicuri» lo tranquillizzò. «Non ci saranno sorprese».
Poco dopo, egli si era disteso, ella gli aveva tolto le scarpe e avvolto i piedi nel piumino, gli sedeva accanto, di lato, sulla sponda del letto, e gli diceva:
«E' la verità. Del resto, che giustificazione avrei a dire che lo facevo soltanto perché desideravo un bambino? Se dicessi questo mi parrebbe di fare proprio ora il peggiore dei peccati e avrei paura che Dio mi punisse nella mia creatura. Lo sai che ora vado a messa quasi tutte le mattine? Sono proprio diventata una donna perbene. Il tuo socialismo me lo permette?».
Egli sorrise, teneva le mani dietro la testa, e lei continuò:
«Un figlio, sì, lo desideravo. Lo desideravo fin da quando ero ragazza. Chissà non abbia scelto di far la maestra proprio per star vicino ai bambini. Ma anche e sopratutto, perché non dovrei essere sincera? Mi piaceva. Cambiare un uomo dopo l'altro, come a voi uomini piace cambiare una donna dopo l'altra, non è vero? Ora ne posso parlare senza esaltarmi. Ma allora! Non lo so: sempre mi auguravo di avere un bambino, e di volta in volta, appena sola, prendevo tutte le precauzioni per non averlo. Ero un po' pazza, dì la verità?».
«Certo» egli disse. Ed aggiunse: «Ad esser davvero sinceri, non ti ho mai capito un gran che».
«Ma ora sono rinsavita, ti assicuro. Sarei rinsavita prima, se non fosse morto il mio primo marito. Lo amavo, avevo lasciato la scuola per lui, avevo smesso di leggere dei libri per lavorare negli orti, e da allora è cambiata tutta la mia vita. Ma io gli volevo bene, era mio marito, un bambino da lui l'avrei voluto avere anche subito, ma non venne. Lui era malato, non morì come dicono i tuoi amici dell'appalto. Aveva un cancro al polmone, l'hanno sempre saputo. Ma gli faceva comodo di sparlare, erano tutti omaggi che ricevevo, tanti uomini che mi desideravano. Non me ne offendevo. Anzi! Da quando ero rimasta vedova, forse perché ero ancora giovane, mi aveva ripreso la stessa frenesia di quando ero ragazza. Ti dico queste cose perché tu capisca con che donna avevi a che fare».
Egli non le rispose di averlo sempre saputo; lo interessava questo inatteso e complicato e curioso discorso che Viola gli teneva. Il bambino si scompose nel sonno; ella andò a riordinargli le coperte, lo baciò lievemente sulla fronte. Era quale appariva: una madre vigile e serena. Cantò il primo gallo, la luna salì più alta sul davanzale. Viola tornò a sederglisi vicino e gli disse:
«Giudicami come vuoi, ora sono felice. Dapprima, quando mi accorsi di essere incinta, e non potevo più tornare indietro, forse allora toccai il massimo della pazzia. Mi ero fissata. Diventai gelosa della creatura che mi sentivo crescere, e nessuno mi sembrava degno di esserle padre, di prendersi dei diritti su di lei, e di chiamarla col suo nome. Ma la verità sai qual'era? Era che mi trovavo in balìa del Demonio. Finì di spiegarmelo il confessore. No, non il nostro prete qui di Rovezzano. E' vecchio, beve anche lui come i suoi parrocchiani, è una degna persona ma cosa vuoi possa capire? Andai in Duomo, in Santa Maria del Fiore, e mi confidai con un Monsignore. Fu lui a salvarmi. Mi spiegò perché mi stavo dannando. Mi stavo dannando perché non sapendo nemmeno io stessa l'uomo con cui avevo concepito, avevo perso la fiducia in tutto e in tutti, e mi difendevo a furia di egoismo, più egoista di quanto non fossi mai stata. Bisognava che ritrovassi l'umiltà, la fede nelle verità soprannaturali. Dovevo persuadermi che tutte le creature, prima di essere figli di un padre e di una madre, sono figli del Signore. E dal momento che un padre, su questa terra, il mio bambino lo doveva avere, perché non avrebbe potuto essere l'uomo che mi aveva avuta per ultimo, e che dimostrava di amarmi? 'Eppoi', mi disse Monsignore, 'chi ti dice che non sia proprio lui il padre carnale?'. 'Oh' io gli dissi, 'Monsignore! Me lo dicono le date'. 'Metteresti la mano sul fuoco?' mi chiese. 'No, questo no', risposi. Era passato quasi un anno e mezzo, il bambino aveva ormai più di sei mesi. Diventava sempre più difficile fare i conti».
S'interruppe, e siccome Metello la guardava socchiudendo gli occhi, come per sforzarsi di seguire il suo ragionamento: «Tu pensi che non ero pazza prima, ma sono pazza ora».
«No» egli disse. «Penso che sei andata in Chiesa e quei preti ti hanno sistemata. Ma se tu sei felice» ripeté.
Ed ella, di nuovo: «Tanto» esclamò. «La presenza del bambino mi ha tolto quegli istinti, mi ha rasserenato l'animo. Mio marito è buono, mi venera come so di non meritarmi. I due vecchi, che gli avrebbero potuto far la faccia scura, vedono in lui come il loro figliolo. Sì, non lo dimentico: lui ha ventidue anni e io, tra quattro mesi, entro nel quarantuno. Un giorno sarò costretta a rassegnarmi e non potrò che dargli ragione, ci sono preparata. Ma finché gli basto, lui non dovrà mai dubitare di me nemmeno un istante. E se quel giorno magari mi dovesse lasciare, io ci ho sempre il mio bambino» concluse. Poi disse: «Hai capito, Metello, perché ti ho aspettato dietro la finestra e ti ho voluto parlare?».
Egli si sedé sul letto, e disse: «Tu sei stata maestra, sei istruita, io non ho studiato, mi hanno allevato in campagna, sono un muratore. Quello che ho capito è che tu riconosci di aver commesso degli sbagli di cui ti sei pentita. Hai trovato un uomo che ti vuol bene e che ha dato il suo nome al bambino. Tu gli ricambi il suo affetto, gli sei riconoscente, ed è logico che come moglie non lo potrai mai tradire. Stanno o non stanno così le cose?».
Ella si fece seria, lo guardò lungamente, in silenzio, ed egli si sentì imbarazzato. Vide che su quei begli occhi spuntavano delle lacrime.
«E ora? Cosa ti metti a fare?» le chiese.
«Perdonami» ella disse. «Ti avevo giudicato male. Ti ho detto che ho studiato. E' vero. Ma non ho imparato nulla dai libri, come non ho ancora imparato abbastanza dalla vita».
Egli si rimise le scarpe, e si alzò in piedi; dandole le spalle, così come le parole gli vennero alle labbra, e fosse interessato, fosse soltanto commosso o generoso, nemmeno lui avrebbe saputo dire:
«Ma io non ho mai lontanamente pensato che il bambino potesse essere mio».
Era la verità, del resto, alla quale, fin dal primo momento, e da due anni, leggendo la lettera di Moretti, egli si era persuaso. Quindi Viola si era asciugata gli occhi, egli stava per andarsene, erano sulla soglia della camera, ella gli disse:
«Non hai bisogno di nulla? Hai già trovato lavoro?».
«Sì» egli rispose. «Domani rientro nel cantiere dove lavoravo prima di partire. Sono stato fortunato». E aggiunse: «Vado ad abitare in centro. Anche se ci vedremo, ci vedremo molto di rado, Rovezzano resta un po' fuori tiro».
Viola lo accompagnò fino al cancello sugli orti, era l'alba, e l'aria era gelida ma tersa, cantavano i galli, si vedeva lontano il pennacchio della ciminiera, veniva dall'Arno la voce del traghettatore.
«Torna in casa» egli le disse. «Fa freddo».
Ella gli stringeva la mano; il suo volto, a quella luce, era cereo, sfiorito, affaticato; e il suo sguardo non esprimeva più nulla, se non una riconoscenza della quale Metello si sentiva infastidito.
«Ciao» egli disse, e si staccò da lei. «Ciao Viola» ripeté, voltandosi un attimo. La intravide appoggiata al pilastro del cancello, che lo salutava con il braccio alzato.
Egli percorse la strada che gli era stata familiare quattro anni prima: la stessa scorciatoja, la stessa dirittura fino a Porta la Croce; fece un tratto di corsa per riscaldarsi; ed entrò nel Caffè del Canto alle Rondini che stavano aprendo in quel momento. Chiese un grappino e lo buttò giù d'un fiato. Pagò e gli restarono una lira e ottanta centesimi. Era quanto possedeva per ricominciare, senza un lavoro, un letto in cui dormire. Le sue condizioni non erano molto cambiate dal giorno in cui era transitato per la prima volta sotto Porta la Croce, dieci anni prima. Ma c'era che dieci anni erano passati, e nelle sue tasche, allora vuote, ballavano adesso trentasei soldi, e aveva un mestiere nelle mani, e la capacità, ora, non soltanto di reggere alla fatica ma di capirne la ragione. Mentre usciva dal Caffè per mettersi in cerca del lavoro che nemmeno quel giorno avrebbe trovato, Viola era digià tramontata dai suoi pensieri, nuovamente e per sempre avvolta nel passato al quale, come tutti gli uomini semplici, sani, spontaneamente connaturati alla realtà, Metello non chiedeva né di rivivere né di essergli, in qualche modo, di aiuto.
CAPITOLO 6.
Ricominciare era difficile, ma il pane non gli venne a mancare. Cadde la neve, come non ci si ricordava «dall'anno dal Granduca», e per una decina di giorni ci fu da spalare. Costì, ritrovò Pestelli, il vecchio amico di Betto, che aveva perduto di vista, sempre più magro e fitto di rughe, ma dallo spirito allegro, sostenuto dal vino che beveva. Ora che non ce la faceva più a reggere pesi, aveva abbandonato il Mercato e viveva più di prima alla giornata. «Quando proprio non trovo da battere un chiodo, mi faccio venir male, rimango lungo disteso in mezzo alla strada, finché non mi portano all'Ospedale. Là dentro mangi, ti riposi, ci sono sempre dei servizi da prestare, c'esce la mescita e il mezzo toscano. Ma dopo un po', anche se non mi buttassero fuori, scapperei io. Malgrado i finestroni, a me, lo stesso manca l'aria. Come se mi rinchiudessi all'Ospizio, a Montedomini, salvo mi sia». Su Betto, di cui tornarono a parlare, mentre spingevano la neve sotto i marciapiedi, e poi l'ammucchiavano, la caricavano sui carri e raschiavano il lastricato, disse:
«Io penso e credo che in Arno non c'è cascato, ci s'è buttato. Era una persona istruita, aveva vissuto bene, le sue idee non gli avevan portato che disgrazie, e alla fine, malgrado il vino che suzzava, l'acqua gli era salita alla gola prima di quella d'Arno Bisogna esserci nati per resistere a questa vita, guai se uno è in grado di fare dei paragoni. Io ho settant'anni, e son contento di come sto, non sono mai stato né meglio né peggio. L'importante è che non mi manchi il vino».
Era di San Frediano, aveva un figlio che vedeva «ogni volta che la luna copre il sole».
«E' piccina Firenze, ma lo stesso ci si può sparire. Il mio figliolo sta di casa al Ponte alle Mosse, fa l'imbianchino, ci ha la sua famiglia, cosa vuoi vada a rompergli? Non voglio regali da nessuno».
Dormiva nel retrobottega di un cenciaiolo, in via Chiara, uscio a uscio con una Cantina, così si sentiva al sicuro, e fu lui ad offrire a Metello di dividere il suo letto, che era grande perché grande gliel'avevano regalato. Conosceva mezzo mondo, non soltanto tutte le bettole, ma la gente che vi capitava e persone di un certo riguardo che una volta l'anno gli camminavano a fianco. Era stato in gioventù anche lui imbianchino, e ventenne era scappato a Roma all'epoca del Vascello, ci si era incamminato a piedi ed era arrivato in tempo per le ultime schioppettate e per finire a Castel Sant'Angelo un pajo di mesi, cose di cui nemmeno più si ricordava.
«Cose di gioventù» diceva. «Ma a quanto pare, sembra si avesse ragione. Betto, per la verità, era di parer contrario, e chissà non fosse proprio lui nel vero. Comunque, Garibaldi non so come fosse fatto. Né Aurelio Saffi né Mazzini. Dicevano che c'erano, li rammentano sempre nelle cerimonie. Cosa vuoi? Io fui visto e preso. Mi avevano dato un fucile, ma feci appena in tempo a sparare mezza giornata. Ora il venti settembre, mi metto la camicia rossa e vo in corteo. Capirai, è una solennità, tu sei in divisa, e tutti ti pagano a bere».
Si ritrovò più volte con Pestelli, durante quel mese, e non soltanto a dormire: fecero dei traslochi, ci fu una macchina da cucire che ritirata alla stazione si dové portare in una casa del Gelsomino, e tre giorni di fila, davvero a piantar chiodi e seminare addobbi dentro la Pergola che si trasformava «in un angolo di China», per il Veglione di Carnevale. La mattina si alzava all'alba e andava a questo o quel cantiere, sempre per farsi vedere, e perché lo tenessero presente e in nota, nel caso di bisogno. Ci tornava la sera, quando quei muratori staccavano dal lavoro, si accompagnava con loro e ci scappava quasi sempre una mescita, un giornale da leggere, una novità da imparare. Tra essi non c'era Chellini, col quale Metello si era ripromesso a lungo di intrattenersi e di parlare. Chellini si trovava a Portolongone, e ci sarebbe restato altri cinque anni almeno, a tanto l'avevano condannato. C'era stato un corteo, il primo maggio del '95, doveva parlare Turati, venuto apposta da Milano, ma erano sopraggiunti i soldati a sciogliere il comizio e Chellini, ch'era accanto all'alfiere e alla bandiera, per difenderli, aveva dato un cazzotto al maresciallo. Gli aveva rotto, dissero, la mascella e incrinato lo zigomo. Era rimasto libero un anno, tra l'una e l'altra condanna, non aveva fatto in tempo nemmeno a sposare; di tanto in tanto si faceva una colletta per sua madre.
E spesso, lasciati i muratori, andava alla Camera del Lavoro: spazzava la stanza e spolverava il tavolo di Del Buono, non c'era altro da fare. Era spoglia, nuda di simboli, «la cittadella dei lavoratori». La dominava, al centro della parete, un ritratto di Marx, dalla faccia affogata tra zazzera e barba, e sotto le parole: "Proletari di tutto il mondo, unitevi". Ci voleva poco: bastava si fosse in venti e la stanza era piena, si discuteva sulla soglia e per le scale. Del Buono aveva cento spiriti, trovava per tutti una parola. «Non vi pare?». La realtà era che lavoro non ne usciva. L'edilizia era in un momento di crisi, nelle campagne c'era carestia, andava bene per i tessitori di Prato, per i ceramisti di Doccia che lavoravano a turni pieni, e le Fonderie aprivano un secondo capannone. Ma uno, si può dare a un mestiere che non è il suo?
Ci fu, in cotesti giorni, uno sciopero di lavoranti fornaj che resistettero una settimana in mezzo all'ostilità della popolazione, che diceva: «Abbastanza il pane rincara, ci manca che smettano di cuocerlo addirittura». Quei lavoranti stamparono un manifesto in cui era scritto: «Il pane rincara e a noi pretenderebbero di ribassare i salari, sappiate questo o cittadini». Finirono per spuntarla, riebbero quanto percepivano fino a due mesi prima e in più strapparono il soprassoldo della notte sulla domenica. Ed anche le sigaraje erano in agitazione: Pescetti apriva bocca e gli metteva addosso l'argento vivo.
Una sera Metello accompagnò Del Buono che doveva tenere un comizio all'uscita della Manifattura di San Pancrazio. Era già bujo, e la piazza illuminata dal solo lampione, ma sufficiente perché, standoci in mezzo, si potessero vedere. La maggioranza era formata da gran belle figliole. Richiamati dal baccano, erano accorsi quegli imballatori di via de' Federighi, i coltellinaj e i facchini di via della Spada e via del Moro: ci si divertivano, e non potevano non convenire che avessero ragione. Le sigaraje non chiedevano aumenti, ma che i locali di lavoro fossero un po' più cristiani, e vi circolasse l'aria: nel corso dell'ultima settimana se ne erano ammalate altre tre, e quand'una arriva a sputar sangue, non ci sono cure, è questione di mesi o di anni, ormai è spacciata. E avevano da ridire sulla perquisizione: non sulla perquisizione in quanto tale, ne riconoscevano il diritto, ma protestavano di doversi mettere in sottoveste tutte le sere: dove avrebbero potuti nasconderli, i toscani e i pacchetti di trinciato?
«Eh, giusto lì, ma non fatemi dire delle eresie, se no mi viene il rosso in viso!».
Questa era una di loro che parlava, Miranda: una bionda dagli occhi belli e spiritati: con la fine del mese l'avrebbero licenziata per «indisciplina, proselitismo all'odio di classe e scarso rendimento sul lavoro», dal momento che multe, sospensioni e romanzine non erano servite a farla ravvedere.
«Non parlo a nome mio» ella gridava. «Mi senta l'avvocato Bruschi dietro la finestra, e lo riferisca al Ministero».
Su quella finestra, all'ultimo piano, si chiusero dall'interno le persiane.
«Non si nasconda, mi stia a sentire. Io un lavoro lo trovo sempre, so vendere in piazza, fare la treccia e imbiancare i panni. Mi troverò anche meglio, senza dipendere dal vostro lercio Stato».
Non poté finire, e nemmeno Del Buono riuscì a prendere la parola: si udì uno squillo di tromba e irruppero i soldati, in testa il maresciallo e il trombettiere. Fu un parapiglia, ma anche un fuggi-fuggi generale. Miranda era nel mezzo della mischia; e Del Buono, a tu per tu col maresciallo, cercava di discutere. Costui lo mandò avanti con uno spintone, e per riprendersi, Del Buono dové piegare i ginocchi e poggiare a terra le mani. Metello si era fatto largo, vide Del Buono così piegato, e portato dall'istinto, fece per aggredire il maresciallo.
«Salani» gli gridò Del Buono. «Fermati, ti vuoi rovinare?».
Ma ad impedirgli il gesto, non furono queste parole o la propria volontà, ma due soldati che lo immobilizzarono. Erano giovani come lui e indossavano la divisa che fino a un mese prima anche lui aveva vestito: gli bastò accennare, ma energicamente, un moto di resistenza, per trovarsi libero e poter scappare. Corse fino a Piazza Goldoni, dove si era raccolta la più parte delle sigaraje fuggite all'apparire dei soldati.
«Miranda l'hanno presa?» gli chiesero. E commentarono: «Finisce che la mandano al domicilio coatto come suo padre, povera figliola».
«E Del Buono?».
«Forse hanno preso anche lui» disse Metello.
«Allora, cosa si fa? Pescetti è a Roma».
Era il gruppo delle più irresolute, delle più timide diciamo, o meglio, delle meno coraggiose e lottatrici, perciò erano fuggite. Ma anche, ciascuna di loro, dopo le ore del lavoro, aveva una casa che l'aspettava, un fornello da accendere, dei ragazzi da smoccicare. Sul fondo di via del Moro apparve il drappello dei soldati in colonna, anche gli omnibus e le carrozze si erano fermati, la gente riparava sui marciapiedi, il gruppo delle sigaraje tornò a scompigliarsi, chi imboccò Ponte alla Carraja chi le stradette laterali: nel gesto ch'essa fece per fuggire, una di costoro venne a scontrarsi con Metello, egli la riparò e istintivamente la trattenne per una mano.
«Mi lasci andare» ella gridò.
Così si ritrovarono l'uno accanto all'altra, sul marciapiede e poi scantonarono per il Lungarno. Era una bruna dalla gran corona di capelli attorno il capo, la fronte tutta libera, e gli occhi come d'oro. Si fermarono un attimo sotto un lampione del Lungarno: lontano, il drappello dei soldati passava tra la gente. Lei sorrise; aveva il viso sciupato, ma quegli occhi lo illuminavano. Una cicatrice, piccola ma che si vedeva, dalla fossetta sotto il naso fino a metà labbro, un po' la deturpava e un po' l'illeggiadriva. Ora rideva d'aver avuto paura: aveva i denti bianchi e fitti, uno splendore. Dimostrava vent'anni, e forse non li aveva. Gli posò una mano nella sua: «Senta come sono diaccia» gli disse. Poi gli chiese: «Lei è il fidanzato di chi? Non mi pare d'averla mai vista all'uscita della Manifattura».
«Ero venuto per Del Buono» egli rispose.
«Ah» lei esclamò, e rise, e la sciocchezza che disse, portata dal discorso, li avvicinò, sembrava a Metello, come dei vecchi amici. Ella disse:
«E' il fidanzato di Del Buono! Un bel modo di rispondere».
«Sono un muratore» egli disse.
«Ah» ella esclamò. «E' un mestiere soggetto al tempo».
«Già, ma quando si lavora».
«M'immagino» lei disse. Si staccò dalla spalletta dove prima si era appoggiata, e riprese il cammino. Egli disse:
«La posso accompagnare?».
«Non mi pare d'averle detto d'andar via. Io abito in San Frediano. Se è anche la sua strada, se ne fa un pezzo insieme».
Erano tutte sue le strade, e maggiormente quelle che portavano a San Frediano in quel momento. Risalirono Ponte alla Carraja e lei gli chiese:
«Sta da queste parti?».
«Macché, sto in via Sant'Antonino».
«Allora mi accompagna proprio per farmi da cavaliere?». Sorrise e lo guardò diritto in viso. «Sono una sigaraja, questo non le torna nuovo».
«No» egli disse. «E appunto...».
«Appunto cosa?».
«Voi sigaraje non vi fate scrupolo se vi vedono con un uomo».
«Male non fare» lei disse.
Scesero su via de' Serragli, lei disse: «E quali sarebbero le sue intenzioni?».
«Serie, glielo giuro».
«Bravo!» ella esclamò. Erano sull'angolo di Borgo Stella, dove lei si era fermata. «Mi vuol davvero accompagnare fino all'uscio di casa?» gli chiese.
«Mi basterebbe sapere che ci si rivedrà, magari domani sera».
Ella scoppiò in una risata, lo spinse lievemente con la mano sul petto, e con un tono divertito e a suo modo affettuoso: «Bischeraccio!» gli disse.
«Non ci ho la fede al dito perché l'ho dovuta impegnare. Mio marito è muratore come lei, provi a indovinare! Si è trascinato tutto l'inverno una polmonite. Ma se ci vedesse insieme sotto casa» aggiunse «anche convalescente com'è, sai le labbrate! Dico a me, ma anche a lei sa! Lei a cazzotti, ci sa fare?».
Metello era rimasto sorpreso più che deluso, e dapprima, senza saper che dire. Lei di nuovo sorrise, disse: «Sù, non mi vuol dar nemmeno la mano?». E dopo che si erano stretti la mano e lui non aveva saputo aggiungere altro che: «Buonasera»; con una dolcissima voce, ma ironica, strafottente:
«Buonasera» ella gli rispose. «Dorma bene».
E finalmente, popolano, e di Firenze, quale anch'egli era, riuscì a far sua l'ultima parola:
«Mai come con lei, bellona».
Ella staccò la corsa, portandosi la propria risata, scomparve dietro Piazza del Carmine.
Soltanto tornando indietro, solo, scuotendo il capo tra sé e sé, risalendo il Ponte, Metello si ricordò ch'era suo dovere interessarsi della sorte di Del Buono. Cautamente si aggirò sotto la Camera del Lavoro, e siccome non la vide piantonata, entrò. Del Buono sedeva al suo tavolo, attorniato da alcune di quelle donne, e scriveva il testo d'un manifestino di protesta, contro gli abusi dell'Autorità e per via dell'arresto di Miranda e di altre due sigaraje. Quindi, si trattò di trovare i denari per stamparlo, quella notte stessa, ché non v'era ormai tipografia che non gli richiedesse i quattrini anticipati, almeno per la carta e l'inchiostro, anche se si trovava un tipografo animato dallo stesso Ideale. Metello si frugò nelle tasche e vi contribuì con un ventino.
E infine, a furia di pellegrinare di cantiere in cantiere, e di insistere, di farsi vedere, risalì sui «ponti». L'importante, anche se fosse durato poco, era tornare in squadra, sotto un'Impresa che poi, quando c'è lavoro, ti manda a chiamare. Era la stessa Impresa alle cui dipendenze era entrato, otto anni prima, aiuto manovale, e che ora aveva in opera un lotto di case nella zona del Romito. Le assunzioni, insieme al caporale, le faceva personalmente l'Impresario, che dirigeva anche i lavori: si ricordò di lui, o almeno così dette a vedere. E lo qualificò senz'altro muratore.
«Occupati di politica, se sei di quelli che se ne occupano, ma lontano dal cantiere. Qui, lo sai, si rende cento, e chi non rende cento si trova un'altra Impresa» gli disse l'Ingegnere Badolati. «Ci siamo intesi?».
Era un uomo ormai anziano, stempiato, e col cappello sempre buttato all'indietro; era magro, alto; e non era aguzzino. Stava sui «ponti» da mattina a sera, la fatica la sapeva giudicare. Quando si copriva il tetto, offriva il pranzo, lui si sedeva a capo tavola, e c'era vino abbastanza, volendo, per potersi ubriacare. Era venuto su dal nulla, e si diceva, era pur sempre il padrone ed era d'altronde la verità, che avesse case e case in città, la villa al mare e una fattorìa in Casentino, grande da viverci venti famiglie di contadini. «Di più, di più!». Suo padre era stato caporale, molti lo ricordavano ancora, e la sua memoria non aiutava certo a voler bene al padrone. Aveva finito di arricchirsi coi lavori del nuovo centro, nell'appalto dei quali aveva avuto la parte del leone. «Tutto grazie alla moglie» si diceva «forte di conoscenza in Comune, siccome da ragazza faceva Niccolini ». Ma Niccolini di quinto o sesto grado, senza più blasone. O forse, addirittura, figlia di qualche serva e riconosciuta come «naturale». Tuttavia questo non toglieva gran che alla stima che si portava all'Ingegnere: i suoi caporali, al solito, erano molto più jene di lui. Pagava il massimo di salario, e non gli si poteva rimproverare come una colpa sua personale, se con questo massimo, trenta centesimi l'ora, a chi aveva famiglia restasse poco da scialare. Limitandosi al pane, «che negli ultimi tempi s'era messo a far le capriole», per comprarne un chilo bisognava lavorare un quarto di giornata.
Metello era solo e capace di fare economia più di quanto non gli fosse digià necessario. Intanto aveva lasciato il retrobottega di Pestelli e dormiva nella baracca allato del cantiere, coi compagni di lavoro che abitavano in campagna e tornavano a casa una volta la settimana, su uno strato di trucioli o di balle. O su un pezzo di panconcello, lo preferiva: era ugualmente duro ma la sfoglia del legno, siccome era d'estate, buttava meno calore. Meglio del letto di Pestelli, non c'era paragone. Comunque aveva di che essergli grato, al vecchio Pestelli che adesso si trovava all'Ospedale, questa volta non per finzione: l'artrite l'aveva preso non alle gambe o alle braccia, ma al cuore.
E facendo durare un sigaro tre giorni, mangiando asciutto anche la sera, bevendo due diecini in tutta la giornata, e mettendo in mezzo al pane invece di trippa o frittata, polpette e fiori di zucca comperati in rosticceria, dopo tre settimane ch'era tornato al lavoro, poté affittare nuovamente una camera ammobiliata. Staccava alle sei, e tra lavarsi e vestirsi dei panni da cristiano, le otto lo trovavano ancora davanti allo specchio a ravviarsi i capelli; e la stanchezza c'era. C'era anche che gli piaceva, quando avesse potuto, presto avrebbe potuto, andare a sentir l'opera dal loggione del Pagliano, o lo Stenterello Niccòli al Teatro Goldoni. Diradò sempre di più le sue visite alla Camera del Lavoro. Ripigliava fiato appena allora, «dopo anni d'incudine», gli ci voleva qualche distrazione. Ed era maggiormente persuaso, poteva parlare con una certa esperienza, della sua antica regola di vita: mai essere né il primo né l'ultimo a farsi avanti o a tirarsi indietro. Ce l'avrebbero dovuto costringere le circostanze. Ora, prima di addormentarsi leggeva il Manifesto dei Comunisti e si proponeva di mandarlo a memoria; comprò su una bancarella "I Lavoratori del Mare" e la "Divina Commedia", tutte cose da leggersi e studiare. Sei mesi dopo, in settembre, poté farsi un vestito nuovo, che un poco alla volta avrebbe finito di pagare.
Cotesta domenica, come al solito, andò a trovare Pestelli all'Ospedale: aveva in tasca un toscano, e nascosto sotto la camicia, un bottiglino di vino. Ma Pestelli non ne doveva profittare: era morto il mercoledì, e adesso si trovava sottoterra almeno da cent'ore. Gli infermieri gli dissero che aveva avuto delle onoranze che non si sarebbe mai sognato: la salma era stata rivestita dell'uniforme di garibaldino.
Oh davvero Firenze era piccina, ma si poteva lo stesso sparire, e per sempre, senza che ti chiudesse gli occhi un vero amico. Come Betto, come Pestelli. Erano trascorsi dieci anni, dal giorno in cui Metello era passato sotto Porta la Croce arrestandosi in Piazza del Mercato e digià dei ricordi lo rattristavano, più di quanti il suo spirito ne avrebbe desiderati. Era settembre e fuori l'Ospedale c'era un gran sole. Andò alla Fortezza da Basso, dove si trovavano gli stessi soldati della Villa Comunale. Le stesse cameriere e le stesse balie con le carrozzine. Malgrado non fossero il suo tipo, egli sentiva d'aver bisogno di parlare con una donna, e intrattenersi con lei su tutt'altre cose che non fossero la politica, il lavoro, la scomparsa di un amico. Quella era la scelta che più facilmente gli si offriva: il giardino, le panchine, la vasca in mezzo coi pesci rossi e argento. Aveva il suo vestito nuovo, e lo sapeva portare; era in grado di scegliere fior da fiore. Un'istitutrice, una tedesca, dai denti di cavallo e due occhi grandi e chiari chiari, richiamò la sua attenzione. Giovane da sembrare adolescente, ma di certo non lo era; i suoi capelli, chiusi sotto il velo azzurro che le ricadeva dietro le spalle, non si potevano vedere, ma il seno, seppure mortificato sotto la divisa, non riusciva a nascondersi. Ilse sapeva l'italiano, a suo modo, ma ci si capiva, e aveva libero quel pomeriggio della domenica. Lo consumarono insieme, dentro i canneti del Mugnone, là dove da una parte c'era la strada ferrata e dall'altra le Cascine. Ella diceva: «Gut... Gut...»; e rovesciava gli occhi come stesse per morirgli tra le mani. Fu bello, ma gli fece impressione. Dandole appuntamento per la domenica successiva egli era certo di dover mancare. C'erano tante figliole, attorno al Romito e dalle parti di Rifredi! Basta cercarle, le occasioni. Egli era partito da Cosetta per arrivare a Ilse, ma soprattutto aveva contato Viola; dal greto della Sieve ai canneti del Mugnone, la sua educazione sentimentale ne aveva fatto del cammino. Se in avanti o all'indietro, non avrebbe saputo dire. Né sapeva ancora che l'occasione, quella vera, avrebbe portato sui capelli e in viso, i colori di San Frediano.
Da un certo giorno, accanto a Metello, troveremo Ersilia.
CAPITOLO 7.
Né durò molto il tempo spensierato. Nemmeno un anno, e ora si profilava la disoccupazione. Già nel cantiere si incominciava a licenziare. Certi badilanti e manovali, come alcuni muratori specializzati nelle fondamenta e negli scalini, non servivano più. I lavori assunti in appalto dall'Ingegner Badolati per conto della Fondiaria, quattordici mesi prima, stavano, almeno riguardo la parte in muratura, per essere ultimati. Era un lotto di sei case di quattro piani e si era proceduto a edificare due immobili alla volta, a turni pieni, squadre al completo e ritmo accelerato. Nei primi due, consegnati in ottobre, c'erano digià gli inquilini, erano state aperte una macelleria e una canova. E i due ultimi avevano raggiunto il terzo piano, percui tra un mese, coperti che fossero, non sarebbe restato che spolverarsi le mani. Il resto era compito di falegnami, di decoratori e di trombaj, che ora stavano rifinendo il quarto fabbricato. Quel sabato sera, era novembre e il sole non si finiva di scendere dai «ponti» ch'era tramontato, l'Ingegnere li aveva riuniti, e fatte le paghe, gli aveva detto che chi pensava di potersi occupare altrove, non si lasciasse sfuggire l'occasione. «Non voglio sacrificare nessuno» aveva detto. «Nell'altro cantiere che ho alle Cure, posti non ce n'è, sono al completo. E per il momento, non ho in vista altri lavori».
Sedeva al tavolo, tra le cataste d'assi e di mattoni, fuori lo sgabuzzino della Direzione; aveva il cappello all'indietro come al solito e il tre quarti col bavero di pelliccia. Sul tavolo c'era acceso l'acetillene, tirava un po' di vento e la fiammella sfriggeva. Loro stavano a semicerchio davanti al tavolo, con le mani in tasca o le braccia conserte; erano una trentina, due o tre manovali non ancora di leva e il più vecchio di tutti, Renzoni, aveva lavorato sotto Giuseppe Poggi, alla Mattonaia, quarant'anni prima. In piedi, a fianco dell'Ingegnere, c'era Madii, il caporale che faceva cenni d'assenso, via via che il padrone parlava. Ora l'Ingegnere diceva:
«Non avrei nessun dovere, ma siccome con la maggior parte di voi ci si conosce da un pezzo, vi voglio spiegare come sta la situazione. Lavori in vista non me ne mancano, ma col vento che tira, vedi» s'interruppe accennando l'acetilene «tra poco si spenge anche il carburo».
Sollevò appena un mormorio che avrebbe dovuto essere d'ilarità. Appoggiò i gomiti sul tavolo, congiunse le mani, e riprese:
«E' una situazione complicata, ragazzi. Quando vado per stringere un contratto, sia la Fondiaria, sia la Magona, sia l'Immobiliare, mi dicono che è meglio rimandare. Anche il nuovo Stabilimento per Passigli, a cui si doveva metter mano finito qui, è rimandato. Era tutto pronto: progetti, visti, bolli, le forniture di materiale assicurate, senonché Passigli ci vuol pensar su altri sei mesi, me l'ha fatto sapere l'altra mattina. Giudichiamoli come vogliamo, è gente che non vuol correre dei rischi. Sono rimasti scottati con Crispi, anche se ci hanno trovato il tornaconto, e ora vogliono vedere in faccia questi Di Rudinì e questi "Pellù". Li hanno messi su loro e prima li vogliono pesare. Ma anche vojaltri» esclamò. «Dico vojaltri per dire i socialisti, tanto più o meno siete tutti della stessa tinta. Quelli che vi comandano, fanno certe bischerate! Turati minaccia, Pescetti poi!».
Qualcuno mormorò, non si capì cosa, né chi fosse stato. Egli s'interruppe, poi chiese:
«Cosa c'è, sentiamo?».
«Fuori chi ha parlato» gridò Madii.
L'Ingegnere lo riprese: «Calma, Madii, calma. Hanno bene il diritto di parlare. Non gli sto mica dando la notizia di un aumento di salario».
Tirò fuori di tasca mezzo toscano e l'accese sporgendosi sulla fiamma dell'acetilene.
«Allora, ragazzi, avanti» ripeté.
Ma intervenne Renzoni, coi suoi capelli bianchi, la sua giacchetta corta, il fagottino sotto il braccio e la cicca spenta in mezzo alle labbra: «Vada avanti lei, Ingegnere. Vuoti il nappo».
Ora sì, si levò dal gruppo una distinta risata che nondimeno subito si spense. L'Ingegnere continuò, ma dimenticandosi della digressione e tornando in argomento.
«La mia opinione è che si tratti di una cosa passeggera. Malgrado il momento sia un po' scuro, c'è troppo risveglio per potersi fermare. Si va verso uno sviluppo industriale che non ne abbiamo nemmeno l'idea. E l'edilizia, per forza di cose, dovrà avere la sua parte. Forse è soltanto questione di mesi, superato questo strizzone le fornaci non ripareranno a cuocere mattoni. Ragion percui, ragazzi, tra cinque o sei settimane, magari pochi alla volta, vedrò di fare il possibile, ma vi dovrò licenziare. Se nel frattempo le cose si sistemano, meglio per tutti. Ho voluto avvisarvi in tempo, perché ci avete delle famiglie sulle spalle e io la notte voglio dormire tranquillo. Ci si vede lunedì» concluse. E si alzò in piedi.
Ma come si alzò lui, si alzò una voce dal gruppo dei muratori, distinta questa, appena un po' arrochita, e precisa, che disse: «Bravo Ingegnere! La dovrebbero fare Deputato, lei, con cotesta parlantina».
Colui che aveva parlato, Quinto Pallesi, venne avanti qualche passo verso il tavolo:
«Ingegnere, non si è mica offeso?».
«L'avrei a sapere di che panni vesti! Se tu non fossi l'anarchico che sei, a quest'ora, con la tua capacità, invece di averti come muratore ti avrei come concorrente. E forse ti chiederei di far tutta una Ditta».
L'aveva preso a braccetto, erano adesso nel gruppo dei muratori, e in questa atmosfera creata dalla condiscendenza del padrone, le frasi aggressive, feroci, ch'essi si scambiarono, sembravano perdere la loro sanguinosità e acquistare il senso di una reciproca, amichevole presa in giro.
«La capacità» diceva Pallesi «io l'ho tutta nelle mani».
«E nella zucca no? Soltanto, la spendi male, anche se da un po' di tempo ti sei calmato».
«Già, ma mentre a lei basta un discorsino per andare a letto tranquillo, io non so come dormirci, se fossi uno sfruttatore e un ladro pari suo».
I muratori attorno ridevano, Metello rideva, Renzoni rideva, lo stesso Madii rideva, ma proprio per questo, le parole in apparenza svelenite, risuonavano nell'intimo di ciascuno di quegli uomini cariche del loro più esatto significato.
«Sii buono, Pallesi. Se non esistesse la gente come me, morireste tutti di fame. Escluso te e qualche altra mosca bianca, il resto cosa siete, cosa sapete fare? Tolti dal vostro lavoro, avete bisogno del poppatojo, non vi sapete togliere un dito dal sedere».
«Dica culo, che lo sa dire. Quando durante il giorno lei sale sui ponti e le sembra che non si coli abbastanza sudore o che il freddo non ci abbia rotto le mani, perché non parla allora pulito?».
«O bella! perché vi pago per sudare, e non voglio essere messo in mezzo».
«Eh, quanto vi durerà!» esclamò Pallesi.
«Lo so che tu ci vorresti mettere tutti al muro, o meglio una bomba sotto i piedi. Ma bada, perfino a Capo del Governo c'è un Generale! E del resto, un tempo, a Parigi, stavano per mettere te al muro».
Ora Pallesi cambiò voce, disse: «Questo è un tasto che non si deve toccare».
Si erano tutti zittiti, e siccome passo passo erano arrivati dinnanzi alla macelleria e alla canova, a quella poca luce si potevano vedere i visi. Metello stava di fronte a Pallesi, e lo guardava: era come lo scoprisse soltanto allora, questo anarchico sul cinquant'anni, di cui tutti avevano grande considerazione e con il quale, non appartenendo alla sua squadra, i suoi rapporti si erano limitati al saluto: bruno, dalle tempie brizzolate, ma forse era calcina, il viso segnato, il corpo esile, e uno sguardo di bontà e di fuoco insieme dentro gli occhi neri. Gli ricordò Betto, ma un Betto giovanile, saldo, non ottenebrato dal vino. E attese, guardandolo, un attimo: da quell'improvviso silenzio poteva nascere una rissa, una ben diversa discussione. Parlò Madii e disse:
«Sei stato tu, Pallesi, a incominciare e a mancar di rispetto all'Ingegnere».
«Sta' zitto tu, talpa» lo incenerì Pallesi. «Lascia parlare il padrone».
E subito, l'Ingegnere intervenne, disse: «Ragazzi, è sabato, sapete che si fa? Vi offro da bere».
Era una canova, poteva vendere vino soltanto a fiaschi, ma appunto dei fiaschi ne occorreva; e lo stesso si rimediarono cinque o sei bicchieri, sufficienti a fare il giro. L'Ingegnere offerse per primo a Renzoni, siccome era il più vecchio: «Tieni il nappo» gli disse; e queste parole bastarono a finir di disperdere la caligine. Poi, alzò il bicchiere verso Pallesi che ricambiò il suo gesto, si sorridevano, ancora cordiali, ironici, a loro modo sfidandosi e portandosi stima, uomini entrambi naturalmente più forti, e intelligenti e iniziati rispetto agli altri che li circondavano:
«Alla tua Comune, Pallesi».
«Al suo Generale, Ingegnere. Ma a chi fa la guerra? Al macinato?».
E c'è un'alba, simile a mille altre che hai visto nel corso della tua vita, con la luce che è grigia e lentamente si schiara, e si colora, e dapprima è celeste, non rosa, è poi rosa, quindi in un baleno, da dietro i poggi, sbuca il sole, e il cielo, investito da tanta luce, sembra scattare più in alto. Tutto quanto accade cotesto giorno non potrà mai trapassare dalla memoria. E' il giorno in cui, a nostra insaputa, la nostra vita si volta come si volta sul palmo il dorso della mano. Quel lunedì, Metello si avviava verso il cantiere, era l'alba e attraversava il ponte sul Mugnone, all'altezza del Romito; istintivamente si voltò, e questa fu la sua impressione: come se, spuntando il sole, qualcosa che fino allora tratteneva il cielo ne lo avesse liberato e precipitasse, zavorra di luce diciamo, sulla terra. Un istante, riprese il cammino e dopo qualche passo se n'era dimenticato. Ma era un sole d'inverno, presto lo seppellirono le nubi, dalle cime di Monte Senario e dell'Incontro gli corsero addosso grandi nuvole nere. E prima che i muratori potessero salire sui «ponti», si scatenò il temporale. Durò forse mezz'ora, e il sole non riapparve; cessata la pioggia, il cielo era adesso tutto bianco, compatto. Essi, via via che erano arrivati, avevano trovato riparo sotto la tettoja dove erano conservati i sacchi di cemento, i telai delle finestre, i carielli, le stoje; e in mezzo avevano acceso un fuoco. Così, gli uomini delle diverse squadre che lavoravano ai due edifici ancora in costruzione, si erano trovati tutti riuniti, come il sabato precedente. Non potevano non riprendere il discorso, anche se non c'era il padrone; anzi, a maggior ragione.
Il vecchio Renzoni disse: «Qui, figlioli, se qualcuno non ci mette riparo, sa Dio come va a finire. Pescetti ha ragione, a certa gente sembra non sia andata mai bene come ora, nemmeno durante Firenze Capitale c'era tanto lusso. Per dirne una: ieri ero sui Lungarni, e durante la passeggiata delle Cascine non ho mai visto tanti "landò". Come va allora dico io, che il pane aumenta un giorno dopo l'altro: che aumenta tutto, e le nostre paghe restano le medesime di dieci anni fa? Se è per via del Dazio, lo levino; o diano un po' del loro per risolvere la situazione. O vogliono che questi giovani che hanno famiglia, vadano alla disperazione, come quei poveri contadi i giù nel Tacco? "Loro" gli mandano i soldati e i Carabinieri, sparano, legano, buttano in galera, e credono d'aver tutto bello e sistemato. Qui è question di fame, è questione. Eppure, una maniera per farglielo capire, bisogna ci sia. O non s'accorgono che è nel loro interesse? Come quando si trattò di rizzare la statua della bilancia in Piazza Santa Trinità, anzi la colonna, ora mi sbagliavo, come gli disse quello? 'Più vino agli uomini e meno acqua alle corde'. Cosa bisogna fare per metterglielo nella zucca? Turati alla Camera non gliele manda a dir dietro queste cose; noi, presi alla gola, si cerca a volte di scioperare, macché! "noee!" non la intendono. Cosa gli si deve fare? Eh, Quinto?».
Pallesi tritava tra pollice e indice la spuntatura di tabacco, e caricava la pipa. «Io lo so, e da un pezzo. E tu la mia opinione la conosci. Siete voi che non lo volete capire, come "loro". Ma almeno "loro" fanno i loro interessi».
«Sarebbe a dire?» chiese Renzoni.
Gli altri, zitti, in cerchio attorno al fuoco, di fronte o di spalle, li ascoltavano.
Quinto accese la pipa e disse: «Stammi a sentire. Dianzi, appena sveglio, la mia donna ha preso a rappresentarmi il problema dei topi. Ci si aveva un topo in casa che secondo lei non ci lasciava dormire. Aveva messo la trappola e tutte le volte il topo s'era mangiato anche il cacio. Mentre lei me ne parlava, la mia figliola le ha detto: 'Mamma, l'ho sentito muovere, sposta il cassettone'. Hanno spostato il cassettone, il topo è venuto fuori e la mia figliola con la granata lo ha fatto secco».
«Sarebbe a dire?» ripeté Renzoni.
Quinto sorrise, aveva uno sguardo di bontà e di fuoco dentro gli occhi, era un uomo già anziano e tuttavia sembrava un giovanotto che si burlasse, con non celata soddisfazione, di una persona in là con gli anni e lenta di cervello. Disse:
«E' una parabola, no? Non sei mai stato a messa? Tra poco, non dubitare, legalitario oggi, legalitario domani, il tuo Turati ti consiglierà anche questo».
Ma né Renzoni né nessuno degli altri poté interloquire. Era arrivato l'Ingegnere e con lui era cessata la pioggia. «Su ragazzi, su, è finito, forza».
«Ricordatevi» gridò Madii perché la sua voce arrivasse in ogni angolo della tettoia e del cantiere «è scaduta mezz'ora».
«No» intervenne l'Ingegnere. «Consideriamola come lavorata. Cerchiamo di cominciare bene la settimana. Piuttosto, ricordatevi che sabato si deve essere arrivati a coprire il tetto».
«Tempo permettendo» disse Renzoni. «Non ci si capisce più nulla nemmeno con lui. Viene una bufera e poi schiarisce subito, come d'estate; sembra marzo e fa un gelo!».
Metello si avviò con la sua squadra; vide Pallesi che dava una spinta, ma affettuosa, al vecchio Renzoni; lo vide di spalle mentre saliva a sua volta per la scala del fabbricato dirimpetto. Trascorsero così due ore, saranno state le dieci, le dieci e un quarto, Metello affondava la cazzuola nella calcina, quando sentì un urlo, che durò un baleno e fu sepolto dal tonfo di un corpo andato a schiacciarsi sulla massicciata. Quinto Pallesi era precipitato dall'impalcatura.
Qualche minuto dopo, l'avevano sollevato e portato sotto la tettoia, disteso su una porta, lo sorreggevano alla nuca; il sangue gli colava di sotto l'attaccatura dei capelli e gli si spandeva sul viso, non riparavano a tamponarlo. Il suo sguardo era sempre vivo, balenante, più che di dolore di collera sembrava; respirava a fatica, gli riunirono le gambe e dette un grido; ansimava, diceva:
«Mi è venuta a mancare la ringhiera. Non ho fatto in tempo a riprendermi».
Adesso era Metello che stando in ginocchio, gli teneva la testa e gli tamponava il sangue. Dall'altro lato c'era l'Ingegnere.
«No, non ce l'ho con lei» ansimava Quinto. «Non ce l'ho con nessuno. Il legno si era infradiciato, o la giuntura ha ceduto. Ero io che ci dovevo badare. La pelle è la mia».
Digrignò i denti per il dolore, volse la testa e incontrò lo sguardo di Metello, sembrò abbozzargli un sorriso: «Hai visto?» gli disse. «Non ci siamo mai conosciuti bene, come mai?». Ansimava, e le sue parole eran già diverse: «Se non avesse piovuto! Sono anche scivolato. Con l'asciutto mi sarei agganciato». Si agitava: «Portatemi all'Ospedale, fate presto».
«Sono andati a chiamare la Misericordia, stai calmo» gli ripeteva l'Ingegnere che aveva la faccia color fango e pareva gli si inumidissero gli occhi.
«Andate anche a casa mia, subito. Subito. Fateli venire tutti all'Ospedale. Anche i ragazzi, mi raccomando. Armanda, Ersilia e anche il bambino, fate venire anche Carlo. Tutti e tre, la mamma e i due ragazzi... Armanda, Ersilia, Carlo... Armanda, Ersilia... "Merde les généraux..."».
Ora già delirava.
CAPITOLO 8.
Da allora, i giorni, anche se fatti d'attese che sembra non debban mai finire, o di clamori, di patimenti, di segregazioni, di gioje che struggono il cuore, lo stesso si rincorrono. E' la nostra vita che ha preso un altro andare. Metello conobbe Ersilia quando essa aveva ancora le trecce legate a cercine come un'educanda, e così gli occhi e il viso. Un velo nero su quei capelli neri, al funerale del padre. Una bambina cresciuta presto, le sottane alla caviglia le conferivano intera la sua altezza, lei sorreggeva sua madre per il braccio e guardava il fratello, più ragazzo di lei, sui quindici anni. Era il novembre del 1897, un freddo, un gelo! Metello si ricordava col solino sotto il collo, il vestito della domenica, il cappello in mano. Tirava un gran vento, le foglie sopravanzavano il corteo lungo i Viali. C'era la bandiera nera degli anarchici e c'era, malgrado le lotte politiche li dividessero, il gagliardetto rosso dei socialisti e quello della Camera del Lavoro. Era un comunardo che si andava a seppellire, un muratore per il quale, sul lavoro e nella vita, tutti avevano sempre avuto e amicizia e considerazione. Ma quegli uomini pensavano più ad affrontare i soldati per via delle bandiere, si aspettavano di vederli sbucare di crocicchio in crocicchio, che non al morto, chiuso ormai nella sua bara in testa al corteo. Non era stato un gesto loro, non una provocazione di anarchici e socialisti, ma Quinto l'aveva chiesto, dopo ch'era precipitato dall'impalcatura e prima di spirare all'Ospedale.
«Portatemi via con le bandiere. Viva Cafiero!».
Poi aveva voluto i due figlioli al capezzale: «Ricordatevi che io, vostra madre, è come l'avessi sposata».
E lei, Ersilia: «Lo so, babbo. Erano le tue idee». E sembrava una bambina che ripetesse una lezione, ma anche una donna, la quale tranquillizzava suo padre moribondo e mentalmente, forse, diceva una preghiera. Metello era vicino a quel letto, e la guardava.
La guardava camminare davanti a sé pochi passi, nel corteo, quando, come ci si aspettava, risuonò uno squillo di tromba e sopraggiunse il plotone dei soldati. Volarono chepì e saltarono diversi gemelli dai solini, fu sparata in aria una scarica di fucileria. Il carro funebre era scomparso, siccome la pariglia aveva preso la mano al cocchiere; l'indomani si seppe che il carro aveva urtato di fianco un omnibus a cavalli e la bara era rimasta scoperchiata al vento, nel mezzo del Viale. Dal tafferuglio, le sole a uscirne intatte, erano state le bandiere che gli alfieri, protetti dai compagni alla prima ondata, avevano messo in salvo sventolandole di lontano. Metello e qualcun altro dovettero trascorrere la notte in guardina. Il Delegato a cui erano stati consegnati, «e che non era un boia», mosche bianche ma ce n'era, ce n'è sempre state, preferì non guardar negli schedarj. Li rilasciò all'alba, in tempo perché chi aveva da lavorare non perdesse la giornata.
Ersilia lo aspettava davanti al cantiere; non era ancora sparita, dalla massicciata, la macchia di sangue lasciatavi da suo padre. Gli andò incontro e gli porse la mano.
«Grazie anche a lei per tutto, e per la colletta. Come ho detto anche agli altri, l'Ingegnere ci ha aggiunto di suo cento lire».
«Così potete tirare avanti per quanto?».
Non era digià più una bambina, ora se ne accorgeva; fosse o no il busto, le sporgeva il seno; il suo sguardo era triste, ma fiero.
«Speriamo fino a che sono necessari» ella disse. Ebbe un sorriso che non contrastò per nulla col suo dolore. Ed egli dové fare uno sforzo e ripetersi ch'essa era la figlia dell'anziano compagno morto sul lavoro, per non guardarla in un certo modo e non sviare la conversazione.
«Una brutta nottata, in carbonaia?».
«C'ero già stato un'altra volta, non mi è riuscita nuova. E in tre anni di ferma che ho fatto, da soldato, ne ho macinata di cella. Ci hanno perfino lasciato i lacci e le cinture».
Era suonata la campana, Madii lo chiamava, in fretta si salutarono.
Presto Metello si sarebbe dimenticato perfino il nome di Ersilia. Egli aveva sì la testa alla politica, tuttavia, come sempre, ce lo dovevano tirare le circostanze, e ora la minaccia della disoccupazione, ma anche all'amore. Né poteva dire di essersi impegnato, appunto perché gli piaceva prendere e lasciare, «una per cantonata». Aveva venticinque anni, era un bel giovane operajo, e non gli mancava la parlantina.
Fu un brutto inverno, chiuso il cantiere del Romito, con nemmeno mezzo toscano nel corso di una giornata; e una primavera in cui s'incominciò e si lasciò in tronco un lavoro in Villamagna. Quindi, erano accaduti i moti di quel maggio del '98 ai quali, sempre così, «pareva sempre tutto combinato», Metello si trovò in mezzo e ne avrebbe fatto volentieri a meno. Ma uscire di casa, il martedì 6, e approvare chi gridava: «Pane!», fu spontaneo, come spicca l'acqua dalla sorgente e le labbra pronunciano le parole. Dopo tre mesi di disoccupazione, e ripugnandogli l'idea di mettersi un'altra volta a lavorare da facchino, non più soltanto mezzo sigaro gli mancava, ma giusto anche per lui era questione di pane, e di fitto arretrato, di debiti da pagare, di loggione per l'"Aida" promesso alla fidanzata del momento, sempre che non lo animassero degli ideali. Poi, trovarsi in prima fila negli scontri di Piazza Vittorio, venne di conseguenza, sarebbe stato assurdo il contrario. Una colonna di dimostranti proveniente da San Frediano (c'era Gemignani in mezzo a loro, lo conosceva di vista, era un collega, si erano incontrati al funerale di Pallesi) l'aveva come rimorchiato. Costoro non seguivano una bara, era gente scalmanata, carica d'odio e di fame. L'ipotesi di uno scontro, più che temerla, la ignorava. Il corteo sbucò da Via Strozzi, Metello c'era entrato in mezzo da qualche minuto appena, e i militari uscirono di dietro il monumento al Re Galantuomo e di sotto i Portici dove stavano acquartierati. Fu un parapiglia, egli non fece in tempo a roteare le braccia ché un calcio di fucile gli calò sulla testa e lo stordì. Soltanto giorni e mesi dopo seppe come erano andate le cose, a Milano e nel resto d'Italia, e che a Firenze c'erano state decine di feriti, cinque morti a Sesto, uno a Ricorboli, tre alle Caldine, nove in tutto il giro dei colli che abbracciano la città. E come avevano preso lui, avevano preso Del Buono, avevano preso Turati. Pescetti, no: malgrado la sua gamba matta, tenuto un comizio e buttato olio santo sul fuoco di quella disperazione era scappato fino a Roma, rifugiandosi in Parlamento, poi gli riuscì di espatriare. Intanto Metello si trovava ammanettato, e questa volta non se la sarebbe cavata con una notte di guardina. I più li avevano chiusi alla Fortezza da Basso; lui e altri alle Murate.
La sera successiva l'arresto, erano già stati condotti al carcere e ristretti nel camerone; ci fu di certo come una tregua, un accordo tra le guardie e quelle donne che da ore vociavano dalla strada. Loro si arrampicavano a turno sulle sbarre del camerone. D'un tratto si fece silenzio e una delle donne gridò:
«Arrestati d'ieri, ascoltatemi. Abbiamo ottenuto di potervi salutare una per volta, ma voi non rispondete se no ci mandano via con la forza. Non possiamo darvi nemmeno notizie di casa, se no dicono che c'è dell'intesa».
I prigionieri avevano fatto gruppo sotto le sbarre, erano una trentina e la più parte, l'uno all'altro sconosciuto; si mordevano la lingua per trattenere il fiato e le parole.
Incominciò, nel gran silenzio, la chiama.
«Io sono la moglie di Monsani Federigo» gridò la stessa voce. «Diteglielo se lui non ha sentito. Ghigo Monsani, sua moglie lo saluta».
«Io sono la moglie di Baldinotti Armando. Baldinotti Armando, son la Gina» gridò la seconda.
E la terza: «Martini Pisacane, sono tua moglie Lidia».
«Gemignani Giannotto, sono Annita» gridò la quarta.
Nel camerone, a ogni nome, un agitarsi di teste; un improvviso vuoto nella calca perché l'uomo potesse arrampicarsi sulle sbarre, da dove tuttavia non si arrivava a vedere la strada, ma il tetto dirimpetto e le poche stelle in cielo.
«Qui c'è una vecchia che non ha abbastanza voce» tornò a gridare la moglie di Ghigo Monsani. «E' la mamma di Palanti Sergio...» s'interruppe. «Pananti, Pananti Sergio, fa il fornajo».
Metello si teneva da un lato, siccome nessuno l'avrebbe chiamato; non certo «la prussiana» ch'egli aveva sfuggito, non qualcuna delle sue belle, non Pia, non Garibalda, non Viola, nemmeno, non ci sperava.
«Sono la moglie di Fioravanti il tornitore. Fioravanti Giuseppe, il tornitore».
«Giulio... Giulio Corradi» gridò una voce, si sentì il pianto che la strozzava.
«Sestilio! Sono Rosina!».
«Pantiferi Omero, sono la figliola di Pantiferi Omero. C'è anche la moglie che lo saluta».
Ora, tra i carcerati, alla sorpresa, al primo impeto di gioia, era succeduta una tensione nervosa, resistevano sempre meno a lasciare senza risposta quei richiami, si capiva che prima o poi qualcuno avrebbe ceduto; già il grosso Monsani, rosso di pelo e con una taglia da Sansone, aveva dovuto intervenire di prepotenza, chiudendo la bocca di Corradi, il quale davvero non c'entrava con la «rivoluzione», e da due giorni piangeva, le lacrime scendevano a bagnare i suoi onesti baffi di impiegato della Prefettura. «Attraversavo Piazza Goldoni per andare in ufficio e m'hanno preso. Non ho ancora trent'anni e la carriera rovinata. Il Generale Sani mi conosce, ho uno zio capitano, nessuno mi crede» ripeteva, né si rendeva conto che coteste benemerenze poco lo aiutavano ad affiatarsi nella convivenza tra cui si trovava. Tante teste, ora, l'una accanto all'altra; voltati di fianco, per tendere l'orecchio, tanti visi, nella poca luce, visti di profilo, e attenti, pronti a scattare su per le alte sbarre del camerone.
«Sono ancora io, Antonietta Monsani. Parlo a nome della moglie di Lucarelli Egisto. Sta bene, ma per via degli anni non ce la fa coi polmoni».
Quindi, come anticipando il proprio turno, fu questa l'impressione, precipitosa, si annunciò una giovane e chiara voce.
«Salani Metello, sono Ersilia. Salani Metello, son la figliola del Pallesi».
E subito dopo, uno scalpitare di cavalli, ordini bruschi sulla strada, intimidazioni, urla, invettive, gridi, sui quali, potente, carica di collera e di offesa, dominò un attimo ancora la voce di Antonietta Monsani. «Carogne, sbirri... Uomini, hanno messo lo stato d'assedio. Ghigo, mi portan via anche me». E come un'eco sola, si innalzarono gli insulti, le bestemmie, le grida dal camerone, infine esploso con tutti i suoi uomini aggrappati alle sbarre.
«Antonietta».
«Gina».
«Lidia».
«Rosina».
«Annita».
«Ersilia... Ersilia».
Finché, tornato il silenzio, sopito anche l'uggiolìo del Corradi, notte alta, nel tanfo già spesso del camerone, forse Metello fu il solo a vegliare. Era l'alba, ed egli si diceva:
«Esco e la sposo».
PARTE SECONDA.
CAPITOLO 9.
Quando ci vogliamo spiegare certe circostanze, decisive per la nostra vita, ci si risponde che è destino, che è successo non sappiamo come. Simile al bosco, d'estate: c'è una gran quiete, gli alberi riparano dal solleone, è un refrigerio, e d'un tratto il bosco, tanto fresco ed ombroso, s'accende, e col vento che si leva, d'albero in albero, diventa una fiamma sola; così, un sentimento è entrato dentro di noi: è legna verde e d'improvviso brucia.
Ersilia non aveva dimenticato né il suo viso, né il nome; ella ricordava Metello, con simpatia diciamo, ignara che il proprio cuore viveva nella sua aspettazione. Tuttavia, in quei giorni, ella prometteva a sé stessa un diverso destino. Nel Laboratorio dove da qualche tempo lavorava (erano una diecina di donne, confezionavano i fiori finti, lei era la più giovane, era bella perché aveva diciotto, venti anni e 'l'argento vivo addosso' come dicevano coloro che la conoscevano) il padrone se ne era invaghito, la voleva sposare. Costui era un uomo di quarant'anni, educato, sapeva farsi apprezzare, la moglie gli era morta in seguito ad un aborto, e la sua casa, grande, comoda, chiedeva una donna che tornasse ad abitarla. Ersilia si era lasciata persuadere ma ancora non le riusciva di chiamarlo Lorenzo, «signor Roini» le veniva più naturale.
Erano andati a dar parola in Municipio, cotesta mattina, allorché incontrarono un gruppo di dimostranti che gridavano «Pane», e agitavano i bastoni: era gente di San Frediano, del suo Quartiere, Ersilia li conosceva. Gente che davvero aveva fame, anche se c'erano dei teppisti in mezzo a loro. C'era Lucchesi, un ladro, uscito da poco di galera, un affamato pure lui. Ma accanto a Lucchesi, c'era Ghigo Monsani, c'era Giannotto, c'era Fioravanti il tornitore, tutti amici di suo padre. Giannotto faceva il muratore; giovane sui trent'anni, aveva sposato Annita (con la quale Ersilia era cresciuta insieme) 'quando era ancora una bambina': ora faceva la sigaraja, e per la prima volta si trovava incinta, al quinto o sesto mese.
«Milano è in mano al popolo» gridavano.
«Alla Prefettura! Alla Prefettura!».
«Pane! Pane!».
«Sfruttatori del popolo, è venuta la vostra ora».
Ersilia pensò, fu un attimo, che guardando bene, mentre le sfilavano davanti, scalmanati, forse avrebbe potuto scorgere suo padre; e subito, fu un attimo, quasi le sembrò di doversi consolare che suo padre fosse lontano di lì, ormai e per sempre al sicuro.
Il suo futuro sposo l'aveva strappata per un braccio e fatta riparare dentro un portone. «Ci vorrebbe la forca» aveva esclamato.
Tra i dimostranti, c'erano i più giovani, assieme agli anziani, c'era Giannotto, appunto, e c'era Guido Ciappi, un calzolaio, che l'aveva corteggiata e poi era sembrato darsi pace, proprio quando avrebbe avuto più tempo per starle attorno, siccome si era sistemato in uno sgabuzzino accanto casa. E le donne, per poche che ve ne fossero, erano le più eccitate, Miranda le capeggiava. Era una sua amica, era stata anch'essa sigaraja e l'avevano licenziata, Ersilia non si stupì di vederla: dacché le avevano mandato il padre al domicilio coatto, Miranda sembrava «morsa dalla tarantola» come si diceva in San Frediano. Tale adesso le appariva, un fazzoletto rosso le fasciava la fronte, aveva le maniche della camicetta rimboccate.
«Miranda» ella chiamò.
Il Roini la spinse dentro l'atrio dov'erano riparati. «Sei pazza?» le disse. «Era da tanto che covavano questa uscita. Delinquenti!».
«Non è vero» ella disse. «Hanno ragione».
«Io sono una persona che ama la pace, e tu, bambina, dimenticati l'ambiente in cui sei cresciuta, siamo intesi?».
Ella non gli poté rispondere. Alle loro spalle era sopraggiunto un uomo che intendeva chiudere il portone. «E' il '48, cinquant'anni giusti, non ve n'accorgete? Prego, prego» diceva. Aveva la barba brizzolata, un tocchetto nero in testa, era alto e un po' curvo. «Via via» li sollecitò. La strada era improvvisamente deserta, coi negozi serrati, e le finestre chiuse; all'orizzonte, là dove cominciava Ponte Vecchio, in quella luce e in quel silenzio, si potevano immaginare delle barricate. Sbucò un "landau" da via delle Terme, coi cavalli sferzati dal cocchiere, e le tendine abbassate. «E' la rivoluzione» disse l'ebreo chiudendo il portone. «Hanno colto le Autorità di sorpresa».
«Ma non andranno lontano» disse il Roini, trascinando quasi Ersilia per la mano. «Su, svelta, faremo in tempo a raggiungere il Laboratorio».
Ella si liberò dalla sua mano che la stringeva. «Hanno ragione» ripeté.
«Ascolta bene, Ersilia. Ti conviene ubbidire. Non soltanto io sono ancora il tuo principale, ma è come se fossi digià tuo marito, abbiamo fatto proprio ora le pubblicazioni».
«Oh» ella esclamò, e gli rise in viso. «Valle a scancellare, perché tu, te lo puoi togliere dalla mente, di diventare mio marito. Ci vogliono uomini d'altro genere, per una donna ch'è nata in San Frediano».
E fu in cotesto preciso momento, si possono mai spiegare certe reazioni? che vivo, parlante, come fosse il terzo tra loro, ella si era ricordata di Metello, gli parve di riudire la sua voce: 'Ci hanno perfino lasciato i lacci e le cinture'.
Ora, il Quartiere di San Frediano, seppure racchiudeva nel cuore delle proprie strade le pareti del Carmine, e prolungava le proprie case fino alle pendici di Bellosguardo, non era gran che diverso da come, quindici anni prima, lo aveva rivelato agli stessi fiorentini, un cronista avventuratosi tra le sue vie e piazze con l'animo del missionario e la baldanza dell'esploratore. Demolito il Vecchio Ghetto, costì «il secolare squallore della città» sussisteva. Né le topaje di San Niccolò, né le piccole Corti dei Miracoli adiacenti le Chiese di Santa Croce e San Lorenzo, potevano contendergli il primato. Agli occhi degli Onesti, San Frediano rappresentava il punto particolarmente nero, dolente e vergognoso, dell'estetica e della morale. Dell'educazione, dell'igiene e diciamo, con parole allora usate, della giustizia sociale. Appena un ponte li separava, se non una strada, da cotesta suburra, nondimeno era un territorio, una repubblica, ch'essi ignoravano. Inorridivano al pensiero di porvi piede.
«"C'è di là d'Arno un quartiere dove le facciate delle case, se può darsi tal nome a sì orribili catapecchie, sono specialmente in certi punti, stonacate, ronchiose, incatorzolite, scabbiose, gli acquai con sgrondi rotti, tanto che ne dilaga sulla strada, appuzzolandola, un fiumiciattolo nero, e che mena in sé feccie e lordezze di ogni maniera e lascia sedimenti e il limaccio per dove passa. Gli stessi nomi di quelle viuzze riescono nuovi a' Fiorentini più vecchi; pochi hanno udito parlare della Sacra, delle Mura di San Rocco, di Malborghetto, di via del Leone, del Campuccio. Ci sono case mezzo diroccate, le pareti crepolano da ogni parte, gli affissi sono andati a catafascio; piuttosto che per porte vi s'entra strisciando, per certe buche, a modo di rettili, per corridoi così stretti, che allargando le braccia, i gomiti toccano le pareti. Le casipole sono divise in quartieri di una o due stanze. Se guardate di fuori, que' tuguri hanno aspetto di doversi sfasciare a ogni momento e cascar nella strada in mucchi di calcinacci».
Questo era il luogo. E la sua gente?
«"Un quartiere dove la polizia non va, a fare certe operazioni, se non a squadre di dodici o quattordici uomini; dove il minimo subbuglio può tirar sulle strade, accalcare insieme a un tratto centinaia d'uomini e donne furenti! Vi dico, che c'è un gruppo di strade segregate, che non servono come arterie di circolazione, ma sono tutte chiuse in sé e vi pullulano i ladri, i manutengoli: vi brulica la marmaglia, la bordaglia, la schiuma, il marame della popolazione, insieme accozzata"».
Era il Quartiere del vecchio Pestelli; e Caco vi aveva trovato il suo migliore amico: quel Leopoldo (*), ginnasta di circo e caffettiere che una volta, per favorire la fuga di Cafiero, aveva affrontato gli agenti che lo braccavano, e presine due per i risvolti delle giacche e sollevatili da terra, li aveva sbattuti testa contro testa come due burattini, finché, appunto come dei pupi, non avevano ripiegato, entrambi, la testa su di un lato. Era il rione di Quinto Pallesi, di Ghigo Monsani, di Fioravanti il tornitore, gente che coi ladri, coi mendicanti, coi ruffiani, con gli schedati per delitti comuni, i bari e gli assassini, ci abitava porta a porta, ci beveva insieme, ci giocava a carte «onestamente»: li trattava, e n'era rispettata. Ma ci aveva poi, per il resto, poco in comune.
«"Vi dico che tra questa bruzzaglia ci sono pure centinaia di poverissimi mestieranti, gente, che si serba incontaminata al contatto più pestilenziale"»scriveva il nostro Magellano. C'erano degli anarchici, tra costoro, ora dei socialisti, per questo interessavano anch'essi la Questura. La società, da loro, aveva magari di che temere maggiormente, ma a lunga scadenza, non si poteva far confusione.
Era, infine, il Quartiere dov'era nata e dove viveva Ersilia, dove Metello aveva avuto raramente occasione di sostare, sempre incontrandovi tra un'osteria, un bordello e una bottega di trippajo, facce amiche, coscienze pulite e mani faticate. Meno che mai egli vi si sarebbe trovato a disagio, in seguito, venendo ad abitarvi, lui che aveva conosciuto i vicoli e i "bassi" del Vasto e di Mezzocannone. Ciò, al contrario, lo avrebbe indotto a riflettere che se onestà e furfanteria, vizio e virtù, prostituzione e amore potevano coesistere, là dove il bene e il male apparivano pur sempre mischiati e indistricabili, era la povertà che li accomunava, rivelando, caso per caso, la naturale resistenza degli uni e il fatale abbandonarsi degli altri. E come bighellonando per "basciopuorto", il suo camerata livornese diceva: «Mi sembra d'essere in Darsena, a casa mia»; lui stesso, tra quella gente e quei vicoli della Duchesca e della Vicaria, più volte si era scoperto a dire: «Ma questa non è Napoli, è San Frediano». Poi, in attesa del "silenzio", ridendo del dialetto che gli sembrava ormai di possedere, finivano per convenire che tutto il mondo è paese e l'Italia è incontestabilmente una. La Patria esiste, per cui era giusto che compissero il servizio militare. C'era davvero qualcosa e qualcuno da difendere, non soltanto il Re e non soltanto le Frontiere.
Ora San Frediano gli aveva portato Ersilia.
Finché Metello rimase alle Murate, Ersilia si partì dal suo Quartiere di San Frediano per raggiungere via Ghibellina, col pranzo chiuso dentro il tovagliolo. Poi, siccome non essendogli parente, le avevano negato il permesso di raggiungerlo in Parlatorio, ella tornava a casa, si rileggeva l'ultima lettera di Metello e gli rispondeva.
«La strada per via Ghibellina non mi è nuova. Capitava ogni tanto anche a mio padre. Non faceva nulla di male, ma l'avevano preso di mira per via ch'era stato in Francia e poi implicato nei fatti del '79... Io a quell'epoca non ero nata, mia madre era incinta di sei mesi. Sono dell' '80, ho diciotto anni compiuti».
«Io avevo sei anni, vivevo in campagna, ma i fatti del '79 li conosco come ci fossi stato. Fu tutta una provocazione: l'ho letto anche su un libro che mi è servito da sillabario... Tu pensa che appena esco ti sposo».
«Aspetta a dire esco e ti sposo, potrebbe essere un progetto sprecato... Seppi che ti avevano arrestato, me lo disse la moglie del Pisacane Martini, è una mia amica. C'era anche la figliola di Fioravanti il tornitore, siamo state bambine insieme: 'Lo sai che hanno arrestato quel giovanotto che si dette tanto daffare per la colletta quando morì tuo padre?'. Allora venni a salutarti a quel modo. Mi ci portò l'istinto, ma può darsi fosse compassione... Non sono ancora sicura di volerti bene perdavvero».
«Ogni tua parola ti sbugiarda. Tu mi vuoi lo stesso bene che ti voglio io. Siamo fatti su misura, mi bastò sentire la tua voce... Più i giorni passano, e sono lunghi qua dentro quarantottore, più me ne persuado. Arrenditi all'evidenza, è come quando si è coperto il tetto, e uno volesse sostenere che siamo arrivati appena al primo piano».
«L'evidenza è proprio questa, che tu sei costà dentro e io a malapena mi ricordo il tuo viso».
Era un dialogo, con lettere scritte anche di più lontano, mezza Italia e una striscia di mare, siccome egli dové scontare il domicilio coatto. Ella aveva lasciato il Laboratorio di fiori finti per staccarsi definitivamente da Roini, era entrata come faticante all'Ospedale. Nondimeno, ora poteva ricordarsi del suo viso. Andò dove Metello ultimamente aveva abitato, e con un suo biglietto, pagati i tre mesi di fitto di cui egli era in arretrato, prese tutte le sue robe. C'erano, col vestito della domenica e le scarpe ch'essa gli spedì insieme alla biancheria, dopo averla rammendata, delle lettere e cartoline: quelle dei Tinaj e quelle di Del Buono e di Chellini che Metello conservava. E tre fotografie.
«Guarda, leggi, vedrai che non ci sono né lettere né ritratti di donne, nulla» egli le scriveva.
«Certo. Non mi ci avresti mandato se ci fossero stati. Ma poi, che bisogno c'è che tu me lo dica?».
«Dal momento che ci dovremo sposare! Qualche donna l'ho avuta, nella mia vita, sarei un bugiardo a negarlo. Sono un uomo e porto i pantaloni. Ma non hanno contato nulla, nessuna. Eccetto una, e non perché me ne fossi innamorato, ma perché era una creatura particolare e mi fece del bene. Era una vedova, una maestra, la vidi l'ultima volta cinque anni fa, si era risposata e aveva un figliolo. Da allora non ne ho più saputo nulla, te lo giuro».
Ella aveva adesso, di lui, tre fotografie, nelle quali, tuttavia, egli non era mai solo. In una stava in gruppo con dei soldati, «la ghega di Napoli» egli le scrisse, ma aveva gli occhi spauriti, si era tagliati i baffi, era in divisa e lei non lo riconosceva. In un'altra, era tanto piccino che appena si distingueva: al centro c'era uno spicchio di Piazza Vittorio allora in costruzione, con Badolati sulla porta e Metello su per aria, si sporgeva dai «ponti»: era un ragazzo, teneva il berretto sugli occhi. Era lui perché lui lo diceva. «E' una fotografia dell'88 o '89, ci dev'essere la data. Io sono il secondo in alto, a partire da mancina». Nella terza, la più recente, lì sì, lo riconosceva; accanto a lui c'era Del Buono, Ersilia prese le forbici e lo tagliò, non voleva testimoni. Aveva messo il ritratto di Metello sul comodino, gli diceva: «Buongiorno, buonasera. Un giorno di meno, amore». Poi gli scriveva: «Aspetta a dire torno e ti sposo. Anche ora che ti ho a capo del letto, sono lontana dall'aver preso una decisione, non ci contare».
E gli mandò il suo ritratto, lui insisteva, non ne poteva fare a meno.
«Volevo andare da Schemboche, ma costa troppo caro, ci si servono le Principesse e i Cardinali. Ho ripiegato sullo Studio Petrelli che sta in via San Zanobi, si risparmia e il risultato è uguale. Lo stesso, non mi sono bastati tre giorni di paga, perciò non la sciupare. E la prima fotografia che mi faccio, e non mi pare d'essere venuta male».
«Sei venuta come sei. Una pittura».
Era il marzo del '99, passò la primavera e l'estate, dall'isola egli le scriveva:
«Di me ti ho detto tutto... Ora mi farebbe piacere sapere qualcosa di più della tua persona. Va bene che hai preso il carattere di tuo padre, anche se non ti hanno mai entusiasmato le sue idee, ma come hai fatto a restare la ragazza che sei, abitando, da quando sei nata, in San Frediano?».
«Caro Metello, caro il mio cocchino» ella gli rispose, mascherando nell'ironia il sentimento che l'animava. «Non sono un fiore sbocciato sulla mota. Non sono né una mosca bianca né un'erojna. Ragazze come me, che non sono mai state sulla bocca della gente, in San Frediano ne trovi a dozzine. E avrei potuto offendermi della tua. domanda, ma sono sempre in tempo, casomai ci dovessi ripensare. E' il nome che ci siamo fatti, per via di Malborghetto e compagnia! Non che non sia vero, è vero, eccòme, ma d'altra parte, ti verrà chiaro che restare onesti e puliti, non è poi una grande fatica. A quanto ho potuto vedere coi miei occhi, fino da bambina, tra le mie strade, chi si è lasciato andare ci aveva dell'inclinazione, o degli esempi in famiglia ce l'hanno trascinato. Fame per fame, patire per patire, a fare le persone perbene si risparmia fiato e sudore. Poiché, nessuno è cattivo e ti fa del male, se non sei tu cattivo e non fai del male. Non c'è né galantuomini né ladri. L'ingiustizia, diceva mio padre, è generale. Ed è proprio così, almeno di qua d'Arno, non so altrove».
«Ma era di te, della tua persona, che io ti chiedevo. Perché non me ne vuoi parlare?».
«Ho fatto la terza elementare, questo lo puoi vedere da come scrivo. Se c'è un maestro costì nell'isola, fammi mettere il voto. E fagli correggere gli errori prima di passare le mie lettere alla "Chiacchiera"! Il simile farò io con le tue.... Dicono che ho conosciuto mio padre per la prima volta che avevo cinque anni, il perché lo sai. Fino a quindici ho aiutato mia madre ed ho sempre fatto la seggiolaja. Poi ho imparato questo mestiere dei fiori, altrimenti sarei entrata in Manifattura, e se non ci fossero stati i posti, faticante all'Ospedale, con la speranza di salir di grado, come ora... Ma non è questo che ti importa, credi non lo capisca? T'importa se ho avuto dei fidanzati. Sì, un pajo. No, non è vero. Ossia, un pajo sono stati più insistenti degli altri, ci sono andata qualche volta a bere una gazzosa, ma sempre dentro San Frediano. Non mi piacevano e li ho sùbito staccati. Poi sono stata lì lì per sposarmi, col mio ex principale, ma non era una cosa seria e me ne sono tirata indietro per tempo. Ho ancora da incontrarlo, l'amore, ma esiste?».
«Se esiste, Ersilia? Vorrei tu mi potessi vedere e leggere nel pensiero...».
Così trascorsero mesi e mesi, tanti perché ella compisse vent'anni, e una mattina, era la vigilia dell'Epifania, il 5 gennaio del 1900, una data impossibile da dimenticare, Ersilia aveva fatto il turno di notte e usciva d'Ospedale. Erano le sette di mattina, già nell'atrio il freddo tagliava il viso; fuori, il cielo era bujo, come se l'alba non si decidesse a spuntare; i lampioni a gas erano ancora illuminati sulla piazza e sotto il porticato, a metà del quale, degli uomini stavano attorno a un falò acceso dagli spazzini. Di nuovo, il cuore le salì in gola, prima ancora di poter dire a sé stessa la ragione. Metello dava le spalle al falò, le mani dietro il dorso; indossava un cappotto marrone col bavero tirato fin sulla bocca, un cappello dalla tesa grande calata, ma lo stesso, quando egli si mosse, già ella lo aveva riconosciuto. Egli dové avanzare di qualche passo, prima di pronunciare il suo nome. Ersilia gli sorrideva, e il suo affanno si era improvvisamente placato, aveva voglia di piangere tanto le cantava il cuore. Si dettero la mano, fu come se lui la volesse aiutare a scendere i tre gradini del portone, e allorché si parlarono, sembrò riprendessero un colloquio appena allora interrotto.
«Sono sorprese da fare?».
«Arrivavo prima io della lettera, anche se te lo scrivevo. Mi hanno condonato sei mesi, era Santo Stefano quando arrivò la comunicazione, per fortuna il giorno 30 c'era il postale».
«Sicché sei a Firenze...».
«Da tre giorni, ma mi hanno lasciato libero soltanto un'ora fa. Il tempo di arrivare in San Frediano e sapere da tua madre che facevi il turno di notte».
Camminavano fianco a fianco, e lui disse: «Dunque, ora che mi hai visto in viso, ti sei decisa?».
«Sei dimagrito» ella disse. «Sei bianco che fai paura, non ti sei nemmeno fatto la barba».
E spontaneamente, un gesto tuttavia ardito, ella lo prese a braccetto.
Egli disse: «Ti accompagno, debbo tornare comunque in San Frediano, ho da portare notizie a più di una famiglia. Alla moglie e alla figliola di Fioravanti in particolare. E' ammalato grave, e con l'età che ha chissà se lo rivedono».
Ma prima entrarono nel Caffè di Piazza Piattellina; lei prese un «corretto», lui un grappino. Gli mancava un centesimo, e lei lo soccorse. Uscendo, egli disse:
«Ho un bel coraggio a chiederti di sposarmi. Ma tu devi avere fiducia. E' stata una esperienza di cui avrei fatto volentieri a meno, ma di cui non ti posso dire di essermi pentito. Si torna di laggiù con una rabbia addosso, tu sapessi. Riuscirò a smaltirla. Poiché d'ora in avanti...».
«D'ora in avanti cosa?» ella lo interruppe. «Non giurare. Mio padre non c'è mai riuscito».
Si erano fermati un momento poco distante dal Caffè, egli la tratteneva alle braccia.
«Ora voglio soltanto trovare lavoro e metter su casa. Ci sistemeremo magari in camera ammobiliata, i primi tempi».
«In quanto a questo» ella disse, e lo guardava decisamente in viso, le ridevano gli occhi, «i primi tempi corrono fin da ora. Tu dormirai in salotto con mio fratello, ha diciott'anni, ormai è un uomo. Forse, se hai il sonno leggero, ti sveglierà, si alza alle tre, lavora da un fornajo. E quando ci saremo sposati» aggiunse «la mamma ci cederà la sua camera matrimoniale, se n'è già parlato».
Era giorno chiaro e via del Leone desta della sua umanità infreddolita; apriva il suo fondaco il noleggiatore di barroccini; il falegname digià era al lavoro; passò, con la vanga e la zappa bilanciata sulle due spalle, uno sterratore: era un uomo anziano, adusto nella persona, in testa aveva un berretto di cencio, e una sciarpa di lana incrociata sotto la giacca, era uno spirito allegro e disse ad alta voce:
«Su con la vita, gente, stanotte arriva la Befana!».
CAPITOLO 10.
Libero nacque che avevano lasciato San Frediano e abitavano due stanze e cucina nel Quartiere di Santa Croce, in via dell'Ulivo, a un primo piano soprastante la rimessa delle diligenze di Gràssina e dell'Impruneta. A primavera i bubboli di cui erano carichi i cavalli richiamavano Ersilia alla finestra. Ella si affacciava tra i due vasi di geranio, con in braccio il bambino. C'era sempre qualcuna di quelle donne che venivano dalla campagna coi cestini delle uova: se ne poteva comprare, risparmiando sul prezzo, mezza dozzina. L'imperiale della diligenza arrivava quasi all'altezza del davanzale: il conducente girava la martinicca e le dava il suo saluto. Sulla casa dirimpetto batteva il sole. Era festa ogni mattina. Metello ora lavorava verso il Campo di Marte, ora a un nuovo padiglione in muratura delle Fonderie, dalle parti del Pignone. Ella lo seguiva col pensiero; passava diciamo intera la giornata in attesa ch'egli tornasse dal lavoro; e non le mancavano le nuove amicizie del secondo e terzo piano, della moglie del mosaicista, giovane più di lei e facile di parlantina.
«Signora Salani».
«Sposina».
«Eh, anche lei, così giovane, eppure quante ne ha passate».
Dapprima, era sembrato difficile, ma poi, spartendo il centesimo, volendosi bene, erano trascorsi quasi tre anni, e pareva ieri che Metello l'aspettava fuori l'Ospedale, senza averla avvisata del suo arrivo. Ora il bambino aveva venti mesi, aveva messo i denti, s'era staccato, incominciava a parlare, e siccome assomigliava a lei più che a Metello, aveva i suoi occhi, il suo taglio di naso, v'era qualcosa del nonno in quel visino. Se la felicità è di questo mondo, come si dice, Ersilia era felice.
«A momenti, mi creda, tutto quello che le ho raccontato, mi sembra una bugia».
Come l'acqua d'Arno, non è vero? E' aprile, sono sbocciati i gerani, il fiume è placido e verde, riappajono i Canottieri, e gli artigiani di Borgo San Jacopo spalancano i finestroni; si fatica a ricordarsi dei giorni della piena, quando la città era stata tutta in allarme siccome sui piloni di Ponte Vecchio si erano infrante le «spie» e in Porticciola l'acqua era salita fino a lambire l'ultimo scalino. Quei tre anni, un baleno. In San Frediano Metello aveva subito trovato degli amici, a cominciare dal momento che erano entrati in via del Leone. C'erano Annita e Giannotto Gemignani, anche lui tornato da pochi giorni, l'avevano mandato a Lipari invece che a Lampedusa. Annita chiese a Metello dove si fossero conosciuti. Era sembrato una di quelle cose che si dicono; poi, cercando nella memoria, se ne erano ricordati. Nel '94 o '95 in una sera d'agitazioni, Metello l'aveva fermata all'uscita della Manifattura e le aveva chiesto un appuntamento. Che non aveva ottenuto, è naturale. (Ora ne ridevano insieme, ogni volta che ci cadeva il discorso, lui e Giannotto erano diventati inseparabili: pensavano allo stesso modo e facevano lo stesso mestiere. Soltanto il caso li aveva portati a lavorare sotto un diverso Padrone). Il giorno della Befana, durante il desinare, Metello le aveva detto: «Che nel mio passato ci fosse stata questa tua amica Annita, non l'avrei mai immaginato». Da allora, ella aveva capito che per buono, onesto e leale che fosse, nel suo carattere anche la vanità aveva la sua parte. Non le dispiaceva; era il suo uomo ormai e lei lo amava. Adesso come tre anni prima. La fortuna li aveva assistiti, Metello era stato riassunto dall'Ingegner Badolati, il lavoro non era più mancato, ora costruivano i Molini Biondi, ora le Case dei Ferrovieri, ora le nuove Fonderie; certe settimane egli portava a casa anche venticinque lire. E allorché era rimasta incinta di Libero, Metello l'aveva costretta a licenziarsi dall'Ospedale. Il suo salario, assistendoli la salute, gli bastava; si trattava di sapersi destreggiare, e di ricordarsi dello zero da cui erano partiti. Nelle ore perse della giornata, portando il bambino a prender sole, essa lavorava la treccia e in capo al mese, se arrivava a cento e cento metri, le davano uno scudo. Allora nemmeno ci si accorgeva della rata da versare all'usuraja di Carnaldoli, la signora Lorena. Erano serviti, quei prestiti, per affittare e metter su casa e poi per il parto e infine, il più recente, che aveva riportato il debito alla sua cifra iniziale, e malgrado che Metello l'avesse contrastata, per completare l'arredamento. Ora oltre al cassettone, ci avevano l'armadio, il lume con la palla e un lavamano per Metello e uno per sé.
«Se non si fa così non si può certo metter qualcosa da parte coi salari».
«Le piglia molto d'interesse, la strozzina?».
Anche in questo Quartiere, nuovo per lei, dove abitava gente magari un poco più civile, era lo stesso San Frediano. Da una finestra all'altra non c'erano segreti. Quando i primi mesi Metello era ancora sotto ammonizione, nessuno sembrò infastidito di averli come vicini.
«E' per la politica».
«Oh, ne so anch'io qualcosa» diceva la moglie del mosaicista. «Ho avuto uno zio che ha fatto versare più lacrime a mia madre».
Si capiva che non aveva significato nulla per lei, cotesto zio, e che era una ragazza soltanto un po' vanesia, a cui piaceva parlare. Ma anche a Ersilia piaceva parlare, e farsi delle amicizie, da finestra a finestra, sui pianerottoli delle scale, ora che aveva lasciato San Frediano. E Ida, Ida Lombardi, anche più giovane di lei, sposata da poco, presto era diventata sua amica. Si scambiavano delle visite, e una domenica erano andate insieme al «mattinè» del Teatro Pagliano, a vedere il "Ballo Excelsior", loro e i mariti. Dopo il quadro che esaltava il traforo del Sempione, Metello non la smetteva più di applaudire, «nemmeno l'avessero pagato», si trascinò dietro la platea, i palchi e il loggione dove stavano, e proprio perché ci aveva i calli non si spellò le mani.
«Sono le sue idee» si confidava Ersilia. «Uomini come Metello, se non fossero così, non sarebbero loro. Mi ci aveva abituato mio padre. Metello è più posato. Non è anarchico, è socialista. Ma già, lei cosa ne può capire? Siamo dovuti venir via per questo da San Frediano, siccome Metello ci s'era fatto subito degli amici e il Delegato gli aveva proibito di frequentarli. Specie Giannotto. Fanno lo stesso mestiere, si sono conosciuti alle Murate. Ma con la moglie di Giannotto, con Annita, siamo amiche da sempre. Così, finiva che la sera, ci si doveva chiudere in casa, come le galline. Metello non voleva che il Delegato lo prendesse a noja, era deciso a togliersi di dosso l'ammonizione il più presto possibile. E questo dipende dalla buona condotta, ma soprattutto dai rapporti che il Delegato manda alla Questura. Non gli faceva che ripetere: 'Perché non cambi aria, Salani? Non ci sei mica nato in San Frediano? Vai ad abitare in un altro Quartiere, rompi con certe amicizie e mi alleggerisci un po' di lavoro'. Le amicizie non si possono rompere, ma cambiar casa sì, e siccome prima o poi si doveva togliere il disturbo a mia madre, e mi stava per nascere il bambino, ci si decise...».
Ida sospirava, era anche lei un'amica ormai, a suo modo, e bisognava compatirla a volte, per quello che diceva. «D'accordo» diceva. «Ma chi glielo ha fatto fare, al signor Metello, di sporcarsi la fedina? Un uomo così distinto. Lei mica s'ingelosisce, vero? Così distinto che la domenica non sembra nemmeno un muratore».
«Si provi a dirglielo, ci tiene tanto alla sua professione! Eppoi, sa com'è? Queste idee, che gli uomini sono tutti uguali, che tutti si ha diritto di lavorare e di non essere sfruttati, quando sono entrate nel sangue, tirano come il sangue, proprio. O non sono le stesse cose che dice il prete al Vangelo?».
Ida spalancava gli occhioni neri, era bruna come Ersilia, aveva quindici anni meno del marito, ch'era un Maestro nel suo mestiere, e tuttavia, per giovane che fosse, Ida lo comandava a bacchetta, gli aveva messo la sottana. Cose, queste, che più difficilmente accadevano in San Frediano.
Ora, ella si recava nel suo Rione, una volta la settimana, a trovare la madre che non voleva staccarsi da quelle strade. «Ho camminato anche troppo nella mia vita, e passare l'Arno è sempre un'avventura» diceva; continuava il suo lavoro di seggiolaja e custodiva la casa in attesa del figlio, partito da appena pochi mesi, per «scontare» la sua ferma di soldato. Ersilia gli scriveva sotto dettatura della madre, e gli mandava ora sei, ora dieci soldi, ora una lira, comunque sempre le metà del suo guadagno di trecciajola. E come s'egli fosse al domicilio coatto. Tale e quale.
Quindi, s'incontrava con Annita, con Lidia Martini rimasta vedova di Pisacane, portava la rata alla strozzina, e di uscio in uscio, non le mancavano le occasioni per rammaricarsi o per gioire. Fioravanti il tornitore, era morto a Lampedusa: l'amnistia, che pure gli aveva risparmiato dieci dei tredici anni della pena, era arrivata tardi, l'artrite l'aveva preceduta. E ormai da un anno, era morta Miranda, diversamente certo, da come avrebbe desiderato: essa sognava le barricate, e a capo del letto, invece di un'immagine sacra, teneva il ritratto della Vergine Rossa di Parigi: si era spenta in una corsia degli Innocenti, dando la luce a due creature. Dopo il parto, già di per sé laborioso (si diceva che quei medici l'avessero «sbranata») era sopraggiunta l'infezione. Guido Ciappi aveva dato ai due gemelli il proprio nome e gli pagava la balia. Ghigo e Antonietta Monsani, erano espatriati in America, clandestini, in cerca di lavoro e di avventure. E il Caffè di Piazza Piattellina, battendo sul tempo addirittura il Bottegone, aveva inaugurato la luce elettrica. Questo succedeva l'inverno del 1901, giusto nei giorni in cui il Ciappi si era unito con Lidia Martini, da tre anni vedova, sola con la piccola Jole, uno splendore di biondo, andava digià a scuola, e avevano ritirato in famiglia i bambini di Miranda.
E poi era venuta la primavera, era andata male la colombina del Sabato Santo, era uscito al Lotto un ambo popolare. Ed era tornato dal Belgio Olindo Tinaj, povero se possibile più di quando era partito coi suoi, vent'anni prima. Metello gli aveva aperto le braccia e lo considerava un fratello, come del resto in certo senso gli era. Ora in San Frediano era venuta l'estate, era morta la vedova di Fioravanti, e ad Annita e Giannotto era nato il secondo figliolo.
«Siamo come una famiglia, capisce Ida? Si sa tutto di tutti, si vive più che non si viva qui, in mezzo alla strada. Non ci possono essere dei segreti».
«Già, già, d'accordo» ripeteva la bell'Idina. «Ma lei, mi creda, non sembra di San Frediano, è così giovane, così bella, così cortese... E il signor Metello, lui, va bene che non c'è nato, ma pare non ci abbia mai nemmeno messo piede, un uomo così distinto...».
«... Così perbene». Il sole, sui «ponti», gli cuoceva il viso, i suoi trent'anni ci aggiungevano vigore. Ora portava i baffi, lunghi ma non arricciolati, non è da muratori, ci vuole la pomata e ci si impasta la calcina. I capelli leggermente diradatisi sulle tempie, e delle rughe sulla fronte e agli angoli del naso, sembravano accentuare la sua maturità e la sua salute. Egli era un uomo nella piena fioritura. Ida lo divorava con gli occhi, abbassandoli discreta tutte le volte che lui la guardava o che Ersilia li guardava. Ma né Metello né Ersilia sembravano accorgersene. Ersilia non aveva motivo di essere gelosa, e in quanto a Metello, egli riconosceva le grazie di Ida, la sua freschezza, il profumo ch'essa dispensava a starle vicino, ma non l'aveva troppo in simpatia. Piuttosto che gradirla la sopportava siccome Ersilia l'aveva per amica, ed era una buona ragazza dopotutto, non poteva fare a meno di convenirne. Non usciva mai sola; la sua casa era uno specchio, anche perché aveva una donna a mezzo servizio che l'aiutava; spesso, nel pomeriggio, scendeva da loro Salani e si metteva a giocare con Libero ore ed ore. Gli aveva portato un vaso grande di marmellata di fichi «fatta con le sue mani», e promesso un cavallo a dondolo, di cui avrebbe scritto alla Befana. Si faceva chiamare Tata dal bambino, che sapeva digià parlare e avrebbe potuto chiamarla col suo nome o zia, se le fosse piaciuto. Anche, da qualche tempo, aveva imparato a confezionare i fiori di carta, Ersilia le aveva insegnato, e non per venderli, ma per divertimento, ce n'era piena la casa. E proprio questo suo eccesso di femminilità, o meglio, l'ostentazione che Ida metteva in ogni suo atto, e come si muoveva e come parlava, le cose che diceva, «da non stare né in cielo né in terra», o tutt'al più sulla bocca di un neonato, quei suoi gesti di cucciolo, di gattina, infastidivano Metello. Una volta le aveva detto: «Mi levi una curiosità, Ida. Lei, parla e si comporta così, tutta rose e miele, perché le viene naturale, oppure è una cosa studiata?». Ida era arrossita, ed era intervenuta Ersilia. «Non ci faccia caso, Metello sarà anche distinto, ma deve ancora imparare l'educazione». Ida gli aveva sorriso: «Vuol dire che lo considero un complimento». Gli aveva steso la mano: «Amici come prima». E più infastidiva Metello la dabbenaggine, la condiscendenza, la sottomissione di cui la faceva oggetto suo marito. Cesare era un uomo come lui, aveva qualche anno di più, toccava i trentacinque, e allora? Un po' d'energia! La spendeva tutta nel prendere le pietruzze delle tessere e nel battere col martellino sul telajo? Non beveva fuori dei pasti, fumava il sigaro la domenica perché non lavorava, era un pezzo d'uomo alto quasi quanto Metello ma dalle spalle rientrate per via del suo mestiere, e la faccia spenta di un impiegato. Tolto della moglie, che del resto era lì, e di ciò che ad essa interessava, non si sapeva con lui di che parlare.
«E' un artigiano» gli diceva Ersilia, quando erano soli e ci capitava il discorso. «Non è come te, ha avuto un'altra educazione. Si contenta di quello che ha. E non ha certo meno di noi. Ha un laboratorio e due lavoranti sotto di sé. Questo gli permette di vivere senza preoccupazioni, e di pensare soltanto a sua moglie e al lavoro. Sembra tu non lo stimi perché non ha idee per il capo» sorrideva, scuotendo la testa. «E' un artigiano» concludeva.
«Ma ne conosco anch'io di artigiani, e non ho mai inteso dire gli sia proibito il vino e di avere delle opinioni. Non si tratta di essere o no artigiano, si tratta d'averci o non averci del sangue nelle vene».
Il discorso tornava così a cadere su Ida, e Metello diceva: «Sai cosa le ci vorrebbe? Qualche bella labbrata, che la scuotesse. Eppoi dirle: Zitta, ve'».
E ridevano insieme, ed Ersilia portava la sua sedia accanto a quella di Metello e passava il proprio braccio attorno al suo. Egli finiva il suo sigaro e il suo bicchiere di vino, ella aveva riordinato la cucina, e gli diceva:
«Come sei lesto a tirar le labbrate. Ma a chi le tiri?».
Lui le misurava uno schiaffo, che diventava una carezza, e si abbracciavano. Entravano in camera sulla punta dei piedi, abbassando la fiammella del lume, per non infastidire il bambino che dormiva nel loro stesso letto, su un lato, rincalzato dai guanciali e riparato dalla spalliera di una sedia. E si coricavano, e lui la prendeva, in silenzio, come quella notte di febbrajo, due mesi dopo il suo ritorno.
Erano stati allo spettacolo dello Stenterello Niccòli, avevano tirato i coriandoli e le saette di carta sulla platea; era la notte del Martedì Grasso, avevano bevuto il ponce al mandarino al Caffè di Piazza Piattellina, poi si erano messi a ballare con gli altri in mezzo alla piazza, c'era quella scatenata di Miranda che si era legata le sottane alla cinta e faceva il salto mortale; erano passati dei signori in carrozza vestiti da Pierrot da Pierrette e tutti ubriachi, il cavallo andava a gran carriera come fosse infuriato, nessuno li riuscì a fermare, anche quello che stava a cassetta era mascherato, lanciarono dei confetti e per poco Miranda non rimase investita dal "legno" che come era apparso da Piazza del Carmine, sparì dietro le Mura. Era una notte che non faceva freddo, c'era la luna; rientrarono eccitati per il ballo e lei anche per il ponce a cui ne era seguito un secondo offerto da Giannotto Gemignani. In casa, la mamma dormiva; suo fratello era digià andato al forno. Le due stanze erano lontane l'una dall'altra, le divideva il corridojo e in mezzo c'era la cucina. Chiusero la porta sulle scale; da due mesi che Metello era loro ospite, ogni sera si erano salutati a metà del corridojo. Non ci fu bisogno di dirsi nulla. Metello la spingeva dolcemente alle spalle, e lei entrò per prima nella sua camera, e si lasciò cadere sul lettino, mentre lui la baciava. Dalla strada si sentì Miranda e gli altri amici che passavano, Miranda gridò: «Popolo ciuco, impazza il Carnevale». Poi il silenzio, e per la prima volta Metello la prese, vergine e piena di desiderio.
E ancora adesso che avevano salito le scale del Municipio, avevano una casa tutta per sé, gli era nato il bambino, era con la stessa trepidazione, lo stesso trasporto, la stessa gioja di quella prima volta ch'essa gli si dava quando lui la cercava; e con la stessa dolcissima attenzione di allora, la stessa irruenza, lo stesso amoroso vigore egli la possedeva. Nei loro due corpi che aderivano l'uno all'altro, sudati, l'affetto che li univa trovava la sua esaltazione, la sua sempre rinnovata e tangibile e più certa ragione di esistere e di durare.
Metello, da allora, così come non aveva guardato altre donne, nemmeno le aveva desiderate. Ersilia aveva ventitré anni ed era sua moglie; era bella, e lo compiva. La snellezza del suo corpo, appena un poco appesantito dopo la nascita del bambino, favoriva questo durare della gioventù in ogni sua parte: nella freschezza del volto, nel candore del seno. La cura, il rispetto ch'essa aveva della propria persona; la semplicità e insieme la dissimulata civetteria che metteva nell'acconciarsi con un nulla: le bastava una spilla, un nastro, due buccole di corallo per rendersi ogni volta attraente e nuova; e la fermezza, l'equilibrio del suo carattere, il suo disinvolto coraggio nell'affrontare i momenti difficili, il suo modo di mandare avanti la casa liberandolo da ogni querimonia, gliela rendevano sempre più preziosa. Completava la sua domestica felicità, la presenza del bambino.
Cotesta sera, prima di addormentarsi, Ersilia gli chiese. «E' domenica domattina, a che ora ti sveglio?».
«Basta alle otto» egli disse. «La riunione è a Monterivecchi per le dieci».
Al mattino, ella si era già alzata, Metello aperse gli occhi e vide Libero desto, lo sollevò, dall'altro capo del letto dove si trovava, e si mise a giocare con lui. Gli batteva fronte contro fronte e il bambino rideva. Ersilia entrò e gli chiese:
«Avete calcolato tutto per questo sciopero, vi conviene?».
«Tu che dici?».
«Dico di sì, se vi conviene».
Ella pensava che avrebbe dovuto finire in fretta gli altri cento metri di treccia che le rimanevano da fare, siccome le cinque lire sarebbero state necessarie più di sempre, era facile prevederlo. L'anno prima erano scesi in sciopero e avevano resistito due settimane; era di nuovo maggio e ci si riprovavano.
Egli disse: «Ora resta da vedere se la maggioranza ci sta. Bisogna andare fino in fondo questa volta». Aggiunse, quasi per giustificarsi sembrava: «Noi si può anche tirare avanti. Ma sai quanti sono nel nostro cantiere, che arrivano a venticinque lire la settimana? Dieci su cinquanta. Gli altri non toccano le venti lire, e hanno tutti anche tre o quattro figlioli. Ora lavoro c'è, non è più il momento in cui ci possono minacciare la disoccupazione».
Ma fu lei, Ersilia, a sollecitarlo, perché si vestisse, e a dirgli:
«Noi si può tirare avanti, dici sul serio? Ho da pagare la rata alla strozzina, ho una lira e dieci di debito arretrato col droghiere. E non siamo ancora riusciti a trovare il modo di comprare la culla al bambino. Tra poco ha due anni, sarebbe l'ora di toglierlo dal nostro letto, non sei di questo parere?».
Egli si alzò, aveva in collo il bambino che si sporse verso la madre, e con un braccio si tenne a lei e con un braccio si tenne al padre:
«Mamma babbo "Libelino"» sillabò.
Essi lo ricopersero di baci, e si baciarono; erano caduti tutti e tre sul letto e ridevano come tre bambini.
Qualcuno chiese permesso alla porta sulle scale rimasta socchiusa. Entrò Olindo Tinaj, venuto a prendere Metello.
CAPITOLO 11.
Metello aveva ricevuto le notizie e i saluti dei Tinaj, l'ultima volta in occasione delle ricorrenze del '95; si trovava a Napoli e di lì a poco era stato congedato. Gli aveva ancora scritto, in seguito, ed anche loro a lui sembrava (certo, in quei tempi egli aveva cambiato spesso indirizzo, dallo stambugio di Pestelli alla baracca del cantiere) poi i fili si erano spezzati. Ma uno sempre ne resiste, quello via via più sottile ma di refe della memoria, che quando il bisogno preme, diventa un canapo, una fune. Due mesi fa, Olindo aveva bussato in via dell'Ulivo, e fattosi riconoscere da Ersilia, e saputo dove Metello lavorava, non si era nemmeno fermato, era andato ad aspettarlo all'uscita del cantiere. E dopo la sorpresa gli abbracci e la bevuta, le notizie che gli aveva dato non erano state di consolazione. La miniera, dove seguendo l'esempio del padre, loro quattro fratelli erano scesi uno dopo l'altro, li aveva messi in ginocchio, o quasi, quando non li aveva uccisi. Dapprima babbo Eugenio, ma non lavorava già più in miniera, dopo qualche anno stava perdendo la vista, faceva il bracciante da quei contadini: è una terra avara, nera, peggio della nostra di Rincine, magari! Si colpì tra coscia e inguine con un pennato, sembrava una cosa da nulla, ma la ferita s'infettò, ebbe un'agonia di tre giorni. Nel delirio parlava di Rincine, dava la colpa al Guardia d'averlo ferito, fece anche il nome di Metello prima di morire. Eppoi Vittorio, che era rimasto sepolto da uno scoppio di "grisou", la settimana di Pasqua del '98, insieme a sei compagni. Laggiù sono cose normali, se non è un disastro in grande non appare neanche sui giornali. Vittorio aveva ventitré anni, e si era appena sposato: era anche lei figlia di italiani emigranti e minatori, una veneta, e si era risposata con Carlo, l'altro fratello, il penultimo, ci correvano due anni tra lui e Vittorio. «Sai, era rimasta con noi, lei e il bambino, era una donna, era sempre per casa. Erano due bocche che in un modo o nell'altro si dovevano sfamare. Ora hanno altri due figlioli. Sono rimasti a Charleroi, tengono con sé la mamma». E c'era Ascanio, Metello lo ricordava col sottanino, e doveva avere adesso anche lui una ventina d'anni. Morto Vittorio, non ne aveva voluto più sapere di miniera, se ne era andato, e di famiglia e dal Belgio; scriveva di tanto in tanto, ultimamente da Pau: gira gira, anche se non lo scriveva, doveva essere ridisceso in una miniera. Nelle sue lettere non si spiegava mai bene, di tanto in tanto mandava dieci franchi alla mamma, e da Pau aveva scritto per via delle carte, siccome voleva diventar francese. Era un passo che anche Vittorio e anche Carlo avevano digià fatto: una volta naturalizzati li guardavano con un altro occhio, e li pagavano un po' meglio. «Siamo partiti da Rincine per diventare chi belga, chi francese. Si fosse fatto almeno, in cambio, un po' di fortuna». C'era, infine, la sua storia. «Io no, io sono rimasto italiano». E se le altre storie, dei suoi fratelli e di suo padre erano semplici, tanto che non aveva bisogno di infittirle di particolari, la sua, in apparenza più complessa, era anche più semplice in definitiva.
Non aveva preso la nazionalità perché gliel'avevano rifiutata. Si era deciso per primo, ma capitò in un momento che quel Governo aveva messo il fermo alle adozioni; e quando ci volle riprovare, il Console lo sconsigliò, ricordandogli la Patria: erano i tempi di Adua e sembrava un tradimento. «Se non mi fossi lasciato intenerire, a quest'ora non sarei qui a chiederti: Metello, fammi pigliare come manovale, mettici una parola». Lavorava in miniera da dieci anni, si era sposato anche lui con un'italiana, e gli erano nati i primi due figlioli, quando durante una fuga di "grisou", non uno scoppio una fuga, cose che capitavano tutti i giorni, cotesto giorno la maschera non funzionò o lui se l'era calzata male, respirò tanto gas prima di raggiungere l'altra galleria, da crollare a terra come un cencio, appena in salvo. Fu in sanatorio per sei mesi, ne uscì «coi polmoni rattoppati», ma gli riconobbero il diritto alla liquidazione. «Una miscèa, ma da un male sembrava nato un bene»; disponeva di un piccolo capitale. Di tornare in Italia, malgrado la mamma non facesse che sognar Rincine e Londa come una prigioniera l'aria e il sole, non se lo proposero nemmeno. Cosa sarebbero tornati a fare? Ormai la loro vita era lì, ci avevano messe le radici. Questo era successo tre anni prima. Coi soldi della liquidazione aveva preso in appalto un bettolino. «Si cucinava la pastasciutta, sai, i nostri minestroni, la 'ribollita', mi feci mandare il vino di Contea, pagando s'intende, dalla zia. La sorella del babbo, te ne ricordi? E' fattoressa da un pezzo, hanno fatto i quattrini, lei e lo zio Ascanio». Al suo bettolino ci andavano anche i capisquadra e gli assistenti, e non soltanto gli italiani; sembrava si cominciasse a vedere un po' di luce. Macché, scopersero che quei minatori giocavano d'azzardo con le carte, nel retrobottega, e gli venne ritirata la licenza: per scampare il carcere, dové pagare una multa che si mangiò il capitale. «Fu tutta invidia, una spiata, mi vollero rovinare, siccome non ammettono che un italiano possa salire più su di uno scalino». Tornare in miniera non poteva, non lo avrebbero ripreso e non glielo permetteva la salute. Intanto gli erano nati altri due figlioli. «Cosa facevo? Dopo qualche mese, non avevo più un franco, vivevo alle spalle di Carlo, e siamo sei persone. Il ragazzo più grande ha otto anni appena». Decise di rimpatriare; sperava che a Rincine la zia li avrebbe sistemati, ridandogli un po' di terra, se la sarebbe sentita di ricominciare daccapo, ma dubitando che la zia avrebbe risposto con un rifiuto, invece di scrivere, gli erano capitati di sorpresa. «Sul primo lo zio Ascanio ci voleva mettere in mano dei Carabinieri, già si era tornati in Italia col foglio di via. Poi ci hanno dato una stanza sul dietro della Fattoria, si dorme tutti lì, mia moglie, io e i figlioli. Mia moglie fa i servizi in Fattoria, l'hanno costretta fin dal primo giorno a sfacchinare. Ma io, andare in giro a offrir le braccia, fare il parente povero, e con la poca salute che ho, dopo un mese non me la son più sentita. Ma il bisogno rimane, e siccome ho visto che tanti di Contea e di Londa sono tornati a lavorare a Firenze nei cantieri... Aiutami, fammi fare una bella figura. Ho bisogno di lavorare. Anche la mamma, mi si è raccomandata cento volte prima che io partissi: 'Cerca Metello, vedrai, se hai bisogno t'aiuta. Vi ho allevati con lo stesso latte, è un animo buono. Digli che lo vorrei tanto rivedere'. Ti considera come un suo figliolo, come uno di noi. E in fondo, rimanendo qui, di tutti noi tu sei stato il più affortunato».
E mentre andavano verso casa, la sera stessa che si erano rivisti, dopo quindici anni o quasi, Olindo gli chiese: «A Rincine non ci sei mai più tornato?».
«Me ne è mancata l'occasione. E a dir la verità, non ne ho mai avuta nostalgia».
«Ma lì tutti si ricordano di te. Anche Cosetta. Tu di Cosetta te ne ricordi?».
«Come no?» disse Metello. «L'ho ancora qui». Si toccò la gola.
«Si è fatta bella grassa, tu la vedessi, è proprio una sposona, non le si addice più quel nome. Verso i vent'anni si era chiusa in convento. Ma poi, figurati se non ci ripensò prima di prendere il velo! Scappò col figliolo del procaccia. E con lui che si è sposata. Hanno tre diligenze e sei coppie di cavalli. A tutti è andata meglio che a me» ripeteva.
Metello aveva parlato all'Ingegner Badolati e la settimana successiva Olindo era stato assunto come manovale.
«Eh, Metello, tu hai la felicità in famiglia, e un Padrone che ti apprezza e t'ascolta, malgrado le tue idee. Ma lo meriti, te lo dico senza invidia».
Così Olindo l'aveva ringraziato.
Delle idee? Ora che aveva finito l'ammonizione, si era iscritto al Partito. Gli era sembrato logico, dopo gli otto mesi di carcere e gli undici trascorsi nell'isola, dove non si era trovato peggio degli altri: c'era da costruire una Caserma dei Carabinieri, e aveva potuto anche lavorare: e dove aveva frequentato uomini che potevano stare all'altezza di Del Buono e del Chellini. Ma era, un'esperienza diciamo, della quale non si vantava e non gli piaceva di parlarne. «Ho visto troppe ingiustizie, ho mangiato troppo fiele, più presto me ne dimentico meglio è. Basta me ne ricordi dentro di me, per i momenti in cui mi si rendesse necessario. Da vecchio, semmai, lo racconterò ai nipoti». Tuttavia, come il suo corpo fioriva nella piena maturità, così il suo modo di agire e di pensare, dacché era ritornato a Firenze e al lavoro, si era rafforzato. Se un tempo egli si proponeva di non essere mai né l'ultimo né il primo, i fatti gli avevano dimostrato che cotesta era una posizione impossibile da sostenere. In ogni circostanza l'urto è uno solo, e non conta il peso delle singole spallate. «Chi è più forte, spinge più forte» diceva. «Gli viene naturale». Non esiste un primo e un ultimo, e si tratta, piuttosto che di muscoli, di carattere, e di persuasione. Di volerla una cosa, oppure no. Di stare da una parte o dall'altra poiché, diceva, il mondo è diviso in due, ci sono gli amici e i nemici. «Le vie di mezzo sono fatte per chi ha tempo da perdere e paura che gli venga a mancare la pappa scodellata». Accedeva a delle distinzioni: «C'è, semmai, la scala del più e del meno, ma riguarda la considerazione in cui devi tenere gli amici. A volte sbagliano, tutti si può sbagliare. Una cosa non è mai tutta bene o tutta male. Anche nella più bell'uva vedrai delle macchioline, è da lì che l'acino, se lo conservi, incomincia a marcire. Tu, cotesti amici, aspettali al momento che i fatti, come le sorbe, vengono a maturazione. Ma intanto, cammina insieme a loro, non ti staccare. Potrebbe essere che il torto fosse tuo. Certe volte inganna perfino il filo a piombo, e perfino lo specchio, figùrati se non ci si inganna a giudicarsi di persona. Infallibile non è nemmeno il Papa. Nemmeno Marx, credo, anche se non l'ho studiato. Nessuno. Quindi, tra quelli che la pensano come te, guarda chi ne sa più di te, pesalo, fatti capire, e poi vagli dietro, vai bene».
Questa era la sua opinione e il suo modo di pensare.
«Se ti stacchi, ti sperdi» diceva. «E chi si sperde, presto o tardi passa da quell'altra parte. Diventa come un caporale ch'è tutt'uno col padrone, e se gli riesce intrappola anche lui, come ha fatto il Madii che si è messo in proprio, ingannando e rubando a Badolati. Ma bisogna tu ci sia nato. Con l'onestà non si arriva mai lontano; e anche senza essere dei veri ladri bisogna essere furbi in una maniera particolare, come la volpe in un mondo senza tagliole». Può darsi il caso, aggiungeva, che un amico si cambi in nemico, raro è il contrario. «I tuoi nemici ce li hai stampati davanti agli occhi, sta' attento quando ti stendono la mano».
Questo era il suo modo di agire, come diceva, in generale. E invitava gli altri a farlo proprio, allorché occorreva trovarsi d'accordo per una richiesta d'aumento che appariva sacrosanta o contro un sopruso troppo grosso da ingojare. Anche diceva: «Secondo Del Buono, secondo Pescetti e Marx e Turati e tutti quei barboni, è lotta di classe, chiamiamola così. L'importante è strappare sempre un po' più di pane. In quanto al resto, è naturale che spesso tu debba strizzare il ganascino proprio al muso su cui sputeresti più volentieri. Sarebbe tale una soddisfazione! Ma c'è da portare in fondo la giornata, il sabato bisogna riscuotere il salario. Se no, a casa, nella pentola, che ci bolli? La lotta di classe, la soddisfazione?».
Lo ascoltavano, in cantiere e alla Camera del Lavoro. Del Buono lo interpellava prima di sottoporre ai più il modo di impostare un'agitazione, una protesta. I suoi compagni di mestiere gli volevano bene, gli dispiaceva non si mettesse di più in evidenza: ultimamente avrebbero voluto mandarlo delegato al Comizio dei Muratori e lo stesso si era schermito, c'era andato Giannotto al posto suo. «Nodavvero» egli diceva in queste occasioni. «Ci basta Del Buono, anche se non è un muratore. E Giannotto va benissimo, lo conosco. Io voglio contare per uno, ed essere libero delle mie azioni quando ho finito il mio lavoro. Se mi chiamate accorro, ma per mettermi in fila. Ci ho una moglie giovane, mi piace l'Opera, mi piace prendermi delle distrazioni. Potessi, mi piacerebbero tante cose» sospirava.
Quelli, dei suoi compagni di lavoro, che venivano dalla campagna, e che per darsi un'arte, e un pane che la terra gli negava, si erano fatti muratori, riconoscevano in lui uno di loro, che in pochi anni era andato avanti col cervello ed era capace di comprendere i loro umori e le loro ragioni; e quelli di città, oltre a valutare come tutti la sua coscienza nel lavoro, apprezzavano la sua facilità di parola, l'ornato e la spregiudicatezza del suo linguaggio vernacolo, e a maggior ragione lo stimavano.
Tra i primi, con in più l'affetto e il sottile grado di parentela che li legava, c'era Olindo, infatti.
Avevano succhiato allo stesso seno, ma in apparenza, piuttosto che fratello Olindo gli avrebbe potuto essere padre. Gli anni di miniera, il peso della famiglia e i guai che negli ultimi tempi in specie gli erano capitati, l'avevano anche fisicamente abbattuto. Il suo corpo appariva come prosciugato. Di media statura com'era, aveva la testa piccola, pressoché calva ormai, ossuta, di vecchio. E questa vecchiezza precoce, del resto non rara tra quegli stessi muratori, soprattutto traspariva dal viso, segnato dalle rughe e così magro che gli zigomi sembravano bucare la pelle e le labbra quasi scomparire dentro la bocca sdentata. Né lo ravvivava lo sguardo: i suoi occhi marroni scuri, come conficcati dentro quelle orbite fonde, più apparivano dolci, spauriti, più ti sfuggivano, non sapevi mai se esprimessero rassegnazione o dissimulassero una costante inquietudine. Sul lavoro, il suo modo di fare, sempre lamentoso e nondimeno sempre pronto al risentimento, la sua fiacca seppure giustificata dalla poca salute, e di conseguenza il suo evidente desiderio di entrare nelle grazie del caporale, non gli avevano guadagnato molte simpatie. Ma egli era il fratello di latte di Cipressino, Metello lo proteggeva, e quindi, se Olindo non si era fatto dei veri e propri amici, nemmeno aveva suscitato rancori né dichiarate antipatie.
Cotesta mattina, usciti di casa, attraversarono Piazza Santa Croce, e Metello si ricordò di dover comprare da fumare. Acquistò un sigaro, lo trinciò alla piccola mannaja ch'era sul banco del tabaccajo e ne offerse mezzo a Olindo. Il quale, invece di accenderlo, lo conservò, disse: «A digiuno non mi va, eppoi lo debbo far durare. Coi giorni cui andiamo incontro, chissà cosa ci potrà capitare».
Erano sulla soglia della tabaccheria, Metello stava col fiammifero tra dito e dito, l'aveva sfregato al muro, aspettava si consumasse lo zolfo, intanto lambiva il sigaro alla punta e poi l'accese.
«Ci capita che chiediamo meno di un'elemosina».
«Tu parli bene, ma uno che è nelle mie condizioni. Io davvero è come se fossi digià all'elemosina».
«Sono in molti a trovarsi nelle tue condizioni» disse Metello, gettò lo zolfino, e aggiunse: «E anch'io, ti sarai reso conto che non navigo nell'oro. Siamo tutti a un passo. Perciò si è deciso, e l'animo, questa volta, è di far sul serio».
«E se va a finire come l'altr'anno? Io non c'ero, vojaltri me l'avete raccontato. Doveste tornare in cantiere col bel risultato di aver perso due settimane di lavoro».
Metello lo guardò in viso, e Olindo abbassò gli occhi, si erano nuovamente incamminati. «Anche in Belgio, cosa credi? negli ultimi tempi ci s'è provato. Ne andò bene uno su tre. Al terzo sciopero ci aumentarono due soldi, e in tutto si persero trentaquattro turni. Dopo un anno che si lavorava con la nuova paga, praticamente non si era ancora ripreso quanto si sarebbe guadagnato se si fosse fatto a meno di scioperare».
«E tu, oggi, dille queste cose. Chissà che qualcuno non ti dia ragione?».
«Io non mi metterò mai contro di te» borbottò Olindo.
E Metello disse: «Sei proprio rimasto il pastore di una volta». E lo prese a braccetto, e gli strizzò l'occhio siccome stavano incrociando una bella donna. C'era comunque l'affetto e la realtà miseranda in cui Olindo si dibatteva: la moglie i quattro figlioli e la sua poca salute: a renderlo comprensivo. Gli disse: «Non è stata mica un'idea mia o di Del Buono o di Gemignani. La mia volontà e la loro, contano tutte per uno. E' stata la maggioranza, e proprio quelli che vengono di campagna come te sembrano i più decisi, siccome non ce la fanno più a tirare avanti».
«Se non ce la fanno loro, e non ce la fai tu che sei muratore, cosa dovrei dire io che alla mia età lavoro e piglio la paga di un manovale?».
«Ecco» Metello disse. «Continua il discorso».
«Sarebbe?».
Erano sbucati in Corso dei Tintori, e Del Buono, sulla porta della Camera del Lavoro, tormentava la corona del grosso orologio che il giornale del Partito regalava ai «sostenitori», col nome inciso sulla cassa. Vide Metello e gli gridò: «Sei in ritardo, non ti pare?».
«No, non mi pare. E' il tuo orologio che non può fare a meno di andare avanti, lo devi fermare».
Risero e tutti insieme allungarono il passo; presero delle vie traverse e oltrepassarono la Circonvallazione. C'era Giannotto; c'era Renzoni (Renzoni piccolo, come lo chiamavano: un manovale piccolo d'anni e di statura, quanto il giovane Re d'Italia, e non ancora aveva fatto il militare). E dei cinque, Del Buono, ch'era il più anziano, era quello che camminava più spedito. Ora la strada diventava obbligata, chiusa dagli alti muri ai due lati, lasciava sulla sinistra la Villa Medicea e al di là di Careggi, si inoltrava verso il Poggio. La risalivano, a due a tre, distanziati o in fila, i muratori.
Era una metà di maggio torrida, che anticipava l'estate.
«Dico, Del Buono, non si potrebbe andare più piano? Io ho fatto il soldato in Fanteria, non nei Bersaglieri. Del resto, lo vedi quanti ce n'è ancora per la strada?».
Più avanti, una colonna di militari, a passo di campagna e i fucili a spall'arm, si dirigeva al Poligono.
«Poveri ragazzi» disse Metello. «Come li compiango».
Ma Del Buono, soffermatosi un attimo: «Su su» disse. «Mi sembra sia bene arrivare per primi, non ti pare? Eppoi, per raggiungere Monterivecchi ci vorrà un'altra mezz'ora».
CAPITOLO 12.
Monterivecchi era ancora lì, uguale, e li aspettava. Forse qualche faggio si era seccato, o l'avevano tagliato, altri ne erano cresciuti, l'erba dei prati non era più la stessa, ma uguale, e così i sassi, gli arbusti, i papaveri ai bordi della carreggiata, e il frinire delle cicale, come in una domenica di tanti anni prima, quando ci si davano appuntamento Betto e Caco, Quinto Pallesi e il padre di Miranda e Fioravanti il tornitore, le loro donne e amiche, cosa c'era di cambiato? Sulle colline che circondano la città, negli stessi prati e boschi dove venti e trent'anni prima anarchici e internazionalisti si riunivano a gruppi, con chitarre vino e soprassata, fingendo innocenti gite domenicali per distrarre l'occhio della Polizia che ovunque li seguiva, convenivano ora i muratori per discutere dei loro problemi.
Allora erano anarchici e operaisti della Prima Internazionale, adesso erano socialisti e della Seconda Internazionale, e la diversità non consisteva nella differenza di un numero e di una parola, bensì nel fatto che non erano più dei gruppetti, ma delle Leghe. Dapprima le avevano chiamate: «di resistenza». "Lega di resistenza" fra cappellai in paglia, framaniscalchi, fra sellaj e carrozzieri, fra marmisti e scalpellini, cuochi e camerieri, stuccatori e formatori; fra sarti, fra infermieri, fra doratori, fra corniciaj, fra operaj dei molini a vapore e a forza idraulica, fra trombaj e fontanieri; e fra cocchieri di fitto, e venditori di giornali, e «operaj addetti alla vuotatura inodora» perfino. Erano un esercito, duecentottanta soltanto i vuotatori, ed erano organizzati. Loro e le loro donne. La Lega delle sigaraje, dopo quella dei muratori e manovali, era la più numerosa. E dietro e avanti a loro, invece di avere dei Circoli, delle Società Operaje, delle Mutuo Soccorso, li guidasse De Ambris o Turati, avevano ora anche un partito, e Deputati in Parlamento, e giornali che uscivano tutti i giorni, puntuali come "La Nazione".
C'era che proprio adesso, che agli effetti della legalità, dell'ordine pubblico e della sicurezza dello Stato, erano molto meno pericolosi, la Polizia sembrava temerli di più. Gli era stato concesso di riaprire la Camera del Lavoro, e sùbito le loro associazioni, da Leghe di "resistenza" erano diventate Leghe di "miglioramento". Cosa intendessero, lo dicevano le parole. Cresciuti di numero, via via che si aprivano le nuove fabbriche: i meccanici, i vetraj, i fonditori, i ceramisti, questi muratori: si accresceva la loro organizzazione. Certe categorie, come i metallurgici, i chimici, i parrucchieri avevano creato delle Federazioni; e i ferrovieri, loro, un Sindacato. Così riuniti, per arti e per mestieri, da se stessi schedatisi, sembrava più facile poterli sorvegliare. Al contrario. Rissosi ormai solo negli atteggiamenti, nelle pose, e sempre disarmati, non gli si potevano attribuire idee all'Orsini. Dandosi l'occasione, incrociavano le braccia e restavano a guardare. La grande retata del '98 sembrava li avesse trasformati; non uno dei reduci dal domicilio coatto aveva mancato ai suoi doveri di sorvegliato speciale, e a tutti, l'amnistia concessa per l'incoronazione di Vittorio Terzo aveva lavato la fedina.
«E bravo lo Spiombi!».
Così avevano salutato l'atto di clemenza che li riammetteva a godere dei diritti civili. Sarebbe bastato un "evviva" o un "abbasso" per poterli di nuovo imprigionare. Ma si erano fatti astuti, erano dei fiorentini, dei toscani, che avevano imparato la lezione. Gente come loro, anche più pericolosa e decisa di loro, nelle Romagne dove il sangue è caldo e gli entusiasmi sono sempre accesi, ce n'era che si lasciava andare alla sommossa, alla ribellione; e con i loro simili della Bassa Italia, ignoranti e indubbiamente anche più affamati di loro, bastava ancora poco per fargli rischiare il Codice alla prima uscita. Ma questi di Rifredi di San Niccolò di Ponte a Ema, e quei contadini del Galluzzo dell'Impruneta di Contea che non avendo più terra, o non volendo più lavorarla, si erano messi a praticare la mola e la calcina, erano, se possibile, più furbi, più «evoluti e coscienti» come dicevano, degli operaj di Milano e di Torino. Quando preparavano uno sciopero, e lo mettevano in atto, la Polizia si doveva limitare a circondare le fabbriche e i cantieri. Finché non turbavano l'ordine pubblico e non attentavano alla sicurezza dello Stato, non c'era altro da fare. Del resto, erano già loro uno Stato; non solo essi lo proclamavano, ma il Governo gliene aveva dato atto diciamo: Giolitti, ch'era Ministro di Polizia, spesso e volentieri legava le mani, non a loro, ma al Prefetto e al Questore. Un pittore famoso li aveva dipinti, con la giacca appesa alla spalla, i berretti sulla nuca, le donne a fianco, che venivano avanti come uno stormo d'api, a cuneo come la prora d'una nave, e Sua Maestà si era congratulata con l'artista.
Cos'era dunque se non la storia, o il progresso, che camminava? Si poteva fargli segnare il passo, spingerli indietro non era più possibile. Le macchine che gli erano state messe nelle mani, e che producevano ricchezza, col loro rumore forse, li avevano destati. La sveglia aveva raggiunto i «ponti» e dilagava sui solchi. Costoro non erano più degli isolati, degli individualisti, dei libertarj, questo c'era di cambiato. Non erano più dei Poeti, in definitiva. I Poeti, coloro che ne hanno l'animo comunque, sono sempre lì pronti a offrire il petto, a versare lacrime, a dispensare amore. Questa era gente che non possedendo nulla, cotesto zero voleva d'ora in avanti saperlo amministrare. La dottrina che dicevano di professare, anche se la più parte di loro continuava a ignorarne la dialettica e l'esatta esposizione, stabiliva un preciso rapporto tra il dare e l'avere, tra sudore che cola e stomaco che langue, tra sfruttati dice vano e sfruttatori. Era gente, magari ancora illetterata, come il "Niccheri" che gli raccontava la storia cantandola in ottave, ma che credeva di aver capito poche cose, ma chiare. E ci credeva. Credeva nel suo stomaco e nel suo sudore. Più che l'intelligenza l'illuminava l'istinto; una verità brutale ma esplicita la confortava con la sua ragione. E più dei suoi Capi, facili a sperdersi o deviare, anche se sempre o quasi pagavano di persona, era la propria forza naturale che guidava cotesta gente, diritta per la sua strada.
E sotto il sole che faceva risplendere tutt'oro la lanterna di Santa Maria del Fiore, c'era di nuovo che siccome la sede della Camera del Lavoro non bastava per ospitarli riuniti in Assemblea, i muratori di Firenze, che sarebbero scesi in sciopero l'indomani, raggiungevano il poggio di Monterivecchi, e costì giunti, facevano una specie d'appello, e cominciava la discussione. Colui che aveva la parola saliva in alto sul pendio, gli altri ascoltavano seduti o in piedi, al riparo dei faggi, fin sul greto del Terzolle che scendeva a valle, un rivolo appena, per buttarsi nel Mugnone. C'era, a momenti, una gran pace, il verde lasciava scampo alla calura, si levava una voce e si zittivano le cicale. Qualcuno, il fiasco non l'aveva dimenticato, e ora faceva il giro, ora lo si riempiva d'acqua alla sorgente ch'era a pie' del dirupo, e anche l'acqua serviva, seppure non gli si facesse la stessa festa e lo stesso onore. La città era lontanissima, sprofondata al di sotto della carreggiata che un muricciolo proteggeva. Ed essendo mattino, essi non disturbavano, nonché l'ordine pubblico, nemmeno le coppie d'innamorati, che non c'erano. La Polizia o i soldati non avevano motivo d'intervenire. Erano dei muratori che si ritrovavano, il mattino della domenica, e parlavano di se stessi e del loro lavoro; come parlavano dei Santi Padri, qualche prato più sopra, quel gruppo di seminaristi, e delle loro città, dei loro paesi e delle loro case le reclute che bivaccavano ora sul campo del Poligono, lì vicino. Superandole lungo la strada di Careggi, e udendo uno rivolgersi in napoletano al compagno che gli stava a fianco, Metello gli aveva detto:
«"Jamme jà, ranciofellò"».
E il soldatino, sorridendo, la fronte grondante di sudore: «"Acqua caura e sapò"» gli aveva risposto, e subito dopo:
«"Paisà, tenisseve nu sigàrio?"».
C'era questo di cambiato; e qualcos'altro ancora, da un anno a questa parte, che riguardava direttamente loro muratori, e che non si può tacere.
Il 4 aprile 1901 è una di quelle date che le patrie scritture si dimenticano di registrare. Male. Coteste date ricordano dei pacifici avvenimenti, significativi quanto delle battaglie, perse o vinte a seconda delle interpretazioni, ma nella loro modestia, più tragiche di Lissa e più memorabili di Porta Pia. Lo storiografo non dovrebbe lasciar passare altri cinquant'anni per farsene una nozione. Cerchi, frughi, sono circostanze che la cronaca spesso tace. "Pour cause", ma anche perché in apparenza sono episodi che non interessano la pubblica opinione. Si preparava in quei giorni, il quinto Concorso Ginnastico Nazionale. La Magona annunziava il suo primo dividendo del nuovo secolo, infine "La Nazione" offriva a puntate un romanzo avventuroso dal titolo singolare. E profetico. "Il bandolo della matassa". Ciò, allo storico, potrebbe servire di illuminazione.
Un filo della nostra matassa nazionale si sdipanava, infatti, quel 4 aprile 1901 su un Teatro romano dove, zeppi il palcoscenico e la sala, si teneva il Comizio dei Muratori. Era il più affollato e agguerrito Congresso di Categoria che si fosse mai avuto. C'erano 1750 rappresentanti delle «varie arti murarie», delegati muratori badilanti terrazzieri gessisti manovali di ogni Regione. Sul palcoscenico spiccava la bandiera della Società Emancipatrice; sul proscenio, nei palchi, giù in platea era un incrociarsi di dialetti. Il veneto si capiva col siciliano: Musumeci di Palermo con Tian di Padova; Bignardi con Cortiello, un bolognese e un napoletano. Nomi tipici, ma d'altronde, c'è un punto in cui la realtà non consente trasfigurazioni. E Zanzi di Macerata, Borghesio di Torino, Grossetti di Milano, Paladino di Bari, Gemignani di Firenze, decine d'altri. Erano i capi delle Delegazioni. Presiedeva «l'operajo Nardi», siccome gli spettava: era un primomuratore, tra i più anziani, era romano, aveva provveduto all'organizzazione e pensato ad ordinare sei porchette che avrebbero consumato, finiti i lavori, sui prati dietro la Lungara e Villa Corsini, e su per il Gianicolo, si sarebbe pagato sei soldi la porzione. C'era un Giuseppe Rossi di Pistoja, un Giuseppe Rossi di Verona e un Giuseppe Rossi di Benevento: sentendosi chiamare si vollero stringere la mano e bere allo stesso bicchiere, Beppe Bepi Peppiniello. C'era un Calabri di Arezzo e un Lombardo di Catania. E un Salvatori di Como, fu lui a tenere la relazione. Sono nomi dimenticati, oscuri anche in vita, ma che per generazioni di muratori ebbero un viso, una voce impossibile da scordare, e di cui ci si ripetevano le parole, le esortazioni, la forza di volontà che lasciavano trasparire.
Parlò Borghesio per primo, fece la chiama e porse il saluto a nome del Settentrione. Gli rispose Cortiello, e poi si alzò Nardi che stava in mezzo a loro. E fu un modo di simboleggiare che c'era presente, come c'era, tutta Italia. E di Su o di Giù che fossero, i loro problemi erano gli stessi, le loro strettezze uguali, identiche le rivendicazioni da porre e le debolezze da denunciare. Queste, non se le nascondevano. Nel corso della sua relazione Salvatori disse: «"... L'inosservanza delle tariffe è in parte dovuta, cari amici e cari compagni, alla poca fermezza dei lavoratori che hanno ceduto agli imprenditori"». E aggiunse: «"Ce lo vogliamo dimostrare?"».
Fu una giornata memorabile, come la nascita del primo figlio, come una liberazione dal carcere, di più. Fu come tuffarsi in un elemento naturale. Mani che si stringevano e avevano uguale la ruvidezza e l'energia; gli stessi visi bruciati, lo stesso mal d'aria, gli stessi caporali e Imprenditori da maledire o da lasciare in giudicato. Se già prima non lo sapevano, adesso erano certi di non essere soli. Questo li affratellava più di ogni Mutuo Soccorso, più dello stesso Partito, non c'era paragone. Ogni Lega cittadina o provinciale, veniva a fondersi moralmente con le altre. Quante erano le mani che operavano per dare un nuovo viso alle vie e piazze d'Italia, ora, finché avessero potuto, si sarebbero stese, fraterne, da impalcatura a impalcatura e da Catania a Milano, da Musumeci a Borghesio. Dopo questo bagno d'amicizia, di solidarietà, di umano calore, di istruttive esperienze partecipate, si sarebbero sentiti invulnerabili. Erano partiti coi denari misurati al centesimo delle collette, con le ruote di pane nei fazzolettoni colorati, col fiasco di vino e due etti di salame; gli sembrò lieto l'addiaccio e volarono le ore sul treno che li riportava alle loro città. A Torino c'era Borghesio, a Napoli c'era Cortiello, a Padova c'era Tian, a Catania c'era Lombardo, a Livorno c'era Pagliai. Si sentivano moltiplicati. I delegati di Firenze, con a capo Gemignani, recavano con sé delle immagini, e poche parole, ma lapidarie.
«Le tariffe sono all'osso. Bisogna farle rispettare».
Tre lire e quaranta centesimi, 3,05, 2,15, 1,75, queste erano le tariffe secondo la scala del mestiere: primomuratore, muratore, mezzomuratore, manovale. E dal momento che il pane costava dieci soldi al chilo, e dieci centesimi una mescita di vino, si mangiava la carne la domenica a mezzogiorno, non tutte le domeniche. Bastava si guastasse il tempo un giorno, era finita. D'inverno, gli venivano «i buchi nelle gote»; e piuttosto che cristiani avrebbero preferito essere una marmotta, un tasso, un ghiro, loro e tutta la famiglia.
«Le tariffe bisogna farle rispettare».
Borghesio era digià sceso in sciopero, dopo due settimane gli imprenditori torinesi avevano capitolato, i salari erano stati aumentati di tre e due soldi. Ed era sceso in sciopero Bignardi e anche lui aveva vinto. Era maggio, giugno, era la stagione buona e gli imprenditori ci dovevano pensare prima di vedersi deserto il cantiere. Ma Cortiello aveva resistito una settimana appena, ed aveva perduto. «Le creature debbono mangiare» scriveva. Per questo avevano fallito, e per la poca fermezza di cui aveva parlato Salvatori. E si erano decisi loro, a Firenze, in giugno; dopo quindici giorni erano dovuti tornare nei cantieri. Specie tra coloro che venivano dalla campagna, fino dai primi giorni c'erano state le defezioni. E i Padroni: il Commendator Fiaschi, il signor Tajuti, Madii, gli avevano detto: «Quando ve li leverete cotesti grilli? Ma se i prezzi non fanno che ribassare! Lavoro non ne manca, ma se preferite che si chiudano i cantieri».
Era passato un anno, i prezzi si erano stabilizzati e i salari erano ancora quelli, tutti di due o quattro soldi al di sotto delle tariffe, all'ultimo scatto nemmeno l'Ingegner Badolati aveva voluto aderire - e loro si riprovavano. Questa volta, proprio coloro che venivano dalla campagna, ed ai quali un anno prima, perché facessero i crumiri, gli Imprenditori avevano lasciato intravedere una ricompensa che poi non c era stata, sembravano i più decisi.
Era la domenica del 14 maggio del Due; avevano parlamentato fino alla sera del sabato coi padroni. Inutilmente. Dall'indomani sarebbero scesi in sciopero. Era sì la buona stagione, ma anche gli Imprenditori si erano passata la parola, da un capo all'altro d'Italia. Cortiello, malgrado le creature, ci aveva riprovato, avevano retto ventidue giorni senza successo; Paladino a Bari lo stesso, c'era scritto sull'"Avanti!", ne parlava anche "La Nazione": costruivano sul Lungomare, e ora, dopo due settimane di sciopero, per rappresaglia, le Imprese avevano sospeso i lavori. A Padova, Tian e i suoi, si erano contentati di sei centesimi, dopo dieci giorni. Sei centesimi ai muratori e tre ai manovali, mezzo soldo tra poco! Ma bisognava tentare: Cortiello ci aveva riprovato, Paladino subiva la «serrata», e Pagliai a Livorno era a due settimane e resisteva. La stagione era buona: sospendere i lavori non conviene a tutte le Imprese.
E anche mezzo soldo, in capo al mese fa un diecino.
Essi chiedevano sei soldi per i primimuratori e via via 5, 4, 3 per i manovali, in più delle tariffe finora retribuite.
«Chi non è d'accordo» disse Del Buono «alzi una mano».
CAPITOLO 13.
Ora il sole batteva a picco, filtrava attraverso il verde dei faggi come tante spade, l'estate era venuta in anticipo, ma essi c'erano abituati. La più parte conservava il gilè sopra la camicia della festa, e teneva la giacca sul braccio. Guardavano in alto Del Buono che parlava. Stavano a bocca aperta ad ascoltarlo, o masticando la cicca o un filo d'erba, d'avena. Del Buono gli parlava, in piedi e dall'alto del Poggio, tutto chiuso nella giacca che gli arrivava ai ginocchi, mezzo strozzato dal solino, gli occhiali a pizzicotto sul naso, e ripeteva la domanda.
«Chi non è d'accordo, rappresenti le sue ragioni».
C'era tanto silenzio che venne avanti l'eco e s'ingrossò il coro delle cicale.
«Ragazzi» disse ancora Del Buono «chi ha un rospo, lo sputi. Perché se a un certo momento, in pieno sciopero, dovesse saltare fuori qualche crumiro, ho l'impressione che questa volta ci sia gente disposta a fargli del male. E questo bisogna non succeda. Non aspettano di meglio, gli Impresari».
Lo ascoltavano, sparsi per il pendio, a gruppi o addirittura inginocchiati, come stavano alcuni, sembrandogli di riposarsi meglio che seduti. Erano più di trecento, e di tutte le età, dal manovale che non aveva vent'anni, al più anziano che aveva passato la sessantina - e che non era più Renzoni, ormai, ritiratosi all'Impruneta dove viveva a carico di una figlia vedova e dei nipoti, uno dei quali era manovale ed era lì e doveva ancora andar soldato. Il decano diciamo, adesso era Lippi: stava appoggiato a un albero con la spalla, a qualche passo da Del Buono. Era piccolo e dritto malgrado l'età, aspirava a vuoto il cannuccio della pipa di terracotta, e fu il primo a intervenire: «Voglio dire io una cosa».
«Bravo vecchio» gli gridarono. «Rompi il ghiaccio, con questo calore».
«Chè! Non ho nessuna voglia di scherzare».
Aveva due occhi come due spilli, e furbi, arguti. Era un divertimento sentirlo parlare; lo si pigliava sul serio e insieme non si poteva fare a meno di ridere.
«Io allo sciopero ci sto, ci sono sempre stato. Soltanto volevo dirti: o Del Buono, mi meraviglio di te. Ti sembra cotesto il modo di parlare? Tu minacci! Io, se tu vuoi, sai cosa fo? Metto in tasca la pipa e ci si prova».
Fece seguire il gesto alle parole, e questo suo intervento, riuscì a diradare l'impaccio che c'era un po' in tutti, siccome era la circostanza che lo determinava, anche nei più decisi. L'ilarità che seguì, li mosse, tre cinque dieci mani si alzarono, non per significare il proprio disaccordo, ma per chiedere la parola e ripetere, ciascuno a suo modo, il concetto espresso da Del Buono, e che condividevano. Fu come se ciascuno sentisse il bisogno di ripetersi le proprie ragioni, per dimostrare a se stesso di essere nel giusto, e come per darsi coraggio, una volta impegnatosi, di correre l'avventura. Era, per tutti, una avventura. Ma anche se non lì avesse animati un sentimento di dignità, di ribellione, c'era la propria privata situazione a deciderli. La precarietà delle loro condizioni, in certi casi la fame, li spingeva.
«Pongo il mio caso» uno disse.
Era un uomo ancora giovane, bruno, dallo sguardo mite e deciso, il volto magro, i baffi corti, la mosca sotto il labbro; era in corpetto e maniche di camicia, questa senza solino, fermata al collo da un gemello.
«Come sa chi mi conosce, ho ventott'anni e sono mezzomuratore. Mi chiamo Donnini Aminta, vengo dal Ponte a Ema. Lavoro nel Cantiere Badolati di via Venti Settembre e prima, da manovale, stavo sotto il Tajuti. Cipressino mi conosce».
Metello assentì e Del Buono disse: «Anch'io ti conosco. Bravo, parla».
«Pongo il mio caso. Ero bracciante, prima di far questo mestiere, più di dieci anni fa. E nelle campagne c'era anche allora sempre meno lavoro per chi ha bisogno d'andare a giornata. Eppoi, fare il bracciante è un mestiere? Sei lo schiavo del fattore e del contadino. Il padrone non ti conosce nemmeno, mai. Sei lo schiavo dello schiavo dello schiavo.
E fatichi e guadagni di conseguenza. Meno di uno dei nostri manovali».
(«Purtroppo» borbottò il ragazzo Renzoni. «Se no, chi si sarebbe mosso dall'Impruneta?»).
«Ora statemi a sentire. Avanti d'andar soldato, mi ero impegnato con una brava ragazza. Mi ero preso anche l'acconto. Ora è la mia donna e non c'è nulla di vergognoso a farlo sapere. Al Ponte a Ema l'hanno sempre saputo. Lei l'ebbe a dire in confessione e il pievano la tolse dalle Figlie di Maria. Così la voce fece il giro del paese. Io ero digià militare. E appena congedato, non me la dovevo sposare? L'ho sposata anche perché ci si voleva bene. Ma in Municipio l'ho sposata, non in Chiesa. E non perché io sia ateo dichiarato, ma perché al pievano, appena tornato da fare il militare, la prima cosa che feci, gli feci uscire il sangue dal naso. Sono stato per questo sette mesi alle Murate».
«Peccato quelle che ti andarono di fuori, Aminta» gli gridarono.
«Poche andarono di fuori, ve l'assicuro. Era ancora in età di poterle sopportare. Lo bacchiai seguendo un ragionamento. Poi, feci conto che la ferma, invece di tre anni, fosse durata tre e mezzo. Questo succedeva due anni fa. Quando uscii dalle Murate, mia moglie aveva appena partorito».
«Ti eri preso un acconto più grosso, a quanto pare» disse Lippi, il decano, e giù per il pendìo, sotto il sole, scrosciò una gagliarda risata.
Rise Aminta con gli altri, e disse: «Dopo tre anni di ferma, capirai!». Tuttavia, l'interruzione di Lippi e la ilarità ch'essa aveva suscitato, sembrarono spengere la foga del giovane muratore, che un attimo indeciso, dopo essersi guardato attorno, anche se adesso nessuno più rideva, rapidamente concluse:
«Questo per dire che oggi i figlioli sono due, il secondo ha otto mesi, e non abbiamo ancora potuto metter su casa. Mia moglie sta ancora coi suoi, al Ponte a Ema, e io dormo nella baracca in cantiere, sei giorni la settimana. Ci si incontra la domenica come dei fidanzati, a mezza strada, siccome i suoi sono contadini e la terra dove lavorano è della Chiesa. Il pievano gli ha permesso di tenere lei e le creature, ma li ha minacciati di mandargli la disdetta se viene a sapere che danno ricovero a me, anche per un'ora. Vi par giusta?» chiese, alzando il tono della voce «che dopo aver lavorato tutta una settimana, da due anni senza perdere una giornata, uno come me, non sia in grado di potere affittare quattro mura e riunire la famiglia?».
Tacque e prese il fiasco dell'acqua e bevve a garganella.
«Sicché» gli domandò Del Buono «per te lo sciopero va bene?».
«E allora?» disse Aminta, si asciugò la bocca sull'avambraccio «perché avrei parlato?». E subito aggiunse: «Mi appello a quelli che vengono a lavorare dalla campagna, che come me tornano a casa una volta la settimana, anche se non si trovano nella mia combinazione particolare. E' vita dormire sei giorni la settimana in cantiere, mangiare asciutto il più spesso anche la sera, e poi fare quindici o venti chilometri, a piedi, il sabato col bujo e il lunedì mattina, per portare a casa che? Se le nostre donne non facessero bucati o non andassero a opra anche loro, non si crescerebbero i figlioli. Sempre chi una casa ce l'ha, io non ce l'ho» ripeté. «Mi appello a voi che venite di campagna. E' giusta che si sia sfruttati a questo modo?».
Gli risposero più voci insieme, come tirate l'una dall'altra, in coro.
«L'altr'anno ci presero in tranello».
«Ci promisero un soprassoldo. Perciò dopo due settimane si tornò sul lavoro. Ormai è risaputo».
«E anche perché non si sapeva come tirare avanti. Non si voleva fare i crumiri».
«Ma all'atto pratico fu così».
«Parliamo uno per volta» gridò Del Buono. «E non rinvanghiamo il passato. Non è questione di rinfacciarsi delle colpe. L'importante è che ci sia servito di lezione. Pigliamo esempio dai padroni. Vedete loro come sanno stare uniti? Anche l'Ingegner Badolati, ch'è il più grosso, e sembra avere sempre il cuore in mano, avete visto in questa occasione che si trattava di venire al sodo, come si è tirato indietro anche lui? Uno per volta, via, chi ha chiesto la parola?».
Seguì un silenzio, e tornò più forte e vicino il frinire delle cicale, il cinguettio dei passeri che volavano a stormi sulla cima degli alberi e contro il cielo.
«Avanti» li esortò Giannotto.
«Forza» Metello disse. «Se c'è chi ha qualcosa in contrario, come spiegava Del Buono». E d'improvviso, gli ridevano gli occhi e ancor più, si sarebbe detto, la voce, per questo era intervenuto. «Tu, ad esempio, Tinaj» aggiunse, rivolgendosi a Olindo che sedeva pochi passi distante e che, fisicamente proprio, in quella gran calura, si senti percorrere da un brivido, e agghiacciare. «Appartieni da poco tempo alla categoria. Che te ne sembra, ci si comporta bene?».
Più che rispondere, Olindo farfugliò: «Sono domande da fare? Certo. Ho anch'io, modestamente, un'esperienza di miniera che...». Non continuò; come mangiandosi le parole, fissava il fratello dal basso in alto, con uno sguardo in cui l'umiltà, l'affetto, sembravano mischiarsi al risentimento, al rancore. «Perché chiami in causa proprio me?» gli chiese.
«Così, per interrogare qualcuno, per muovere le acque» Metello gli rispose, e c'era un'intonazione protettiva, di complicità e di vittoria insieme, in quelle sue parole. «Se non si comincia dalla famiglia».
«Dammela a me, Cipressino, la parola».
«Ecco, sentiamo il Tedesco».
Era un uomo di quarant'anni, alto, pingue, pletorico, non sarebbe sembrato un muratore, ma in realtà lo era, e fino da ragazzo si poteva dire, aveva cominciato aiutando i manovali a impastare calcina. Butòri, Pio Butòri, era adesso primo muratore, lavorava nello stesso Cantiere con Metello, con Lippi, e col piccolo Renzoni, e non c'era chi non lo conoscesse e non gli portasse rispetto. Gli piaceva bere, ma a chi non piaceva? A lui in un modo forse un po' esagerato, sempre dopo il lavoro comunque, col bujo. E siccome il vino lo reggeva, questo anziché limitarla, gli aumentava la considerazione. Nell'86, era emigrato in Germania, aveva lavorato a Colonia, a Lipsia, mai a Berlino, ed era tornato, senza risparmi anche lui, ma in buona salute, l'animo allegro e una famiglia creatasi lassù, tra i mangiasego. Perciò ora lo chiamavano il Tedesco, perché era stato in Allemagna, e aveva sposato una tedesca e ci aveva una figliola di dieci anni, più albina che bionda, come la madre. Egli, di persona, era l'opposto. Com'era grande e grosso, così aveva un viso largo, bonario, ora paonazzo più di sempre per via dell'afa che lo tormentava. E ciò che disse, le parole con cui si espresse, dettero la sensazione che veramente partecipassero l'opinione generale. Si tolse di bocca il filo d'erba, d'avena che masticava, disse: «Con tutto il rispetto per l'Aminta, io dico che non è necessario trovarsi sull'orlo della disperazione come si trova lui, per essere d'accordo sullo sciopero. Se ne è ormai parlato e riparlato. Quelli di Torino come quelli di Napoli, ci hanno dato l'esempio. Quelli di Bari, di Livorno e d'altrove, è già delle settimane che sono alle prese coi Padroni. E a parte questo, è da bambini, far questione di campagna e di città. Si mangia forse di grasso, noi che siamo di città e dormiamo tutte le notti nel nostro letto? Io ho una bambina che stenta un poco a esprimersi in italiano, siccome più che vicino a me sta tutto il giorno vicino alla madre, è naturale. Bene, anzi male, ché se la voglio mandare a ripetizione, debbo fare a meno di bere e di qualche altra cosa.... Ora, lavoro ce n'è, e questi sudici di Impresari, ci succhiano il sangue. Una norma di un metro e mezzo al giorno non è uno scherzo, vuol vedere l'uomo in viso. Tu, Del Buono, queste cose le sai dire e le hai dette ora ora meglio di me.... Ragion per cui, io dico che noi non dobbiamo scendere in sciopero soltanto perché di quegli otto soldi e di quel trentino al giorno di aumento che chiediamo, ne abbiamo bisogno. Che ne abbiamo di bisogno, lo sanno anche le pietre. Le nostre disgrazie, che ce le raccontiamo a fare? Sembra si stia qui a togliersi le pulci l'uno con l'altro.... Io parlo per me» si corresse «intendiamoci, e dico che per quello che mi riguarda, io allo sciopero ci sto perché oltre che averne bisogno, di questa miseria di aumento, mi pare di averne ma diritto!».
«Questo sì che è parlare» disse Del Buono. Si era messo un fazzoletto attorno al solino, e lo stesso, benché magro e tutto nervi, grondava di sudore.
«Caro Bastiano» lo interruppe Butòri «ci si conosce da un pezzo. Anche se sono stato fuorivia tanti anni, ti ho ritrovato quale ti avevo lasciato. Se tu fossi vescovo ti bacerei la scarpa.... Non succederà mai, lo credo. Comunque, tu sai che a me, come al tempo degli anarchici quando ero giovane, così ora che avete preso piede vojaltri socialisti, la politica non mi ha mai commosso. Qui come in Germania me ne sono tenuto sempre lontano. In galera non ci sono mai andato e spero di chiudere gli occhi senza doverla assaggiare. Ma se si parla di trovarsi d'accordo, io non vedo chi si possa tirare indietro! Non importa essere socialisti per capire che se noi ci si mette con le braccia conserte, i muri restano all'altezza in cui sono.... Quindi, proponiamoci di resistere finché si può, senza far troppo i congiurati e mettere la mano sul fuoco.... Io sono del parere che, volendo, si patisce meno noi a saltare una minestra che uno di loro, specie Fiaschi e Madii, a rischiare un ritardo nelle consegne. D'altra parte, se si continua a lasciarsi mettere sotto i piedi, l'esperienza c'insegna che la minestra si salta lo stesso, e dopo la minestra, il lesso e il mezzolitro.... E allora, sotto, finché ci si fa, poi di cosa nasce cosa».
Del Buono si tolse e si ricollocò gli occhiali sul naso. «Sei più socialista te di tutti noi, Butòri» gli disse. «Peccato ti trovi costaggiù, se no ti abbraccerei. Da uomini come te, bisognerebbe si venisse tutti a scuola. Questa è l'idea che deve dare il Sindacato...».
«E va bene» lo interruppe di nuovo il Tedesco «rilasciami lá licenza».
E ancora, su e giù, sotto i faggi, in riva al torrente, si sorrise. Quindi, caparbio, monotono tutta luce negli occhi e tutto sudore, Del Buono riprese:
«Dopodiché siamo proprio d'accordo? Tutti? Anche se lo sciopero dovesse durare più dell'anno passato?».
«Ora non ci mettere paura» intervenne il vecchio Lippi. «Paura cerchiamo di metterla agli Impresari».
Ma una giovane voce sopraffece la sua, e si zittì, come ambisse restare nel coro da cui proveniva, giù in basso, là dove il Terzolle era un rivolo appena e ci si rifletteva il sole.
«Tre settimane vorrebbe dire la fame per davvero».
Tutti guardarono in basso, e colui che aveva parlato non riuscì a sottrarsi.
«Vieni avanti» disse Del Buono «bravo, rappresenta la tua opinione».
(«Bixio, che coraggio che hai» sussurrò il ragazzo Renzoni).
Era uno di quei giovani che stavano in ginocchio. Così restando, aggiunse, a più alta voce: «Dicevo... che se le cose si dovessero mettere come l'altr'anno, in coscienza, non lo so...».
«Tu saresti?».
«Falorni Bixio, lavoro nel cantiere dei Massetani, alle Cure».
«Sei di Vingone.».
Questo era Del Buono che l'interrogava.
«Sì, sono di Vingone, e non ho nessuna voglia di tornare sulla terra. Mi sono dato un mestiere proprio per questo. Ho fatto il soldato e da pochi mesi sono passato mezzomuratore. Non mi trovo nelle condizioni dell'Aminta, sono ancora giovanotto, e dai miei a Vingone, un piatto di fagioli non mi mancherebbe, ma io non gli voglio chiedere nulla. Mio padre, non è mai stato d'accordo che mi sia dato un mestiere. Perciò, vivo in casa ma faccio da me. E voi, avete un bel dire, ma se dopo una o due settimane, Massetani non si piega, io non saprei proprio come rimediare. E' bene dirla schietta».
«Perfettamente» Del Buono convenne. «Anche se è un discorso storto, ci ha la sua parte di ragione. Per ora basta che tu sia d'accordo d'incominciare e di poter resistere una o due settimane. Se si desse il caso peggiore, prima di fare il crumiro, se ne riparla. Mica potrai fare il crumiro da te solo».
Il giovane assentì; e si buttò indietro col corpo, appoggiandosi sulle mani, e così piegato, come liberatosi di un peso che gli gravava sulla coscienza, guardò in alto il cielo. Vide uno stormo di passeri sollevarsi da un albero, dividersi, intrecciarsi, fuggire, e spontaneamente, sui labbri gli si disegnò un sorriso. Fu uno dei primi ad alzare il braccio, allorché si trattò di fare la conta generale, ed ogni braccio alzato era un sì e non c'era nessuno che non avesse il braccio alzato.
Confermato lo sciopero per l'indomani, si provvide a nominare un responsabile per ciascun cantiere: colui che dandosi l'opportunità avrebbe parlato a nome di tutti col Padrone. Tra gli altri, quelli del Cantiere Madii si fidavano di Giannotto, era naturale. Così, in testa a coloro che lavoravano da Fiaschi, ci sarebbe stato Corsiero che durante gli ultimi quindici anni, pur restando fedele alla sua passione per le carte e per i "Tre Moschettieri", aveva cambiato una o due volte Impresa. Loro di Badolati, infine, li avrebbe dovuti capeggiare Lippi, gli spettava di diritto, per i suoi capelli bianchi e perché non gli mancavano né gli argomenti né la lingua che li sapesse colorire. Ma, inaspettatamente: «Apprezzo la fiducia» egli disse. «E' meglio che ci pensi Cipressino. Io mi conosco, a volte non mi sò controllare».
Metello cercò di sottrarsi a cotesta investitura, ma poteva sembrare, insistendo nel diniego, ch'egli avesse da opporre delle riserve sullo sciopero e preferisse tacere.
«Va bene, accetto» disse. «Non vi voglio far freddate il desinare».
Discesero la strada di Careggi che il sole picchiava dall'occaso, e la polvere della strada, sotto il sole, era bianca come calcina, a fissarla accecava. Metello dava il braccio a Olindo; e Aminta, il Falorni e il ragazzo Renzoni (Renzoni piccolo, Renzoni Nipote come lo chiamavano) erano un terzetto che camminava solo. Forse proprio da essi, e via via di gruppo in gruppo divenne un coro, si alzò l'inno:
"Noi vivremo del lavoro
o pugnando si morrà..."
Del Buono era in testa a tutti, con Metello, con Giannotto, con Lippi, che trotterellava per mantenere il passo, sotto il sole. Del Buono lo prese a braccetto e gli dette una spuntatura di toscano; gli occhiali gli brillavano per il riflesso del sole. Raggiunsero le prime case del Romito e Del Buono gridò:
«Ora zitti, ragazzi, se no si finisce prima d'incominciare».
Un gruppo, con in mezzo il Tedesco che ansimava, si era seduto sul muricciolo e riprendeva fiato. Si salutarono con la mano; e se le strinsero quelle mani, facendosi, l'uno con l'altro, gli auguri.
«A domani».
«Speriamo bene».
«Ormai ci siamo».
«A domani».
E fu, dall'indomani, e per l'epoca in cui avvenne, appunto il 1902, e per la sua durata e gli episodi che lo caratterizzarono, uno sciopero rimasto leggendario. Durò quarantasei giorni, e si risolse con la capitolazione degli Imprenditori. Fu una grande vittoria, ma a che prezzo conquistata e in che termini sottoscritta? Fu comunque, una vittoria. E per la categoria dei muratori, e per Metello in specie, e per Ersilia.
Durante cotesto mese e mezzo, c'entrasse o no lo sciopero, avrebbe vacillato il loro amore.
PARTE TERZA.
CAPITOLO 14.
L'indomani si ritrovarono davanti ai Cantieri, in orario e in tenuta di lavoro, casomai i padroni ci avessero ripensato o fossero disposti a trattare; e anche perché durante il pomeriggio della festa, e specie nel momento in cui si sarebbe dovuto «attaccare», qualcuno che a Monterivecchi aveva alzato la mano, poteva a sua volta aver cambiato idea. Quando Metello giunse, insieme con Olindo che era passato a prenderlo, i suoi compagni di lavoro, erano lì quasi tutti, come schierati; sedevano sotto la massicciata; Aminta si alzò e gli andò incontro: «L'Ingegnere non è arrivato». C'erano digià i due caporali e l'Assistente che fumava una spagnoletta e sorrideva. Era un ragazzo fresco di studi, e nipote dell'Ingegnere Badolati, era arrogante, non si era fatto amare. Metello si sedé con gli altri, e presto furono al completo. Erano una trentina e si allungavano, seduti, in una fila parallela alla fabbrica, che una volta compiuta avrebbe formato il corpo centrale di un isolato, d'angolo tra via Venti Settembre e via Vittorio. Dietro di loro, il piano stradale, prospicente il Mugnone, e non ancora adattato, formava una specie d'argine, ch'essi chiamavano la massicciata, siccome ci avevano battuta una pista che serviva ai carri e permetteva di raggiungere il Cantiere, giù in basso, abbreviando il cammino; al di là del Cantiere, invece, dei terreni coltivati si estendevano per un centinajo di metri, fin dove passava la Ferrovia.
Il sole era alto; davanti al passaggio a livello, venne a sostare un treno. Dei giovani affacciati ai finestrini, cantavano:
"Noi siamo i ginnasti
dal braccio gagliardo
dalle agili membra
dal forte voler..."
Qualcuno si sporse, mentre il treno ripartiva piano, e gridò: «Viva Firenze! Salve muratori!».
Essi sedevano al riparo della massicciata, poco lontano stavano l'Assistente e i due caporali. Suonò la campanella del convento di Montughi, poi si udì il fischio del treno che entrava in stazione. Il caporale più anziano, Nardini, non era un aguzzino, era stato primomuratore, quando una controversia si poteva appianare se ne ingegnava, cavò l'orologio dal taschino del panciotto e si fece avanti. L'altro caporale scosse la testa: era un marchigiano, lo chiamavano Crispi, i baffi gli coprivano la bocca, era stato la spalla di Madii, e aveva sperato di prendere il suo posto prima che l'Ingegnere assumesse Nardini. L'Assistente disse:
«Nardini, cosa ci parla a fare?».
Il caporale avanzò sullo sterrato, e siccome essi, seduti in fila, lo guardavano di sotto in su, per un momento rimase muto, poi disse: «Allora, batto la sirena?».
«Batti batti» disse Lippi, il decano. «Crispi ti potrà aiutare. Eppoi, ci avete l'Ingegnerino!».
Ma intervenne Metello. «Senti bene, Nardini. Fino a qualche anno fa, correggimi se sbaglio, bazzicavi anche te alla Camera del Lavoro. Eri primomuratore sotto il Fiaschi, oppure no?».
«Dove vuoi arrivare?».
«A dire che allora, a uno sciopero di questo generi, ci saresti stato».
«Io non ti ho chiesto chi sono. Vi ho chiesto che intenzioni avete».
Si voltò siccome l'Assistente l'aveva chiamato, quindi puntò l'indice su Metello: «Qualche anno fa era qualche anno fa. C'è passato un secolo di mezzo. E nel frattempo, capitali da parte, io non ne ho messi».
«Ti ho forse dato del disonesto? Non l'ho nemmeno mai pensato. Soltanto, ho voluto dire che hai fatto carriera».
«Ecco, ci siamo capiti».
Si alzò Aminta e disse: «Io no, io non ho capito».
Metello si mise tra lui e Nardini; anche Crispi era avanzato di un passo, e l'Assistente aveva gettato la cicca. D'improvviso, dallo sgabuzzino della Direzione, usci l'Ingegnere Badolati; e coloro che non si erano ancora alzati, si trovarono in piedi. Tutti lo salutarono, la più parte si portarono la mano al berretto.
«O che si nascondeva?» esclamò il decano.
«No, al contrario» disse l'Ingegnere. «Ho dormito in cantiere».
Indossava la giacca d'alpagà grigia; aveva il cappello buttato sopra la fronte e la barba trascurata. Erano passati degli anni anche per lui; le rughe attorno agli occhi, gli facevano raggiera; ora i suoi capelli erano bianchi più che grigi; e se anche quella notte non aveva dormito in cantiere, ovunque avesse dormito, doveva aver dormito poco e male. Il suo sguardo era lo sguardo di un uomo affaticato e furibondo. Andò diritto in mezzo a loro, allontanandosi apposta, così parve, e dai suoi caporali e dal nipote. E siccome si era fatto silenzio, la sua voce esplose con tutta la carica d'indignazione, d'accoramento anche, che lo possedeva. Disse:
«Siete dei pusillanimi, voi e chi vi comanda vi istiga. E tu per primo Salani, e prima di te quel finto santo del vostro Del Buono! Vi montano la testa. Andate dietro a uno che ha sempre fatto, forse anche male dal momento che l'hanno licenziato, l'impiegato delle Ferrovie. Che ne può sapere, lui, dei problemi dell'edilizia?».
«Questo, Ingegnere» lo interruppe Metello. «Mi permetta, non è il modo».
«Siete gente che non avete un briciolo di riconoscenza» continuò l'Ingegnere, e rispondendogli direttamente: «Dico in particolare proprio a te, Salani, e a tutti» aggiunse. «Non v'è bastata l'esperienza dell'anno scorso, vi volete riprovare. Ma che cosa volete riprovare? A riempirvi di debiti, anche se lo trovate, chi vi presta una lira? Questa volta quando vi deciderete a tornare sui ponti, non aspettate che io vi anticipi a chi due a chi tre a chi quattro giornate di lavoro come feci l'altr'anno! Se non vi reggerete in piedi, e non coprirete la norma, peggio per voi, da me avrete quello che vi sarete guadagnato, e dopo che ve lo sarete guadagnato».
Lo guardavano, muti, e piuttosto che avvicinarglisi, si erano aperti a semicerchio davanti a lui, con Metello in mezzo che aveva Aminta vicino e lo teneva per un braccio, come si trattiene un ragazzo. Ma non poté impedirgli di interloquire.
«Sono tutte qui, le sue parole?» E mentre il suo volto e il suo sguardo erano una fiamma sola, e tutta la sua persona sembrava come inastata, dalle corde del collo ai pugni chiusi, la sua voce anziché aggressiva, risuonò umile, spezzata, quasi implorante. «Non ci sa dire altro che questo?».
Ora i due caporali e l'Assistente erano alle spalle dell'Ingegnere, come delle guardie del corpo, infatti, e tanta era la fermezza del loro atteggiamento, che si sarebbe detto fossero armati. Nemmeno Lippi trovò una battuta: stava con gli occhi socchiusi, la testa piegata su una spalla, e masticava il cannuccio della pipa. Accanto a lui, il piccolo Renzoni pareva un galletto di un mese, implume e a collo ritto, pensò più che non sussurrasse: «Ohi ohi, si mette male».
Ma gli altri, i più, erano calmi, non intimoriti. Era anzi la furia dell'Ingegnere, e la caoticità, insolita in lui, degli argomenti che esponeva, a dargli fiducia e rafforzarli nel loro proposito. E Metello più di tutti era calmo e in grado di ragionare. Costrinse Aminta a tirarsi di lato, e disse: «Perché, Ingegnere, ci rinfaccia quelle agevolazioni? Nessuno se n'è mai dimenticato. Ma ora si tratta di un altro fatto. Vogliamo che le tariffe vengano rispettate».
«Io le ho sempre rispettate» scattò l'Ingegnere. «Sono stato il solo a rispettarle sulla piazza. E forse hanno ragione di farmene un torto. Vi siete montati la testa!» ripeté. «Ma questa volta mi troverete più duro di Tajuti e di Madii, ve l'assicuro. Dovrete venire a pregarmi in ginocchio». E acceso in viso, voltò loro le spalle, seguito dai suoi tre fedeli, raggiunse la Direzione. Loro erano rimasti fermi; e v'erano questi dieci metri di distanza, quando l'Ingegnere Badolati si arrestò sulla soglia, e con un tono adesso più pacato, ma severo, che voleva essere definitivo, disse: «Allora, attaccate?».
«No» rispose Metello. «E ci dispiace quanto dispiace a lei, forse anche di più. Ma se lei non vuole nemmeno pigliare in considerazione l'idea di venirci incontro, siamo in ballo e balliamo».
«Vi mancherà presto il fiato».
Il Tedesco, che fino ad allora era rimasto zitto, in mezzo agli altri, e immobile, masticando un filo d'avena, fece un passo avanti e sùbito, come pentito, si riportò indietro, dondolando come un elefante sui talloni. L'Ingegnere gli si rivolse, brusco, irato, e sembrò coglierlo di sorpresa.
«Dillo» gli intimò. «Sentiamo».
«E' che ci sembra giusto, Ingegnere, lei non si deve arrabbiare» fece il Tedesco, con la sua voce di basso, impacciata: pareva avesse preparato un discorso e ora gli venissero a mancare le parole.
«E poi?».
«Io non dico che lei, dal suo punto di vista, non possa anche aver ragione...».
«Non: potrei. Ce l'ho» lo interruppe Badolati.
«Specialmente tu che hai girato il mondo, lo dovresti sapere. Ve ne accorgerete» urlò.
Era furente, protervo come non l'avevano mai visto. E certo, qualcosa che andava al di là dello sciopero, del ritardo che si profilava sul programma dei lavori, e della stessa compattezza contro cui urtavano le sue parole, lo doveva esaltare. Essi comunque non si chiedevano dei motivi, gli bastava considerarlo così com'egli si rivelava.
«Siete una massa di cenciosi».
Sbatté lo sportello a vetri entrando nella direzione; il nipote assistente lo seguì. Crispi e Nardini parvero rimanere di sentinella.
Lentamente, i muratori si allontanarono. Dai piedi alla cima delle impalancate, sui «ponti» i muri e le scale drizzati fino al quarto piano, e deserti; e sulle baracchette che stavano allato della costruzione sui bidoni dell'acqua, i sacchi di cemento, le file dei mattoni, i sassi, gli attrezzi, e i prati tutt'intorno fin sulla strada ferrata dai binari lucidi e argento, batteva il sole. Essi risalirono la massicciata e passo passo giunsero lungo il Mugnone; avevano le giacche sul braccio, e nelle tasche o sotto l'ascella, l'involto della colazione. Erano le dieci ormai, e gli sembrava incredibile, se lo dicevano, di ritrovarsi a quell'ora con le mani in mano, a guardare il fondo asciutto del torrente, e dall'alto del ponticello, le pecore che brucavano sugli argini, la gente che saliva e scendeva dall'omnibus alla fermata del Viale, e ancora più avanti, il verde dei platani, lo zampillare della vasca, e le corse dei bambini, nel Giardino della Fortezza da Basso.
Vi si diressero, e si sparpagliarono qua e là, sotto gli alberi e sulle panchine. C'erano quelle balie, le giovani madri, le nonne, e qualcuno di loro attaccò discorso, con esse, coi giardinieri, coi vecchi di Montedomini che si godevano il giorno di libera uscita. Al di là del muro che delimitava il Giardino, dentro la Fortezza, squillò la tromba del rancio. Ed essi aprirono gli involti e fecero anzitempo colazione. Poco dopo, com'era convenuto, giunsero quelli del cantiere Fiaschi, guidati da Corsiero, e non ebbero nulla dì diverso da raccontare se non che i Fiaschi, padre e figlio, non si erano fatti vivi; e giunse Giannotto dicendo che Madii, come Badolati, «gli aveva fatto una scenata». E infine vennero quelli dell'Impresa Massetani, coi quali era Del Buono che li aveva incontrati strada facendo: teneva in mano una copia della "Difesa" fresca d'inchiostro e che parlava di loro.
Questo fu il primo giorno.
Il martedì trovarono i cantieri serrati; ci stava di guardia un caporale o addirittura uno dei sorveglianti di notte che protraeva il proprio turno. C'era Crispi nel cantiere di via Venti Settembre, lui solo. Si potevano immaginare l'Ingegnere, l'Assistente e Nardini chiusi dentro la Direzione, ma non si videro né dettero un segno della loro presenza. Gli scioperanti stavano in fila addossati alla massicciata, come il giorno avanti. Quando furono le otto, Crispi batté i soliti colpi della spranga di ferro che fungeva da sirena; ma nessuno si mosse ed egli tornò a sedersi su una cassa là fuori, e accese il mezzo toscano. E siccome scosse la testa, alcuni dei muratori lo imitarono. Poi, lentamente risalirono la massicciata. Tutto era accaduto in silenzio, non si era alzato una voce. Crispi li spiava mentre se ne andavano, senza darlo a vedere; la sua indifferenza, aveva l'aspetto di una provocazione, più che se si fosse messo in piedi sulla cassa e li avesse insultati. Ma era il secondo giorno appena, gli animi erano saldi; essi quasi si divertivano a considerare la posa di mastino e il viso di lepre del caporale. Più brutto del canelupo, disteso all'ombra e addormentato, dopo aver fatto nottetempo il suo dovere, non c'era paragone. E fu proprio il più vecchio e saggio tra loro, Lippi, il decano, che dall'alto della massicciata, toltasi un momento la pipa di bocca, gli fece il verso:
«Bau! Bau!».
Quindi, si radunarono sotto la Fortezza da Basso, provenendo dai diversi Cantieri, come il giorno prima; e chi indugiò sulle panchine del Giardino, chi passo passo, secondo le destinazioni, a squadre di tre, di quattro, coloro che abitavano in campagna, malgrado il sole, presero la via di casa, poiché essendo in sciopero, gli Appaltatori non gli consentivano di pernottare nelle baracche. I più giovani, capeggiati da Bixio Falorni, siccome il Mugnone che gli aveva suggerito l'idea, così in secca com'era non gli conveniva, decisero di andare a bagnarsi in Arno. Altri infine, non più ragazzi, e cittadini, si erano dati appuntamento in un'osteria di Porta a Prato, dove a una cert'ora sarebbe capitato Del Buono, insolitamente preso, quella mattina, da un problema tutto suo, privato. Gli era spuntato, a quarantacinque anni suonati, il dente del giudizio e aveva deciso, non resistendo al dolore, di farselo cavare. Quando arrivò, reggendosi la gota, lo costrinsero a far tanti sciacqui di vino per disinfettare la gengiva, che quasi l'ubriacarono.
Lippi, lui era bello e partito. Non sapeva più se fare i brindisi ai franchi muratori caduti durante la Comune, o a Filippo Brunelleschi «murator de' muratori». Col passar delle ore, egli diventava, oltre che sacrilego, scurrile; l'unico modo di venirgli in aiuto fu di invitarlo a declamare le poesie sporche di Vamba che conosceva a memoria. Come un po' tutti, del resto.
«Lippi, dicci "La confessione"»
«Dicci "I meriti della città di Firenze"».
«Dicci "La carità"».
Il decano appoggiava il gomito sul tavolo, tenendo alto nella mano il bicchier di vino, strizzava gli occhi, e declamava.
"Dice: «Andate con Dio...» Figlio d'un cane,
Chi gn'ha chiesto d'anda' con quarcheduno?
Io... gli ho chiesto un po' di pane...
Perché... Madonna, i' ero digiuno."
Trovarono sera, sotto la pergola, e avevano fatto circolo; c'erano quegli operaj delle Officine Meccaniche, e i barrocciaj, e le Guardie del Dazio. Un suonatore ambulante prestò la chitarra, e ci si mise a cantare. Aminta, come tutti, aveva il vino buono, alzava il bicchiere e improvvisava: andavano contro i Preti, contro i Suoceri e contro i Padroni, nell'ordine, i suoi anatemi. Poi fu la volta del Tedesco, il quale, dal momento che non si lavorava, si era adattato anche lui a bere, malgrado non fosse ancora bujo, e non era rimasto secondo a nessuno. Egli dominava la compagnia, con la sua mole, e più con la sua voce, roca, profonda, miracolosamente intonata, che teneva su la nota alla chitarra, mentre Aminta cantava: «Un-ba-ba, Un-ba-ba», finché, trascinato dalla circostanza, vermiglio in viso e tutto una risata, chiese e ottenne il silenzio per l'a solo.
«Questa non la sapete di sicuro» gridò.
"O Lieb, o Liebe!
so golden schön,
wie Morgenwolken
auf jenen Höhn!"
Si era alzato, via via che cantava, era un motivo lento, dolcissimo, e lui dondolava la testa e socchiudeva gli occhi, ma con impennate improvvise, e lui si ergeva in tutta la sua altezza, sgranava gli occhi, picchiava il pugno sul tavolo:
"... und Freud' und Wonne
aus ieder Brust.
O Erd', o Sonne!
O Glück, o Lust!»
Li intimorì tutti, e quando ebbe finito, prima di sentire scrosciare gli applausi, ci fu un momento di esitazione.
«Sarebbe Wagner?» gli chiese Metello. «Wagner non mi piace».
«Che ne so se è Wagner? La canta sempre mia moglie, è una canzone d'amore».
«E cosa racconta?».
«Mah! Si, il tedesco lo so, m'arrangio, ci sono stato dieci anni in Germania, ma queste parole mi restano un po' oscure. Liebe vuol dire amore, Sonne vuol dire sole, Glück è felicità».
«Felicità!».
«Felicità!».
E si ricominciò a bere, e l'"Inno dei Lavoratori" e le strofette su Menelik e Baldissera ridiedero vita al coro.
Anche Olindo, che avrebbe dormito a casa di Metello, si fece onore. Gli anni trascorsi in miniera, gli riportavano alla memoria, non soltanto l'aria, ma addirittura alcuni versi dell'"Internazionale", li accennò:
"Les premières balles
seront pour les généraux..."
«Le prime palle sono per i generosi» tradusse. E questa sua versione, data in buona fede, gli meritò un'ovazione, in quanto essa esprimeva una verità che li trovava concordi e li entusiasmava.
«Più internazionali dei muratori, chi c'è?» si gridava.
«Quello sa il tedesco».
«Questo parla francese».
«Io il napoletano» Metello disse.
E dové cantare "Marechiaro" e dire una bugia: che quella finestra esisteva, lui l'aveva vista, chiedendo il permesso ci si poteva affacciare.
Non era un giorno di sciopero; era un giorno di festa. I giovanotti facevano il bagno nel fiume, essi si pigliavano la loro vacanza sotto una pergola d'osteria. Del Buono medesimo, la cui figura col tempo sarebbe entrata nella storia, passatogli il dolore, e un po' ebbro qual'era, si tolse gli occhiali e tenne, in piedi sul tavolo, sorretto alle spalle da Metello e dal Tedesco, uno dei più bei discorsi della sua carriera. Lo applaudì anche il Tenente delle Guardie, giunto per la cena che consumava a un tavolo riservato. Quindi, gli operaj delle Officine Meccaniche, che erano i più saldi nelle gambe, lo portarono in trionfo lungo via del Prato e promisero la loro solidarietà ai muratori.
E come Metello ospitava Olindo, Lippi portò con sé, in Comune di Bagno a Ripoli dove abitava, «proprio sotto l'Arco dei Camicia», Aminta Donnini che non aveva casa e gli era proibita, per via dello sciopero, la baracca del cantiere.
«Ci devo avere una branda, te la sistemo» gli disse il decano. «Ci dormiva l'ultimo dei miei ragazzi, ora anche lui s'è sposato. Ne ho avuti tre, tutti maschi, ma l'ultimo è stato il più furbo. Lavora alla Pignone, è tornitore. Uno mi è morto di sedici anni, di tifo. Il mezzano fa lo stradino, salire sui ponti non gli piaceva nemmeno a lui, ed è sempre stato di spalla tonda. Preferisce fare quel mestiere! Dipende dal Municipio, prende tre centesimi, ed è pieno di figlioli. Vieni, Aminta, vieni. La notte, se ti gira, puoi andare a trovar tua moglie, quanto ti pare. Cosa c'è, da Ponte a Ema all'Arco del Camicia? Quattro o cinque chilometri, conoscendo la scorciatoia. Una deviazione!».
Questo fu il secondo giorno.
E il terzo, il quarto, ma già non si radunavano più all'osteria, nessuno aveva ancora dei soldi da scialare in vino, e si compì la prima settimana, e poi dieci giorni e poi tredici, fino a raggiungere, senza defezioni, la seconda settimana di sciopero, il secondo sabato senza salario. Ogni mattina essi andavano sui Cantieri, ma raramente c'erano i Padroni, e comunque non si poteva avvicinarli, non lo permettevano. C'erano gli Assistenti, c'erano i caporali, coi quali era meglio non parlarci per non venire alle mani.
Cotesto sabato, trovarono un cartello, dappertutto uguale, che diceva:
"Ultimo avviso"
LA MANODOPERA CHE LUNEDI' P.V. TORNERA' IN CANTIERE AVRA' LAVORO ASSICURATO PER TUTTA LA STAGIONE. GLI OLTRANZISTI SI POTRANNO CONSIDERARE LICENZIATI. LA RIASSUNZIONE COMINCERA' A PARTIRE DALLA SETTIMANA DOPO E VERRA' VAGLIATO CASO PER CASO.
La Direzione.
Sul mezzogiorno, tornarono a Monterivecchi, si ripeterono d'essersi sbagliati nel giudicare i Padroni disposti alla capitolazione. Era vero il contrario. E decisero di non prendere iniziative, sarebbe apparso come un segno di debolezza da parte loro, ma solo che i Padroni avessero lasciato intravedere una disposizione a trattare, gli sarebbero andati incontro senza ripicchi, magari diminuendo di due soldi le richieste, e con tutta la buona volontà di arrivare a un'intesa. Poi, guardandosi attorno, qualcuno si accorse, questo qualcuno fu Del Buono, che l'unico tra loro che aveva preavvertito di arrendersi comunque, all'inizio della terza settimana , mancava all'appuntamento. Ma sùbito, quelli che venivano da Scandicci e di sopra Vingone, garantirono che il giovane Falorni non avrebbe fatto il crumiro. Lo si era perduto come scioperante, ma anche come muratore. Durante quelle due settimane, un po' per non rimanere inoperoso, un po' per non mangiare a ufo, era andato sui campi coi parenti, e gli si era risvegliato l'amore per la terra e per la ragazza con la quale, anni prima, era stato fidanzato. Costei, apparteneva a una famiglia di coloni della stessa Tenuta Delle Casse, e i suoi genitori, per dare il loro consenso, avevano rinnovato la condizione ch'egli lasciasse il mestiere e tornasse contadino. Era stata tutta una congiura, tra la ragazza e i genitori di lui e di lei, e lui c'era cascato. Ma perché cascarci gli faceva piacere. «Tanto, il mestiere dalle mani non me lo leva più nessuno» aveva detto. «E la città e i cantieri, restano sempre lì, a due ore di cammino». Ora, tramite quei compagni, egli mandava a tutti, i suoi saluti e gli auguri.
Fu sotto questa bandiera, dai colori vagamente nuziali, che al tramonto, i muratori si ritrovarono uniti e in fila, davanti ai cantieri.
CAPITOLO 15.
Essi avevano il cuore gonfio di speranza e stretto dal timore; per questo, anche ai più temprati, e senza che se ne accorgessero, il cuore batteva in fretta come a un autore la sera della prima o a una ragazza innamorata. Non era gente capace di simulazione, bastava osservarli come si avvicinavano, per capire le loro intenzioni. Gli Impresari erano ad aspettarli, cotesta sera, e dal modo con cui li accoglievano e li guardavano, anche senza aprir bocca, sembrava gli dicessero:
«Abbiamo perduto dodici giorni. Questo ritardo sui lavori ci porterà un danno di qualche migliajo di lire. In compenso, abbiamo risparmiato di far le paghe. Ora torniamo a casa e troviamo la tavola apparecchiata. Noi siamo nelle condizioni di potere aspettare. E vojaltri? A casa, vojaltri, stasera, cosa trovate?».
Badolati, lui stava sulla porta della Direzione, fra i suoi tre scudieri, col cappello tirato indietro e la giacca d'alpagà che gli andava larga e lunga come la cacciatora d'inverno. Di mezzo alle labbra gli pendeva, spenta, la cicca di toscano. Il nipote Assistente, finiva una spagnoletta e ne cavava un'altra dall'astuccio: Crispi era lesto a porgergli lo zolfino.
«Ve', le faine» disse il decano.
Tuttavia, i muratori non temevano né il suo atteggiamento né i suoi sguardi. Né la provocazione che restava sottintesa, ma sé stessi, il compagno che gli era vicino, il proprio cuore e il suo, che a un certo momento poteva salirgli in gola e deciderli tanto alla capitolazione quanto a un gesto sconsiderato. Mentre il padrone scrutava loro, essi si scrutavano l'un l'altro, come diffidando, e incoraggiandosi e tenendosi a bada. Era il loro modo di ritrovarsi concordi e solidali. Del Buono li avrebbe rincuorati, ma egli non poteva avvicinarsi ai Cantieri. La legge glielo proibiva; solo che fosse apparso, gli Impresari avrebbero potuto farlo arrestare. D'altronde, essi pensavano, se c'è una possibilità, Salani saprà sfruttarla senza forzare la situazione. «Anche lui è un capo di famiglia, Cipressino».
Essi non avevano molta fantasia; ma se fossero riusciti a spiegarsi cos'era che si aspettavano, avrebbero dovuto rispondersi che per prima cosa si aspettavano di veder Crispi o Nardini metter fuori la cassetta e l'Ingegnere incominciare a far le paghe. Questi bestemmiatori, segretamente confidavano nel miracolo. Era sabato sera, e tornare a casa una seconda volta senza il salario, gli pareva innaturale, dal momento che il lavoro esisteva, era lì, i muri non chiedevano che di essere prolungati, e gli infissi messi in opera, le pareti decorate. Il senso della responsabilità, li opprimeva. E come il calabrone che adesso ronzava in mezzo a loro, un pensiero importuno gli ballava nel cervello. Dovevano richiamarsi alla mente una per una le ragioni per cui erano scesi in sciopero, e che quello stesso mattino, a Monterivecchi, si erano ripetuti. Ma cotesto pensiero non li abbandonava: "Se avessimo lavorato, ora si farebbero le paghe". E per poco e insufficiente che fosse stato, avrebbero riscosso un salario, non sarebbero tornati a casa a mani vuote.
«Le faine, ve'».
Il piccolo Renzoni aveva acchiappato il calabrone che gli girava attorno al viso, si avvicinò il pugno all'orecchio per udirne il ronzio. E invece di tirar fuori la cassettina delle paghe, a un cenno dell'Ingegnere, Crispi mise il lucchetto alla porta della Direzione. Essi stavano in fila sotto la massicciata, in silenzio, ora; l'Ingegnere, seguìto dal nipote, se ne andò, come ignorandoli, rasente il Cantiere. Il cielo era tutto rosso, e sulla strada ferrata c'era una locomotiva che faceva manovra. Renzoni piccolo ripose in tasca il fazzoletto in cui aveva avvolto il calabrone. E mentre l'Ingegnere passò loro dinnanzi, i muratori guardarono Metello.
Durò qualche minuto, il tempo che l'Ingegnere impiegò per raggiungere l'angolo di via Vittorio, e nondimeno fu una tensione, uno spasimo comuni, che attraverso cotesti sguardi vennero a confluire su Metello e lo turbarono. Egli comprese che se avesse richiamato l'Ingegnere per annunciargli la loro capitolazione, nessuno dei suoi compagni lo avrebbe sconfessato. Comunque, tutti gli sarebbero stati segretamente riconoscenti. E si sentì solo, con pochi, isolati sodàli dietro di sé: non Olindo, certo, che pareva esortarlo a un perdono; non Lippi, che lo guardava come per ricordargli di non essersi voluto già da prima caricare la coscienza di questo peso; e non Aminta, esaltato dall'ira e pronto a raccogliere un sasso e scagliarlo, o scagliarsi egli stesso, contro l'Ingegnere. Non il Tedesco, infine, nemmeno: Butòri si tolse di bocca il filo d'erba, d'avena, e di nuovo tornò a masticarlo; fece un cenno d'assenso, che era un invito a prendere una decisione più che la conferma di un proposito; alzò le sopracciglia e per un momento dondolò il suo grosso corpo sui talloni. Forse erano interamente con lui, il piccolo Renzoni che lo fissò coi suoi chiari occhi, la mano nella tasca a trattenere il calabrone, e qualche altro degli oscuri compagni che meno egli teneva in conto di amici e che adesso sembravano chiedergli di sostenerli, mostrandosi sicuro di sé, sereno, padrone dei propri nervi e della situazione. Nel giro di quei secondi, Metello incontrò lo sguardo di ognuno di loro, e uno per uno, dietro i loro visi, di ciascuno gli balenò la storia.
Ecco, c'era Meoni, lo si chiamava il Santino, era di Pelago. Era un manovale; si sapeva che la domenica andava in Chiesa, aveva le proprie idee. Gli era nato un figlio da pochi mesi, e gli aveva messo nome Albertario. Spesso gli diceva: «Anche a te, Metello, cosa ti ci vorrebbe per essere un bravo cristiano? Un po' di buona volontà. Lo potresti proprio giurare che non credi nell'esistenza di Dio?». Lui gli rispondeva con un motto di spirito, a volte con una bestemmia, per farlo irritare, ma anche per vincere l'imbarazzo in cui quella domanda lo poneva.
C'era Leopoldo, aveva la sua età, poco più. Soldato di leva, l'avevano mandato in Africa, e appena sbarcato si era preso uno di quel mali di laggiù: «andavo di corpo ogni due minuti» diceva. Era stata la sua fortuna. Della sua compagnia, i mori di Menelik, «ne avevano fatto schiacciata». Era tutto quello che si riusciva di fargli dire. Pronto a entrare in una discussione su ogni altro argomento, su questo che lo riguardava, ne parlava malvolentieri. Come non parlava mai di casa. Si sapeva che gli era morta la moglie, l'inverno prima, di che? I medici sembra dicessero: «Le è venuto a mancare il cuore, non c'è altra spiegazione». E gli aveva lasciato tre figlioli, il più grande di quattro anni. Glieli badava la cognata che all'epoca della disgrazia stava per sposarsi e aveva ritirato la parola. Della sua avventura d'Africa, ecco, tutt'al più aggiungeva: «Ci avevo tanti amici nella mia compagnia. Poveri ragazzi. E povero anche il Colonnello De Cristoforis. Un babbo, un santo. Macché Del Buono. Gli poteva stare a pari. Ce n'è di gente perbene, anche nell'Esercito, eccòme».
Tra Leopoldo e il Santino, vedeva Friani. Era del Galluzzo; e un buon muratore ormai. Metello se lo ricordava aiuto manovale nella squadra di suo suocero, quando costruivano al Romito. Dianzi, di ritorno da Monterivecchi, si erano trovati vicini, e Metello gli aveva chiesto: «Fosse vivo mio suocero, Friani, che ci direbbe?». «Che siamo ubriachi». «Ma non che facciamo male?». «Nodicerto. Sarebbe qui con noi, ma non ci approverebbe». «O chi era tuo suocero, Metello?» gli aveva chiesto il piccolo Renzoni. «Come la pensava?». «La pensava da anarchico, la pensava bene» gli aveva risposto Friani. E siccome Metello continuava a guardarlo, Friani gli aveva detto: «Io sono rimasto di quelle idee, non lo sapevi?».
E poi Duili, era il sesto alla sua destra, nella fila così schierata. Digià anziano, sulla cinquantina, c'era qualcosa di romantico nella sua vita. Dopo il '70, era andato a Roma come tanti altri, perché là c'era lavoro, come c'era stato in Firenze Capitale. E la fidanzata, stanca d'aspettarlo, un anno, due, si era sposata con un verniciatore. Duili era tornato apposta e, come un siciliano, l'aveva assalita a coltellate, ferendola appena tuttavia, contro le sue intenzioni. Sei anni di prigione, la vigilanza, e in séguito non si era più mosso; scapolo, e come se lei non fosse mai esistita. Se la incontrava, vedendola di lontano, cambiava marciapiede. Erano passati vent'anni, lei era vedova da poco, vestita di nero, lui la fermò. Viveva sola, coi tre figli minori, Duili ci andò ad abitare insieme, era diventata la sua famiglia. I ragazzi lo chiamavano babbo. Ma non l'aveva voluta sposare.
Dieci, trenta, tanti quanti erano: di ciascuno Metello poteva immaginare il ritorno alle case, quella sera, il secondo sabato senza portare niente di salario. E si avvide che tutti, nessuno escluso, inconsciamente magari, gli chiedevano di assumersi da solo la responsabilità di continuare lo sciopero. Poi, essi avrebbero condivisa cotesta responsabilità, ma perché lui, col suo atteggiamento, ve li avrebbe costretti! Tutti, coloro che conosceva, di cui era amico, e gli altri dei quali, pur lavorando insieme nello stesso Cantiere, sapeva poco più del nome. La maggior parte veniva dalla campagna: erano di Scandicci, del Galluzzo, di Bagno a Ripoli, e delle Tavarnuzze, di Dicomano, dell'Impruneta. Si parla di politica, di donne, dei figlioli, ci offrono e si paga una mescita, ci si arrampica sui «ponti» con lo stesso pericolo e lo stesso sudore, a metter le impalcature, a tirar su i muri, a intonacare, a stuccare, a imbiancare, si sta in fila il giorno della paga, si bestemmia che non ci basteranno cotesti soldi fino al martedì, e d'un tratto, c'è da averne paura, ecco, il nono della fila, incominciando da mancina, chi è, come si chiama? Pomero, sì, è di Fiesole, ha alzato anche lui la mano due domeniche or sono, in riva al Terzolle, ed a casa, stasera, troverà cinque ragazzi, a scala, come i diti della sua mano. Ci guarda, ed è un po' anche il suo immediato destino che si decide.
Per un lungo istante, Metello fu tentato di rifiutarsi a questo impegno. Egli era uno dei pochi che rispetto alla generale povertà, all'indigenza in certi casi, poteva dirsi un privilegiato. Aveva a carico una piccola famiglia, Ersilia guadagnava anche essa qualcosa, forse per questo egli non dubitava? Del Buono medesimo, che al di sopra di lui li dirigeva, con che diritto li dirigeva? Bastiano era bravo, disinteressato, un Angelo Rosso, l'Angelo Senzali, viveva con nulla, voleva il loro bene, e tuttavia che ne sapeva della loro fatica, del loro ritorno a casa a mani vuote?
«E Corsiero, e Giannotto» si chiese. «Come si comporteranno negli altri Cantieri?».
Questo lo decise. Nel momento in cui stava per richiamare l'Ingegnere, ormai già in fondo alla strada, il pensiero che per colpa sua, «per via di quelli di Badolati», la compattezza dello sciopero sarebbe potuta venir meno, lo risolse a mantenere l'impegno, ad assumersi la responsabilità che quegli sguardi parevano avidi di rimettergli. Il fiato che gli si era spento in gola, tornò a liberarsi in un ampio respiro.
«Figlioli» disse. «E' più dura di quel che si credeva».
D'un tratto, Aminta, che gli era accanto, raccolse una pietra e fece per staccare la corsa e aggredire alle spalle Badolati. Metello l'afferrò per un braccio, e con ferocia, mentre i compagni gli si raccoglievano attorno, glielo storse. Aminta si piegò sui ginocchi, bestemmiando, e lentamente, sotto la stretta, dischiuse la mano. Il sasso ruzzolò contro la massicciata.
Renzoni piccolo gridò: «Attenti, l'Ingegnere ha cambiato idea».
Badolati era a pochi metri da loro, il nipote sempre al suo fianco; e vedendo il padrone tornare sui propri passi, anche Crispi e Nardini, che avevano assistito alla scena, si erano fatti avanti. I muratori si disposero a semicerchio, con Metello al centro, tra Aminta e Lippi che succhiava il cannuccio della pipa e che disse:
«O sentiamo, ora, su».
L'Ingegnere era furente; tuttavia, quando parlò, si poté intuire una baldanzosa speranza nella sua voce. Il suo tono brusco, perentorio, era come velato da una paterna condiscendenza:
«Non sentiamo, voglio sapere! Voglio sapere perché vi picchiate?».
«Nessuno si picchia» gli rispose Metello.
«Ti ho visto, Donnini mi voleva parlare e tu gli sei saltato addosso. E come Donnini chissà quanti hanno intenzione di tornare al lavoro. Se cerchi di impedirglielo, commetti un reato, lo dovresti sapere. Ti ho protetto per degli anni dalla Questura, ma questa volta, non ci penserò due volte a denunciarti, proprio io».
Così dicendo, fissava Aminta e gli altri, più che Metello a cui erano rivolte le sue parole, e contrariamente a quanto si attendeva, incontrava visi ostili o stupiti.
«E allora, Donnini?».
Aminta stava a capo basso, si schiacciava le mani, una nell'altra.
«Non mi faccia domande» mugolò, piuttosto che rispondere.
«Aminta si è sentito male, perciò è cascato» disse Metello.
«E perché si sarebbe sentito male?».
Ma intervenne Crispi: «La verità, signor Ingegnere, gliela dico io».
D'improvviso, più inatteso che se fosse riapparso il sole sul cielo ormai scuro, Lippi, il decano, gli scagliò contro la sua pipa, lo colse sulla fronte, e nello stesso tempo, si chinò, prese una manciata di polvere e da un passo di distanza gliela buttò negli occhi, gridando:
«Dannato! Farabutto! Spia!».
E ancora agitandosi, tra le braccia del Tedesco, che lo trattenevano, quasi sollevandolo da terra, continuava a imprecare e a sputare contro il caporale. Questi, accecato com'era e dalla polvere e dall'ira, aveva cavato la pistola e sicuramente avrebbe sparato, se nello stesso istante, i soli tra i presenti che si erano mantenuti padroni dei propri nervi, Metello e il Tedesco da un lato e l'Ingegnere dall'altro non gli fossero saltati addosso e non lo avessero disarmato. Quando l'Assistente uscì, anch'egli armato, dallo sgabuzzino della Direzione, comprese che il suo intervento non era più necessario; i muratori piuttosto che stringersi, avevano come allargato il cerchio, al centro del quale, accanto a Crispi, a Metello al Tedesco e all'Ingegnere, c'era Nardini che prese il suo collega per un braccio e lo condusse fino al bidone dell'acqua. Quindi, gli spinse dentro la testa, affinché, come disse, oltre che lavarsi gli occhi, si facesse passare i bollori. E rivolto al giovane Assistente:
«Dia retta a me» gli disse. «Lo riponga cotesto arnese. E' gente presa dalla disperazione, non sono degli assassini».
Ora il sole era tramontato, era già sera, e al di là dei prati, il casellante metteva le lanterne lungo il passaggio a livello. Metello porse la pistola all'Ingegnere offrendogliela dalla parte del calcio: «Sarebbe stata una bella fine di settimana» disse.
Badolati mise in tasca la pistola, si tolse il cappello, si passò il fazzoletto sui capelli, dietro il collo e sotto la gola.
«Sei una canaglia, Salani» esclamò. «Proprio perché sei un uomo onesto, sei una canaglia. Come tuo suocero. Ma almeno, lui pensava per sé. Tu aizzi gli altri, invece, e non ti accorgi del male che fai a tutti».
«Lei mi dà troppa importanza, io valgo per uno, conto per me solo. La verità è che questa gente ha aperto gli occhi».
«Lo so» disse Badolati, e sembrò sospirare. «Ma bisogna che li richiuda, e presto».
Ordinò al nipote e a Crispi di precederlo in Direzione, poi disse:
«Se anche i vecchi pèrdono la testa, dove si andrà a finire?».
«Faccio ammenda» disse il decano. «Si vede che sessant'anni, invece di averli, li dimostro soltanto. Lo consideri un fatto personale. Del resto, dove sto di casa, Crispi lo sa».
Aminta disse: «Anch'io sono andato fuori di cervello. Si sperava che lei fosse disposto a trattare».
Badolati lo considerò, prima di rispondergli; e nuovamente si rivolse un po' a tutti, come per fargli capire che replicando ad Aminta, intendeva parlare, singolarmente, a ciascuno.
«Trattare? Io? Forse, se dipendesse da me. Ma non dipende più da me, è finito il tempo in cui un'Imprenditore faceva di testa sua. Ora c'è l'Associazione dei Costruttori che decide. Finché si faceva di testa propria» ripeté «io coi miei dipendenti mi sono sempre inteso. Molti di voi lo possono testimoniare. Ma siete stati vojaltri che a furia di tirare la corda, avete creato questo stato di cose. Avete voluto rimettere su le Leghe, ora parlate di Sindacato. Eppure, il '98 dovrebbe avervi insegnato che le Camere del Lavoro si possono chiudere da un giorno all'altro, d'autorità. Vi siete spellati le mani per Giolitti che vi ha permesso di riaprirle. Illusi! Agendo così siete riusciti soltanto a farci credere nell'Associazione. E quella, nessun Governo la potrà mai chiudere. E' il Sindacato dei Padroni. Ve le spiega Del Buono queste cose?». Si passò ancora il fazzoletto sulle labbra e continuò: «Lavoro non manca. Nella vostra categoria non esiste un disoccupato, siete vojaltri che vi mettete in condizioni di diventare dei disoccupati. Tornate sul lavoro, e vedremo se col tempo si potrà fare qualcosa. Ora subito no, non c'è nemmeno da parlarne. Dopo la prova di forza che avete voluto dare, l'Associazione non si può inchinare. Perciò, riprendete il lavoro e le cose torneranno come prima. Più in là, mi impegno io di strappare all'Associazione un miglioramento dei salari. Non c'è bisogno per questo di fondare delle Leghe e di scioperare. Intanto, per quello che riguarda qui il Cantiere, vi do la mia parola che Crispi non ci sarà più. Non che lo licenzi: a chi mi vuol bene, anche se eccede, non gli darò mai una pedata. Gli troverò un'altra sistemazione. L'importante è che lunedì non lo ritroverete. E' tutto quello che posso fare».
Tacque e siccome nessuno gli rispondeva restò un attimo interdetto.
«Intendiamoci» riprese. «Lo sciopero deve finire su tutta la linea, e dappertutto, qui come dai Tajuti, da Massetani, da Fiaschi e via dicendo. Basterà che un certo numero di vojaltri torni nei cantieri. Anche cinque o dieci per ogni cantiere. Si riattaccherà a squadre ridotte, ma da tutte le parti, questa è la nostra condizione. Qualcuno che dia l'esempio, e che dimostri di avere il senso della responsabilità, non dovrebbe mancare. Me lo auguro, soprattutto per le vostre famiglie. Gli altri, gli oltranzisti! verranno da sé; e più tardi verranno, peggio si troveranno. Levatevi i grilli di per il capo, ragazzi. Vi parlo come un fratello, non vi fate montare la testa».
«Ci monta ma la fame» Aminta borbottò.
E Lippi disse: «La fame, la bile, e qualche altra cosa».
Badolati finse di non aver udito cotesti commenti e il brusìo di approvazione che ne seguì, troncò la parola sulle labbra di Metello.
«Ora mi sembra tutto chiaro» concluse. «Vi saluto».
E si diresse verso la Direzione, dove era stato acceso l'acetilene, e si vedeva Nardini sulla porta, l'Assistente che fumava nell'interno, di spalle al finestrino, e Crispi che accarezzava il cane. Al di sopra di loro, alta quattro piani contro il cielo su cui apparivano le prime stelle e occhieggiava metà della luna, si innalzava, coperta dalle impalcature, la fabbrica in costruzione.
«E' tanto chiaro che si è fatto buio» disse il decano.
Il Tedesco masticava il suo eterno filo d'erba, d'avena, disse: «Se l'Ingegnere abbaja ancora a questo modo, significa che possiamo sempre sperare. Ma noi, badiamo di non tirare la corda più del naturale. Non ci se ne dovesse poi pentire».
Metello era contento di sé, e soggiacendo anche a quel tanto di vanità che Ersilia gli aveva rimproverato fin dalla prima sera che ci aveva potuto parlare di persona, disse:
«Mi sono comportato bene? Siete d'accordo su come ho agito?».
Ottenne l'approvazione che metteva a posto la sua coscienza, e che non fu esaltante, nemmeno lui se l'aspettava: gli bastava trovare ora, in quei visi, uno specchio alle sue parole.
«Tireremo la corda finché sarà il caso» rispose al Tedesco. «Come dicesti tu, non c'è nulla di cambiato». Aggiunse: «Domani gli operaj delle Officine verseranno le collette che hanno fatto nel corso della settimana. Cercheremo di dividere il meglio possibile, tra chi ne ha più bisogno, ci penserà Del Buono».
«Anch'io» gridò il piccolo Renzoni, col calabrone morto soffocato dentro la tasca e come credendosi dimenticato. «Anch'io ne ho di bisogno» Poi abbassando il tono della voce: «Quando è sabato il nonno aspetta me per comprarsi da fumare».
CAPITOLO 16.
Ora, quanto avrebbero resistito? Uno sciopero è come un assedio: si tratta di durare, inerti e vigili, fino ai giorni che preludono la sortita. O la capitolazione. Trascorse altre due settimane, si era vicini a luglio e la situazione non era mutata, se non in peggio. Quello che per i muratori continuava ad essere uno sciopero, il più lungo ch'essi avessero mai affrontato, i Padroni lo consideravano adesso una serrata. La sera che Lippi aveva aggredito Crispi, incidenti simili erano accaduti anche altrove. Madii, al solito, si era dimostrato il più arrogante degli Impresari, e quel sasso che Aminta aveva minacciato di tirare su Badolati, altri l'avevano raccolto ed era volato a sfiorare il berretto dell'ex caporale. Gli Appaltatori erano ricorsi alle Autorità, che avevano fatto presidiare i cantieri. Ovunque, accanto al guardiano, c'erano ora un sottufficiale e tre soldati. Se i muratori si aggiravano d'intorno alle impalcature, nemmeno più portativi dalla speranza d'incontrarsi coi Padroni, ma come da un impulso amoroso, e perché era il luogo della città a loro inconsciamente più familiare, i soldatini, intimoriti dalla consegna ricevuta, imbracciavano il moschetto e gridavano: «Indietro».
«"Jatevenne". Fatelo per Dio».
Erano ragazzi di vent'anni, e malgrado si sentissero spalleggiati dal graduato e dal guardiano armati di pistola, tanta era la loro decisione che gli tremava la voce. Davvero, a trattenersi qualche minuto di più, uno di quei fucili avrebbe potuto sparare da solo. Così, ciò che era successo a Bari, si ripeteva a Firenze. Non si vedeva una via d'uscita. Badolati, stando alle voci, combattuto tra il suo desiderio di iniziare delle trattative e la solidarietà che gli era richiesta, «di non fare il crumiro dei Padroni», si era ritirato nella sua tenuta in Casentino dove «dimagriva a vista d'occhio» al pensiero dei lavori lasciati in tronco e non essendo abituato a restarsene inoperoso, durante la trebbiatura aveva preso il forcone e dato una mano ad innalzar pagliaj. Costì, dove ugualmente era il padrone, si era ritrovato accanto un pajo dei suoi muratori che per rimediare la giornata andavano ad opra di aja in aja: avrebbe potuto farli allontanare, invece aveva finto di ignorarli.
Ma i più anziani, o coloro che non trovavano da arrangiarsi altrimenti, un giorno sì e due no, venivano a Firenze, a piedi e partendo all'alba per non lasciarsi cogliere dal solleone; gareggiavano con gli scioperanti di città, nel «reggere i muri» della Camera del Lavoro. E siccome non c'era mai nulla di nuovo, passavano la giornata sulle panchine di Piazza Santa Croce, cambiando di panchina via via che il sole girava, e non veniva sera. Allora tornavano in Corso de' Tintori, e Del Buono li rimandava con delle belle parole, speranze poche e distribuendo semmai qualche diecino che aveva messo insieme, come un frate cercatore, durante le riunioni di stipettai o di parrucchieri. Lo stesso, a fine settimana, si era riusciti «a far le finte di spartire dei salari». Quegli operaj delle Officine avevano portato altre centotré lire, sessanta le sigaraje, e più consistente era stato, al venticinquesimo giorno, l'aiuto dei lavoratori di Doccia. Era venuto il sindaco di Sesto in persona, Fortunato Bietoletti, del resto anche lui ceramista della Richard-Ginori, a consegnare le 296 lire.
"Il Muratore", infine, che si stampava a Torino, aveva annunciato una sottoscrizione, per loro di Firenze e per quelli di Livorno e di Bari. Ora si sarebbe visto se Borghesio e Tian e Cortiello e Salvatori si ricordavano coi fatti di Firenze e di Gemignani, essi che avevano riscosso netti cinque salari durante l'ultimo mese.
Il denaro dei ceramisti e delle sigaraje era stato distribuito il quarto sabato sera. Ciascuno aveva denunciato il proprio stato di famiglia, e senza badare alle qualifiche di mestiere, si era divisa la somma «secondo le bocche». E come in casa di Olindo o di Duili erano in sei, e Aminta aveva la moglie e due ragazzi, Aminta aveva avuto quattro parti e Duili e Olindo sei. E Lippi due, poiché aveva a carico la sua vecchia; e una Renzoni nipote che contava per sé solo. Questo, che era sembrato il miglior modo di operare secondo giustizia, ora aveva sollevato i primi malumori.
Un neonato, si cominciò a dire, con che criterio lo si può considerare alla pari di un ragazzo di sette o otto anni che vuoterebbe la dispensa se la dispensa fosse da vuotare? E poi, chi aveva la moglie che faceva i bucati, o la treccia, o teneva baliatico addirittura, non si trovava sicuramente nelle stesse condizioni di coloro la cui donna, impegnata tutta la giornata dalla casa e dai figlioli, non era in grado di portare alcun aiuto. Quando poi il piccolo Renzoni rinnovò la sua richiesta per le spuntature da regalare al nonno, un ex primomuratore dopotutto, ch'era stato quaranta anni sui «ponti» e doveva appoggiarsi al bastone, venne messo a tacere da una manata tra collo e cervelletto, che mezzo lo stordì e della quale non seppe mai chi ringraziare. Com'era stata anonima cotesta pacca, anonime, borbottate, si levavano le proteste. «La Giustizia morì vergine, e non c'è socialismo capace di farla rinvivire» era la mormorazione più bonaria. Che non ancora investiva i capi, ma in certo senso vi alludeva.
Ed ora, giunti al martedì della sesta settimana, tutti sapevano che il prossimo sabato non ci sarebbe stato nemmeno una o due lire a testa da dividersi. Neanche la manifestazione ch'essi avevano inscenato, non sui cantieri né davanti alla Prefettura, tra sotto le finestre dell'Associazione, era valsa a qualcosa. Si erano mantenuti calmi, bastando la loro presenza e i loro visi a rendere eloquente il significato di cotesto assembramento, ma ugualmente avevano trovato un sergente e tre fanti che gli avevano spianato contro i fucili; e dinanzi alla loro immobilità e al loro silenzio, erano indietreggiati e avevano chiuso il portone. Poco dopo, chissà come avvisata, era apparsa una compagnia intera, in assetto di guerra, e li aveva dispersi.
Quel che c'era da spremere era stato spremuto. Gli operaj di fabbrica e le sigaraje, e i ceramisti non erano più in grado di aiutarli. La solidarietà di classe è l'undicesimo comandamento ma poi, all'entusiasmo subentra l'assuefazione. E' come quando si ha un parente moribondo, e la sua malattia non trova un esito, ma si protrae in una lunga agonia. La sua presenza, a cui ci è sempre più difficile prestar soccorso, finisce per esserci, anche moralmente, di peso. La sua sopravvivenza è ora unicamente affidata al suo resto d'energie, al suo sangue. Di città o di campagna che fossero, avevano convenuto di aspettare fino al prossimo giovedì, dopodiché si dichiaravano «decisi a tutto». Ma già, come la loro disperazione, la loro ira, si coloravano di rassegnazione, così il loro cibo si era ridotto alla «panzanella» che di solito serve da merenda ai ragazzi, e aiuta la mescita e stimola l'appetito: pane ammollato nell'acqua e sbriciolato, aceto e sale, un pizzico di basilico. Era un miracolo poterne riempire la zuppiera una volta al giorno, per cena.
Decisi a tutto, se entro giovedì non arrivassero i denari della sottoscrizione aperta dal "Muratore".
Mancavano due giorni, ci sarebbe stato in mezzo, l'indomani, la Festa di San Giovanni, a cui in altre circostanze avrebbero reso onore, chiudendo un occhio se il figlio più piccolo o la bambina entravano nella processione col vestito azzurro e le alucce dietro la schiena; a sera, si usciva con la famiglia, sui lungarni o in collina, a vedere i fuochi artificiali. O si risaliva il fiume sui barconi dei renajoli, costava due centesimi a persona, e a poppa strimpellava un mandolino; quelli di campagna restavano in città: c'era la musica in piazza, c'erano i fuochi, ed estraevano la tombola, sotto Palazzo Vecchio tutto illuminato. Questa volta, la ricorrenza di San Giovanni, cadeva male, li contrariava. Oltretutto, non ci sarebbe stato motivo di ritrovarsi, essendo un giorno di festa, nei paraggi della Camera del Lavoro, in attesa che Bastiano recasse una buona notizia, magari gli spiccioli di una colletta fatta durante una riunione di stipettai.
Essi guardavano alle due finestre dell'ufficio di Del Buono, come nelle giornate di pioggia si guarda il cielo per veder sbucare una striscia d'azzurro che permetta di risalire sui «ponti». Ma erano sei settimane che grandinava piuttosto che schiarire. Finita la mietitura e i lavori occasionali che potevano aver trovato, era per tutti la disperazione a cacciarli dalle case e dai paesi. Dall'alba al tramonto, nessuno più mancava «a reggere i muri» di Corso de' Tintori; e in ciascuno di essi, anche nei più persuasi e che per primi avevano alzato il braccio il giorno in cui si era deciso lo sciopero, forse proprio per questo, c'era la sensazione di essersi come imprigionati con le proprie mani. Indugiavano fino a sera sulle panchine di Santa Croce, in Piazza Cavalleggeri e dirimpetto la Caserma, tra via de' Malcontenti che ora si poteva ben dire la loro strada, e via de' Macci, via delle Conce e de' Conciatori. Cercavano di distrarsi guardando il fiume; c'era sempre chi faceva il bagno e chi pescava; o interessando ai casi loro quei tintori e quei marmisti che venivano sulle porte dei Laboratori. Si spingevano a conversare coi conciatori, nelle due viuzze strette dove l'odore delle pelli stagnava nell'aria e bisognava farci l'abitudine. Tutti gli davano ragione: e una cicca di toscano, una mescita, un pezzo di pane: non erano delle elemosine, erano delle offerte da pari a pari. Adesso, anche costoro avevano incominciato a giudicarli.
«Non vi verrà a costare un po' caro?».
«Se continuate a perdere lavoro nella buona stagione, quest'inverno davvero vi troverete con le pezze al sedere».
Parlavano bene, c'erano dei socialisti tra di loro.
«Vi siete ricoperti d'onore. Se ora sventolate il fazzoletto, nessuno vi potrà rimproverare di aver mancato di carattere».
Di carattere, d'onore? Di debiti, si ricoprivano, e nemmeno, le donne non trovavano più un fornajo o un pizzicagnolo che gli aprisse un conto nuovo. Scappare di casa, al mattino, significava sottrarsi a una vergogna, e al pericolo, per chi ci riusciva, di alzar le mani sulla moglie e i figlioli: col cuore stretto, e la testa in fiamme, era il solo modo che gli restava di imporre un'autorità, una ragione.
Quando nel cortile della Caserma suonava la tromba del rancio, i più sfacciati, che poi erano sempre quelli che avevano più fame, tornavano sul Lungarno, dove a filo del marciapiede c'erano le finestre che davano sulle stalle: in ginocchio, sotto il sole, allungavano il braccio tra le sbarre delle inferriate. Quei soldatini si arrampicavano sulle mangiatoje e ritti sulle groppe dei cavalli, gli mettevano in mano delle pagnotte, delle gavette piene di rancio. Ne contentavano dieci, quindici, gli altri restavano a guardare. Erano ragazzi simpatici, parlavano veneto, piemontese, siciliano, ce n'era un pajo che avevano il padre e il fratello muratori, altri ch'erano loro stessi dei manovali. Gli sembravano diversi dai fanti che montavano di sentinella nei cantieri.
«Italiani siamo».
«"Lavoremo" tutti con le mani, "lavoremo"».
«"Magna ma'"».
«Fra qualche mese sarò anch'io di leva» diceva il piccolo Renzoni.
Egli era il solo a cui lo sciopero avesse recato un'autentica distrazione. A furia di restar giornate sui Lungarni e pei Viali, era entrato in confidenza con una bambinaja; lei che era della sua medesima età, educazione e statura, lasciava che il padroncino corresse avanti e tirasse sassi nel fiume. Era una ragazza delle Marche, una contadina, parlavano delle loro famiglie e della terra e di cosa ci si coltiva, non cambia molto tra la campagna fiorentina e quella di Macerata; presto, ebbero sempre meno cose da dirsi, e non si erano né fidanzati né dati un bacio; si guardavano e dondolavano la testa. Ella gli portava la merenda e mezzo pacchetto di spuntature per il nonno. Salutata l'amica, egli scendeva sull'Arno e vi si tuffava: se ci fossero state novità da parte di Del Buono, qualcuno gli avrebbe dato una voce affacciandosi dalla spalletta.
Gli altri, tutti, era come se quel sole li finisse di prosciugare, e sudassero veleno. Anche al decano s'era spenta l'ironia. «Ho finito di mettere gli ultimi capelli bianchi» aveva detto, si era tolto il berretto e aveva abbassato la testa: «Guardate se non è vero?». Passavano ore senza scambiarsi una parola; disegnavano sezioni di pareti sullo sterrato, coi fuscelli, tornavano ragazzi loro malgrado: scrivevano "W Io" e "W il Socialismo" e "abbasso l'Associazione", e ci strisciavano sopra col piede; oppure, giocavano a filotto cavalcioni sulle panchine. D'improvviso scoppiava una discussione. Era quasi sempre Aminta che andando di gruppo in gruppo, la provocava.
Magro da far paura, gli occhi spiritati, la barba lunga due dita gli aveva pareggiato la mosca sotto il labbro. Aveva avuto una lite col suocero e coi cognati, messi su dal prete, non c'era da dubitarne: gli avevano rimproverato, al solito, la sua pochezza e fannullaggine, come se lo sciopero fosse una sua invenzione. Erano venuti alle mani; ne aveva buscate e l'avevano fatto arrestare. Un giorno e mezzo in guardina, questa volta senza ragione. C'era stato il confronto, nell'ufficio del Brigadiere. «Tu che dici?» Aminta aveva chiesto alla moglie. Semira gli era andata vicino: «Io ho sposato te, non i miei». I parenti avevano recitato la scena del ripudio, ma né lui né lei si erano lasciati persuadere: proprio ora che più tragica la situazione non si poteva dare, Aminta si era preso il maggiore dei ragazzi per la mano, e Semira dietro, col più piccino in braccio, avevano lasciato Ponte a Ema. Lippi, come ospitava lui aveva ospitato la sua famiglia, nella stanzuccia a terreno, con una sola branda che bastava appena pei ragazzi. Si poteva durare? La moglie del decano badava ai bambini, e Semira andava a far erba e a spigolare. Era ancora giovane, le gravidanze non l'avevano abbattuta, e non che fosse debole per natura, ma aveva bisogno d'essere guardata. Lasciata a sé si poteva perdere con un sorriso, siccome alla fatica, sì, c'era abituata, ma non alle privazioni. Ora andava a giornata da uno di quei grossi ortolani di Collina che in paese tutti rispettavano per la sua posizione ma che si conosceva come un donnajolo: «Mi raccomando, Semira, non si lasci conquidere»le aveva detto Lippi, così, tanto per dire, ma certamente sapendo ciò che diceva. Ella portava a casa venti e trenta soldi per sera: quando Aminta rientrava c'era la panzanella. C'erano un piatto di pomodori e un bicchier di vino. Tanto veleno, che gli serrava il cuore. Stava per delle ore accoccolato da una parte, sulla scalinata di via de' Malcontenti, sulla base d'un lampione, e d'un tratto esplodeva. Non per incitare alla resa, al contrario: gli sembrava che tornare ai Cantieri e rendere evidente coi fatti l'inutilità dello sciopero, non fosse neanche da pensare. Come non si pensa di sedersi sul ciglio di una strada, anche se siamo stanchi morti, allorché s'intravedono le prime case.
«Così non può durare. Badolati, Madii, Tajuti, preferiscono pagare le penali piuttosto di scendere a patti. Si sono nascosti. Ci vogliono pigliare per disperazione. Li dobbiamo andar noi a scovare. E' che siamo guidati male. Del Buono è un santo, starebbe bene sugli altari, Cipressino non vede che la politica, Giannotto è un poveruomo, si lascia influenzare. I Padroni bisogna pigliarli noi di petto, bisogna togliergli il pelo, bisogna mettergli paura».
«Ce lo tolgono ma a noi il pelo» mormorava Olindo, tra sé e sé: «Siamo noi che dobbiamo aver paura, qui come in miniera è la stessa storia, sempre allo stesso modo va a finire, quando saremo costretti in ginocchio, come digià siamo, i caporioni se ne lavano le mani» borbottava, e al massimo poteva sentirlo chi gli sedeva vicino.
Non Aminta di certo, ché Aminta ormai lo lasciavano parlare. Se qualcuno si fosse azzardato a contrariarlo, ma anche a dargli ragione, c'era da compromettersi: ti si scagliava addosso, alzava le mani, gridava: «crumiro», ed era lui che prendeva le difese di Metello e di Del Buono. «Vai via di testa, Aminta» gli diceva il decano. «Non ti esaltare». Lippi era la sola persona che Aminta ascoltasse, per la riconoscenza che gli doveva, e per i suoi capelli bianchi. Tornava ad appartarsi, accoccolato sui talloni, e ripeteva: «In galera ci sono già stato per aver segnato un prete, ci posso tornare per aver levato dal mondo un padrone». Da qualche giorno sembrava rinsavito, l'avevano visto sorridere addirittura. «Aspettiamo giovedì, giovedì si decide.... Intanto arriveranno questi quattrini del "Muratore". Mi toccassero, mettiamo, cinque lire: subito una cena da cristiani, e la sera dico a Semira: 'fatti bella e pulisci i bambini, vi porto a vedere il Circo Equestre all'Arena Nazionale'. Speriamo mi tocchi qualcosa di più di cinque lire».
«Che cifra ci toccherà?» si chiedevano, seduti attorno a Del Buono, i Delegati di Cantiere. Avevano davanti il numero del giornale che dava conto delle prime offerte: non superavano le mille lire e andavano divise coi colleghi di Livorno e di Bari.
«Spartite per quanti siamo, non serviranno a tappare un buco» disse il Tedesco.
Era intervenuto spontaneamente, siccome tutti ne avevano diritto, e perché, in assenza di Metello (lo si era atteso di minuto in minuto inutilmente) sarebbe altrimenti mancato il rappresentante del Cantiere di Badolati. Anche lui era dimagrito, il Tedesco, come il suo Padrone e come tutti, ma in lui si notava. Gli era calato l'addome e sembrava ora più alto, incuteva maggior rispetto diciamo. Per quindici giorni, non si era fatto vivo, aveva trovato da rintonacare il forno sotto casa, e dare il bianco alle pareti, ci s'era indugiato e dicerto il pane non gli era mai venuto a mancare. Ma il companatico sì, come a tutti, e in ispecie la sua razione di vino, dopocena. «Io fui preciso, ricòrdatelo Del Buono. Dissi, finché si può. Ora siamo andati al di là del sopportabile e del consentito». Era salito, tenendo per mano la figlia di dieci anni: una bambina lunga e secca, dalle ciglia e dai capelli albini, una tedeschina, faceva tenerezza e compassione. «L'ho portata siccome mia moglie sta a letto la più parte della giornata. E' di sei mesi, e le si gonfiano le gambe» disse. «Non foss'altro, per questo, ho bisogno di tornare presto sul lavoro. Senza tradire nessuno, senza mancare ai patti, sia ben chiaro». La bambina si era seduta in un angolo le mani sui ginocchi, composta e seria, incontrò lo sguardo del padre e si sorrisero.
«jetzt gehen Wir, Lotte».
«Wann du glaubst, babbo».
«Che accechi se sembra la tua figliola» disse Giannotto.
«E' tutta sua madre» egli disse, gli passò negli occhi qualcosa che poteva essere amarezza o malinconia.
E Del Buono, per cambiare argomento, tornò su quello che più e solo gli interessava.
«Aspettiamo a fasciarci la testa» disse. «Non ce la siamo ancora rotta del tutto. Nella sottoscrizione al "Muratore", fino a questo momento mancano i versamenti delle città su cui si può contare di più. Milano, Torino, le Romagne. E se Madii e Tajuti sono partiti per Roma, un'intenzione la debbono avere. Pescetti ci terrà informati. Ha digià parlato con Giolitti, hanno fatto un pezzo di strada insieme, c'era anche Quaglino. L'hanno messo a giorno della situazione. Giolitti è quello che è, ma su queste cose ci ferma l'attenzione. E non va dimenticato che siamo sotto le Elezioni. Tajuti e Madii hanno in appalto delle Opere Pubbliche che dipendono dallo Stato e non dal Comune. Basterebbe che il Ministero li minacciasse sul serio di pretendere la consegna alle scadenze fissate, perché la situazione ribaltasse tutta a nostro favore».
Si tolse gli occhiali e chiese: «Chissà perché Metello non è ancora arrivato? Sono diverse sere che viene solo sul tardi, o non viene proprio».
Il Tedesco disse: «Avrà trovato qualche lavoro da fare».
«Non mi resulta» disse Giannotto. «Lo saprei».
CAPITOLO 17.
«"Lo scioperante è un lavoratore che ha preso coscienza della sua condizione di sfruttato e deliberatamente affronta la lotta e sacrifici sempre maggiori, onde rivendicare i suoi diritti"». Queste son parole tutte vere nel momento dell'azione, con Badolati davanti e i compagni a cui basta dar l'esempio perché gli facciano muro, ma poi? Quando uno sciopero si trascina, come crescono le difficoltà crescono le tentazioni. Siamo, sì, a spasso, ma non come da disoccupati e col chiodo fisso di trovar lavoro. Durante uno sciopero si tratta di resistere, cioè di aspettare. Tempo per disperarsi e bestemmiare e lasciarsi pigliare dalle voglie, ce n'è quanto se ne vuole. Le ore non passano mai. E un caldo, un'afa! Ci si domanda come riempie la giornata la gente che vive senza aver bisogno di lavorare; e ci si risponde che, al solito, è questione di denaro. Si potrebbe andare al Gioco del Pallone, alle diurne dei "Cafè-Chantant", sotto la pergola dell'osteria di Porta a Prato, o ai bagni addirittura. Invece, per non scendere in Piazza Santa Croce e sentirsi ripetere sempre le stesse domande, oziose dal momento che la risposta è una: «Aspettiamo, questa volta sono loro che debbono mollare», si preferisce mettersi in mutande e ciabatte dentro casa, con porte e finestre spalancate per creare del riscontro. La giornata dura un'eternità, e la notte non si riesce a dormire. E siccome siamo giovani, si fa più spesso all'amore. Passata mezzanotte si comincia a respirare; sull'alba, all'ora che di solito ci si alza, bisogna accostare le persiane, fa quasi freddo col solo lenzuolo. Ersilia dice: «Finisce che questo sciopero ce lo ricorderemo». Ma non si rifiuta, anche lei è giovane e le piace. Malgrado le preoccupazioni, ella sa che i negozianti continueranno a segnare, farà più treccia questa settimana, rinnoverà il debito con la strozzina, intanto anche per lei è come una vacanza, un momento di gioja che non ci si aspettava e che, giovani come siamo, non si può negarsi e a maggior ragione non si può negare all'uomo che si ama. Ora lei esce a far la spesa, armata di sfacciataggine e sorrisi, col bambino in collo; lui arriva fino alla Camera del Lavoro, torna e il desinare è rimediato. Lo aspetta un altro pomeriggio, fino alla sera che c'è la riunione con Del Buono. Alla sezione del Partito ha preso in prestito l'ultimo numero di "Critica sociale", si sforza di leggere, c'è un'afa, malgrado tutto sia spalancato non spira un filo d'aria, l'istinto lo porta al davanzale. Son giorni e giorni che ronzano attorno alla finestra i suoi pensieri, si librano di pochi metri e vanno a posarsi sul davanzale soprastante. Dove sta affacciata, ora che il sole batte dirimpetto, la bella Idina.
«Avrò bevuto mezzo litro d'aranciata, e ci crede signor Metello? Ho più sete di prima».
«La sete la leva soltanto il vino».
«Ci ho anche quello. Tengo sempre un fiasco avvolto in un panno bagnato come mi ha insegnato lei. Ne vuole?».
«Eh, è proprio una tentazione».
«Aspetti, porto un po' d'aranciata anche per Libero. Ma forse ne gradisce anche Ersilia, glielo chieda».
«Sono solo. Ersilia è andata da sua madre in San Frediano, col bambino».
«Oh, allora!».
«Posso venir su io».
«Non è per questo. E' che anch'io sono sola».
«L'uscio non me lo può aprire?».
«Certo... Se lo dice lei».
Così era incominciato. Una ventina di giorni prima, Ida compiva gli anni. Diventava maggiorenne, l'esosa! Al mattino, Ersilia le aveva fatto gli auguri e donato un mazzo di garofani, veri questi, e freschi, da un centesimo l'uno. Ida aveva trascorso la giornata a casa dei genitori, e la sera aveva invitato Metello e Ersilia a prendere il caffè, ma se volevano, anche la cioccolata. Sposa da due anni, ella entrava adesso nei ventuno di età. Una gran data. «Si invecchia» ripeteva, squittendo, e a Metello prudevano le mani. Comunque, la visita non era stata tanto lunga da farlo spazientire. Il bambino si era appena addormentato e per quanto lontana da lui una rampa di scale, Ersilia era preoccupata di saperlo solo. Si stavano accomiatando, allorché Cesare disse, ma senza malizia, come per congedarsi appunto con un motto di spirito:
«Scioperante è parente di scioperato, stia attenta signora Ersilia».
Ersilia sorrise, lei per educazione; e Metello guardò il mosaicista alzando le sopracciglia e scuotendo la testa, in un modo che poteva interpretarsi come di assenso, ma anche come di commiserazione. E una volta entrati nella propria casa, mentre Ersilia si abbatteva sul suo petto dando sfogo alle risa, non la battuta di Cesare ma l'espressione con cui Metello l'aveva accolta la divertiva, Metello commentò:
«Io non ho ancora capito se lui è più imbecille o lei è più esosa».
E ancora qualche ora dopo, con Ersilia addormentata al suo fianco e più in là il bambino, egli non riusciva a prendere sonno. Tuttavia, non era allo sciopero che pensava, né ai suoi compagni né a Badolati o Madii, ma a quel due del piano di sopra. Come se non li conoscesse da due anni ormai, e non avesse formulato da tempo, su entrambi, un giudizio che gli sembrava indiscutibile e definitivo. Ora, più che pensare farneticava.
Cesare era un bravo artigiano, ma uomo di spirito no davvero. Non c'era una cosa che lui e Cesare avessero in comune. A Cesare piaceva Wagner più di Verdi, e trovava soltanto becera la prosa di Augusto Novelli, di "Novellino", il tono delle sue polemiche come le sue commedie. Non aveva mai messo piede al Gioco del Pallone, mai fatto un bagno in Arno, mai bevuto fuori dei pasti. C'era da meravigliarsi non fosse un bacchettone. Comunque, i preti, anche se non andava in Chiesa, li rispettava. «Fanno il loro mestiere» diceva. Secondo Cesare tutti facevano il loro mestiere, come non esistessero mestieri sporchi e mestieri puliti. «Non bisogna veder tutto nero. C'è più onestà di quanto non si creda, e dove meno ci si aspetterebbe». Parlava come un terziario. Era un uomo d'ordine; affermava di rispettare tutte le idee, forse perché in proprio non poteva dire di averne. Se una ne aveva, era questa: che coteste idee, o rosse o bianche o nere, non portassero della confusione. Del "bu bù" diceva. A suo parere, confusione l'avevano portata tanto Crispi con la guerra d'Africa, quanto Bresci col suo regicidio; come coloro che erano scesi in piazza nel '98 e i generali che gli avevano sparato addosso. Pari e pari. Non si era mai arrischiato a dirlo, ma era una considerazione che gli si poteva attribuire. «Quando comincia il "bu bù", non si sa mai dove si va a finire» diceva. E perché avesse a noja quella che lui chiamava confusione, era facile da capire. «Se c'è del "bu bù", gli stranieri non vengono, e quelli che ci sono scappano». Poiché la sua clientela era formata soprattutto di stranieri, l'Italia intera viveva sui forestieri! Oltre a non pensare, Cesare vegetava invece di vivere. Sempre nel Laboratorio che aveva ereditato dal padre, e il resto della giornata perso dietro i capricci della moglie, la domenica al Pagliano e qualche dopocena nella sala interna del Caffè delle Colonnine, dovevano essere degli anni che non usciva d'intorno Piazza Santa Croce. Non aveva nemmeno fatto il militare: a furia di star curvo sul telajo fin da ragazzo, gli si era deformata la cassa del torace. Forse in tutta la sua vita non era mai andato più in là del Lungarno e di Sotto i Portici. Bisognava quasi persuaderlo che dalle parti delle Cure e del Romito erano sorti e si ingrandivano dei nuovi Quartieri, nuove fabbriche. Nuova vita. «Sì sì» diceva. «Non ne dubito. Un giorno ci dobbiamo andare». Si rivolgeva alla moglie, e cercando di passare inosservato, le sfiorava la mano. Lei rispondeva: «No no e no! Non ci verrò mai, se prima non mi porti al mare. Non mi interessa che questi siano i mesi buoni per il passaggio dei forestieri. Se non mi ci porti, ci vado da sola». Lui diceva: «Va bene, d'accordo. Ma non ti arrabbiare, se no, poi, ti fa male lo stomaco tutta la notte. Ci andiamo al mare, quest'estate ci andiamo». C'era da alzarsi e da chiedere: «Permette, signor Cesare, che gliela dia io, a nome suo, a sua moglie, una labbrata?». Ma lo sguardo di Ersilia, furbo, ridente, che nondimeno implorava, lo tratteneva; se Metello interveniva, interveniva per dire: «Di qui a quest'estate, signora Ida, più panico e meno uccelli». L'estate era venuta, e i Lombardi avevano affittato una camera in pensione e una cabina da Pancaldi; lei, essendoci stata da bambina, aveva preso gli accordi per corrispondenza. Dal trenta al trenta di giugno e luglio. Cesare si era persuaso a lasciare il Laboratorio nelle mani del suo primo lavorante. Ne aveva tre di lavoranti. Era un datore! «Anche se ci rubano, qualcosa di guadagno ce lo dovranno pur far trovare» aveva detto Ida, cotesta sera del compleanno. La bella Idina! tutta fronzoli e gestri e risatine; ma proprio per questo Cesare se ne doveva essere innamorato. Il vuoto sotto la fronte li aveva fatti combaciare. Ella, si diceva Metello, era «quanto di più antipatico, di "esoso", ci sia al mondo e porti la sottana». E definirla esosa: antipatica, ora gli sembrava quasi un complimento. Ne "L'amore sui tetti", che avevano visto all'Alfieri, in platea, loro quattro, a un «mattinè» domenicale, il fidanzato diceva alla sua dama: "Vien via, esosa, dammi un bacio". Era l'alba e ci pensava ancora. Si misero a strillare le rondini, si annunciò di lontano il venditore di pane fresco, e lui era più sveglio di sei ore prima.
Di lì a poco, sentì pesticciare al piano di sopra, un passo leggero. Ecco, l'esosa si era alzata. Mezza nuda, di certo. Aveva dei seni da star dentro la mano, lo si immaginava anche di sopra il vestito; e le cosce lunghe, poiché aveva alto il sedere. Era una ragazza; e con quel marito! Metello scoperse di non aver mai «avuto a che fare con una ragazza ancora minorenne», e di aver perduto, in quei due anni, una grande occasione. D'improvviso, si sentì pieno di vergogna. Ersilia si era voltata dalla sua parte, aveva aperto gli occhi e subito li aveva richiusi, si era tirata il lenzuolo sotto la gola, e rannicchiata. Metello trattenne il respiro. Al piano di sopra, i passi fecero l'inverso cammino. Ersilia sussurrò: «Sei sveglio?».
«E' l'abitudine» lui disse. «Tra poco mi sarei dovuto alzare».
«Ma se non è ancora passato il lattajo».
«Quanti anni sono, Ersilia, che ci siamo sposati?».
«Lasciami dormire, finché passa il lattajo e si sveglia il bambino».
«Due anni e mezzo, nemmeno. Due anni e quattro mesi. Tu ne avevi venti appena, e io ventisette compiuti».
«Bravo» lei disse. «Giocali al Lotto».
Si voltò a guardare se il bambino era coperto e tornò a rannicchiarsi vicino al marito. Egli era turbato, scontento di sé, dei suoi recenti pensieri, e di secondo in secondo sempre più animoso. Confusamente, capiva che ora, possedere la moglie, era come sporcarsi e sporcarla anche moralmente, ma anche significava allontanare da sé, con energia, con furore cotesti pensieri e testimoniare ad Ersilia, in un modo per lei insospettato, ma comunque giojoso, la sua fedeltà e il suo affetto che non erano mutati. La carezzò sulle cosce, le scoperse il ventre. Lei ancora tra il sonno, si sentiva fresca, malgrado il sudore sotto la gola, non avrebbe voluto, e nondimeno era già vinta, desiderosa soltanto ch'egli la carezzasse ancora e che nell'amplesso che si attendeva, fosse dolce, leggero, che la prendesse senza scomporla. Egli si era girato sul fianco e la costringeva supina. La baciò sulla bocca.
«Non hai ancora aperto gli occhi e fai la spiritosa».
Ella aveva abbassato le palpebre, e sorrideva: «Giocali al Lotto» ripeté.
Egli si sollevò sui ginocchi e nello stesso istante il bambino si destò, chiamò la mamma che gli fu subito vicina e lo cullava, e non poteva trattenersi dal ridere.
Era il terzo sabato dello sciopero. C'era Olindo che aveva dormito in casa loro, su una branda, in cucina, lo si sentiva tossicchiare. Arrivò il lattajo ed Ersilia gli calò il paniere. Quindi Metello si dové alzare, e pur risentendo, a momenti, durante la giornata, la stanchezza per la notte trascorsa in bianco, fu ugualmente attento e padrone dei propri nervi, fino alla sera, quando si ebbe lo scontro con Badolati. Dopo cena, in pari con la propria coscienza, il sonno lo colse di sorpresa, come il suo bambino. Si addormentò al tavolo, la testa sul braccio, mentre Ersilia rigovernava e Olindo l'aiutava ad asciugare le posate.
Idina gli era uscita di mente, ma per poco.
L'indomani domenica, al Pagliano davano la "Traviata" con la Bellincioni, che in questa occasione aveva il Bonci come Alfredo. «Wagner è Wagner» gli disse Cesare chiamandolo dalla finestra «ma con una Violetta simile, anche Verdi ci deve fare la sua figura. Mi permette di invitare lei e la signora?».
Quando si è in colpa ci par d'esser sempre pedinati; così, se un pensiero si conficca in testa, anche il volar di una mosca sembra prestabilito. Ora tutto contribuiva ad avvicinarlo a Idina e a farlo invaghire di lei. Ella venne, col vestito rinnovato il giorno prima, «quello della maggior età», come non trascurò di ripetere: aveva metà braccia nude e un vezzo azzurro, a due giri, che le ricadeva sul seno. Metello scoperse che le sue pupille erano davvero tutte nere, e le orecchie piccole piccole, con le buccole anche azzurre, ma della stessa foggia di quelle di Ersilia.
«Guarda i miei orecchini?» gli chiese. «Li ho comperati sul Ponte Vecchio. Ho voluto copiare Ersilia».
Lui disse: «Peccato confessato...». E fu un modo di non venir meno al suo atteggiamento, e insieme, egli solo lo sapeva, di indulgere a un complimento. Nondimeno, gli sembrò che lo sguardo di Idina brillasse, come s'ella avesse penetrato cotesta sua intenzione.
Il Pagliano era «uno splendore d'ori, di luci e di velluti rossi», ma se si voleva trovare posto in loggione bisognava, dopo aver acquistato i biglietti, mettersi in coda due ore prima che facessero porta. E non appena quelle maschere davano «la via alle belve», occorreva lanciarsi di corsa, lavorando di gomiti, aiutandosi con le grida, su per le scale, uno scalino guadagnato erano tanti posti strappati al centro della piccionaja, di dove si vedeva e sentiva come dal Palco Reale, quattro ordini sopra. Cotesta domenica, nel sali sali Ida inciampò su uno scalino, la turba che veniva dietro stava per calpestarla, e non Cesare ma Metello fu lesto a sorreggerla, prendendola sotto le ascelle e facendole fare di volo gli ultimi gradini. Ella era leggera, una piuma, e tutta un sorriso. Poi, nella corsa finale per la conquista della panca, una volta sedutisi, erano venuti a trovarsi, sì, come sempre, le due donne in mezzo, ma contrariamente al solito, Idina stava accanto a Metello, la sua sottana gli batteva sui calzoni. E per un istante, nell'assestarsi, egli posò una mano sulla sua coscia, dov'erano le giarrettiere. Ma subito, sorridendo alla preoccupazione che andava dipingendosi sul volto di Cesare, Ersilia si era alzata: «Venga, Ida. Suo marito, se non ha lei accanto, da in ismanie».
«Questo no» protestò Cesare. «D'altra parte, non vedo perché si dovrebbero cambiare le abitudini».
«A volte cambiare è bene» disse Ida. «Io non mi muovo» -
«O Ida? Che vuole farci Traviata?» replicò Ersilia.
«Senza contare» Metello disse, sostenendo il tono d'allegria, e dentro di sé se ne vergognava, «che geloso potrei essere proprio io!».
«In questo caso» Ersilia disse «anch'io resto dove mi trovo».
Era per tutti e quattro, così sembrava, un modo di stare allo scherzo e di fingersi spiritosi. Ora la platea lentamente si riempiva, e i loro discorsi, di loro donne in specie, inseguivano gli abiti e i cappelli estivi delle mezze calzette che in quella rappresentazione pomeridiana, l'ultima della stagione, prendevano possesso dei palchi e delle poltrone. Finché si spensero le luci, si accese la ribalta, e cominciò l'animazione sulla scena, il coro e la voce folleggiante della Bellincioni che lo sovrastava:
"Libiam nei lieti calici ..."
Metello stava coi gomiti sulla balaustra, le mani nel vuoto, intrecciate, e tutto il suo sforzo consisteva nel cercare d'immedesimarsi nella musica, nell'azione che si svolgeva sul palcoscenico. Sfortunatamente egli conosceva troppo bene le amorose schermaglie di Alfredo e di Violetta per potersi disfare di una considerazione che, dopo averla formulata, di minuto in minuto, sempre più lo ossessionava: «Non ho mai avuto a che fare con una donna che portasse le giarrettiere». Ersilia, lei, sempre con quegli elastici che a volte le rimaneva il segno fino al mattino! E fosse il caldo, fosse una sua impressione, pian piano il fianco di Idina aderiva al suo, i due ginocchi si toccavano, erano una fiamma in mezzo al gran calore. Giravano inutilmente, a pochi metri dalle loro teste, e al centro del soffitto, le lunghe pale dei moderni ventilatori.
Dopo il primo atto, con uno di quei suoi trapassi d'umore, e con la saggia condiscendenza ch'ella amava esternare, sempre un po' infantile e civetta, nei confronti del marito, Ida si alzò e disse: «Mi dia il suo posto, Ersilia, non facciamoli più soffrire questi mariti».
Malgrado l'estasi di cui li aveva beneficati l'ugola della Bellincioni, grondavano sudore. Passò il ragazzo del caffettiere e bevvero una gazzosa. Metello, ormai persuaso della sua commedia, gridò: «Le scelgo io». Ne offerse a Cesare una di limone, e per sé, per Idina e per Ersilia le prese rosse, che almeno al colore, potevano sembrar vino.
Tornate a spengersi le luci, ora sedendogli accanto, Ersilia gli sussurrò: «Non ti sembra, Metello, di esagerare?».
Quella sera, Ersilia gli ripeté: «Non so che gusto tu ci provi a mancargli di rispetto. Te ne approfitti perché è una persona educata».
«E' un imbecille e un borghese».
«E con questo? Forse, per non essere borghese bisogna essere maleducati?».
Egli tacque, e d'improvviso si sentì carico di malumore.
Stavano finendo di cenare, in cucina, con Olindo, che durante quel pomeriggio era rimasto a far da balia a Liberino e che ora credé di intervenire: «Borghese o no, ha saputo farsi una posizione. A quanto sento, può anche permettersi di andare al mare. E se penso a come mi trovo io! Domani arriverò a Rincine con due o tre lire sì e no, e dopo più di quindici giorni che non mi sono fatto vivo. Ma saranno almeno tre lire, che ne dici?».
«Forse, chissà» gli rispose Metello, duramente. «Avrai quanto avranno gli altri». E portato dalle sue stesse parole, come riversando sulla testa di Olindo il veleno che era venuto a depositarsi sulla sua propria coscienza: «Tu e qualche altro cercate di mettere zizzania. Vi sto studiando da un pezzo. Non fate che lamentarvi. Anche il Tedesco, dopo i buoni propositi del primo giorno, sta battendo in ritirata, siete diventati amici a quanto pare. Siete tutti d'accordo. Come si fosse noi: io, Giannotto o Del Buono, a costringervi a scioperare. Come se non c'entrassero gli Impresari e lo sciopero non fosse stato deciso all'unanimità».
Olindo teneva gli occhi bassi e ammucchiava le poche molliche sulla tovaglia.
Ersilia disse: «Metello, non alzare la voce. Sveglierai il bambino».
«Non ho ragione? Mi sbaglio forse?».
Olindo scosse la testa: «Questo è un altro discorso» disse piano.
«No, è un discorso giusto. Nessuno nega il tuo bisogno, ma come hai bisogno te, più o meno tutti hanno bisogno. E se proprio volevi portare a casa qualcosa, potevi tornare a Rincine in questo frattempo, e occuparti nella mietitura, come hanno fatto tanti».
«Con la salute che ho...».
«Il forcone non è più pesante dei cofani».
«Sì che è più pesante. Tu è quindici anni che non lo prendi in mano, te ne sei scordato. E d'altronde, allora si era ragazzi, la fatica anche se ci ammazzava si rivoltava tutta in crescenza... Eppoi, avrei dovuto umiliarmi allo zio fattore più di quanto non ho fatto finora».
«E' questo il tuo errore... Non lo senti le bestemmie che dici? Chiedere lavoro ti sembra un'umiliazione».
Ersilia intervenne ancora e Metello si alzò: «Io ho finito» disse, diede la buonanotte e raggiunse la sua camera. Avrebbe fatto a meno di accendere la candela, per non dar fastidio al bambino, e poi, le finestre erano spalancate, sarebbero entrate le zanzare, e c'era abbastanza luna. Ma se le finestre dirimpetto erano buje, la strada era piena di vita, si udivano i richiami e le voci della gente seduta sulle soglie, sulle seggiole nane, e un certo traffico di carrozze davanti alla rimessa. Dall'angolo di via Michelangelo, dov'era la fiaschetteria, veniva la musica di un pajo di mandolini. Come poté egli «sentire» che Ida era affacciata al davanzale soprastante? Dunque, ci pensava? Si portò alla finestra, guardò in su, e non gli venne fatto né di salutarla né di darle la buonanotte. Lei era in sottoveste, aveva le spalle nude, e anch'essa, senza dire una parola, ma come lo stesse aspettando, gli sorrise, a lungo, muovendo leggermente la testa, come alludendo a un affettuoso diniego, e finché egli rimase a guardarla e a ricambiare il suo sorriso. Quindi, egli si ritirò, si stese sul letto, lei cantava a bassa voce, e malgrado i mandolini e l'animazione della strada, arrivava fino a lui la sua voce.
"Parigi, o caro, noi lasceremo
la vita uniti trascorreremo..."
Era un'idiota, era una provocatrice; e il letto gli sembrava più infuocato di sempre, l'afa più soffocante che mai. Il bambino dormiva su un fianco, con due dita in bocca e il culetto nudo. Sentì Cesare che la chiamava, e lei rispondergli: «Fammi respirare altri cinque minuti. Non mi vede nessuno no. E purtroppo, non tira un refolo di vento. Ho il petto tutto un sudore».
Metello si alzò, si infilò di nuovo i pantaloni e tornò in cucina. Ersilia stava rifacendo la branda per Olindo, che era ancora seduto al tavolo, con la testa tra le mani. Metello gli disse: «Andiamo, vai, pensatore. Ho un ventino di più, c'entrano due mezze mescite. E una boccata d'aria. Qui non si respira». Ersilia, dalle spalle di Olindo, gli sorrise, e fu per Metello un colpo dentro il cuore. Tuttavia, uscito in strada, mentre Olindo gli diceva: «Tu non devi credere...» lui, invece di ascoltarlo, si voltò a guardare in alto, alla finestra di Ida, la quale un attimo si spenzolò e subito si ritrasse.
Passarono altre due settimane, e più giorni ancora, Olindo era tornato a Rincine: sarebbe sceso in città il prossimo giovedì come tutti i muratori e manovali che abitavano nel contado; Ersilia, d'accordo con Metello, gli aveva dato il di più che essa aveva guadagnato lavorando la treccia anche dopocena. Era una miscèa ma erano altre venticinque soldi oltre le tre lire delle collette. Dal canto suo, siccome anche per loro Salani la situazione era diventata giorno per giorno sempre più seria (si allungava la nota del fornajo, del droghiere e cresceva da solo, non versando le rate, il debito con la strozzina) Ersilia aveva deciso di lasciare la treccia e rimettersi ai fiori di carta, non più per diletto, adesso, ma per guadagnare.
Roini, il suo ex principale, aveva sposato una lavorante, una moglie gli ci voleva e il suo sguardo non spaziava al di là del Laboratorio. Sfumata Ersilia, aveva ricominciato a considerare le ragazze e le donne che sedevano davanti ai ciocchi battendo sugli stampini, ai banchi intente alla confezionatura, e quelle che venivano a portargli il lavoro fatto a domicilio. Credé di essere lui a scegliere, ma finì per impalmare la più astuta: Adelaide, una di Santo Spirito, il Quartiere che attraverso via Santa Monaca confinava con San Frediano. Fosse perché abitava in cotesta strada, e più per il suo carattere e i suoi modi, la chiamavano monachina. Dopo un anno di matrimonio, sterile e non precisamente felice, era diventata la padrona in ogni senso e misura: una resipola a metà della fronte aveva ucciso il Roini nel giro di qualche settimana.
Ersilia andò a trovarla, erano state compagne di lavoro, le aveva lasciato libero il campo, e seppure un tempo l'avesse odiata, ora Adelaide non gli avrebbe chiuso l'uscio in viso. Dopotutto, era alla rinuncia di Ersilia che la VED. ROINI, come si leggeva adesso sugli sporti del Laboratorio, doveva la sua fortuna. Così fu, Adelaide l'accolse a braccia aperte e le dette le prime ordinazioni, le prestò addirittura il ciocco, il mazzuolo, e gli stampini. Né si dimostrò superba o ipocrita, al contrario.
«Vedi il destino Ersilia? Potevi essere tu al mio posto e io venire a chiederti del lavoro. Me lo avresti rifiutato? D'altronde, nella tua povertà sei stata fortunata, hai un marito giovane, sano, hai un bambino».
«Mi contento» Ersilia le rispose. «Sì, in quanto ad affetti mi sento una signora. E ora che tu mi dai lavoro, anche se lo sciopero durasse un anno, non si morirà di fame. Mi contento» ripeté.
E lui, Metello? Forte e padrone di sé quando si trovava tra i suoi compagni, in Piazza Santa Croce o alla Camera del Lavoro, incapace di porsi finanche come ipotesi l'idea di capitolare, non appena rientrava, imboccata via dell'Ulivo, piuttosto che alla finestra di casa volgeva lo sguardo a quella soprastante. Era un moto istintivo, la volontà ci aveva poco a che fare. E magari Ida non c'era; stava aiutando Ersilia a confezionare i fiori, o giocava da bambina a bambino con Libero. Metello se ne invaghiva ogni giorno di più, tanto da darlo a vedere, pensava, e riflettendoci gli sembrava impossibile che Ersilia non se ne fosse accorta. Si augurava che fosse lei la prima a parlarne; quasi lo irritava questa sordità sentimentale da parte della moglie. Ma Ersilia, egli si diceva, non poteva sospettare i suoi pensieri, certa com'era del suo affetto, della sua lealtà, e soprattutto persuasa, «a ragione a ragione», di non aver nulla da temere, in quanto beltà e intelligenza, nei confronti dell'Idina. Inconsciamente, egli cercava di dimostrarsi che Ida non valesse Ersilia. Ma ormai, egli si limitava ad una comparazione fisica, e siccome era soltanto fisica l'attrazione che provava per Ida, uomo dopotutto semplice e lineare anche nelle sue contraddizioni, Metello era già pronto, su questo campo almeno, alla capitolazione. Gliene era mancata finora, e unicamente, l'occasione. Che infine si presentò ed ebbe il suo antefatto la sera avanti l'offerta dell'aranciata e del vino.
Egli discuteva sulle panchine di Piazza Croce coi suoi compagni, allorché vide Ida che teneva per mano Libero. Salutò i compagni e gli andò incontro. Il bambino staccò la corsa e lui lo prese in braccio. Camminando, dopo un silenzio, lei disse:
«Sembra non le abbia fatto piacere questa sorpresa. O almeno, che le abbia fatto piacere soltanto per il bambino. Del resto» si commentò «è naturale».
«Mi sono dimenticato di ringraziarla. Sono un maleducato». Lei rise, ed egli aggiunse: «Ma certe volte, come coi Padroni, bisogna sapersi difendere per non lasciarsi tentare».
«Io non mi intendo di padroni. Non ne ho mai avuti. Le tentazioni, poi, sono del Diavolo».
«Eh no» egli disse. «Ce l'hanno anche i Santi, le tentazioni».
«Ma sono opera del Diavolo» ella ripeté.
Erano neri, quegli occhi, e tuttavia brillavano come ci fossero dentro una o cento pagliuzze d'oro. Il seno, sotto la fascetta, era premuto, e come ansioso, sembrava, di venir liberato.
«E se uno ci resta preso, dove va a finire?».
«Ah, non lo so davvero! All'Inferno, ma anche in Paradiso, chi lo sa? Ma non mi faccia bestemmiare».
Egli la guardò negli occhi e gli sembrò di trovarsi in ginocchio. Da quel momento ne andava di mezzo la sua responsabilità di essere un uomo e di portare i pantaloni.
Entrarono in via dell'Ulivo, e Idina non gli dette tempo di aggiungere una parola, lo precedé di qualche passo e agitò la mano verso la finestra dove stava affacciata Ersilia.
«Era proprio in Piazza Santa Croce, come ci ha detto lei».
E ora, l'indomani, uscita Ersilia col bambino per andare dalla madre, in San Frediano, Metello si era messo camicia e calzoni, in fretta si era passato la spazzola sui capelli e guardato allo specchio. S'egli fosse stato fino in fondo sincero con se stesso: «Bel muratore!» si sarebbe potuto dire. Intanto saliva la breve rampa di scale. Ella era dietro la porta e gliela schiudeva. La stanza, dalle persiane abbassate, era in penombra; sul tavolo c'era il fiasco di vino e la caraffa dell'aranciata. Come con Viola, dieci anni prima, egli si chiuse l'uscio alle spalle e subito la strinse tra le braccia, finché ella non staccò le labbra dalle sue e al contrario di Viola, non disse: «Ce n'è voluto», ma sussurrò: «Non è una pazzia?».
«No, no» egli disse, mentre la prendeva in braccio, e conoscendo la casa, la portava nella sua camera, immersa nella stessa penombra, e l'adagiava sul letto e le scioglieva, amorosamente, la vestaglia. Ella gli apparve nuda sotto la vestaglia, con le calze nere e le giarrettiere sostenute dal cinto, anche nero, che sottilmente le fasciava i fianchi. La sua mano larga, quadrata, di muratore, si posò su di un seno e lo racchiuse. E quando la prese, con frenesia ora, con ferocia, ella gli tenne testa brevemente, mordendosi le labbra; poi, dinnanzi alla sua veemenza, una gagliardia che le era ignota, fu come se crollasse di schianto; sollevò le braccia e stretto il volto di Metello tra le mani: «Amore» gli sussurrava, ebbra, arresa, offrendosi ormai inerte, tutta sussulti, al suo ardore.
Quindi, egli la teneva ancora tra le braccia, beveva con lei, non il vino, ma l'aranciata: fresca, saporosa, centellinando insieme dalla caraffa a cui avevano dato fondo, ella sussurrò: «E ora?». Aveva una sguardo sperso, di bambina, e insieme una luce, in quell'oro delle pupille, come di durezza, di cattiveria. Restava nuda, dimentica del proprio stato, e leggiadra in questa sua impudicizia, con le calze arrotolate sotto il ginocchio, e senza più le giarrettiere. Così, poco prima, era andata a prendere la caraffa e adesso, bevendo, un sorso lei un sorso Metello, lo guardava. «E ora?» ripeté. Egli era nuovamente eccitato e nello stesso tempo, la sua nudità, il suo sguardo, lo imbarazzavano: prese un lembo di lenzuolo e la ricoperse fin sotto la gola. Si alzò; e mentre lui le voltava le spalle, ella aggiunse: «Io ti voglio sempre». Egli tornò a girarsi, appoggiò le mani alla spalliera del letto. «Ci si dovrà pensare» disse. «Non complichiamo le cose prima di incominciare». Lei era supina, lo fissava con quello sguardo ingenuo e stregato; d'un tratto, con un gesto inatteso, allontanò da sé il lenzuolo e fu ancora tutta nuda, immobile, corrucciata. Egli si aggiustava le bretelle e sorrise: «Bisogna state molto attenti». Ma non lo turbava nessun senso della colpa, così dicendo; uomo comunque soddisfatto, faticosamente chiedeva a se stesso l'atteggiamento da tenere.
«Non ho paura di nulla» ella disse, e dette un calcio al lenzuolo che ancora le ricopriva i piedi.
«Nemmeno io ho paura di nulla. Ma ho anche altre cose a cui pensare». E subito serio, tanto chessa poté immediatamente rendersi conto della persuasione che lo animava: «Se vuoi che questa sia stata la prima e l'ultima volta, dipende da te, mi spiego?».
Ella venne in ginocchio a pié del letto, nuda com'era, e gettò le braccia al collo di Metello, lo baciò sull'orecchio. Egli la staccò da sé, teneramente ma con fermezza, e le disse: «Non la prendere troppo sul serio, Idina. Per ora ci siamo levati una soddisfazione. Dormiamoci sopra e domani se ne riparla. Nel frattempo, sappiti controllare». Ella era rimasta in ginocchio, le mani incrociate sul grembo, gli occhi già pieni di lacrime, allorché si sentì la voce di Ersilia, dalla finestra sottostante:
«Ida? Idina?».
Ella balzò dal letto; infilò la vestaglia, si ravviò i capelli e raggiunse la finestra: rispondeva a Ersilia e con la mano dietro la schiena, faceva cenno a Metello di andarsene.
Egli discese le scale, in punta di piedi, si fermò sulla porta di strada, poi risalì, e solo allora provò vergogna di sé, ma non ancora rimorso, piuttosto del fastidio per i sotterfugi a cui si vedeva costretto, e la commedia che entrando in casa avrebbe dovuto recitare con Ersilia. Invece di spingere l'uscio, discese nuovamente in strada, rasente il muro, e andò alla Camera del Lavoro.
«Arrivi in ritardo» gli disse Del Buono. «Ma del resto, per quel che c'è di nuovo! Dove sei stato? Hai trovato, qualcosa da fare?».
«Macché» egli rispose. «Vengo dal Pallone». «Se, non ti ho visto» esclamò Giannotto. «Da che parte eri?».
«Tu da che parte eri, se c'eri».
E si sentì in colpa. Ma un attimo, ché si fa presto, una volta acquisita la capacità di dissimulare i propri sentimenti, a sentirsi lieti e sicuri di sé, specie se si ha ancora addosso il profumo di un'avventura a lungo inseguita e rivelatasi anche superiore all'attesa.
Erano usciti dalla Camera del Lavoro, e avevano fatto sosta alla Mescita Chiti. Giannotto, a cui rimanevano giusto quei tre soldi, delle dieci lire che aveva preso impegnando l'orologio, volle essere lui a offrire.
«Così resto pulito e non se ne parla più. Fortuna che ho una moglie che fa la sigaraja. Basta saper resistere, c'è sempre un santo che ci aiuta».
«Sono le vostre donne che vi aiutano» disse Del Buono. «E perché avete delle famiglie leggère. Ma per la grande maggioranza, non è così. Voialtri, in un certo senso, siete dei privilegiati».
Non erano argomenti che gli risuonassero nuovi, dopotutto. Ma Del Buono, col suo fare cocciuto, che è proprio delle persone serie quando danno a vedere di esserlo, continuò:
«Questa gente sta facendo degli eroismi. Noi badiamo a dire che resistere è nell'interesse di tutti, che la classe operaja dovrà portare ad esempio questo sciopero dei muratori di Firenze, qualsisia il modo in cui andrà a finire, ma fino a che punto, ecco, uno zoppo può continuare a camminare? La responsabilità è sì dei Padroni ma anche nostra in modo particolare. Mia tua sua di Gemignani. Siamo noi che teniamo su gli animi, ma non ci dobbiamo dimenticare che anche se gli animi ci stanno, gli stomachi sono digiuni, e ci sono tante bocche di ragazzi lì aperte a pigolare... E' vero o no?».
La forza di una persona seria consiste nella sua capacità di scoprire l'America come se fino allora nessuno ci avesse mai messo piede; e nel caso particolare, nel poter dire ciò che Bastiano diceva, a freddo, e in piena convinzione. Perciò, più ci è cara cotesta persona, più ci appare buffa e ci lascia inteneriti. Questo, a suo modo, pensò Metello, e ancora tra il serio e il faceto, gli rispose:
«E dovrei fare qualcosa io, dico io, io Salani?».
Del Buono si confuse, si lisciò la barba: «No... Ma... siccome da un po' di tempo ti vedo frastornato, lo capirei tu avessi trovato da arrangiarti con un altro lavoro».
E Giannotto, così per dire, disse: «Significa che non avendo come occupare la giornata, si sarà fatto la ganza, eh Metello?».
«Questo potrebbe essere anche vero».
Risero e a Del Buono medesimo luccicò lo sguardo, dietro le lenti.
Giannotto disse: «Don Giovanni, lo sai Bastiano? è sempre stato. Una volta, o non dette noia anche a mia moglie?».
«Quando non conoscevo né te né lei».
Del Buono li salutò, ci aveva una riunione di stipettaj o di parrucchieri, al solito; rimasto solo con Giannotto, Metello gli disse: «Ora tu non lo raccontare ad Annita, altrimenti domani Ersilia riceve una raccomandata».
«Allora ci ho azzeccato?».
«Ho detto potrebbe, non ho detto è vero».
Ma poiché, per quanto un uomo sia a sua volta attento e serio, un'avventura non è mai compiutamente tale e goduta, se non la si confida ad un amico, Metello trovò nelle tasche due soldi di cui si era dimenticato, e davanti al banco, non più del Chiti ma di Nocellino, rivelò a Giannotto il suo recente segreto. Promettendogli di seppellirlo in sé, l'amico convenne che una relazione con una donna come Ida, la si può sempre troncare al momento opportuno, non è cosa che impegna il cuore. D'altra parte, è come una mescita che ti sta davanti agli occhi, tu che fai, la lasci nel bicchiere?
L'indomani era mercoledì e cadeva la festa di San Giovanni, dal quale i muratori non si aspettavano un miracolo. E poi il giovedì della sesta settimana, che essi si erano dati come un termine, dopodiché, in un modo o nell'altro, «avrebbero agito». C'erano sempre le sentinelle sui cantieri e il picchetto dentro il portone dove aveva sede l'Associazione dei Costruttori, nessuno dei quali si era fatto vivo né in sede né sui cantieri. Si diceva che Madii e Tajuti fossero a Roma, «a muovere chissaché», e Badolati fosse riapparso tra le impalcate di via Venti settembre Settembre ma nessuno l'aveva incontrato né ci aveva potuto parlare. Gli scioperanti, quelli che venivano dalla campagna e quelli di città, sostavano dall'alba, a capannelli, nei paraggi della Camera del Lavoro. Via via che le ore passavano, diventava sempre più improbabile che i denari della sottoscrizione giungessero in tempo per essere distribuiti. Ma siccome la speranza è sempre l'ultima a morire, si era fissato l'adunanza per le sette di sera. Nell'attesa, nessuno si sarebbe mosso d'attorno Corso de' Tintori. Metello, lui, aveva un altro modo d'impiegare la giornata. Gli piacesse, o ne fosse già pentito, lo aspettava l'Idina.
Non azzardandosi una seconda volta nelle sue stanze, si erano dati appuntamento fuori Rifredi. Ma coi quattro soldi in tasca ch'egli aveva, si potevano guardare negli occhi e bere una gazzosa, il calore non li risparmiava. Egli la condusse a Monterivecchi, era una strada che conosceva ormai a memoria. Del resto, ci fu sempre un fiume o un torrente a delimitare l'orizzonte delle sue avventure. Come da ragazzo il greto della Sieve su cui aveva lottato con la piccola Cosetta, e poi la riva d'Arno, dirimpetto alla casa di Viola, e gli argini e i canneti del Mugnone che l'avevano visto in compagnia d'Ilse la prussiana; adesso il suo adulterio si consumava tra le rupi, i faggi e gli ulivi degradanti sul Terzolle. Una sporgenza del terreno gli permetteva di dominare il paesaggio e di non essere veduti. Passarono le ore senza che lui se ne accorgesse. Calava la sera, un pastore radunava il suo gregge sotto il Poligono e lo istradava sul sentiero che porta a Careggi; poco più in là, c'era un appuntato dei Carabinieri con una ragazza: lui si era tolto la lucerna e sbottonato la giacca. Metello disse: «Dove lo volevi trovare un posto più sicuro?». Ida sembrava una giovinetta alla sua prima uscita; e una donna che pur nell'impaccio delle vesti, aveva saputo essere brava e abile e generosa mentre Metello si chinava su di lei, e gradatamente il cielo imbruniva, si svegliavano le rane e si quietavano le cicale. Egli aveva messo la propria giacca sotto la sua testa.
«Ora tu vai al mare come avevi in programma e tra un mese, quando torni, si decide come ci si deve comportare».
«No no e no» ella disse, ma dolcemente, non piccata. «Tornerei indietro col primo treno, sono sicura».
Metello prese con due dita una formicola che gli camminava sul braccio, e continuò invece di risponderle: «Può darsi che tra un mese, questa infatuazione sia passata tanto a me che a te».
«A me no di certo» ella sospirò. «Mi sembra d'essere al mondo da tre giorni appena».
«Io invece» egli disse, e gettò dei fuscelli attaccatisi alla gonna dell'amante «ho meno anni di Cristo e comincio digià a sentirmi come un ladrone». Si alzò in piedi: «Andiamo, non vedi sta tramontando il sole? Vuoi che rientri tuo marito e non ti trovi in casa?».
«Oh» ella esclamò, e così seduta si riavviava la crocchia e si appuntava il cappello con lo spillone «per lui basta una scusa. Tutto quello che gli dico, è buono. Piuttosto, e non nego tu abbia ragione, sei tu che ti preoccupi...».
Egli la interruppe, gli riusciva odioso sentirle pronunciare il nome di Ersilia. «Debbo trovarmi prima delle sette alla Camera del Lavoro» disse. Anche questo doversi giustificare, ora lo infastidiva. Ida gli tese la mano perché egli l'aiutasse ad alzarsi; e dandosi lo slancio, gli si riversò apposta sul petto e l'abbracciò alla vita.
«Ti sei digià pentito?» gli chiese. Aveva delle perline sotto le ciglia, ma forse era sudore. Lo baciò sul mento, e lui non seppe e non volle sottrarsi a questa effusione. Ella non era né sciocca né vanesia a conoscerla più da vicino. Oppure erano bastati pochi giorni e le sua intimità, i suoi trasporti l'avevano cambiata? Era abituata come una signora e lui l'aveva portata in quel luogo, all'aperto, tra le formiche e gli sterpi, come una contadina. Per un attimo la desiderò di nuovo, ma libera, fresca, odorosa, interamente nuda, come nelle sue stanze, due giorni prima. No, davvero essa non era l'esosa ch'egli aveva creduto, ora lo guardava negli occhi e sembrò intuire il suo pensiero; abbassò la testa e il suo volto scomparve sotto la gran paglia che l'adornava.
«Non è più bello al coperto?» sussurrò. «Come l'altro giorno, anche se non in casa mia?».
«Devi partire» lui disse, e ripeté: «Domani devi partire per il mare».
La precedé e lei gli fu vicino e io prese a braccetto; oltrepassarono il carabiniere e la ragazza. Il cielo era tutto rosso all'orizzonte; scintillava gialla la palla del sole, a filo dei tetti di Rifredi.
«Ormai ho rimandato di una settimana. Almeno per un'altra settimana mi devi sopportare» ella disse. Era infantilmente imbronciata, sbatteva le ciglia e colpiva i sassi, camminando, con l'ombrellino.
Si lasciarono all'altezza del Romito. Egli la guardò allontanarsi dall'angolo dirimpetto la Vetreria. Era una figurina esile, elegante, che risaliva il Ponte e sembrava come riempirsi di colori e sfumare nel riflesso del sole. Tutt'attorno, i caseggiati ai quali egli aveva lavorato e dalle cui impalancate era precipitato il padre di Ersilia, erano popolati in quell'ora, giocavano i ragazzi sulla piazza e nei cortili, c'erano i tavolini fuori la canova. Per un lungo momento, non dei precisi ricordi, ma un'improvvisa amarezza, gli appesantì il cuore. Poi, staccò la corsa, come un ragazzo, giù per la discesa della Fortezza. Una fuga si sarebbe detto, fino al Corso de' Tintori e la Camera del Lavoro. Lì giunto trovò delle novità che lo impegnarono tanto da permettergli di lasciarsi in ogni senso dietro le spalle la sua avventura, durata tre giorni, con la bell'Idina. Ma oltre allo sciopero che nel corso del pomeriggio aveva preso tutta un'altra piega, era accaduto qualcosa che soltanto in seguito egli sarebbe venuto a conoscere con precisione. Questo qualcosa riguardava Ersilia.
CAPITOLO 18.
« Ida? ».
Tre giorni prima, chiamando l'amica, e di ritorno da San Frediano dove aveva accompagnato Libero, Ersilia era una donna contenta di stare al mondo e della propria giornata. Ora che sua madre le custodiva il bambino lei avrebbe confezionato fiori notte e giorno se fosse stato necessario. A ventitré anni, con la sua intraprendenza e la sua salute, la felicità domestica che la compiva, le difficoltà attuali non le apparivano peggiori di quelle superate nel passato. Scendendo Ponte alla Carraja si era ripetuta che forse, lasciato solo con la nonna, per le strade di San Frediano, Libero avrebbe imparato prima del tempo a parlare sguajato. Poco male, non pensava di educarlo come un signorino. E poi, lei gli avrebbe fatto la ramanzina. Aveva due anni, nemmeno, ma sapeva digià ascoltare. Per il resto, Libero sembrava le volesse assomigliare nel non riuscire a piantar vere radici in Santa Croce, anche se lui in questo Quartiere c'era nato. Quando Ersilia lo conduceva in Piazza, sì, giocava con quei bambini, ma non si divertiva e non rideva come si divertiva e rideva con quelli di San Frediano: col nipote di Fioravanti il tornitore, col figlio dei Gemignani, Spartachino, e coi due gemelli di Jolanda, che avevano l'argento vivo addosso come la loro povera mamma. Forse perché in San Frediano gli facevano gran festa appena lo vedevano, sia i maschi che le bambine: specialmente Jole che era la più grande, andava a scuola, ed era sempre tutta riccioli e «più bionda dell'oro». Per lei Liberino sembrava averci addirittura una passione. La chiamava "Lole". E chiamava "Nina", Marina, la sorellina di Spartaco, che aveva appena tredici mesi, camminava, ed era più alta di lui. Però lui era più grasso. Non che Marina mancasse di salute, soltanto che Libero era più grasso. Lo riconosceva anche Annita: «Mi va tutta per lungo, questa creatura». Presente l'amica, che l'aveva raggiunta, e sotto dettatura della madre, Ersilia aveva scritto al fratello, laggiù nel Tacco dove si trovava, in terre ballerine: «Digli che domani gli spedisco un vaglia di uno scudo». Di suo Ersilia ci aveva aggiunto i saluti e messo dentro la busta una cartina da due lire. Quando se ne andò, Libero la guardò appena, tutto preso dai suoi giochi.
Annita disse: «E' la nuova generazione».
«Speriamo siano più felici di noi» lei rispose, ma ridendo, così tanto per dire.
Poi Annita l'aveva accompagnata fino al Ponte alla Carraja, insieme avevano parlato dello sciopero e di Giannotto e Metello che per il fatto di essersene trovati a capo si esponevano più degli altri.
D'altronde, se non avessero agito così, non sarebbero stati loro.
Strada facendo, si erano fermate dall'usuraja di Camaldoli che «le aveva nelle mani»: anche se non potevano versarle la rata, conveniva sempre farsi vedere. La signora Lorena, non era poi una strozzina, in fondo si poteva dire facesse del bene, specie se la si trovava di buonumore. Era vecchia decrepita, ma col cervello desto più dei loro. Il suo umore andava a giorni, come il tempo, e secondo si facevano sentire la gotta e l'artrite. Viveva sola con tre gatti, due tortore e un colombo, mezza inferma dentro una poltrona: il via vai della gente era la sua unica distrazione, e con la miseria che stava di casa in San Frediano, poteva esser certa di distrarsi tutto il tempo che le restava da vivere. Contrariamente a quanto si sarebbe potuto immaginare, non era bacchettona, anzi, fumava il sigaro e le scappavano di bocca certe parole! Da giovane aveva corso la sua cavallina, tanti anni fa, quando c'era ancora Canapone; non si era risparmiata, ma aveva saputo risparmiare, ora si diceva che la malavita di San Frediano la proteggesse. Ma anche, che avesse fatto testamento a favore delle Suore che rieducano le Giovani Traviate. Annita disse: «Speriamo di capitare in uno dei suoi giorni pari». Furono fortunate, la signora Lorena gli volle perfino offrire un goccio di rosolio e gli raccontò delle storie che malgrado Ersilia e Annita non fossero né ipocrite né signorine, lo stesso le fecero arrossire. Tuttavia, a loro volta, non sarebbero state loro se non avessero colto la palla al balzo, dal momento che la signora Lorena era così ben disposta e allegra.
Uscirono con in mano ciascuna dieci lire, e quasi gli sembrava di averle trovate per terra. O che la vecchia gliele avesse regalate.
«Idina?».
Era con questo stato d'animo fiducioso e forte, che l'aveva chiamata e per chiederle un parere, lei che sembrava avere buon gusto e seguiva la moda, siccome Adelaide Roini, dalla quale era passata dopo aver salutato Annita, le aveva detto: «Fai tu, mi fido. Tieni presente che ho soprattutto bisogno di articoli di guarnizioni, cose minute, che vadano bene sui cappelli e sui vestiti: viole margheritine ciclamini, vedi tu. Inventali, affidati alla fantasia. Ma ne ho bisogno sùbito, mettiti sotto, siamo in piena stagione». E poiché era una giornata in cui le cose andavano tutte per il verso buono: «Se ti serve un anticipo, dillo. Ti serve?». «Ma...». E per non apparire strafottente: «Mi basterebbero tre lire» aveva detto. Prima di tornare a casa, dirottò su via de' Cimatori: era tanto tempo che Metello non provava la soddisfazione di togliere l'olio a un fiasco intero, di quello buono, che secondo lui ci aveva soltanto il Chiti! Ersilia era certa di trovare il marito in casa e di fargli questa sorpresa. Intanto, il rosolio le aveva messo sete, ma fermarsi a bere nella Mescita Chiti, una donna sola, o entrare in un caffè, non stava bene. Ma al banco dell'acquajolo di Piazza Santa Croce dove la conoscevano, ci comprava sempre il gelato da un soldo per Liberino, lì poteva. Chiese «un bicchiere d'acqua con lo schizzo», lo schizzo d'anice, costava gli stessi cinque centesimi e lo bevve d'un fiato. Infine, aveva allungato il passo per arrivare presto da Metello, si sentiva quasi in colpa d'essersi così attardata. Avrebbe aperto la porta e gli avrebbe presentato il fiasco di vino: «Guarda qui che bòccio, cavaliere!» gli avrebbe detto. Trovò la casa vuota, Metello era già uscito, si dispiacque come diciamo le fosse scomparso qualcosa che sapeva di possedere, ma subito si consolò: «Gli farà festa più tardi, quando torna a cena». Pensava di fargli trovare la pastasciutta e la carne e le ciliege di cui era ghiotto: gliene era rimasto la voglia, soleva dire, fin da bambino, a furia di vederle maturare nell'orto della fattoria e di non averle mai potute assaggiare. Nel frattempo, preparando la cena avrebbe riflettuto cosa fare per la vedova Roini: aveva pensato a dei fiori di campo che avessero la forma di papaveri ma che invece di essere rossi o gialli fossero un po' gialli, un po' rossi, un po' celesti, un po' rosa, e che in ciascuno la corolla fosse di un colore sempre diverso da quello delle foglie; si trattava, volta per volta, di indovinare l'intonazione dei colori: in un papavero rosa, per esempio, ci stava bene la corolla azzurra, e poi? Per questo, si era affacciata alla finestra e aveva chiamato Ida che aveva buon gusto, e perché in due ci si consiglia meglio che da soli.
«Idina? O Ida!».
Udì finalmente la sua voce, e subito lei apparve al davanzale soprastante: si teneva una mano al collo della vestaglia ed era mezza spettinata.
«Mi ero stesa sul letto, e con quest'afa m'è venuto un sopore».
«Posso salire un momento da lei? Vorrei chiederle un parere».
«No, mi aspetti, scendo io. Il tempo di infilarmi un vestito».
Ersilia scosse il capo. «Quella» pensò «basta abbia un pretesto per uscir di casa! Sembra avere a noja tutto quel ch'è suo». Traversò la cucina e andò ad aprire la porta e a lasciarla socchiusa per la bella Idina. Le parve di udire un fruscio lungo le scale, non volendo si sporse sul pianerottolo. Restò basita. Fu, avrebbe detto in seguito, «come se d'un tratto mi si fosse gelato il cuore». Nell'uomo che scendeva in fretta, goffamente cercando di mantenersi sulla punta dei piedi, «come un ladro», e che ora stava per raggiungere la porta di strada, aveva riconosciuto Metello. Tutto accadde nel giro di alcuni secondi: ella fece per chiamarlo: «Metello!». Le sue labbra si mossero, ma non uscì la voce. Corse alla finestra, egli non era più sulla strada. Pensò di essersi sbagliata, che si trattasse veramente di un ladro, o di un amante dell'Idina: dunque la riteneva capace?
Oh, era Metello, eccòme! Sortiva adesso sulla strada, rasente il muro, senza voltarsi indietro, girando apposta dietro le diligenze, come un ladro davvero: era sparito. Lei, restava piegata sul davanzale, si sentiva un pugnale infilato in petto e uno dietro la schiena, e le sembrava di non potersi più muovere di lì. Invece, com'è facile riaversi e prendere una decisione e cambiar faccia tutto in un momento: è facile come dev'essere facile uccidere nel momento in cui si uccide.
«Cosa mi racconta?» disse entrando l'Idina.
«Volevo chiederle un consiglio su certi fiori che dovrei fare».
«Ha avuto un'altra ordinazione?».
«Già... Pensavo, mi ascolti bene...».
Le spiegò la sua idea dei papaveri rosa, verdi, crema, anche neri.
Intanto si era fatto scuro, era andata in camera e rientrando col lume acceso aveva scoperto Ida che si guardava nel vetro della dispensa, come chi teme di trovarsi in disordine e furtivamente si ricompone.
«Che ne dice?».
«Sarà un successone».
«Perché non mi dà una mano ad accozzare più tinte possibile?».
S'imparano mille cose in un istante, non occorre essere stati a scuola, quando la vita ti colpisce a tradimento con le sue cattiverie: basta avere una spina dorsale che ti mantenga in piedi. Ersilia ne faceva in quel momento una dolorosa esperienza. La sua lealtà, il suo coraggio, la sua abitudine di affrontare a viso aperto le ingiustizie e i dolori che non le erano stati risparmiati, alla resa dei conti l'avevano sempre trovata vincitrice, o comunque preparata a subirne l'irreparabilità. Se questo mondo è una giungla, ella era nata e vissuta in quella piccola foresta, particolarmente intricata, ch'era San Frediano; nondimeno, c'era questa sua naturale solarità, questa oasi e questa radura del cuore che ogni volta la illuminavano e le permettevano lo scampo. La stessa disgrazia che le aveva rapito il padre, ad esempio, e che aveva rappresentato la congiuntura più sofferta e drammatica della sua vita, aveva favorito il suo incontro con Metello. L'eterna forza dei semplici, di affidarsi e nello stesso tempo di non arrendersi al proprio destino. «Male non fare, paura non avere». La sua fiducia nella vita, infine, aveva sempre trovato un esatto rapporto nella spontaneità, nella chiarezza diciamo e nella costanza dei suoi atteggiamenti e dei suoi affetti. Ora, per la prima volta, era stata colpita alle spalle; e non per questo era crollata. Ma la sorpresa le aveva inibito una subitanea ribellione, lo stupore aveva sopraffatto l'offesa. Forse da questa esperienza ne sarebbe uscita più amorosa, più comprensiva, più saggia ma definitivamente disincantata, meno franca, meno spontanea e cordiale. Questo avvenimento, che d'ora in avanti l'avrebbe costretta a diffidare del proprio istinto, a cautelarsi contro l'intrigo, segnava incosciamente il suo congedo spirituale dalla giovinezza. Già le era bastato un istante per possedere compiutamente l'arte della dissimulazione, questo ripugnante magistero a cui gli uomini sembrano avere affidato l'equilibrio dei loro rapporti.
«Sia buona, mi dedichi qualche minuto».
«Ma anche un'ora, ma anche due. Sapesse come mi diverte un lavoro di questo genere».
La cannella dell'acquajo gocciolava. Non si sentiva, ma lo stesso Ersilia si alzò e la chiuse.
«Ha visto se quando ho avuto bisogno, l'ho cercata?».
Ora, la voce che pochi minuti prima, per chiamare Metello, le era venuta a mancare, risuonava calma, pausata; recitare la commedia, e caricare di familiarità le proprie espressioni, disporsi all'adulazione perfino, diventava lo stesso facile. Un gioco. Doloroso tuttavia. «Lei che ha tanto buon gusto, lei che dalla sarta sfoglia i figurini» le diceva, e la seguiva in ogni suo gesto, in ogni batter di ciglia, in ogni moto delle mani, spiando il suo viso, cercando il suo sguardo, per completare con tante piccole prove, la certezza che aveva di trovarsi di fronte all'amante di Metello. E nello stesso tempo, ancora confusamente, per farsi una ragione di come ciò fosse potuto accadere.
«O da che ora si era buttata sul letto?».
«Saranno state le tre».
«Allora ha fatto una bella dormita».
Il dominio di sé non accendeva di immagini la sua fantasia, la sua mente non si esaltava; era un dolore tutto fisico che la possedeva, come se materialmente, questa era la sensazione, il cuore non fosse più dentro di lei, e al suo posto, il segno della vita, si fosse stabilito alle tempie che le martellavano all'unisono, tanto che, sedutasi, e fingendo un atteggiamento naturale, sorridendo, vi premé sopra la punta delle dita. La fissò a lungo, mentre parlava, protetta dal riflesso del lume: Ida, la bell'Idina! Il suo viso era stanco, appena incipriato, un giro di piumino dato in fretta: risaltavano anche più nitide le ombre sotto gli occhi. Si accorse che le mancava un orecchino. E calma, trattenendosi le tempie:
«Sto per darle un dispiacere» le disse. «Sa che ha perduto una buccola?».
La vide trasalire, un attimo, che subito, ma toccandosi prima l'orecchio dove la buccola c'era, rispose: «Sì lo so, mi si è rotto il fermaglio mentre dormivo».
Ora Ersilia fu sul punto di gridare; lo sforzo che fece per dominarsi, le serrò lo stomaco; non sarebbe più stata capace di continuare la commedia, era una principiante dopotutto, e il suo spirito non era quello di un animale che si rintana leccandosi la ferita. Ma arrivò Cesare, annunciandosi col solito fischio dalla strada. Ida si alzò, insolitamente sollecita, per andare incontro al marito.
Metello rientrò un'ora dopo, ed Ersilia era uscita e tornata nel frattempo, aveva comperato la pasta, le ciliegie, acceso il fuoco e apparecchiato. Né aveva dimenticato di fermarsi dal tabaccajo. In mezzo alla tavola, sulla tovaglia di bucato, c'era il fiasco del vino, col batuffolo di stoppa infilato nella paglia.
«E' più che una sorpresa» egli disse. «E' una vincita al Lotto. Se lo sapevo invitavo Del Buono».
Era, come sempre, padrone di sé e pronto alla battuta; si informò di Libero e le parlò dello sciopero: «Se non arrivano questi soldi della sottoscrizione, le cose pigliano una brutta piega» disse. «Con la fame non si ragiona. Ce n'è già più d'uno che mette in discussione di tornare sul lavoro. E quell'Aminta, in specie, lui no, lui è per continuare, ma promette poco di buono. Ha la bava alla bocca. Stasera siamo dovuti scendere di corsa io, Giannotto e il Tedesco, aveva preso di petto Olindo e lo sbatteva contro il muro».
«Olindo, perché non si è fatto più vivo? Potevi portar lui a cena, anche se non sapevi che c'era questo rialto».
«P, voluto tornare a Rincine. Ci aveva i soldi per il treno, non so chi gliel'abbia dati».
Parlava come ogni sera, non era né distratto né accigliato, pensava proprio a quello che diceva. Era un innocente, non aveva né le mani sporche di sangue né il vestito strappato. Per via del caldo, si era messo in camiciola e mutande: era sbarbato, e bello e forte come lei lo conosceva. Mangiava con gusto, schioccando la lingua dopo bevuto il vino. Le propose di uscire, appena avessero cenato, di andare a prendere un po' di fresco lungo l'Arno.
«Ci si siede una mezz'ora sulle spallette, si fa quattro chiacchiere se passa qualcuno. Magari si arriva fino a San Frediano, si guarda come s'è addormentato il bambino».
«Debbo mettermi a lavorare» lei disse. «Sabato voglio consegnare un campionario alla Roini».
«Va bene, resto a farti compagnia».
Nemmeno si accorgeva della sua mestizia: per quanto ella se lo proponesse, non le riusciva di sorridergli. Ma non covava dell'animosità, lo guardava e non riusciva a giudicarlo. E se si fosse sbagliata, se non fosse stato Metello l'uomo che aveva visto trampolare giù per le scale e poi andarsene sfruttando il riparo che gli offrivano le diligenze? Certo, sul suo viso, l'ipocrisia che era stata sicura di leggere su quello di Ida, non la ritrovava.
«Piuttosto» gli disse «dovrò picchiate fino a tardi col mazzuolo, non potrai dormire».
«Mi conosci ora? Quando ho preso sonno, non mi svegliano nemmeno le cannonate». E aggiunse, e la fece sussultare: «Nel caso, darai fastidio agli inquilini».
In quel momento, Cesare chiamava dalla finestra.
«A bomba» disse Metello.
Ersilia era al davanzale e l'ascoltava.
«Ida si scusa» disse il mosaicista. «Una mano al suo lavoro, verrà a dargliela domattina. Stasera abbiamo deciso di andare al Caffè delle Colonnine, Ida ora è di là a vestirsi. Venite con noi, ci tenete compagnia?».
Ersilia declinò l'invito. «Ho fatto bene?» chiese a Metello, e sparecchiava la tavola, ci lasciò sopra il fiasco e un bicchiere.
«Non bene, benone» egli disse, stava accendendo una cicca di sigaro, si abbrustoliva i baffi suo malgrado. Ecco, per un attimo, lei sorrise.
«Già che c'eri potevi farmi chiudere in bellezza» egli disse.
Ersilia mise la mano nella tasca del grembiule e ne cavò due mezzi toscani. Metello le carezzò la mano con cui glieli porgeva.
«Li hai provati se tirano, ci hai soffiato?».
«Sì, e mi è rimasto un bruscolo in gola per mezz'ora».
Riordinata la cucina, ella si sedé davanti al ciocco e incominciò il suo lavoro. Lui aveva ripreso il fascicolo di Critica sociale. «Questo Turati» esclamò. «E' un grand'uomo, ma scrive troppo complicato». Si versò un altro mezzo bicchiere, e scostò il fiasco. «Toglimelo davanti» disse «se vuoi che basti anche per domani». Poi: «Quando vieni a letto?» le chiese. «Stasera non c'è nemmeno il bambino».
E lei, inspiegabilmente anche per se stessa, non provò ripugnanza a queste parole, ma della commozione piuttosto, il suo solito pudore. «Vai a letto, vai» gli disse. «Ci aspettano tanti giorni senza il bambino». E siccome Metello rimaneva sulla soglia della camera, perché non le si avvicinasse, e battendo il mazzuolo sullo stampino: «Eppoi» aggiunse, «stasera non sarebbe possibile in ogni caso».
Lo guardava con la coda dell'occhio; egli si passò l'indice della destra sotto il naso, ma non le si avvicinò, non si dimostrò incredulo, soltanto le sorrise e le dette la buonanotte.
Ella restò alzata fino a tardi, picchiando col mazzuolo sugli stampini, accumulando le sue foglie di papavero di tutti i colori, e proibendosi di pensare. Sulla strada si spensero le voci e il suono dei mandolini; nitrivano i cavalli dentro la rimessa, i colpi del mazzuolo ebbero un'eco sempre più forte. Ma non furono i Lombardi a reclamare, bensì qualcuno dalle finestre dirimpetto:
«Non sarebbe l'ora di smetterla, no?».
Chissà perché ebbe un tuffo al cuore, e si spaventò.
Metello dormiva del suo sonno greve, lei si coricò al bujo, rimanendogli apposta distante, tutta sulla porzione di letto dove solitamente riposava il bambino. Fu la sua volta di vegliare fin sull'alba. Sentiva il respiro di Metello, e la sua presenza sotto il lenzuolo, e malgrado l'allucinazione che la notte porta alle menti eccitate, non ancora ella chiamava in causa il marito, nessun risentimento la muoveva contro di lui. Già fino dal primo momento ella non aveva dubitato che tutta la responsabilità non fosse di Ida: lei l'aveva tentato, lei gli si era offerta, lei... E quando? Da quanto durava? Ma nemmeno questo le premeva conoscere; piuttosto si chiedeva come fare perché la loro relazione, se davvero era diventata tale, finisse. Come comportarsi? Affrontare Metello, no: egli aveva, oltretutto, altre cose a cui pensare, non poteva innervosirlo con una scenata di gelosia. Come se malgrado il suo daffare, il suo impegno nello sciopero, egli non avesse trovato il tempo da dedicare al suo adulterio, e per rifugiarsi, in sua assenza, tra le braccia della bella Idina! In definitiva, non era da Metello che si sentiva tradita. Questa, che un giorno egli avrebbe potuto tradirla, era una circostanza su cui non aveva mai abbastanza riflettuto ma che dal momento che si dava, rientrava nella logica delle cose. Un uomo la sua donna l'ha già tradita dieci o cento volte il giorno in cui la sposa. Una donna sa che il suo uomo non sarà mai completamente suo, perché è stato di altre prima di essere suo. «Il passato non conta» è un modo di dire. Lo si dimentica, o lo si ignora, ma una cosa che è successa non la si cancella mai. Del resto, Metello stesso, le aveva parlato di Viola, di Ilse, delle ragazze che aveva avuto a Napoli quando vi era stato militare, e di una figlia di pescatori con cui aveva scherzato al domicilio coatto. Le avesse detta tutta intera la verità o no, c'erano state altre donne nella sua vita. Forse meno di quante egli avrebbe voluto lasciar capire, dal momento che prima di conoscerla, anche il suo lontano incontro con Annita lo considerava un'avventura. Non c'era nulla di male, è di tutti gli uomini, ella si ripeteva. E quante donne anche, vanno all'altare con un'esperienza che non è solo di parole? Ci si sposa, appunto, incontrato che si abbia l'amore, il loro era stato il vero amore, per staccare col passato. Soltanto da quel momento, un uomo è tutto della sua donna, sta a lei saperselo trattenere. Ora, se Metello l'aveva tradita, significava che in qualche modo lei, Ersilia, gli era mancata. E poi, egli era il suo uomo, nulla al mondo, nemmeno un suo ripudio forse, l'avrebbe persuasa che non le volesse sempre bene: le era impossibile pensare e perfino supporlo che, "ora", egli fosse capace di trasferire il suo affetto su un'altra donna. Su una donna come Ida, poi! Erano stati il suo profumo, i suoi gestri, le sue bambolerie, le sue mani curate, il suo vestito lilla di maggiorenne! e le sue arti di gattina, di esosa ad attirarlo. A furia di disistimarla, gli era entrata in simpatia. Era dunque con Ida che andavano regolati i conti. Senza scalpore, senza tragedie. Il modo di risolvere la questione, «tranquillamente», sapeva qual'era, infallibile, non occorreva ripeterselo. Oppure lei non era più quella sanfredianina tutta particolare che si diceva? Ma ci voleva una prova, la certezza ultima, lampante, che tutto ciò era vero. Da poterle, cominciando, chiuder la bocca, alla bella Idina. Che altrimenti: «Io? Ma Ersilia! Oh questa poi, oh questa poi, oh...». Avrebbe fatto l'adirata, l'offesa, avrebbe chiamato Metello a testimone. No, ella si ripeteva, e ora s'erano svegliate le rondini, il bacalaro lavava le diligenze e strigliava i cavalli sulla strada, no, Metello non ci doveva entrare. Prese sonno che stava arrivando il lattajo.
Si destò ad un'ora per lei fuori del normale, anche se aveva dormito appena tre ore; e non le sembrò di aver sognato. Quel pomeriggio di martedì, così felicemente avviato, tanto da farle dire ad Annita, quando si erano accomiatate sul Ponte alla Carraja: «Il sole sembra che tramonti, ma non tramonta mai»; e poi conclusosi con la scoperta del tradimento da parte di Ida e la lunga notte angosciosa, non era stato un incubo della cattiva digestione. Al contrario, come se nel sonno i suoi pensieri avessero continuato a svolgersi, adesso la soluzione le sembrava perfino troppo semplice. Avrebbe dovuto, per procurarsi questa prova, e senza mettere in mezzo né Metello né nessuno, seguire i movimenti dell'Idina, non perderla mai d'occhio, sopratutto quando Metello fosse stato fuori casa.
La camera era in penombra; Metello si era alzato: aveva chiuso le imposte perché non la disturbasse la luce. Sorse dal letto in sottoveste, a piedi nudi, andò in cucina: le era improvvisamente balenato l'idea che siccome Ida, la pinzochera! era solita prendere la messa la domenica mattina, questo poteva essere un pretesto per incontrarsi con Metello chissadove. Lui era invece seduto al tavolo, era fiducioso e di buonumore come la sera prima, mangiava.
«Mi sono fatto un po' di panzanella. Avevo fame, come se jeri sera fossi andato a letto digiuno».
Tirò il cassetto della dispensa e prese una forchetta, avanzò sul tavolo la zuppiera verso di lei. Era la colazione loro solita, appetitosa, le sarebbe costato un sacrificio rifiutare.
«Fino a che ora sei rimasta in piedi?».
«Saranno state le tre».
«Oggi però è festa, ne farai a meno. La Roini può aspettare».
La guardava; spettinata com'era, e per via della luce che entrando in cucina le aveva ferito gli occhi, il suo volto era atteggiato a un involontario corruccio, aveva qualcosa di bambinesco e di rissoso. Ella avvertì il suo sguardo e istintivamente si tirò su le spalline della sottoveste che si erano allentate, e le lasciavano scoperto il seno: le due mammelle, turgide, di donna ancora giovane e in fiore, si profilavano ora anche più pesanti, i grossi capezzoli premevano la sottoveste che, lei trovandosi seduta, le fasciava il torace, le modellava i fianchi e dava un risalto alla gola medesima, alle braccia tutte nude, agli omeri torniti sotto i quali sbucavano i cespi neri delle ascelle. Egli la considerava, e la vedeva giovane, stanca di sonno, una cosa sua, forse mentalmente si malediva per averla così ingiustamente tradita, allorché lei gli rispose:
«Ma siamo noi che non possiamo aspettare, ti sembra che possiamo aspettare?».
«Già» egli sospirò «Non mi sono ancora lavato il viso» disse.
Quindi, rimase in casa tutta la mattina; Ersilia si era recata a far la spesa e tornando aveva visto Ida e Cesare voltare l'angolo di via Michelangelo: essa nel suo abito lilla, con la paglia e l'ombrellino aperto per ripararsi dal sole, la delicata! Metello leggeva, seduto al tavolo e reggendosi la testa; Ersilia si mise attorno ai fornelli. Lui esclamò:
«Ora ho capito».
«Cosa hai capito?».
«La teoria della forza-lavoro».
«Che?».
«Metti che un operajo, lavorando dieci ore, guadagni quattro lire. Quello che lui ha prodotto, il padrone lo rivende a cento. Togli cinquanta lire del costo del materiale e delle altre spese. Praticamente, il lavoro fatto unicamente da quell'operajo ha fruttato al padrone dieci volte di più che all'operajo».
Ella rimase col soffietto in aria: «E' una cosa che ti torna nuova?» gli chiese.
«No, ma qui c'è la spiegazione».
«Ma spiegazione di che?».
«Scientifica» lui disse. E ripeté: «Della Teoria della Forza-Lavoro».
«Sarebbe a dire?».
«Vuoi che ricominci da capo?».
«Per l'amor di Dio. Non ti venisse l'idea di dimostrarmi che l'aceto si fa col vino».
Egli scosse la testa, sorrideva. «La verità» disse «è che certe cose, quando le trovi scritte e dimostrate, anche se le conosci per esperienza, assumono un altro aspetto. Le parole stampate non sono mai come i discorsi che facciamo noi, chi le scrive ci mette sempre un po' di magia. T'insegnano a ragionate su un argomento, e quello che magari pensavi digià, ti sembra anche più vero».
«Ma è sempre tutta teoria».
«Come se la teoria non tenesse conto della pratica! Che socialismo sarebbe altrimenti? Marx...».
Ersilia lo interruppe; si divertiva a contrastarlo, come sempre, e perché a lei faceva piacere di capire le cose che lui capiva. «L'avrei voluto vedere Marx a mettere un mattone accanto all'altro, come te. Per prima cosa si sarebbe dovuto tagliare la barba».
«Marx metteva un ragionamento accanto all'altro, e le sue idee dureranno più di tutti i mattoni messi insieme» egli disse.
«O Metello?» lei esclamò. «Vuoi togliere il mestiere a Pescetti?».
Era, ancorché ironico, un affettuoso complimento ch'essa gli faceva. Egli chiuse il fascicolo della rivista, si grattò sulla guancia: «Mi fai dire certe bischerate» concluse. E ripeté: «La verità è che se domani non si spartisce qualche soldo, una trentina perlomeno sono decisi a tornare sul lavoro. Basta diano l'esempio, gli altri chi li regge? Gli vuoi dar torto? Sono tutti più indebitati e alla fame di noi».
«Noi alla fame non ci siamo».
«Perché tu ti sacrifichi».
«O tu o io, non è la stessa cosa?» ella gli chiese, e lo guardò negli occhi.
Era un giorno come gli altri, una Festività a mezzo della settimana, non c'era nulla di cambiato: «forse ho preso un abbaglio», ella si diceva, ma quando Metello le mise le mani sulle braccia, trovò il modo di sottrarsi alla sua effusione.
Pranzarono, lei rifece in fretta la cucina, e senza che Metello le rinnovasse l'invito, fu lei a proporre, malgrado l'ora bruciata, di andar subito da Libero e in San Frediano, dove si trattennero fino a sera. Lui fece la partita con Giannotto e altri amici, ai tavoli della bettola, sul marciapiede di via del Leone; lei, con sua madre e con Luisa e Annita, condussero i ragazzi alla giostra ch'era a Porta Romana. Poi videro i fuochi dall'altezza di Ponte alla Carraja. Rientrando, trovarono un biglietto che Cesare aveva introdotto sotto il loro uscio: «"Sono le nove, vi abbiamo aspettato fino a questo momento..."».
«Già» Metello disse «me n'ero dimenticato. Stamani, tu eri a far la spesa, ci avevano invitato a andar con loro. Prima dei fuochi volevano passare da Piazza Barbano, dove c'è quello che cammina sulla corda, attraverso tutta la piazza e senza rete. Ti dispiace?».
«No, no» ella si affrettò a rispondergli.
«Io, per la verità, ci sarei anche andato volentieri, è uno spettacolo. Ma con le preoccupazioni che ho per il capo, proprio non me la sentivo di sopportare i discorsi di quell'imbecille del piano di sopra» egli disse, mentre si spogliava, ma non aggiunse: 'E la compagnia di quell'esosa'.
Ora, dopo una giornata in cui era riuscita a distrarsi, con la nuova notte Ersilia ritrovò la sua angoscia e i suoi contrastanti pensieri.
«Gridino o no» disse «prima di venire a letto voglio lavorare almeno un'ora».
Metello l'abbracciò, e questa volta lei si lasciò baciare, fugacemente, si sfiorarono appena le labbra, egli non manifestò nessuna animosa intenzione. Poco dopo, picchiando col mazzuolo sugli stampini, era idealmente sulla testa della bell'Idina che Ersilia colpiva.
L'indomani fu giovedì, il giorno in cui Metello e Ida si erano dati appuntamento a Rifredi; ignara, ma tutta occhi e tutta orecchie alle mosse e ai propositi dell'Idina, Ersilia vigilava. Verso le undici Ida era scesa, coi capelli sciolti come una Maddalena, perché se li era lavati e voleva farli asciugare, ma non completamente «prima di passarsi le "stiacce"», i ferri che glieli avrebbero arricciolati, perciò si era trattenuta appena qualche minuto. Aveva elogiato il suo lavoro, e le aveva dato altri sciocchi consigli. Delle viole, delle stelle alpine! E se ne era andata, siccome oltre che curarsi i capelli, doveva fare anche tante altre cose, a cui la donna a mezzo servizio non arrivava: un colpo di ferro al suo bel vestito lilla, il bianchetto sulle scarpe a stivale.
«Oggi debbo trovarmi da mia sorella, e ci sono degli invitati» aveva detto.
Metello, ch'era alla Camera del Lavoro dal mattino, tornò a pranzo per uscire subito dopo: sedevano in permanenza in Corso de' Tintori, lui e Giannotto e Corsiero e Del Buono, i Delegati di Cantiere: aspettavano questi soldi della sottoscrizione, dovevano arrivare da un momento all'altro, prima di sera. C'erano tutti i muratori di città e di campagna sparsi e in attesa tra Piazza Santa Croce e i Cavalleggeri. Dopo nemmeno un'ora, anche l'Idina usciva senza fermarsi a salutarla. In altre occasioni non avrebbe mancato di farlo, e specie se andava dalla sorella e tra degli invitati, per chiedere: 'Come sto? Mi si vede la sottana di sotto? La paglia è messa bene? Il vestito, dietro, come mi torna?'. Era scivolata anche lei giù per le scale, e magari fosse davvero scivolata! come una ladra. Ersilia stava di vedetta dietro la porta, e la chiamò. La spudorata! ebbe il coraggio di agitare l'ombrellino, dalla rampa sottostante.
«Ho tanta furia, mi lasci andare. Arrivederci a stasera, ciao».
Ersilia la seguì, lungo Borgo Allegri e via Ghibellina, costeggiando il muro del Carcere, le garitte l'avrebbero protetta casomai Ida si fosse voltata. Era attenta, tutta tesa al suo scopo e nello stesso tempo se ne vergognava: non si sentiva in nessun modo inferiore alla bella Idina («anche come aspetto» si era detto, e intendeva come creatura capace di suscitare oltre che dei sentimenti, dei desideri) ma confusamente capiva che questo suo gesto, di mettersi a pedinarla, la diminuiva. Tuttavia, era più forte di lei: il suo cuore, adesso, era vivo dentro il petto, batteva in fretta, sembrava volesse spronarla a non perdere di vista la nemica. La seguiva a distanza: Ida era una macchia lilla sotto l'ombrellino, e in fondo a via Ghibellina, dirimpetto ai Pratoni, sostò alla fermata degli omnibus, salì sul primo che giunse, un minuto dopo. Ersilia rimase poggiata al muro del Carcere, avvilita. Era sudata e faticava a respirare. Attraversò la strada e imboccò via delle Casine dove il sole batteva a picco, e qualcuno, dentro le stanze, suonava il violino. Più avanti, c'era una fontanella, si chinò a bere e si bagnò la fronte, il suono del violino si era perso dietro di lei; ora c'era soltanto un gran silenzio, un gran sole e l'acqua che scorreva dalla fontanella. Passò una ragazza che andava in velocipede, sotto quel sole, e con in testa un ampio cappello che si portava dietro una specie di fuciacca: fu sul punto di perdere l'equilibrio mentre la sorpassava, si riprese: «Viva il progresso!» gridò, allontanandosi nel sole.
Ersilia si asciugava le labbra col dorso della mano, e non poté far a meno di scuotere la testa.
Ora dentro casa, non resisteva; inutilmente aveva tentato di prendere in mano il mazzuolo; andava e veniva dalla finestra per accostarla o per aprirla di più, ora c'era troppa luce ora non ci vedeva. E aveva un'arsione! più beveva alla cannella, più aveva sete. Dove potevano essersi dato appuntamento? All'Albereta, come due fidanzati? O veramente dalla sorella di lei, che si prestava a farle da ruffiana? Oppure in uno di quegli alberghi dalle parti della stazione dove sembrava dessero le camere a ore? Ma ci vogliono denari e Metello non ne aveva. Ieri, essa gli aveva dato una lira, ma egli aveva perso alla fine della partita e aveva dovuto pagare, a metà con Giannotto, il vino bevuto. Poteva bastargli, quel che gli restava, per una camera a ore? O addirittura permetteva che pagasse l'Idina? Essa aveva sempre del denaro con sé, non usciva senza mettere almeno uno scudo dentro il portamonete. «Guardando nelle vetrine, ci si innamora sempre di qualcosa, o si scoprono delle occasioni» soleva dire. «Eppoi, uno si potrebbe sentir male». Metello la provocava: «Allora, secondo lei, la povera gente come dovrebbe fare?». «I poveri non possono permettersi di avere dei capricci, e se gli succede qualcosa li portano all'Ospedale» rispondeva l'esosa. Metello la guardava in un certo modo, e Ida magari arrossiva, sapeva farlo così bene! E lei, cieca, che la proteggeva e se la stava ad allevare. Era una storia da cronaca cittadina, Novelli ci avrebbe potuto fare una commedia: "ruba il marito alla sua miglior amica". Nemmeno. Ida non era la sua migliore amica, sua amica era Annita, era Lidia, era stata Miranda prima di morire. Ida era una persona con cui era entrata in confidenza, venendo ad abitare in questo nuovo Quartiere, lei che era nata e praticamente non si era mai mossa da San Frediano. Ma veriddio avrebbe dovuto vergognarsi tutta la vita d'esser nata in San Frediano, se non metteva a posto questa questione, «dentro stasera». Intanto, non trovava requie.
E se fosse stata una sua fantasticheria? Da un momento all'altro lo sciopero si poteva risolvere con una sconfitta, tanti sacrifici andati all'aria, un altro mese e mezzo di tribolazioni per nulla. E Metello, in una circostanza del genere, si dimenticava di tutto per correr dietro alle sottane dell'Idina? D'un tratto, le sembrò di essere una moglie «come ce ne sono a migliaja, che si montano la testa con delle ubbìe». Di nuovo, volle credere di essersi sbagliata e che non fosse Metello l'uomo che aveva disceso le scale in punta di piedi. L'aveva forse visto in viso? Costui, era sicuramente uscito dall'appartamento soprastante, era il ganzo della bella Idina: l'ingrata! magari se l'intendeva con uno dei lavoranti di suo marito: parlava spesso del più giovane dei tre, un biondo, 'che assomiglia tutto a un Poeta, a quale non saprei dire, ma c'è', le aveva confidato. Povero signor Cesare, si disse Ersilia. Lo teneva anch'essa in così poca considerazione che per la prima volta egli era apparso nei suoi pensieri, immediatamente se ne liberò: «Se non apre gli occhi da sé, io non gli farò certo la spia». Nondimeno, era lontana dal trovar pace. La macchia lilla scomparsa dentro l'omnibus che imboccava i viali, esattamente nella direzione opposta a quella dove abitava la sorella di Ida, le tornava davanti agli occhi più viva della tinta dei fogli su cui poggiava gli stampini. Sarebbe bastato arrivare alla Camera del Lavoro e accertarsi della presenza di Metello, perché il cuore ritrovasse la sua pace. Ma come, con che scusa? Lei non era abituata a mentirgli; davanti a Metello poteva tacere, ma non dissimulare i propri sentimenti con le parole, di questo non si sentiva capace. Come si sarebbe comportata? Gli avrebbe detto, lì, in mezzo ai suoi compagni, mentre tutti loro erano impegnati da un mese e mezzo, in una lotta per un pezzo di pane: «Sai, è stato un attacco di gelosia?».
Era pomeriggio inoltrato, l'ombra aveva raggiunto gli ultimi piani, e due visite, una dietro l'altra, inattese, risolsero ogni suo dubbio, le dettero quella prova che essa ad un tempo desiderava e temeva. Ma ora, acquisita la certezza del tradimento di Ida; ora che, sapendo, le si imponeva il dovere di agire, ella ritrovò compiutamente il proprio equilibrio. Fu l'Ersilia ch'era sempre stata, docile ma sanfredianina, e che Metello non aveva mai smesso di amare.
Dapprima, Olindo, che essa non vedeva da più di quindici giorni, e che malgrado le sue insistenze, non era voluto salire.
«C'è Metello?».
«E' alla Camera del Lavoro».
«Brava, non sarei venuto a cercarlo a casa!».
«Salga, Olindo».
«No, grazie, non c'è ragione».
Era scortese da parte sua; essa, da quando lo conosceva, e poi durante le prime settimane dello sciopero che era stato loro ospite, non l'aveva mai trattato male. Gli aveva perfino dato cinque lire, «togliendosele di bocca», ma pensando a sua moglie e ai suoi figli, soli a Rincine, «schiavi e sottoposti alla buona grazia dello zio fattore», come Olindo non aveva fatto che ripetere, anche piangendo, nel corso di quelle settimane. E se adesso era per timidezza che si rifiutava di salire, sentendosi debitore o che, lo stesso si stava dimostrando di poco spirito. Un superbo, in definitiva.
«Metello è uscito dieci minuti fa» ella mentì. «Vi sarete incrociati».
«Siamo davvero in croce» egli gridò.
«I soldi della sottoscrizione, sono arrivati?».
«Chi lo sa? Se non lo sanno quelli che ci comandano!».
V'era dell'astio, dell'ironia nella sua voce.
«Olindo, salga, un momento solo».
«Un altro giorno, Ersilia».
E si allontanò, la giacca appesa a una spalla, le maniche della camicia rimboccate, il berretto tirato indietro sulla nuca, e il suo modo di camminare, un po' curvo, stanco, a testa bassa. Ella lo seguiva con lo sguardo, vide che prima di svoltare in via Michelangelo, gli venne incontro un giovane: si parlarono brevemente e con una certa concitazione. Poi Olindo indicò lei che stava alla finestra e scomparve.
«Signora Salani» disse costui dalla strada.
Era Renzoni piccolo, lo conosceva, un pajo di volte Metello l'aveva invitato a cena.
«Salga».
Egli non si lasciò pregare; si pulì i piedi sulla soglia avanti di entrare, si tolse il berretto e dette la buonasera. Per quanto dominasse malamente la sua agitazione, si sedé, accettò mezzo bicchiere di vino, ed Ersilia non dovette fare altro che lasciarlo parlare.
«Credevo proprio di trovare Metello. Anche Del Buono ne era sicuro. ' Va' a svegliarlo, vai' mi ha detto. 'Quello si è addormentato'. Non c'era altra spiegazione, lo si aspettava alle sette!». Guardò Ersilia e credé di attribuirle un sentimento ben diverso da quello che in realtà essa provava. «Non gli sarà successo nulla di certo, soltanto che lo si sta aspettando, la sua presenza diventa di minuto in minuto più necessaria...».
No, Ersilia pensava, nulla di male, soltanto che «non lo porta via a me solamente, ma anche ai suoi amici, gli fa dimenticare il suo dovere, lo fa scadere dalla considerazione della gente». Queste erano le parole che mentalmente ella si ripeteva, ma disse:
«E' andato in San Frediano, a trovare il bambino che sta da mia madre. L'avrà portato a fare una passeggiata a Bellosguardo o verso Arcetri, e il tempo gli sarà passato senza che se ne accorgesse».
«Questo non ci voleva» esclamò il piccolo Renzoni. «Dopo Bastiano, suo marito è quello che ha la testa sulle spalle più di tutti. Eppoi, per quanto lui non si metta in mostra, lo ascoltano, capisce? Senza di lui, Bastiano dura fatica a mantenerli buoni. Siccome i soldi della sottoscrizione non sono arrivati, è nata una discussione. Corrono delle parole, gli animi sono eccitati, lei si può immaginare. Specie quelli del cantiere di Badolati, friggono ch'è un piacere! Il Tinaj, per esempio, è uno dei più decisi a tornar sullavoro. E non è il solo. Il Tedesco, lo conosce? ha digià preso la sua decisione. Ora sul Tinaj in particolare, Metello ci ha un ascendente...». Come accorgendosi d'essersi concesso un'eccessiva libertà, si alzò in piedi quasi di scatto, si accomiatò stringendole forte la mano. «Speriamo che in questo frattempo sia arrivato». Affacciandosi alla finestra, Ersilia lo vide che staccava la corsa, certamente per essere presto al fianco di Del Buono, l'entusiasmo e la devozione dei vent'anni lo sospingevano.
Ella rimase alla finestra, era incredibilmente calma adesso, padrona di sé, e a suo modo, serena. Il sole era calato dietro i tetti, c'era il vocìo e il solito via vai sulla strada. Ersilia aveva appoggiato i gomiti al davanzale, e aspettava.
CAPITOLO 14.
Era ormai sera ed entrando in città, fin dalle prime case, Ida trovò i lampioni accesi. Aveva accelerato il passo: l'ombrellino premuto sul fianco, l'altra mano impegnata a trattenere un lembo della lunga gonna, se la strada era deserta accennava una corsetta. La paglia ondeggiava sulla sua testa, e il suo abito lilla, da cui sbucavano gli stivaletti, era tutto pieghe e fruscii. Sembrava ch'essa si volesse graziosamente sottrarre a un temporale di cui era la sola a intravedere la minaccia in quel cielo sereno dove brillavano le stelle e c'era un quarto di luna. Rientrare prima di Cesare, questo voleva. E non per il timore di non riuscire a persuaderlo con una bugia, ma per non doversi accingere a una discussione. Pensava, appena a casa, di riempire d'acqua la conca e tuffarvisi tutta nuda. Sbucando su Piazza San Gallo, urtò un giovane che proveniva dall'interno del Parterre. Costui si scusò togliendosi la paglietta: «"Pardon" disse "madame"». Ella era già qualche metro distante e non poté fare a meno di squittire divertita. Un omnibus a cavalli, sostava sotto l'Arco napoleonico. «Un momento» ella gridò. Quando fu sicura di aver richiamato l'attenzione del conducente, si fermò, come spossata, sorreggendosi all'ombrellino. Una due tre mani virili si sporsero per aiutarla a salire; dietro di lei anche il giovane di poco prima aveva raggiunto la piattaforma; e mentre l'omnibus percorreva i Viali di Circonvallazione, le si era seduto di fronte e non le toglieva gli occhi di dosso. Come gli altri uomini lì presenti del resto, come le due donne in capelli, ciascuna con in braccio un bambino, e quella ragazza e il maturo operajo che le stava accanto. Sguardi di ammirazione, ella non ne dubitava. La sua grazia e la sua eleganza, il pudico cenno della testa con cui aveva ringraziato salendo, l'atteggiamento pensoso che adesso si adattava, erano fatti apposta per restar impressi e per colpire. Certo, nessuno di costoro poteva immaginare che soltanto mezz'ora prima, la giovane signora a cui sembrava facile attribuire un censo, si abbandonava alle carezze di un muratore, tra i sassi e gli sterpeti di Terzollina. Né che ora, sotto la sua fronte in apparenza abitata dai più leggiadri pensieri, il più leggiadro fosse questo:
«Mi sento tutta appiccicata».
Così dicendosi, le ridevano gli occhi, e rapidamente li abbassava incontrando lo sguardo del giovane dalla paglietta. Nondimeno, vedeva che sotto quella paglietta e quello sguardo, c'erano due baffi neri stupendamente arricciolati, un solino impeccabile, una farfalla azzurra.
«Chissà chi è?» si chiedeva. «Un francese per davvero?».
Ma la sua testolina, nemmeno troppo ambiziosa dopotutto, come non ospitava più pensieri in una volta, non era capace di distrarsi da un desiderio per un altro. Ora la sua mente tornava a Cesare e si diceva: «Se arriva prima di me, uffa, sai quante storie!». Magari, e sia, avrebbe risposto a tutte le sue domande, i pretesti le sarebbero venuti lì per lì, non c'era da preoccuparsene, «ma a patto che mi faccia la doccia». Già pregustava la gioja di sentirsi l'acqua scorrere sulla schiena: lei accovacciata dentro la conca e Cesare che le versava l'acqua sulle spalle e sul seno.
L'omnibus si arrestò in Piazza Beccaria. Poco più in là, della gente faceva cerchio attorno al forzatore che dilatando il torace spezzava le catene: il lume a carburo, posato per terra, ingigantiva l'ombra dell'atleta dal petto nudo e incatenato. Ne provò una dolce emozione. Si alzò per veder meglio, ma subito tornò a sedersi, fingendo di aver creduto che quella fosse la sua fermata. Lei muovendosi, anche il giovane dalla cravatta azzurra si era mosso, e ora, sorpreso, rivelato nelle sue intenzioni, si decise a discendere. Allorché l'omnibus gli sfilò davanti, si tolse nuovamente il cappello e accennò un inchino. Ida gli restituì il saluto inclinando la testa, e in cuor suo pensava: «Per i timidi, angelo mio, non c'è Paradiso».
Qualche minuto dopo, entrava in via dell'Ulivo, felice della sua giornata, e col pensiero digià tuffata dentro la tinozza. A metà scale l'attendeva Ersilia.
«Venga un momento da me Ida, tanto suo marito non è ancora rientrato».
Oh, Ersilia! come mai si era dimenticata che esistesse? Gli allori raccolti sull'omnibus l'avevano stordita fino a questo punto? Comunque, ora si trattava di affrontarla, di ammirare i suoi papaveri neri dalla corolla arancione, e tutto era sistemato.
«Mi lasci andare, sono stanca morta, sapesse da dove vengo...».
«Non era andata da sua sorella?».
«Già, ma al ritorno ho fatto una passeggiata sui lungarni, fino all'Indiano. Ho preso tanto sole da stordire... Mi lasci andare» ripeté. E poi: «Un momento solo, via, mi dica».
Ersilia era ignara e gentile; assecondarla era ciò che bisognava fare. Ida, piuttosto che in difetto, si sentiva maggiore e più esperta di lei. Dava a Metello la gioja che lei non aveva saputo dargli, oltretutto lo accarezzava con delle mani ben curate. Questi, entrando nel salotto-cucina, erano i suoi pensieri. Ma disse:
«Non c'è il bambino?».
«No, è in San Frediano, se n'è scordata?».
Ersilia la spingeva per un braccio e quasi la costrinse a sedersi, affettuosamente sempre. Sul tavolo c'era acceso il lume a petrolio, e da una parte stavano le carte colorate e i fiori lavorati e gli stampini.
«Vedo che non ha progredito granché, col lavoro».
Si tolse la paglia e la depose sul tavolo.
«Già, ho lavorato poco» ammise Ersilia.
Le sedé di fronte, ginocchia contro ginocchia come per invitarla «a reggere la matassa», pensò Ida. E scioccamente si affezionò a quest'idea mentre si riordinava i capelli sulle tempie e alla crocchia.
«Ha da fare dei gomitoli?» le chiese.
Teneva una forcina tra i denti, le mani dietro la nuca, e siccome Ersilia non le rispondeva, la guardò in viso. Allora incominciò a sospettare. Era pallida, come non l'aveva mai vista; aveva i lineamenti tirati, gli occhi grandi grandi, la pelle lustra di un sudore freddo si sarebbe detto, e sulle labbra un sorriso che non era il sorriso né di una persona affaticata né tanto meno di un'amica. Ida fece appena in tempo a infilarsi la forcina dentro i capelli, ma non la poté fermare, poiché Ersilia fermò lei, con due parole: «Brutta puttana». E subito dopo: «Dove l'hai portato?».
Neanche le permise di abbozzare una difesa. «Portato? Chi? Cosa?» tentò di dire.
Fulmineamente, restando seduta faccia a faccia, Ersilia le aveva vibrato uno schiaffo. Sotto il colpo, Ida scartò di lato, ma un secondo schiaffo, sull'altra guancia, la rimise in equilibrio, e due quattro sei, tante doppiette la raggiunsero, dall'orecchio alla bocca, prima che potesse piegarsi in avanti e nascondere la faccia tra le mani. Ersilia si era alzata, la rovesciò sulle spalle tirandola per i capelli, e con la mano libera continuava a colpire, in silenzio, calma, badando dove picchiava e impegnandovi tutte le sue energie di donna sana, forte, sanfredianina. Ida, mezza svenuta ormai, le braccia abbandonate, il mento proteso, si offriva suo malgrado alla tortura, un groppo le chiudeva la gola e le toglieva il respiro. Implacabile, sempre trattenendola per i capelli, Ersilia la batteva sul viso, finché vide che non più saliva ma sangue usciva dalla bocca della bella Idina. Lasciò la presa e Ida ricadde con la testa in avanti, ora singhiozzando disperatamente. Ersilia le porse un tovagliolo bagnato.
«Tieni» disse. «Pulisciti la bocca, e vattene, su, aria».
Ida ubbidì, tra le lacrime, il volto in fiamme, come una bambina castigata. Il sangue le usciva dalle gengive, fece presto a stagnare; ma il labbro superiore si gonfiava a vista d'occhio, e se Ersilia lo vedeva, lei lo sentiva: si toccò e le parve smisuratamente enfiato, come le guance le orecchie il naso su cui via via posava la mano: sconvolta qual'era, s'immaginò che Ersilia l'avesse sfregiata. Ebbe uno scatto, gridò: «Sì, te l'ho portato via, sì, ne faccio quello che voglio». Si alzò, rabbiosamente decisa a passare all'offensiva. Ma Ersilia le stava davanti e subito l'umiliò con un'altra doppietta, come due schioppettate; una ginocchiata sul ventre la raggiunse come l'eco di coteste schioppettate. Ida si ritrovò ai suoi piedi, materialmente ora, i capelli disciolti e il bel vestito lilla macchiato di cinabrese. Il dolore al ventre, al viso, e più l'istinto della vittima, la sopraffecero: si abbandonò supina sull'impiantito, e digrignava i denti e si dibatteva, schiumava sangue e bava.
Quando rinvenne, erano passati pochi minuti, si ritrovò seduta sulla medesima sedia, e accanto a lei, da un lato c'era Ersilia e dall'altro Cesare che le faceva odorare l'acqua antisterica e la chiamava coi più dolci nomi:
«Pallina, Zucchero, Idinina».
Ma più che il marito, ella udiva Ersilia.
«Un colpo di sole» Ersilia diceva. «E' andata sul lungarni a fare una passeggiata, si è tolta la paglia. Vede com'è tutta presa al viso? Ha bussato alla porta per chiedermi aiuto, l'ho messa a sedere, e mentre tornavo con questo panno bagnato me la son trovata ai piedi. Ha battuto il labbro, nulla di male, ci ha tutti i denti sani. Speriamo impari a non fidarsi troppo del sole».
Lentamente tornando alla ragione, Ida si provava a sorridere e intanto assentiva.
«Sei sempre la solita bambina» disse Cesare, e la baciò sulla fronte. Poi si rivolse a Ersilia: «Sembrava se lo sentisse. Aveva voluto rimandare di una settimana la partenza per il mare».
«Invece credo ci abbia ripensato, vero Idina?»le chiese Ersilia, e per quanto la sua voce risuonasse dolce e comprensiva, il suo sguardo sfavillava.
«Forse» Ida disse «chissà». Era nuovamente in sé, anche se con i lineamenti un po' alterati. «Dipende da come passerò la nottata».
Mentre Cesare le umettava il labbro con il fazzoletto, Ersilia le cambiava la pezza bagnata sulla fronte, premendola più del necessario, tanto che l'acqua e aceto di cui la pezza era imbevuta, le colò sugli occhi.
«Io credo che cambiare aria le giovi, lei Ersilia non è di questo parere?» disse Cesare.
Ida si sottrasse alle loro cure, e con gli occhi che le bruciavano ora, come il labbro e il viso, prese il cappello di sopra il tavolo e si avviò alla porta. «Mi so custodire da me» gridò. E non volendo aggiunse: «La ringrazio di tutto, Ersilia, buonasera».
«La compatisca, è una bambina» Cesare disse. E la seguì.
Rimasta sola, Ersilia riordinò il tavolo, le sedie, e tornò alla finestra. Di tanto in tanto, mentre spiava ai due angoli della strada, si passava un dito sotto gli occhi e tirava su col naso. Fuori la fiaschetteria, avevano attaccato il concertino: c'era la chitarra, c'erano i mandolini e la solita voce roca che li sovrastava:
"Con l'ago tu lo cuci
il tuo corredo..."
Ora un sentimento per lei stessa confuso, ma lancinante e soavissimo insieme, la possedeva. Desiderava che Metello tornasse presto: poterlo vedere, accarezzarlo con lo sguardo, come s'egli fosse partito da tanto tempo ed ella temesse di non riconoscerlo. Udire la sua voce; la sua presenza avrebbe fatto risorgere il sole anzitempo. L'attesa la sfibrava; e un senso di timore, già una paura inconsulta, per un torto fatto piuttosto che ricevuto; una profonda amarezza infine, si mischiava ogni momento di più, alla tenerezza che l'invadeva. A una finestra dirimpetto, qualche casa più avanti, si affacciò una donna: Celeste, la Celeste, era la moglie di un fontaniere, avevano quattro figli, tutti piccoli, a scala, lei e il marito erano all'ordine del giorno nella strada per i loro litigi, lui beveva e la picchiava. «Sestilio!» costei gridò. «La cena è pronta». «Non c'è bisogno di urlare» egli le rispose, sgarbatamente. Sedeva sulla soglia della rimessa, giocava a carte col bacalaro. «Mettila in caldo, debbo finire questa partita».
"Son tutte stilettate
allo mio core..."
diceva lo stornello. Ersilia rientrò in cucina, riattizzò il fuoco; si era asciugata il viso, passata il pettine sui capelli, quando Metello apparve e trovò pronta la frittata di patate, la tavola apparecchiata, il mezzo litro di vino. Ersilia lo accolse disinvolta e serena all'apparenza, gli disse: «E' mezzanotte, ti sei fatto aspettare». Egli posò, la giacca che teneva sulle spalle, e senza togliersi il berretto si sedé al tavolo. Dapprima nemmeno le rispose, incominciò a mangiare. Il suo sguardo era risentito, fissava un punto che soltanto lui vedeva.
«Cosa è successo?» ella ripeté.
Finalmente egli le rispose: «Può darsi che il peggio sia ancora da venire». Quindi le spiegò che Olindo aveva «spalleggiato i crumiri» che l'indomani sarebbero tornati sui cantieri.
«Proprio ora che gli Imprenditori finiranno per trattare, siccome Roma gli ha risposto picche, una buona percentuale, Olindo in testa a quanto pare, hanno deciso di riprendere il lavoro. Gli Imprenditori volevano che il Prefetto pigliasse in mano la situazione, che venisse chiusa la Camera del Lavoro e fossero arrestati «i caporioni». Cioè, noi, Del Buono, Giannotto, me, ci hanno messo anche me tra i caporioni, tutti i rappresentanti di Cantiere... E purtroppo, in parte ci sono riusciti».
«Oggi Olindo è venuto a cercarti».
«Lo so, me l'hanno detto».
Ella fu sul punto di chiedergli: «E tu, dov'eri?». Ma lo vedeva così preso da questa sua preoccupazione, e così chiuso in sé, avvilito, che non ne fu capace. Ora, anche in lei la curiosità era un'altra, e vi si mischiava il timore. Gli chiese:
«Cosa vuol dire: in parte ci sono riusciti?».
Egli la guardò; non c'erano mai stati dei segreti tra loro, né Ersilia era una moglie come ce n'erano tante, anche tra le donne dei suoi compagni di lavoro, alle quali per un nonnulla scappa il cuore e più uno è disperato, più dovrebbe tenersi tutto per sé, fino a scoppiare. Come sempre, confidarsi a Ersilia, oltre che soggiacere a un desiderio istintivo, qualcosa di più di un dovere sentimentale, gli permetteva di ricapitolare la realtà dei fatti e la situazione medesima in cui si era venuto a trovare.
«Stammi a sentire».
E anche se questa volta ci fu un segreto (egli le raccontò tutto, fuorché il motivo per cui non si trovava alla Camera del Lavoro quel pomeriggio) ella non gli fece altre domande. Né lui, tacendole la sua avventura con l'Idina, si sentì in colpa e in peccato. Qualcosa li sovrastava che per il momento gli imponeva di porre in disparte i loro sentimenti.
«Alla svelta» aggiunse «debbo essere fuori prima di giorno e vorrei dormire un pajo d'ore».
CAPITOLO 20.
Quel pomeriggio, alle sette, mentre lui giaceva con Ida tra le siepi di Terzollina, gli scioperanti si erano raccolti sotto la finestra della Camera del Lavoro, in silenzio, e addossati ai muri, sui due marciapiedi. Si era potuto sentire Palazzo Vecchio battere le ore. Suonato il rintocco, Aminta gridò: «Vieni fuori, Bastiano, non ti nascondere anche te come i Padroni». Era un uomo preso dalla disperazione, se avesse avuto un fucile avrebbe sparato; allo stesso modo sarebbe potuto cadere in ginocchio e chiedere perdono. Nessuno lo contrastò, come nessuno, nemmeno Aminta, ebbe l'animo di salire le due rampe di scale ed entrare nell'ufficio di Del Buono: la porta era spalancata e chiunque era in diritto di entrare e di esporre le sue ragioni. Del Buono si era affacciato alla finestra e glielo ricordava. «O volete richiamare le guardie e i soldati?». Poi era sceso e si era diretto verso i Cavalleggeri, loro dietro. Riempivano la piazzetta, in maniche di camicia e panciotto, coi berretti e i cappelli di paglia buttati sulla nuca, le giacche sul braccio o appese alle spalle, le barbe lunghe e i visi di fame. Aminta si trovava in prima fila. «Sicché, Bastiano, sono arrivati questi quattrini?». Del Buono mostrò un telegramma di Borghesio. Dopo le sottoscrizioni della Romagna, di Milano, e di Torino, a loro fiorentini sarebbero toccate all'incirca duemila lire. «Tra due o tre giorni siamo sicuri di spartirle». «Domani si torna sui cantieri» aveva gridato Olindo. E Aminta: «Ha ragione Tinaj. Ci rimandate di giorno in giorno. Eppoi, son palliativi! Bisogna costringerli con la forza Badolati e compagni».
In quel momento, Metello era sul greto del Terzolle, al riparo della siepe, abbracciato all'Idina. Nondimeno, dopo il racconto che gliene avevano fatto, poteva immaginarsi la scena e le parole.
«Bisogna fargli paura! A costo di finire in galera, almeno ci sarà un perché». Questo era ancora Aminta che parlava.
«Io intendo tornare sui cantieri per riprendere il lavoro» replicò Olindo. «Non per fare delle chiassate. Vi abbiamo dato retta anche troppo! E credo di non essere il solo a pensarla in questo modo».
Allora Aminta tentò di aggredirlo; li avevano divisi.
E malgrado la calma in cui era continuata la discussione (Aminta si era seduto su un sasso, ai piedi di Del Buono, e si teneva la testa tra le mani) Olindo aveva trovato non uno ma dieci, venti sostenitori. Anche Butóri, il Tedesco, era venuto a schierarsi dalla parte di costoro.
«Toglimi pure la patente di socialista, caro Del Buono, ma è una corda che non si può più tirare.
I Padroni hanno il coltello dalla parte del manico, vogliamo continuare a dare delle stratte perché ci entri tutto in gola?».
Del Buono aveva parlato come gli riusciva; li aveva rianimati con le notizie ricevute da Pescetti, che si tratteneva a Roma apposta, per seguire lo sviluppo della situazione.
«Sì» lo avevano interrotto «contiamo su Giolitti, come se Giolitti l'avessero eletto i lavoratori».
«Te le dobbiamo insegnare noi queste cose?».
«Per conto mio ho deciso» disse il Tedesco. Si era tolto di bocca il fuscello d'erba, d'avena e si dondolava, alto e smagrito, sui calcagni. La sua voce d'orco, profonda, naturalmente maliziosa, e il suo tono tranquillo, persuaso, smussavano quanto poteva esserci di odioso nelle sue parole. «A Monterivecchi dissi: finché si può. Ora, Aminta stai buono, non ti arrabbiare, io personalmente chiedo spiga. E non soltanto perché ho la moglie lì lì per partorire, ma perché, in coscienza, mi sembra che si sia andati al di là del sopportabile e del consentito».
«Bravo Tedesco» gli gridarono.
Ma anche: «Questo vuol dire arrendersi, dopo tutto quello che si è sopportato».
«E' un fare i crumiri».
«E' cosa vi pare» rispose il Tedesco. «Non chiedo a nessuno di venirmi dietro. Eppoi, un momento, stanotte ci potrei anche ripensare. Ma dovrebbe calarmi in casa la Befana, e accendere lei il fuoco e apparecchiare la tavola, per farmi cambiare idea».
E si tirò indietro; parve, malgrado la sua mole, come scomparire in mezzo al gruppo. «Non voglio fare del male a nessuno» aveva detto «ma nemmeno a me stesso e a chi mi vuol bene».
Si erano levati, da più parti, dei gridi; Del Buono aveva fatto: calma! con la mano, e si era dato di nuovo la parola.
«D'accordo, la fame è fame. Ma vi lascio considerare se non sia il caso di sottoporsi a un ultimo sacrificio. Dico in particolare a te, Butóri» aggiunse rivolgendosi al Tedesco «che sei vecchio del mestiere e sei un galantuomo, riflettici davvero stanotte. Siamo più di prima nella misura del consentito. Questi soldi, pochi che siano, stanno per arrivare. E al punto in cui ci troviamo, arrendersi significherebbe un disastro. Specie riguardo all'avvenire. D'ora in avanti, gli Imprenditori si sentirebbero in diritto di dettare loro le condizioni, sempre, e a loro piacimento». Poi si rivolse a Olindo: «Vieni qua, Tinaj, tu sei entrato da poco nell'arte, non devi credere di averci dei nemici».
«Nessuno è nemico» avevano gridato.
E il decano: «A meno che non lo diventi lui, con una brutta azione».
Olindo era avanzato di qualche passo verso Del Buono, stava framezzo un gruppo da cui doveva sentirsi spalleggiato, lo si capiva dal suo atteggiamento e dall'atteggiamento di coloro che gli stavano accanto. Tutti padri di famiglia, in definitiva, dalle facce dure e oneste, che la disperazione aveva reso torve, provocatrici, e che ora, spontaneamente, si erano portati vicino al Tedesco scoprendo in lui un alleato di prestigio. Olindo per primo se ne fece scudo.
«Mi richiamo alle parole del Tedesco. Non ci date di crumiri se domani si torna sul lavoro?».
«E come vi si dovrebbe chiamare, buonelane?» gli chiese il decano.
«Gente che ha la responsabilità di una famiglia e non va dietro agli spiriti. Io ho cinque bocche da sfamare, sei con la mia. Non so più dove trovare due soldi per una fetta di pane» Olindo disse. E terreo in viso, al solito, tutto ansia ora e tutto bile, gridò: «Io non ho né la ganza che mi mantiene, né la moglie bella o che mi vada lei a lavorare».
Soltanto allora, mentre si scagliava nuovamente su Olindo, ci si accorse di Aminta, e non si fece in tempo a trattenerlo. Olindo tentò di fuggire, ma Aminta gli fu addosso con impeto, prima ancora di colpirlo lo rovesciò. Dopodiché, si ebbe la mischia, tra i sostenitori di Olindo da una parte, che arrestato Aminta sullo slancio lo stavano massacrando, e coloro che erano accorsi in suo aiuto. Inutilmente Giannotto e il Tedesco e Duili e Leopoldo e il Santino, dall'una parte e dall'altra, si erano buttati in mezzo per dividerli. Gli animi erano talmente stravolti che anche loro, per difendersi, non avevano potuto fare a meno di colpire. Presto, il tumulto aveva richiamato gente, erano intervenuti dei soldati che sortivano di caserma per la libera uscita, con l'intenzione generosa di fare da pacieri, e lo stesso erano stati trascinati nella rissa. Un meridionale aveva sguainato la bajonetta: per fortuna, ancora padrone di sé, se ne serviva di piatto, e gridava: «"Fetenti", che state facendo? Vi abbiamo sfamato».
Essi, non c'era esortazione che bastasse a fermarli: era la propria bile, la propria miseria, la propria fame che ciascuno abbatteva a pugni chiusi sulla faccia del compagno, e tutti, sia quelli che avevano spalleggiato Olindo, sia quelli che erano insorti in difesa di Aminta, senza più ricordarsi del pretesto che li aveva scatenati.
Tutt'intorno, quei conciatori e quei marmisti, richiamati dalla buriana, la più parte a braccia conserte, stavano a guardare. «Bello spettacolo che date!» commentavano. Le balie e le madri, sorprese nella loro passeggiata sul Lungarno, scappavano strillando e trascinandosi i ragazzini; l'omnibus aveva appoggiato sulla sinistra e i passeggeri, atterriti o allegri, secondo i casi, sembravano godersi lo spettacolo dall'alto di un belvedere; intanto, il "maître" dell'Hôtel Balestri, aveva fatto chiudere il portone e spedito di carriera il suo secondo a chiamare il Delegato.
La scazzottata si era protratta dieci minuti, un quarto d'ora, e soltanto Del Buono, fattosi nel centro della mischia, era riuscito a sedarla.
«Ci dobbiamo vergognare» urlava, disperatamente aggiustandosi le lenti in cima al naso. «E vojaltri, di avere i calli alle mani, sciagurati!».
L'autorità e il rispetto di cui godeva finirono, nonostante tutto, per richiamarli alla ragione. Si vide allora che Olindo era scomparso e che Aminta era rimasto per terra, col viso rigato di sangue, in preda alle convulsioni.
Ma prima che gli animi si fossero calmati, e che la staffetta dell'albergo arrivasse a destinazione, dalla vicina caserma era accorso il picchetto di guardia, al comando di un ufficiale. Con la sua sola presenza, aveva fatto il vuoto nella piazza. Tuttavia, non si era curato dei militari, ne aveva fermati un pajo, e insieme ad essi, aveva acchiappato Del Buono e una diecina d'altri muratori che non avevano creduto o non avevano fatto in tempo a scappare. Il Delegato, giunto di lì a poco, li aveva poi ammanettati.
Dei compagni di Metello, al Cantiere di via Venti Settembre, c'era rimasto Leopoldo nella rete. Cotesta sera, messi a letto i ragazzi, la sua giovane cognata non l'avrebbe visto rientrare.
Metello era arrivato contemporaneamente all'ufficiale e alla sua scorta, ma provenendo da Piazza della Signoria, con ancora addosso, se non il pensiero, il profumo della bella Idina. Era stato travolto dal fuggi-fuggi; Giannotto gli aveva gridato: «Scappa, vieni». E attraversato Ponte alle Grazie, si erano fermati dall'altra parte del Lungarno. Annottava; malgrado aguzzassero lo sguardo, non riuscivano a vedere cosa accadesse davanti ai Cavalleggeri. Così, per non restare in trappola, ai due capi del Ponte, avevano ripreso a correre e raggiunto il Quartiere del Pignone, per parlare con quegli operaj e discutere insieme la situazione. Trattandosi di Del Buono e della Camera del Lavoro, la cosa non riguardava più soltanto i muratori. Li avevano trovati alla Mutuo Soccorso, che giocavano a carte e preparavano i festoni per il Ballo della domenica.
«E ora» gli chiese Ersilia «cosa pensate di f are?».
«Qualcosa hanno digià fatto, per il resto se ne riparla domani».
Quegli operaj avevano telegrafato a Pescetti e mosso i capi socialisti che si trovavano in città; poi si era saputo che Del Buono, Leopoldo e gli altri stavano per essere tradotti alle Murate.
«Li accusano di rissa e cercano di fargli dire dei nomi».
Quindi, si era tenuta una riunione, «dov'è il partito»; avevano parlato uno delle Officine Galileo e uno delle Vetrerie; era stato scritto un manifesto che in quel momento si stampava. «Ora si vede se siamo una popolazione» avevano detto. «Liberare Del Buono diventa una questione di principio, e far togliere i sigilli alla Camera del Lavoro, più che mai».
Gli animi erano eccitati. Si diceva di volere andare in fondo. Se necessario, fino allo sciopero generale. C'era una sigaraja, Metello la conosceva di vista, «non era nemmeno una brutta figliola», doveva stare dalle parti di Ricorboli o del Bandino, aveva gridato: «Su di noi ci potete contare». Della Galileo, della Pignone e delle Officine Meccaniche, non si dubitava. Il vetrajo aveva garantito per i suoi. E siccome tra i presenti c'era anche uno dei Molini, gli era stato chiesto: «E su vojaltri?». Costui era un uomo grande e grosso, «una specie del Tedesco», si era stretto nelle spalle: «Ba', speriamo, io direi di sì, ma bisognerà sentire, non posso mica essere nel cervello degli altri». Era intervenuto un fornajo di notte: «Se voi ci state, a noi ci resta più facile». «Lo capisco, ma è vero anche il contrario» aveva risposto quello dei Molini.
Questa era la situazione: Del Buono, Leopoldo e una diecina d'altri, in carbonaja, forse digià alle Murate; Aminta all'Ospedale e la Camera del Lavoro piantonata. E in quanto a loro muratori, ormai se la dovevano vedere da soli, come e più di prima.
«Domattina una Commissione andrà dal Prefetto o dal Questore» egli concluse. «Chissà se li riceverà. Parleranno per telefono con Roma, e poi, se in serata non saranno riusciti a nulla, è probabile che decidano lo sciopero generale. Noi, per il momento, restiamo allo stesso punto. Ci hanno detto: 'Non vi arrendete mica proprio ora, dopo lo scombùglio che avete creato?'. E senza che ce lo dessero a divedere, avevano l'aria di guardarci risentiti. Gli volevi dar torto?».
Scostò il piatto dove aveva mangiato, mise le braccia sul tavolo e appoggiò il mento sulle mani. Ella tolse il piatto e il bicchiere.
«Ora non ti buttare la croce addosso».
Andò e tornò, dalla tavola all'acquajo.
«Ma le vostre intenzioni, quali sono?».
Egli le spiegò ciò che avevano deciso, poi disse: «Tutto per via di Olindo».
«Non prendertela con lui. Ha avuto meno tatto del Tedesco, ma anche il Tedesco, e altri, non hanno manifestato la sua stessa intenzione? Eppoi, o non è stato Aminta a saltargli addosso per primo?».
«Tu lo difendi».
«Penso alla famiglia che ha sulle spalle».
«Anche Aminta ha famiglia, tutti l'abbiamo. Io non l'ho, una famiglia?».
«Ricordatelo più spesso» ella esclamò.
Malgrado se stessa, ciò che restava in lei della sua angoscia di tradita, improvvisamente le aveva fatto groppo al cuore, e se ne pentì.
«Scusami, volevo dire un'altra cosa».
E di nuovo si odiò.
«Insomma» concluse «ho sbagliato».
Ma egli era troppo preso dai propri e più recenti pensieri, per intuire l'origine delle sue parole. Si alzò, rimise a posto la sedia, con ira. La sedia cadde e lui la lasciò dov'era caduta.
«Lo so, non sei tu che hai sbagliato, sono io, siamo tutti noi, non ci si doveva mettere in questo gineprajo. Olindo ha ragione, il Tedesco ha ragione. Ci si deve contentare di quello che Dio ci manda. Cuor contento e sacco al collo. Dillo, e festa finita. Così, conoscerò di preciso anche la tua delle opinioni».
Entrò in camera, si cavò il berretto e lo attaccò al pomo del letto; si tolse le scarpe e i pantaloni e si distese.
Ella lo aveva seguito portando il lume.
«Ora ti spiego cosa volevo dire. Olindo e gli altri che sono d'accordo con lui, hanno torto, fanno male, ma si possono anche capire. Non si può pretendere che tutti abbiano idee giuste, quando si vedono soffrire delle creature».
«Basta» egli disse. «Non mi ci far pensare». Si voltò su un fianco e affondò il viso nel cuscino. «Certe volte ci si pente d'esser nati».
«Vai» ella disse, e cercò di sorridere, di mettere dell'allegria nella propria voce. «Non si nasce da sé, ci fanno nascere».
Poi gli disse:
«Togliti cotesta camicia, è zuppa di sudore».
Al di là della finestra spalancata, c'era il silenzio della notte; dalla fiaschetteria sull'angolo, proveniva di tanto in tanto qualche voce, il marito della Celeste e il bacalaro si salutavano dopo l'ultima partita. Suonarono e rintoccarono le due.
«Mi dovrei alzare alle quattro» egli disse. «Ma se mi addormento, chi mi sveglia? E' stata una giornata!».
«Ti sveglio io» ella, disse. «Non ti preoccupare».
Egli aveva chiuso gli occhi, ed ella lo credé assopito, gli sfilò i calzini e lo coperse col lenzuolo; prese il lume e lo tenne alto su di lui, rimase un attimo a guardarlo che dormiva sul fianco, la guancia schiacciata contro il cuscino; e se ancora vi era del risentimento dentro di lei, il timore aveva finito per sopraffarlo.
Poco prima egli le aveva detto che lui, Giannotto e tutti quelli che erano d'accordo per continuare nello sciopero, rimasti senza il consiglio di Del Buono, e con la situazione che si era venuta a creare, non sapendo che far di meglio, avevano deciso di trovarsi prima di giorno in prossimità dei cantieri, per affrontare coloro che venissero con l'intenzione di riprendere il lavoro. «Bisogna persuaderli, con le buone si intende» egli aveva detto. Ma anche aveva detto: «A tutti i costi». Ed a proposito di Olindo: «Con Olindo me la vedo io di persona. Lui, sui ponti, non ci sale di sicuro. Magari lo lego mani e piedi e lo tengo mezza giornata in un fossato, come gli facevo da ragazzi, quando si giocava a Garibaldi e i Papalini».
Ella tornò in cucina, e si mise ai suoi fiori, doveva riunire in mazzetti quei papaveri di più colori che erano tanto piaciuti alla bell'Idina.
Quando suonarono le quattro, Metello era già desto.
«Non mi è riuscito di chiudere occhio» le disse. «Non ho fatto che pensare, e sempre, a vuoto».
Uscita Ersilia egli aveva cercato il sonno, fermandosi su un proposito: «A costo di cazzottarli uno per uno e mandarli a far compagnia ad Aminta». Ma non c'era della spavalderia nel suo animo, piuttosto della tristezza, o meglio dei sentimenti confusi in cui la vergogna aveva lo stesso peso del risentimento. Un'inquietudine che non aveva mai conosciuto, continuava a tenerlo desto.
Egli aveva sì esperimentato la delusione, la paura, e nella prima età, anche il terrore, come la notte che i Carabinieri avevano arrestato babbo Eugenio; e quando batté il terremoto: era domenica e stavano desinando ed egli aveva veduto oscillare la lampada e la trave maestra che si muoveva sopra la sua testa; la volta, infine, che si era tuffato nella gora per salvare Olindo e lui gli si era attaccato al collo: sarebbero andati a fondo se invece della gora fosse stato un fiume, erano riemersi un metro più avanti dove si toccava. Tutto questo apparteneva all'infanzia, agli anni coi calzoni corti sotto il ginocchio, ne aveva perso il ricordo. Era un ragazzo e viveva in campagna, appena bujo ogni fruscio e ogni ombra se lo venivano a pigliare, non occorrevano circostanze eccezionali per mettergli terrore. Nondimeno, era stato un modo di crescere dentro il bozzolo, allenati contro l'insidia, lui e Olindo, come in uno stesso guscio. Quindi, le prime volte che intimamente avevano sorriso allorché il Prete gli illustrava le pene dell'Inferno, e mamma Isolina gli minacciava la presenza dei Morti a pie' del letto, erano usciti dal nido. Una notte senza luna, mentre Olindo e tutti dormivano, di proposito egli si era avventurato solo fuori casa, aveva preso la scorciatoja dov'era stato trovato il Guardia appeso al terzo moro, ed era arrivato fin sulla Sieve. Nemmeno i fuochi fatui gli avevano fatto impressione, costeggiando il Cimitero; si era indugiato a stanare i granchi di sotto i massi; e al suo ritorno, con le prime luci, tutti i Tinaj erano in piedi che lo cercavano. Sorpreso di queste lontane immagini riaffiorate alla sua mente: «Cosa vuol dire?»si chiese. «Be', ero diventato grande avanti il tempo, non avevo più paura». E istintivamente, fino da allora, aveva capito che soltanto dai vivi poteva venirgli l'insidia. Li aveva affrontati a viso aperto, e si era ritrovato per terra, ruzzoloni. Questo era accaduto nei due momenti decisivi della sua vita. Il giorno del suo arrivo a Firenze: carico di sonno di stanchezza e di fame com'era, aveva dovuto affrontare l'ostilità di quei facchini, al Mercato, ma poi Betto se l'era caricato sulle spalle, gli aveva insegnato a leggere e scrivere, a darsi un mestiere che fosse un mestiere; e la sera di maggio che si era trovato ristretto nel camerone delle Murate insieme a Giannotto, a Ghigo Monsani, a Fioravanti il tornitore, e gli sembrava di non aver lasciato altro che la libertà al di là di quelle mura, allora si era alzata la voce di Ersilia e subito egli si era detto: «Esco e la sposo». E' vero, solo che tu conservi un minimo di volontà, trovi sempre una mano che ti tira su se sei abbattuto.
Trovi l'amicizia, e puoi trovare anche l'amore. E non devi mai né riconoscenza né devozione a nessuno. Aiutandoti, è se stessi che aiutano, i loro scoraggiamenti, le loro paure, i loro terrori. Gli devi amicizia e amore, quanto puoi. Non di più, altrimenti sarebbe ipocrisia, esagerazione. Siamo tanti girotondi, senza parere ci teniamo per mano. Se esci dal cerchio, allora sì, allora sei perduto. Il pane del povero è duro, e non è giusto dire che dove c'è poca roba c'è poco pensiero. Al contrario. Stare a questo mondo è una fatica, soprattutto saperci stare.
«Non ti puoi permettere una distrazione che sùbito ti casca la casa in capo» si era detto.
La domanda che Ersilia non gli aveva fatto, gliel'aveva posta Giannotto, appena al sicuro dietro Ponte alle Grazie. «Del Buono aveva subodorato qualcosa, perciò ti aveva mandato a chiamare. Tu dov'eri?». Poteva rispondergli: «Ero con la ganza in Terzollina?». Fossero stati soli forse, ma c'erano presenti Lippi, Friani, il piccolo Renzoni, altri ancora e tutti con gli orecchi dritti, la lingua fuori e le bestemmie che uscivano da quei petti affannati come avemmarie. Aveva detto: «Mi ero perso a sentire le prove della Banda Presidiaria». E si era sentito avvampare. Più, l'aveva scottato la luce d'omertà intravista nella sguardo di Giannotto; in coteste fiamme, la bella Idina aveva finito d'incenerire.
Ora, malgrado tenesse gli occhi al soffitto, come certe altre notti non poi tanto lontane, non era ad Ida che pensava. Essa non aveva mai impegnato il suo cuore, così gli ultimi avvenimenti ne la avevano esiliata. Tanto poco aveva dunque contato cotesta sua avventura? Meno delle fidanzatine succedutesi alla sua relazione con Viola? Meno delle amiche occasionali di Lungo Gelso e del Pendino? Meno meno. Né egli provava rimorso nei confronti di Ersilia. Seppure fosse la prima volta che la tradiva, i suoi sentimenti non erano mai stati in gioco. Ersilia era al centro dei suoi affetti, nell'unità della famiglia che nessuna avventura poteva incrinare. Non era su questo che ruotavano i suoi pensieri. Le sue idee in proposito erano semplici e chiare, comode ma lineari, se ne sentiva tutelato. «Le renderò i conti, c'è tempo» si disse. La sua inquietudine riguardava unicamente quanto era accaduto nel pomeriggio, e peggio, il fallimento dello sciopero che li minacciava. Non era anche colpa sua? La responsabilità diciamo, ricadeva pur sempre su Olindo e su coloro che lo avevano spalleggiato, e su di lui, sì, ma nella misura in cui egli non aveva saputo vigilare le mosse e gli umori del fratello. «Dopotutto non sono la sua balia». Giannotto gli aveva ricordato che se lui fosse stato presente in Piazza Cavalleggeri, alle sette com'era convenuto, «invece di perdersi ad ascoltare le prove della Banda Presidiaria», Olindo non avrebbe minacciato di mettersi alla testa dei crumiri. «Te ti ascolta, ti teme, con un nulla gli avresti fatto cambiar parere e molte cose si sarebbero evitate. Il Tedesco è un uomo ragionevole, non sarebbe mai arrivato a vestirsi da provocatore. E' stato Olindo che ha fatto precipitare la situazione». «Sicché, tutto per colpa mia? Eh, va bene che ho spalle larghe» si ripeteva. Nondimeno, la situazione restava quella che era: Del Buono tolto dalla circolazione e i sigilli alla Camera del Lavoro, come nel '98, ci risiamo. Gli anni passano e il fucile l'hanno sempre loro. Guai a non far muro, gli basta una crepa per buttare all'aria quel poco che si è riusciti a costruire. E questa volta la miccia l'aveva accesa Olindo, sbagliando, uscendo di ragione. O non l'aveva accesa Aminta, Piuttosto?
Non ci poteva pensare, ed era l'unica cosa a cui doveva pensare.
Si assopì, e qualche minuto prima che entrasse Ersilia, si era svegliato di soprassalto. C'era un gran silenzio e la luna batteva sul davanzale; dall'altra stanza veniva il filo di luce del lume a petrolio e il fruscìo che faceva Ersilia coi suoi fiori. D'un tratto, udì pesticciare al piano di sopra, si sorprese che a questo mondo esistessero ancora l'esosa e suo marito.
Lavandosi, sotto l'acquajo, si disse: «Ma quando è stato? Mi sembra mill'anni fa». Chinò la testa per voltarsi a guardate Ersilia che gli dava le spalle, intenta a riordinare sul tavolo il suo lavoro: la vedeva piccina perché doveva socchiudere gli occhi per via del sapone, e le sorrise.
Di lì a poco, era vicino alla porta, e la salutava. Ella aperse la mano dove teneva tre monete da due soldi e dei centesimini.
«E' tutta la cassa, ti puoi servire».
«Me se è tutta la cassa...».
«Stamani consegno quei fiori alla Roini. E i bottegaj continueranno ad aspettare. Non li calmerei di certo con meno di una lira».
Egli cavò dal taschino del panciotto un mozzicone di sigaro, sembrò fare una considerazione.
«Quattro soldi mi bastano, per mezzo toscano. Mi ero serbato questa cicca, ora la posso anche fumare».
«Con gli altri ti ci entra una mescita».
Erano fermi sulla soglia; egli le dette un bacio sulla guancia, e inaspettatamente, ella si senti arrossire.
Egli disse: «Come va il bambino? Vedi dov'ho la testa, te lo chiedo soltanto ora».
«Sta una meraviglia. Quando l'ho lasciato non se ne è nemmeno accorto».
«Ciao».
«Ciao» ella disse, e mentre lui scendeva le scale e lo vedeva di spalle: «Metello» lo richiamò. «Non fare delle sciocchezze». Ne hai già fatte abbastanza, gli avrebbe voluto dire.
PARTE QUARTA.
CAPITOLO 21.
Fuori era ancora scuro, ma una notte lunare, estiva, appena ventilata. Presto sarebbe sorto il nuovo giorno, l'ultimo dello sciopero. Egli teneva l'indice nel taschino dove aveva il denaro offertogli dalla .moglie. I suoi passi risuonavano sulla pietra. Strofinò lo zolfino a un muro e accese il mozzicone di sigaro. Era sull'angolo di San Piero, vinse la tentazione di attraversare la strada per bere una mescita al banco di Nocellino aperto tutta la notte e dove c'erano degli avventori e una donna fra costoro, in cappello e «intolettata», che gridava:
«Rinnóca, questo non è passito».
Girò attorno al Duomo; c'erano quei fiaccheraj che giocavano a morra, e incrociò un ciccajolo da cui ricevé il saluto.
«Buonafortuna» egli rispose.
«Non fossero passati gli altri prima di me».
Ora aveva imboccato via de' Servi, lunga e deserta, a cui di lontano facevano quinta Ferdinando Primo a cavallo, e alle sue spalle, il portico dell'Annunziata. Nel cielo, con la luna piena, c'era come il presentimento dell'alba, un velo chiaro e impercettibile sopra lo stellato. Egli camminava nel mezzo della strada e più che fumare il dito di sigaro, lo masticava. Non sarebbero venuti in molti all'appuntamento, pensava: la carica dei soldati li aveva dispersi, e poi non c'era stato il tempo di avvertire. Ma i picchetti li avrebbero fatti ugualmente, quanti fossero, per questo si volevano trovare per tempo in prossimità dei cantieri, per bloccarli uno per uno, prima che entrassero nella sfera di Crispi e di Nardini. Chissà se l'Ingegnere si sarebbe fatto vivo? Dopo, via via che arriverebbero quelli che condividevano l'idea di continuare nello sciopero, si sarebbe accresciuta l'opera di persuasione. E di intimidazione, se necessario. «A un bambino si apre la bocca con la forza, per fargli prendere la medicina. E' per il suo bene».
Raggiunta Piazza dell'Annunziata, si fermò alla fontanella, e bevendo, per acqua che fosse, e ancorché a digiuno, scoperse d'aver una gran sete. Sotto il Loggiato degli Innocenti, alla porta dell'Orfanotrofio, dove c'era la «ruota», gli parve d'intravedere un'ombra che si appiattiva. La luna illuminava fino all'altezza dei plinti, più dentro non si distingueva. Egli preferì allungare il passo e voltare la cantonata. D'un tratto, in quel silenzio, dalla piazza che si era lasciata alle spalle, e dove lo scroscio della fontanella non aveva eco, risuonò un tacchettìo veloce. Egli si girò e vide una figura di donna correre come inseguita, sotto la luna, un attimo, subito ricomparve dietro via de' Fibbiai lanciando un grido:
«Addio, mimmino».
Era una voce giovane, non rotta dal pianto, sembrò, in quel silenzio, sotto quella luce in quell'ora, stranamente felice.
Ma non era un episodio che potesse turbare il suo spirito altrimenti affaticato. «Una sciagurata di più» egli pensò, e riprese la sua strada. «A non aver nulla da fare» si disse «ce ne sarebbero la notte di cose da vedere».
L'appuntamento era nel Giardino della Fortezza da Basso. Egli non fu né il primo né l'ultimo ad arrivare. C'era digià Giannotto, c'era Lippi che portava notizie di Aminta: non era ferito, appena qualche graffio e delle lividure; l'avevano trattenuto in Ospedale per precauzione, e siccome, tastandolo, quei medici, indipendentemente dagli esiti della scazzottata, gli avevano trovato qualcosa: non si sapeva cosa, né dove, comunque lo volevano studiare. Convennero che se Aminta mancava, forse non era un male, e si consolarono pensando: «intanto per qualche giorno mangia e si riposa sul serio». «E del resto» borbottò il decano «si è risparmiato una pena. Se tornava a casa con me, avrebbe scoperto che sua moglie ha preso in braccio i bambini ed è tornata dai suoi a Ponte a Ema. Ha detto alla mia vecchia d'essere stanca di questa vita, e d'aver per marito un pocobuono».
C'era Friani l'anarchico; c'era il vecchio Corsiero, vecchio quasi quanto Lippi, sulla sessantina, che a Metello ricordava i suoi primi passi nell'arte; e c'era il piccolo Renzoni il quale raccontò che il nonno l'aveva buttato giù dal letto a furia d'urlare.
«Se non fosse ch'è impedito alla gamba, m'avrebbe accompagnato. Ho ancora le cispe agli occhi, non mi ha dato il tempo di lavarmi il viso».
Presto, si fu tutti quelli che ci si attendeva: coloro, cioè, che la sera precedente erano andati al Pignone, e altri, di cui si conoscevano gli umori, e che si erano potuti avvertire. La più parte di città, ma alcuni anche della campagna, come Friani, che aveva dormito su quelle stesse panchine e in quel Giardino dove un mese e mezzo avanti, il primo giorno di sciopero, ci si era riuniti e all'arrivo di Del Buono due o trecento, più voci, avevano gridato: «Viva Bastiano».
«Stamani siamo un po' di meno» disse Giannotto. «Ma questo non ci deve scoraggiare. Tanti che sono della nostra idea, li troveremo appena arriviamo sui Cantieri».
Era ormai giorno, il cielo si era fatto rosa, e chi aveva dormito all'aperto si sentì abbrividire. Dentro la Fortezza, una tromba suonava la sveglia.
Sveglia, militari!
No, non erano molti, bastavano in due a contarsi sulle dita. Si chiamarono per nome o nomignolo, come si conoscevano, e via via che si riconoscevano, non c'era nemmeno più bisogno che ciascuno denunciasse la propria qualifica. Così, vennero a formare sei gruppi, secondo i Cantieri, i Padroni, le Imprese.
Il gruppo dei Cantieri Madii del Ponte alle Mosse, guidato da Giannotto, era il più numeroso, comprendeva:
Gemignani
Locchi
Zulimo
Pagliacci
e Rovini.
Accanto ad essi:
Volpi
e "Pergento"
che lavoravano alle dipendenze di Tajuti, nel Cantiere di via del Gelsomino.
Quindi, quelli dell'Impresa Lampredi, Cantiere 2, di via Circondaria:
Lucii
Pierani
e "Ghigone".
E
Cioni
Ascanio
"Piladino"
Grazzini
dell'Impresa Fratelli Massetani che aveva in appalto un lotto di villini alle Cure.
Poi:
Filiberti, ossia "Corsiero"
Polverosi
e Lucatelli
del Cantiere Fiaschi, anche delle Cure, dove costruivano i capannoni della nuova Fonderia.
Infine, coloro che avevano per padrone l'Ing. Badolati al Cantiere di via Venti Settembre e tra i cui compagni di lavoro c'erano Butóri il Tedesco, Olindo Tinaj, e Aminta Donnini: per il momento, tutti fecero la medesima riflessione.
Metello Salani
Lippi il decano
l'anarchico Friani
e il piccolo Renzoni, "Renzoni Nipote".
Erano ventuno, nonvolendo si erano contati: 3 primimuratori, 10 muratori e gessisti, 2 mezzimuratori, 6 manovali.
«Mi sembra ci sia rappresentata tutta la scala» disse Giannotto.
Il decano disse: «La Scala, la Pergola e la fame speriamo bene».
Ma anche se rappresentavano soltanto sei Cantieri, essi comprendevano le Imprese più importanti e le maggiori fabbriche in via di costruzione, lasciate a mezzo da quarantasei giorni, sotto il sole. Se fossero riusciti a far continuare lo sciopero in cotesti sei Cantieri, i Padroni avrebbero finito col trattare.
«O almeno speriamo» concluse Giannotto.
Si avvicinò a Metello e si strinsero le mani.
Qualche minuto dopo, i sei gruppi prendevano sei opposte direzioni. Loro quattro del Cantiere di Badolati s'incamminarono costeggiando il Mugnone.
«Speriamo bene» ripeté il decano «la vedo molto complicata».
Così dicendo, si accorse che lungo l'argine il piccolo Renzoni aveva colto una margherita e se l'era messa all'orecchio, lo considerò, scosse la testa, e disse: «Poveri noi». Quindi, rivolto a Metello: «Non allungare troppo il passo, Cipressino, io non ho mica più vent'anni».
«Nemmeno io» Metello gli rispose.
«Io sì, ce li ho io» esclamò il piccolo Renzoni.
«Ma non ve li posso prestare».
Era sorridente, allegro, il solo ad esserlo fra tanti visi scontenti e decisi: si continuasse lo sciopero o si riattaccasse a lavorare, la sua amica bambinaja l'aspettava da mezzogiorno all'una sotto la Torre della Zecca, e lui non sarebbe mancato.
Friani gli disse: «Tienine di conto, vent'anni si hanno una volta sola».
Avevano raggiunto il cavalcavia sul Mugnone, e dall'altro capo della città si era levato il sole.
Lippi disse: «Aspettatevi di trovare i soldati».
«Anche se fosse» disse Metello «noi dobbiamo agire lontano il più possibile dal Cantiere».
La maggior parte dei lavoratori sarebbe giunta al Cantiere, come al solito, risalendo la massicciata che in certo modo lo recintava: era la via più breve, altrimenti si doveva fare il giro dei terreni coltivati e rientrare attraverso il passaggio a livello, non c'era scopo; a cavallo della massicciata si erano battute apposta due piste per i carri, e queste si riallacciavano al piano stradale di via Venti Settembre e del Ponte Rosso. Bastava si mettessero a metà strada tra i due sbocchi, perché chi era diretto al lavoro, gli venisse incontro. Così decisero di fare; intanto avrebbero camminato lungo la massicciata per dare un'occhiata al Cantiere e vedere come si presentasse la situazione.
Renzoni piccolo disse: «Ma se non ci ascoltano, non andrà a finire come jer sera?». Nessuno gli rispose ed egli non volle lasciarli credere d'aver paura. «E' perché a mezzogiorno ho appuntamento con una persona».
Friani lo prese a braccetto: «Ti sta molto a cuore?» gli chiese.
«A parte tutto, capisci? ci trovo un filone di pane con la frittata, e da fumare.... Eppoi, lei starebbe in pensiero».
Si buttò indietro il berretto, si grattò i capelli all'attaccatura e per primo risalì la massicciata e si accorse che il Cantiere era di nuovo presidiato.
«Eccòme se ci sono i soldati!» esclamò. «C'è anche la forza pubblica».
I soldati, una diecina, stavano attorno alle impalancate, fuori la Direzione e all'ingresso del Cantiere. Qui, c'erano i tre uomini in borghese, vestiti di scuro. Quello al centro portava il tubino e teneva sottobraccio la mazza da passeggio.
«Era il meno che ci si potesse aspettare» ripeté il decano.
Ora erano tutti e quattro, l'uno accanto all'altro, in alto sulla massicciata, dominavano il campo, come di cima a un osservatorio o una trincea.
«C'è qualcosa di peggio» disse Metello. «Non li vedete?».
Quasi sotto di loro, c'era Crispi che spengeva un falò attorno al quale lui e i soldati dovevano aver pernottato, e più in là, sulla soglia della Direzione, c'erano l'Ingegnere e Nardini. Ma non era su questo che Metello aveva richiamato la loro attenzione. Più avanti ancora, vicino alla baracca che fungeva da Dormitorio, si vedeva dell'animazione, la porta e la finestra erano spalancate.
«Però» disse il decano «anche questo ci si poteva immaginare».
«Io no» disse Metello. La sua voce era cupa, carica d'amarezza e di rancore. «Non avrei aspettato che facesse giorno, se me lo fossi immaginato»
Essi non arrivavano a distinguere i particolari, ma le figure sì, e i gesti di quegli uomini in maniche di camicia e panciotto che si muovevano tra la finestra e la porta del Dormitorio, e ora si chinavano sui bidoni dell'acqua per lavarsi il viso, ora allineavano degli arnesi e si appoggiavano alla parete. Un pajo infine, si voltarono come richiamati da Nardini il quale aveva lasciato l'Ingegnere e gli faceva cenno con la mano: uno di costoro era Olindo. E tra quelli che preparavano gli arnesi c'era il Tedesco: anche a non esserne certi, bastava la sua corporatura a farlo individuare. Dopo qualche minuto non gli fu difficile riconoscerli uno per uno e capire che avevano dormito in Cantiere e si erano alzati da poco.
«Il che significa che erano già d'accordo con Badolati, se no Crispi non gli apriva la baracca di sicuro» disse Friani.
«Allora?» chiese il piccolo Renzoni.
«Ma che ti ha svegliato a fare, tuo nonno, stamattina?» scattò il decano, e lo sospinse perché si mettesse a camminare.
Uno dietro l'altro, discesero la massicciata, girarono attorno ai terreni coltivati, e raggiunsero il Ponte Rosso, a una cinquantina di metri dal picchetto degli agenti e dei soldati. Nello stesso momento, Nardini incollava un avviso che si sarebbe potuto leggere uguale all'ingresso degli altri Cantieri, cambiavano soltanto i nomi, e che diceva:
«PRIMA DI RIPRENDERE IL LAVORO I DIPENDENTI DI QUESTA IMPRESA SONO TENUTI A SOTTOSCRIVERE LA SEGUENTE DICHIARAZIONE:
1) riconosco eque e legittime e come tali accetto, le tariffe fissate dall'A.C.E. (Associazione Costruttori Edili).
2) Mi impegno per l'avvenire a non partecipare a qualsivoglia manifestazione, promossa della Camera d.L.
LA FIRMA SI METTE IN DIREZIONE.
CHI NON HA INTENZIONE DI FIRMARE PUO' TORNARE A CASA. LA MANO D'OPERA SOTTO ELENCATA, SE PRESENTE, E' DIFFIDATA AD ABBANDONARE IL CANTIERE.
Salani Metello
Donnini Aminta
Lippi Ferdinando.
Detti licenziamenti sono motivati per mancanza di rispetto e ingiurie rivolte al Titolare dell'Impresa (Salani, Donnini) e per vie di fatto nei confronti di un capomastro (Lippi).
LA DIREZIONE
Badolati Ing. Filippo
Firenze, 30 giugno 1902.»
Un'ora dopo, la mano d'opera di Badólati, era al completo davanti al Cantiere, e Crispi avrebbe potuto battere la sirena. Mancava soltanto Bixio Falorni, tornato ai campi e al suo vero mestiere.
CAPITOLO 22.
Il sole sorge dietro l'Incontro e scopre l'Arno all'altezza della Nave. D'estate, alle cinque del mattino, il cielo è chiaro. Lungo le Vie Provinciali, avanzano i barrocci degli ortolani diretti al Mercato, con le ceste delle frutta e delle verdure bagnate di rugiada. Il contado desta la città. Fuori Porta c'è il casotto del Dazio dove la sosta è obbligatoria. Passano i cacciatori, le donne coi panieri delle uova, i renaioli che raggiungono il fiume e s'incrociano coi corrieri, le diligenze, gli alti carri di fieno, di fiaschi, di sacchi di farina. Le campane di San Gàggio e del Madonnone, suonano il mattutino. C'è un folle in velocipede che a quest'ora ha già percorso due volte i Viali di Circonvallazione e le Cascine. E un "globetrotter", farà il giro del mondo, sono anni che si prepara.
«Dài, Tullio, sei solo» gli gridano gli stradini, e quelli della Gabella e i renajoli.
«Mandaci una cartolina da Parigi».
«Dal "Matto" Grosso».
«Dalle Russie, se ci arrivi».
Al coro, si uniscono i lavoratori che giungono sotto Porta, provenienti dai paesi. Essi compajono camminando ai bordi della strada, uno dietro l'altro. Sono facchini di piazza, carradori, infermieri, e soprattutto manovali, badilanti, muratori. Il lunedì costoro formano una coorte, la più parte dorme sui cantieri sei notti la settimana.
Entrano in città, e se dispongono di due soldi si fermano a bere una mescita; poi, tutti, mangeranno almeno del pane, prima di salire sui ponti. Questo lo chiamano: concimare lo stomaco. Certuni, accompagnano il pane con dell'uva: è probabile l'abbiano rapinata strada facendo, saltando in un campo dove non è cintato. Sono i più giovani, ai quali non importa se c'è da attaccar briga di levata o da rischiare le fucilate dei contadini. Un grappolo, due, lo stretto necessario.
La città gli viene incontro con le botteghe odorose di vino, di polenta fritta, di trippa scodellata, di schiacciata all'olio, di pandiramerino. Escono di chiesa le beghine, è un effluvio d'incenso. E' buono anche l'odore degli stallaggi, e di tutti quei fiori sotto le Logge. Essi scoprono sempre qualcosa di nuovo, entrando in città, all'inizio della settimana, con la ruota del pane nel fazzoletto colorato, e indosso la biancheria pulita. Cosa? Non lo saprebbero dire, è una speranza, l'aria sembra far loro delle promesse. Gli piace la ragazza che scuote i lenzuoli al davanzale, il cane randagio che per un po' gli si mette dietro. Vicino ai Cantieri si incontrano coi compagni di lavoro che abitano in città e più spesso leggono il giornale. Sono per questo più aperti di mente, i cittadini? Fanno insieme l'ultimo tratto di strada, e non c'è differenza, sono pari a pari. Semmai, essere di città significa avere più bisogni, più tentazioni e più pensieri. Chi si ferma all'edicola a compitare il sommario della "Nazione", chi all'orinatojo. Sputano innanzi a sé, e guardano il cielo. Sarà una giornata afosa, lo si indovina dalla compatezza del cielo e perché non c'è la brezza che di solito, all'alba, scende dalle colline. Essi si accorgono di essere digià sudati, e non hanno ancora preso in mano gli arnesi. Quando salgono sui «ponti», ogni volta, la speranza si è dileguata. Cotesta mattina, nemmeno attraversando la città, essa gli sorrideva. Da un mese e mezzo era un'altra vita. E per quanto i proverbi non bastino a consolare, essi si dicevano che davvero: Peggio non muore mai. Ancora un mese e mezzo avanti, in una mattina come quella, si sarebbero sentiti lo stesso poveri ma felici. O almeno gli sembrava. Avrebbero scherzato con le ovajole, qualcuna ce n'era che a stargli dietro si sarebbe lasciata covare, era già accaduto, se n'era fatto un gran parlare; avrebbero dato la baja al giramondo che non si decideva mai a partire, e con gli ultimi centesimi, se li avessero avuti, bevuto mezza mescita al banco di Nocellino. Tutte cose che parevano tramontate.
La sera prima erano scappati all'arrivo dei soldati avevano preso la strada di casa senza voltarsi indietro. Quindi, digiuni da ventiquattro ore, avevano cenato con la panzanella, cercando di non guardare in faccia la moglie e i figlioli, mentre facevano le porzioni.
Avevano detto: «Forse domani si riattacca a lavorare». Essi non sapevano dell'arresto di Del Buono, né di Aminta finito all'Ospedale, nulla, se non che alcuni non erano tornati a casa come loro: non era tornato Olindo a Rincine e non era tornato Friani al Galluzzo; e che di certo, in prossimità dei Cantieri, avrebbero incontrato coloro ch'eran decisi a continuare lo sciopero. Si sarebbe perso il lume degli occhi, come jer sera? Ormai, tutto era stato detto e dimostrato. E siccome la verità non è mai una sola, questa si presentava con tre facce.
C'era la verità di Aminta.
C'era la verità di Olindo e del Tedesco.
E c'era quella di Del Buono.
Scegliere non era difficile, solo che avessero ascoltato la ragione: le parole del Tedesco erano state «le più giudiziose e le più umane». Così, erano giunti in prossimità dei Cantieri, e dietro di sé, nelle case, ciascuno aveva lasciato, grande o piccina, una famiglia i cui sguardi lo sospingevano come tanti pugnali appoggiati alla schiena.
Ma arrivati al quadrivio del Ponte Rosso, e già l'alba cedeva al primo mattino, la loro decisione, qualunque essa fosse, venne a scontrarsi con una realtà inaspettata. Dapprima, la notizia degli arresti, poi l'avviso che trovarono all'ingresso del Cantiere, e i soldati e gli agenti, e quei loro compagni infine, i crumiri, che li avevano preceduti al di là delle impalancate. Non si trattava più di scegliere e di sottoscrivere una resa senza condizioni: a questo, come alla presenza dei militari, erano preparati. Gli si chiedeva di riconoscere equa e legittima, insieme alle tariffe, l'incarcerazione di Del Buono, di Leopoldo e degli altri, forse la loro condanna. Quindi, la chiusura della Camera del Lavoro; e più ancora, il licenziamento, «la fame assicurata», per i Delegati di Cantiere e per coloro che maggiormente si erano esposti nel discutere coi Padroni.
Ora, presi singolarmente, poteva darsi che anche di fronte a ciò, pure inghiottendo fiele, la più parte, venissero di campagna o di città, avrebbero capitolato. C'è sempre un'alba ch'è in certo modo l'alba dell'Orto degli Olivi: accade una e cento volte nella vita di un uomo, il gallo canta e non sempre ce ne accorgiamo. Ma i Gruppi dei Ventuno, li avevano fermati davanti ai Cantieri, si erano rinnovate le discussioni, e i consensi e i dinieghi. Poi, quando i caporali ebbero battuto la sirena, si erano avviati e avevano letto l'avviso. Essi leggevano, uno leggeva per tutti, e istintivamente più che obbedendo all'ordine del sottufficiale, i soldatini si erano portati al centro dello sterrato, con l'intenzione adesso, sembrava, di accerchiarli.
Allora, il timore, invece di spingerli in avanti, li aveva fatti indietreggiare.
Nell'interno del Cantiere Badolati, il questurino in bombetta si appoggiò al bastone che gli arrivava alla pancia e disse:
«Uno alla volta, l'Ingegnere vi aspetta in Direzione. Chi non sa scrivere, basterà metta una croce».
Cavò di tasca un foglio.
«Salani, Lippi, Donnini: ci sono?».
La domanda cadde nel silenzio, tale da poterne sentire l'eco.
Come per un piano bello e combinato, si disse in seguito. I muratori indietreggiarono, fino all'altezza della massicciata, si disposero in fila, spiegandosi, senza volere, ai due lati di Metello e del decano. Quei soldati guardarono il sottufficiale che allargò le gambe come per puntellarsi sui talloni.
Il silenzio divenne anche più fondo; e fanciullescamente, il piccolo Renzoni si aspettò di udire il ronzìo di un moscon d'oro.
«Non c'è nessuno di questi tre?» ripeté il Delegato.
Nemmeno Crispi trovò il coraggio di intervenire; girò alle spalle degli agenti e si infilò dentro la Direzione.
Ora, Olindo, e i suoi sette compagni, avevano fatto mucchio davanti al Dormitorio, parevano assistere alla scena, uno di sull'omero dell'altro. Il Tedesco teneva le braccia conserte e masticava il suo filo d'erba, d'avena.
«A che gioco giochiamo?» disse il Delegato, ma senza gridare.
La sua voce era dura, ostile, sicura di esprimere un'intimidazione. Non meridionale, ma ligure o piemontese, qualcosa di simile, tuttavia Metello poteva dire di riconoscerla: era la stessa voce con cui aveva avuto a che fare fin dalla sua prima esperienza di guardina, all'indomani della scomparsa di Betto. Invece di paura metteva addosso dell'ardire.
«Ho posto una domanda». E, il bastone sotto il braccio, avanzò di qualche passo verso gli uomini fattisi a ridosso della massicciata.
Fu a questo punto che Metello rispose.
«Donnini è assente, si trova all'Ospedale. o dovrebbe sapere».
«So che ce l'avete mandato voialtri. Forse proprio tu. Chi sei?».
«Salani Metello, già»
«Bene, e uno. L'altro, il terzo, venga fuori. C'è?».
«Sicuro che ci sono» esclamò il decano, fece per alzarsi, e Metello dové toccargli il braccio perché non aggiungesse parola.
Da qualche istante, sulla soglia della Direzione era apparso l'Ingegnere, anch'egli scortato alle spalle da Crispi e da Nardini. Indossava la giacca d'alpagà, i calzoni di fustagno, la sua divisa; teneva il cappello di paglia alzato sulla fronte, e masticava la cicca di toscano. Il suo volto, scuro per via del sole preso sulle aie durante la trebbiatura, aveva un'espressione anche più tetra, che non gli si era mai vista. Sembrava un toro trafitto, ma saldo sulle zampe, e immobile al centro dell'arena, «come la volta che al Campo di Marte vennero gli spagnoli a rappresentare la corrida», si disse poi. C'era da stupirsi di non vederlo armato. Nondimeno, sorprese ciò che disse, e il tono delle sue parole, in certo senso conciliante, mentre gli agenti stavano per posare le mani su Metello e sul decano.
«Aspetti, Delegato, senta, prima che lei proceda vorrei dirle qualcosa. Anche a lei, maresciallo, per favore».
Era un tono che poteva sottintendere il desiderio di non aggravare maggiormente le cose, oppure la decisione di spingerle alle conseguenze estreme. Rientrando in Direzione, dopo aver fatto strada al poliziotto e al sottufficiale, gettò la cicca, e questo, nel silenzio che era tornato a dominare la scena, sembrò un gesto di sfida. Crispi chiuse la porta alle sue spalle, poi raccolse la cicca, la spense, la ripose nel taschino e andò a sedersi su una capra di legno, al fianco di Nardini. Ora i soldati, su due file di cinque, faccia alla massicciata, tenevano il pollice sulla cinghia dei fucili. Tutt'attorno pesava questo silenzio, questa immobilità e questa attesa. Al di là degli orti, dov'era la ferrovia, transitò un merci: il fischio e il fumo della locomotiva, parvero durare un tempo infinito nell'aria. Quindi, i sette rimasti fino allora a ridosso del Dormitorio, in disparte e isolati, si mossero, lentamente, col Tedesco che li precedeva, per avvicinarsi a Crispi e a Nardini. Pochi passi li dividevano, e tuttavia, a metà del loro cammino, e come cogliendoli allo scoperto, si alzò un grido:
«Crumiri!».
Un mugghio gli fece eco.
Nessuno si era spostato nella lunga fila degli uomini addossati alla massicciata, fu come se quel grido e il consenso che l'aveva seguito, non fossero partiti dalle labbra di Duili e di tutti loro. Il decano borbottò:
«Non perdiamo la testa. Quei ragazzi hanno in mano un fucile, e una paura addosso, più grande di quella dei crumiri e della nostra messe insieme».
Ma soltanto il piccolo Renzoni, che gli era vicino, poté udirlo, e sorridere, strizzando gli occhi.
Loro, i crumiri, come Duili li aveva chiamati, si erano fermati un attimo, e guardati l'un l'altro, poi, il Tedesco: «Vergognatevi voi!» aveva gridato. «Non vi volete bene, se agite in questo modo. Né voi né ai vostri».
Ancora, nessuno si mosse e nessuno gli rispose. Gli agenti gli si avvicinarono intimandogli di tacere; essi tornarono verso il Dormitorio. Olindo sembrava volersi nascondere, ora dietro questo ora dietro quello dei suoi compagni; seppure a distanza, non si era potuto vedere il suo viso. Metello, tratteneva la lingua tra i denti, e come aveva fatto poco prima col decano, ora aveva posato la mano sul braccio di Duili.
Dall'alto della massicciata, veniva giù un calessino. Lo guidava il nipote dell'Ingegnere, e accanto a lui, c'era il figliolo di Madii. Lo riconobbero mentre si scostavano per lasciar passare il cavallo.
«Buonalana anche quello» commentò il decano. «Me lo ricordo bambino, quando suo padre lo portava con' sé, la domenica, al Gioco del Pallone».
I due giovani affidarono il calesse a Crispi, ed entrarono in Direzione.
«Allora il Pallone non era alla Croce, era in Borgo Pinti, si chiamava la Ghiacciaia...».
«Lo so, Lippi, lo sappiamo tutti» scattò Metello. «Tu ci frastorni con certe storie».
Ma il decano non era uomo da farsi togliere la parola; cambiò argomento, e fu un modo di continuare il proprio discorso, e di rientrare in tema. Disse:
«La verità è che i Padroni sono d'accordo, e noi siamo divisi».
«Ti torna nuovo?».
«No, mi torna vecchio di sessant'anni. Anzi, di sessantuno».
«Ma non era mai successo che si fosse in tanti come oggi, tutti dalla parte buona» disse Duili.
«Già...» disse il decano. Aveva alzato gli occhi alle impalancate ed anche il suo pensiero deviò. «E pensare che in tanti quanti siamo, si sarebbe digià coperto il tetto, e dato mano a un altro stabile».
Erano tutti lì, invece, e si fronteggiavano. Una volta di più i Padroni avevano aperto una breccia tra le loro file. Questo il vecchio avrebbe voluto dire. Sette erano aggruppati vicino al Dormitorio, ed essi, i più, di spalle alla massicciata, in una lunga fila, seduti sui talloni, su un sasso, o con le mani dietro la schiena. In mezzo, c'erano i soldati coi fucili ad armacollo, e davanti alla Direzione, c'erano i caporali e gli agenti. Lassù, il cielo era tutto azzurro, il sole batteva fino a metà della fabbrica in costruzione, suonò la campana di Montughi, e al di là dei prati, si vedeva il casellante che rialzava le sbarre del passaggio a livello.
Il decano disse:
«Sentite ve'. Qualunque cosa decidano quei cinque là dentro, ciascuno si comporti come crede. Io ho abbastanza anni, non voglio morire con dei rimorsi». Si era levato in piedi, si appoggiava con la mano alla massicciata. «Non c'è nemmeno Del Buono che ci può consigliare». Divagò: «A quest'ora, se li hanno messi insieme, lui e Poldino, staranno a far la conta per chi deve sedersi per primo sul buriolo». Poi riprese. «Io non mi ritiro, ma avanti di arrivare al peggio perdavvero, pensateci bene tutti. Quei fucili, in mano a quei figlioli, mi fanno velo agli occhi». Quindi si rivolse a Metello: «Tu non sei del mio parere? Pronùnciati: non conviene più buttar l'olio sul fuoco».
«Ti viene meno la fede?» Metello disse.
«Mi viene meno» replicò il decano, e bestemmiò. «Mi viene meno l'incoscienza».
«E allora, vai, torna a casa, dal momento che sei stato licenziato».
«Ma anche tu sei stato licenziato, come me. E questa gente» indicava col dito la fila dei compagni che ora aveva di fronte: tante facce, la più parte attente, sorprese, che cercavano di capire. «Questa gente, novanta su cento, se non torna sul lavoro, non lo fa perché ha in animo di continuare lo sciopero, né per tirar fuori Bastiano e Poldino dalle Murate, questa forza nessuno la può avere. Se non tornano sul lavoro, non ci tornano per difendere proprio te, e me, e quel disgraziato di Aminta. Io li ringrazio tutti. Vi ringrazio tutti» disse «ma abbiamo addosso i fucili, eccoli lì. E io questa responsabilità non me la voglio pigliare. Se non trovo lavoro, vo a fare erba e la cuocio, sembra che ai vecchi mangiar poco faccia bene...».
Ora si, aspettava che Metello lo interrompesse, magari per dargli torto, si sarebbe aperta nuovamente la discussione, ma fu Duili a togliergli la parola:
«Stai dicendo 'calma' agli altri da stamani. Càlmati te».
Il decano si appoggiò di schiena alla massicciata, tra Friani e il piccolo Renzoni. «Io resto qui. Ma ho voluto togliermi questo peso».
E non poté trattenersi dal ripetere ancora: «Tu, Metello, non hai proprio nulla da dire?».
Metello, appoggiava il piede sul sasso sopra cui sedeva, e con le mani intrecciate si sorreggeva lo stinco. Senza voltarsi, ma a voce alta perché tutti lo potessero sentire, e non c'era adesso chi non gli richiedesse intimamente di parlare, disse:
«Un mese e mezzo fa, a Monterivecchi, si fu tutti d'accordo a incominciare questo sciopero, e nessuno si nascondeva i sacrifici a cui si sarebbe andati incontro. Miseria per miseria, si disse, proviamoci, sono salari di fame, non se ne può più, se andrà bene si sarà fatto un passo avanti. E' vero o no? E che si dovesse resistere il più a lungo possibile, non fu tanto Del Buono a dirlo, quanto uno per uno, tutti quanti siamo. Ragionpercui, arrendersi proprio oggi che siamo sul punto di averla vinta, mi sembra uno sproposito. E' inutile ripigliare daccapo la discussione. Del Buono si trova alle Murate, e non lui solo. I soldi della sottoscrizione stanno per arrivare. In più, tutti gli iscritti alla Camera del Lavoro, di qualsiasi mestiere e arte, sono pronti a darci una mano. Questi sono fatti accertati. Si tratta di digiunare un altro pajo di giorni. Non è poco, lo so, ma una luce ora c'è, la si vede, non si va più alla cieca come ventiquattr'ore fa. Tuttavia, se, come diceva Lippi, invece che per queste considerazioni, vojaltri non tornate sul lavoro per un riguardo verso di me, verso di lui, e verso Aminta, anche io, per conto mio, vi libero da questa gentilezza. Chi vuole, non abbia scrupoli: metta la firma, si leghi il sasso al collo e festa finita».
«E tu, hai finito?» gli chiese Friani.
«No, voglio dare un'altra spiegazione».
Parlando sceglieva le parole, appunto perché voleva che esse avessero un senso preciso, e non si prestassero, in seguito, a delle recriminazioni. Il suo temperamento di uomo cresciuto tra le ottusità e le sottigliezze della gente contadina, e via via affinatosi nelle diverse esperienze che la vita e il lavoro in città gli avevano offerto; la sua intelligenza modesta ma quadrata, la sua generosità e la sua furbizia; la coscienza, infine, delle proprie idee che egli era sicuro di avere acquisito, facevano la loro grande prova. Egli capiva che, come un mese prima, quando era avvenuto lo scontro con Badolati, i suoi compagni si aspettavano un esempio; e di doversi caricare per tutti loro, del peso di cui anche il decano si era voluto disfare. La solidarietà ch'essi gli stavano prestando, lo rendeva maggiormente responsabile del destino comune e più immediato. E che tra i pochi digià passati dall'altra parte della barricata ci fosse Olindo, ora, invece di amareggiarlo, lo eccitava. Era guardando avanti a sé, al di là dei soldati e degli agenti, e cercando di individuare Olindo tra il gruppetto dei crumiri, che parlava. Dondolando appena col busto, e reggendosi la gamba, continuò:
«Io vi dispenso da sacrificarvi per me, se questo, oltre ad essere un sacrificio dal punto di vista del mangiare, vi sembra un sacrificio anche agli occhi della mente. Perché, datemi dello zuccone e dell'ingrato, ma secondo me, non mettere quella firma è nel vostro interesse».
Si portò una mano alla faccia e se la passò sulla bocca e sul mento; si riversò un poco indietro, e guardò da una parte e dall'altra, i suoi compagni che gli stavano attorno e in fila.
Il primo a rispondergli fu Duili, disse: «Sei davvero un ingrato, ma hai ragione».
Gli altri, tutti, sembrarono assentire, forse più d'uno si preparava a rispondere, faceva posto a un pensiero prima di esprimerlo.
Il decano disse: «Voglio vedere come ti comporti, ora che quelli escono di Direzione».
Metello si era rivolto a Friani: «Tu cosa volevi dire?».
Friani scosse la testa e accennò un sorriso: «Una cosa sola: che non metterei la firma nemmeno dopo che mi avessero tagliato tutte e due le mani. Ma proprio per le ragioni che hai portato, non diventerò mai socialista, e resterò anarchico tutta la vita».
Come coloro che avrebbero voluto interloquire anche loro, Metello non potè rispondergli. L'Ingegnere e il suo seguito stavano uscendo di Direzione. Badolati parlava al nipote e al figlio di Madii che risalirono sul calessino. Metello ebbe un'idea: chiamò il piccolo Renzoni, gli disse: «Scappa, va' a vedere come stanno le cose al Cantiere di Madii, e se sanno nulla degli altri. Mettiti le gambe in collo, torna più presto che puoi».
Renzoni piccolo risalì la massicciata aiutandosi con le mani, e si precipitò dall'altra parte del Lungomugnone, sempre correndo raggiunse Ponte Rosso, e pareva che, non volendo, il calessino, ora, lo inseguisse. Prima ch'egli fosse di ritorno, apportatore di una grande notizia, così gli sarebbe sembrato, sullo sterrato prospicente le impalancate del Cantiere Badolati, qualcosa doveva ancora accadere. Ciascuno di quegli uomini avrebbe dato la misura del proprio animo.
L'Ingegnere avanzò, col questurino in bombetta e il sottufficiale che gli facevano ala e che si arrestarono a qualche passo di distanza. Gli uomini erano in piedi, l'uno accanto all'altro, i pollici nei taschini del panciotto. Ora il sole metteva allo scoperto tutto lo sterrato, e via via ingoiando l'ombra, era arrivato sotto la massicciata: essi lo avevano alle spalle, mentre Badolati ne era investito in pieno. Giunto al di là della striscia d'ombra, si era tirato il cappello sulla fronte spingendolo dalla nuca. Quindi, le mani dietro la schiena, più ingobbito del solito, disse:
«Ma vi ha proprio dato di balta il cervello?».
Accennò col mento, ora il maresciallo ora il questurino, alzò la testa verso le impalancate.
«Scomodare l'Esercito e la Questura, e intanto i lavori stanno lì ad arrugginire».
Tacque, sembrò riprendere fiato o sospirare.
«Non crediate che vi parli così perché ho intenzione di calar le brache. Vorrei soltanto sapere cosa debbo pensare. Se c'è qualcuno disposto a spiegarmelo, mi fa un piacere».
Lo guardavano, in silenzio; ed egli vedeva cotesti occhi che gli facevano muro; capì che la breccia aperta da quei sette che avevano trascorso la notte nel Dormitorio, si era richiusa.
«Rispondimi te, Lippi, che sei il più vecchio».
Lippi si tolse di bocca il cannuccio della pipa, infastidito che gli toccasse questo privilegio. Nondimeno, era pur sempre il decano, e parve dimenticarsi d'un tratto dei propositi espressi qualche minuto prima, siccome disse:
«Si rivolge a me? O non mi aveva licenziato?».
«Bastava tu venissi in Direzione, e tutto si sarebbe chiarito».
«Questo sull'avviso non c'era scritto».
«Eppure mi conosci... da quanti anni?».
«Una trentina, anche di più. Ho lavorato da manovale con suo padre».
«E dunque? Ti resulta che quando qualcuno mi ha chiesto di venirgli incontro, io l'ho lasciato morir di fame?».
Qui, Lippi, sempre più insofferente, e col sangue che gli saliva alla testa, disse qualcosa che davvero, sul momento, avrebbe potuto rendere la situazione anche più tesa.
«Crispi non ci si doveva più trovare, e invece c'è».
«C'è perché ci deve essere».
«Ecco, lo vede? E sa cosa le dico? Anzi, non le dico nulla, le chiedo se non le sembra di deviare?».
L'Ingegnere gli si avvicinò di un passo, entrò nella striscia d'ombra, e faccia a faccia, le mani sempre dietro la schiena:
«Io non devio, Lippi, io ho sempre seguito una linea. Siete voialtri che avete sconfinato».
Il decano sostenne il suo sguardo, sembrò scandire le parole, la pipa alzata all'altezza del proprio viso, e agitandola di qua e di là, dalle due parti della fila:
«Questa, Ingegnere, è un'altra generazione» disse. «Mi permetta di spendere due parole. Quando ero giovane io, gli Imprenditori come lei, mandavano i caporali ad ingaggiarci. Noi si stava in fila davanti al Loggiato di Piazza della Signoria, dov'erano le Poste, e si aspettava. Come delle puttane, proprio. Si portava ancora il grembiulino alla vita, se ne ricorda? Era la nostra divisa di lavoro.... E c'era sempre chi si offriva per meno, ci si rubava la fatica l'uno con l'altro». Sembrò commuoversi di se stesso, e di ribellarsene, subito concluse: «Questa è un'altra generazione. L'ho capito io che non so né leggere né scrivere, possibile non l'abbia capito lei che ha studiato?».
«Allora c'era più rispetto, Lippi, e c'era meno lavoro» disse l'Ingegnere.
«Può darsi, ma mi lasci perdere, la prego». Lentamente si sedé su una pila di mattoni. «Io ho già rappresentato la mia parte in commedia».
Egli sedutosi, nella fila rimase come un vuoto, e cotesto vuoto, idealmente, sembrò riempirlo l'Ingegnere. Metello gli era accanto, e lo guardava. Badolati fu sul punto di rivolgergli la parola, ma si trattenne, ostentando di volerlo ignorare, come aveva fatto fino ad allora. Gli voltò le spalle e risalì la fila.
Come alle Cascine, durante la rivista, il giorno dello Statuto, si disse poi. L'Ingegnere sembrava il Generale, e non aveva l'aria di distribuire degli encomi, ma piuttosto di decidere una decimazione.
«Perché lo sappiate, dalla Lucchesia e dalle Calabrie, dove non c'è il lavoro che c'è qui, sono pronti a trasferirsi a Firenze, diecine e centinaja di muratori e manovali. Non fanno questione di tariffe, gli basta trovar da lavorare. Ora, uno per uno, mi dovete dire se questa è la vostra ultima decisione».
A capo della fila c'era Ugo Parigi. Era stato fornaciajo, e di ritorno dal servizio militare, due o tre anni prima, non avendo più trovato il suo posto, per simpatia diciamo, era venuto sui Cantieri. Era un ragazzo pieno di vita, suonava la cornetta nella Filarmonica delle Caldine, stava per diventare mezzomuratore, quest'inverno si sarebbe dovuto sposare, durante lo sciopero si era mangiato i primi risparmi destinati al letto e all'armadio. Amico di tutti, dove andavano i più, andava lui.
«Tu?» gli chiese l'Ingegnere.
«Io faccio quello che fanno gli altri».
«Gli altri sono anche quelli là che la firma l'hanno messa da jeri sera».
«Io dico gli altri questi, gli altri noi» precisò Parigi. «Quelli di questa fila».
«Non ci siamo intesi. Voglio conoscere la tua opinione personale. Sei un uomo, non una bestia, ne avrai una».
Parigi si strinse nelle spalle, guardò istintivamente verso Metello.
«Guarda me, non guardare altrove».
«Ma» disse l'ex fornaciajo «dal momento che mi trovo in questa fila...».
«Sicché posso anche sostituirti con un napoletano o con un lucchese?».
«Se le sembra che questo sia ragionevole».
«Perdio se è ragionevole... E tu?».
Il secondo era Duili.
«Si è chiesto sei, quattro e tre soldi di più all'ora. Perché lei non ci ha detto: ragazzi vi do la metà, vi do un terzo, vi do un diecino? Né lei né gli altri Impresari sareste andati alla rovina».
«Vi mandiamo, ma vojaltri, alla rovina».
«Purtroppo, noi ci siamo stabili» replicò Duili. «Ma è che dalla rovina siamo passati alla disperazione. E' una brutta bestia, Ingegnere».
Il sole aveva risalito la massicciata e invaso tutta la scena; l'Ingegnere si alzò il cappello sulla fronte, e disse:
«Vi ho chiesto un sì o un no, non dei paragoni. Tu» disse al terzo; e la forza del discorso lo indusse a far dell'ironia: «Se non c'era da mettere la firma, saresti già sui ponti, oppure no?».
Era Santino, che aveva Don Albertario dentro il cuore, senza esitazioni rispose:
«Ora non è più questione».
«Cioè?».
«Quei licenziamenti lei li dovrebbe ritirare. Vede, io a casa ho la donna e un bambino, non sono ancora mezzomuratore, per cui c'è poco da scialare. Lei, anche lei è un cristiano. E quelli che intende licenziare, lo stesso sono dei cristiani e hanno una famiglia...». S'impappinò, disse: «Ora io non so parlare, ma se loro hanno sbagliato, non hanno sbagliato più di quanto non si sia sbagliato noi».
Un muro, le parole calcinavano gli sguardi, Badolati ci cozzava contro, e fosse il sole, fosse il sangue che anche a lui saliva alla testa, si sentiva la fronte imperlata di sudore, e più acuto il formicolio dalla parte del cuore, che da qualche tempo lo tormentava. Non trovò che rispondere (o non volle) allo sfogo del Santino. Andò avanti di un passo.
«E tu?» chiese al quarto della fila.
Era il muratore fiesolano che chiamavano Pomero per via dei suoi capelli rossi; mosse il capo per indicare il Santino e rispose:
«Come lui, come ha detto lui».
Le parole del Santino, le più proprie, avevano sopito l'orgasmo in cui si dibattevano coloro che seguitavano la fila. Da quel momento, affrontare Badolati, e sostenere il suo sguardo e rispondere con sufficiente persuasione alla sua domanda, divenne più facile per tutti. Il Padrone voleva costringerli ad assumere una posizione che li avrebbe scoperti e fatti individuare una volta per sempre, mentre ripetere ciò che aveva detto il Santino e che coincideva con lo stato d'animo comune, gli permetteva di trincerarsi ancora dietro una responsabilità collettiva, non tradirsi e non tradire. Ora, via via che Badolati risaliva la fila, il muro, proprio là dove nell'interno i mattoni erano più vuoti, risuonava come calcare.
«E tu?».
«Come lui».
«E tu?».
«Come lui».
«E tu?».
«Come ha detto il Santino, cioè Meoni».
«Come il Pornero».
«Come lui».
Fu la volta di Friani che rispose: «Lei, Ingegnere, è un uomo che conosce il suo mestiere, perché non si limita a firmare i contratti e dirigere i lavori? Le lasci fare ai suoi servi queste figure».
Badolati lo fulminò, stringeva i denti e ansimava, per via del caldo, di quel dolore dalla parte del cuore. Friani gli sorrise:
«Lei si fa cattivo sangue e scade di prestigio. Glielo dico perché la stimo. In quanto al resto, non avrei nessun interesse. Sono digiuno da quarantotto ore e ho dormito su una panchina».
«Non so chi vi dia tanto coraggio» disse Badolati.
E il decano, a cui si era ritrovato nuovamente vicino, seduto com'era, ripeté:
«E' un'altra generazione. Noi si era buoni a farci legare. Ne mettevano dentro una mezza dozzina, e tutto era finito».
Badolati prese il fazzoletto di tasca e se lo passò sulle labbra, sulla fronte e dietro il collo. Ora si trovava a faccia a faccia con Metello, al di là del quale la fila si prolungava di un'altra diecina di uomini.
Più avanti, c'erano gli orti; quei contadini che presto sarebbero stati sloggiati dalle nuove costruzioni, erano venuti sotto la rete e assistevano alla scena. Nel silenzio, si udirono le cicale, poi il fischio del treno, e abbajò un cane: gli rispose il lupo di Crispi, tenuto a catena.
«Vieni con me, Salani, ti voglio parlare».
Metello guardò attorno i compagni, come per chiedere a ciascuno di loro un tacito consenso; Friani disse:
«Sta' attento, può essere un tranello per isolarti e farti ammanettare».
Sarebbe capace, egli pensò. La giacca che aveva sulle spalle gli era scivolata di lato, fermarsi gli venne naturale.
«Noi non abbiamo segreti».
«Segreta è la fame» disse Duili.
E il decano: «La fame, la sifilide e la paura». «Dacché siamo scioperanti, è la terza volta che lei ci tiene un discorso» Metello disse. «Ma i discorsi non portan pane».
Badolati si voltò, scosse la testa e incrociò le braccia. Quindi cavò dal taschino mezzo toscano, e prima di rispondergli l'accese: un fiammifero gli si spense mentre lo sfregava, un altro quando il sigaro non aveva ancora preso. Il poliziotto in bombetta e i due agenti si erano avvicinati; lentamente, ma al largo, anche il gruppo dei crumiri era avanzato, parallelo al plotone dei soldati. Quei contadini si portarono innanzi di qualche passo, rasente la rete. Badolati si tolse il sigaro di bocca e disse:
«Se il Brigadiere non ti ha costretto a sloggiare, è perché gliel'ho chiesto io come un piacere, spero che questo tu l'abbia capito. E allora, perché non ti fidi?».
«Di lei sì mi fido. Quello che ha detto Friani è anche la mia opinione. Ma è dei suoi interessi che ho paura».
«I miei interessi vi hanno sempre dato da mangiare».
«Poco, se no non ci si troverebbe a questi ferri».
Erano due uomini ugualmente carichi di odio e capaci di uccidersi l'un l'altro se avessero potuto; d'altronde, si conoscevano troppo bene per potersi disprezzare. Uno teneva il coltello dalla parte dell'impugnatura, l'altro lo stringeva a metà della lama, questa era la differenza.
«Sei una carogna, Salani».
«Uguale a mio suocero, me l'ha digià detto tempo fa».
«Non uguale, peggio».
«Ci credo. Mio suocero era d'una pasta diversa dalla mia. Fosse ancora vivo, non gli legherei le scarpe. Ma è morto, e se ne rammenta come?».
«Misura le parole, te ne potresti pentire».
«Era questo che mi voleva dire? Speravo mi volesse parlare di come mettersi d'accordo per trovare una via d'uscita. Lei crede che per noi sia un divertimento? Ci tremano le mani dalla disperazione».
Un mormorio percorse le file degli uomini ridosso alla massicciata; e senza volerlo, sull'empito di cotesto consenso, Metello stava alzando la voce; si tratteneva la giacca ai risvolti, ed era come proteso verso l'Ingegnere.
«Ci passa gli occhi a vedere il lavoro lasciato in tronco, quanto a lei! Lei è quasi sempre sui ponti con noi, ci conosce, lo sa se fatichiamo. Si metta una mano sulla coscienza. Abbiamo chiesto una miseria e negarcela fino a questo punto, significa proprio non aver cuore».
Non fu Badolati a rispondergli, ma il Tedesco, di mezzo al gruppo dei crumiri dove si trovava, qualche passo lontano.
«E vojaltri, non avreste più dignità a tornare sul lavoro?».
Olindo gli fece eco:
«Non se ne può più Metello. Basta col provocare».
Volarono gli insulti, anticipando la scazzottata, la rissa, i colpi di pistola, la fucileria.
«Vagabondi».
«Crumiri».
«Delinquenti».
«Ladri».
Tutto accadde nel giro di secondi, il tempo che uno stormo di rondini volteggiò sopra le impalancate e si disperse dalla parte della Ferrovia.
CAPITOLO 23.
C'è ancora da chiedersi come non accadde la strage. Un miracolo si disse poi. La fortuna, il caso, la mano del Padre Eterno disse Santino.
Lippi e Friani si erano mossi per primi, diretti su Olindo e sul Tedesco; gli agenti e il Comandante dei soldati avevano cavato le pistole. Nardini disarmò Crispi di sorpresa, scattando nell'istante medesimo in cui l'Ingegnere urlava: «Fermalo, quel dannato». Intanto, Metello cercava di arginare la più parte dei compagni lanciatisi contro i crumiri; riuscì a trattenere Duili e Parigi, piegandogli le braccia. Così si accese la mischia.
Friani e il Tedesco, sgambettatisi a vicenda, lottavano per terra: ora il Tedesco, inchiodato l'avversario col ginocchio sul petto, lo schiaffeggiava. Santino aveva immobilizzato Lippi abbracciandolo alla vita: Olindo, liberatosi dall'assalto del decano, tentò di fuggire, ma gli furono addosso in due, in tre, in cinque, lo sommersero sotto i pugni, gli insulti e gli sputi. Come la sera avanti in Piazza Cavalleggeri, si disse.
Ma questa volta, i militari erano armati: una scarica di fucileria mise in fuga le rondini e agghiacciò coloro che si colluttavano sullo sterrato. Si era sparato in aria o rasente le teste? Da cotesto momento, tre furono in seguito le versioni: quella dei muratori, quella dei questurini e quella dei soldati. L'Ingegnere, lui avrebbe sempre ripetuto che tutto era successo in un modo così rapido e confuso da non potercisi raccapezzare.
Certo è che dopo la scarica di fucileria, la rissa era sedata; i muratori avevano abbassato le mani o si erano rialzati, spolverandosi i vestiti, borbottando delle maledizioni. Quindi, fosse l'istinto di conservazione, la paura, o una solidarietà spontaneamente ritrovata, strettisi l'uno all'altro, gli scioperanti e i crumiri, formavano un gruppo solo. In mezzo a loro, il decano era l'unico a restar seduto per terra, le gambe distese e la testa tra le mani, mormorava: «Si perde il lume degli occhi qualunque sia l'età, e non si dovrebbe». Il giovane Parigi si piegò sui calcagni, per essergli vicino. Ora i militari, su due file di cinque, come per una vera e propria fucilazione si disse, tenevano i moschetti puntati.
«Ma siete pazzi a sparare?» aveva gridato il Tedesco.
Era avanzato di un passo, e dietro di lui, sembrò che un po' tutti muovessero incontro ai militari, agli agenti, all'Ingegnere e ai due caporali, accosto anche essi, quasi sulla stessa linea.
Metello stava a fianco del Tedesco, disse: «Non siamo dei banditi, c'è salito il sangue alla testa. Ora è tutto finito, voi non c'entrate».
Friani gridò: «Avete i calli alle mani come noi, militari. Siete degli uomini liberi, non vi fate comandare».
Grida, pugni chiusi e protesi, sostennero le sue parole.
«Vi do tempo fino a tre per tornare indietro» gli intimò il Delegato. Come lui, gli agenti e il sottufficiale avevano tolto la sicura alla pistola. Aggiunse: «Vi trovate subito d'accordo quando c'è da ribellarsi alla forza pubblica, farabutti».
Qui intervenne l'Ingegnere, si asciugava il sudore sulla fronte e sul collo. «E' la prima volta che succedono di queste cose sul mio Cantiere».
Si mosse Nardini, fece per raggiungere il gruppo dei lavoratori: «Smettiamola ragazzi, non è stato nulla, via». Ma il Delegato lo fermò, impedendogli il passo col braccio, con la stessa mano in cui teneva la pistola. «Lei resti qui».
Metello disse: «Lo sappiamo, Nardini, che tu sei una brava persona. La figura del caporale non ti si addice».
«E' per il bene comune» gli rispose Nardini.
Il Tedesco disse: «Ma naturale!» e portato dalle proprie parole, passò un braccio attorno alle spalle di Metello, lo sospinse accanto a sé, e verso coloro che li fronteggiavano. «Incidente chiuso» disse. «E chissà che queste buonelane non abbiano cambiato opinione».
Il gruppo dei muratori, gli venne dietro. Il decano si era alzato, appoggiandosi alla mano di Parigi.
«Non vi muovete» gridò il Delegato. «Fermatevi... Maresciallo» gridò. «Attento». Una frazione di secondo: come s'accende un lampo nelle notti d'estate, come d'un tratto il sole precipita dietro le case, partì il colpo di pistola che sfiorò Metello e colse in pieno petto il Tedesco, lo rovesciò bocconi.
Nel silenzio che seguì, un attimo ancora, l'abbajare del cane alla catena, parve un latrato.
Subito, invece di disperdersi o di assistere il Tedesco, il gruppo dei muratori si slanciò in avanti, urlando. Ci fu una sassajola, colpì due soldati, e crepitò la fucileria: una scarica, due, mentre, sempre sparando, i soldati, e i tre agenti che impugnavano le pistole, arretravano come per attestarsi al riparo della Direzione e del Dormitorio.
Un miracolo, la Volontà Divina, la fortuna, il caso: o il bersaglio umano era troppo ravvicinato, o quelle mani callose tremarono e istintivamente rialzarono la mira. I muratori erano un gruppo compatto: come sparare su uno stormo, su una mandria, su più sagome ammucchiate a dieci passi di distanza; nondimeno, anche le revolverate dei questurini sembrarono andare a vuoto. Sull'istante, Duili quasi non si accorse di avere un polpaccio forato, né il Pomero senti un bruciore particolare alla spalla, né Santino, infine, si rese conto che quel rapido sfruscio avvertito davanti agli occhi, gli aveva rigato la fronte come il graffio d'una innamorata.
La terza scarica li aveva ridotti alla ragione. Metello, Friani e il Santino si chinarono sul Tedesco. Gente era accorsa dalla parte della Ferrovia, giù per la massicciata, quei contadini da dietro la rete. E l'Ingegnere, e Nardini, malgrado le imposizioni del Maresciallo e del Delegato. Il Tedesco si era voltato supino, poi da solo si mise seduto, fece per alzarsi, barcollò e lo dovettero sorreggere. «No, no» ripeteva. «Non è nulla, non mi duole. Ecco come vanno a finire le cose, ha visto Ingegnere?».
Di lì a poco, un braccio attorno alle spalle di Metello, l'altro attorno alle spalle di Santino, poté camminare e raggiungere la Direzione.
«Non mi duole, no, non mi duole» e bestemmiava.
Badolati si asciugava la fronte, i labbri e il viso: «Meno male» diceva «meno male, meno male». Gli aperse la porticina della Direzione.
Entrarono, il ferito e i due che lo sorreggevano, e Friani, e Nardini con la cassetta del Pronto Soccorso.
Il Tedesco sedé sulla sedia del Padrone; gli dettero dell'acqua e la rifiutò.
«Fosse vino!» disse. «Ma non è ora. Eppoi, sul primo momento non si dà mai da bere a un ferito. Me l'hanno insegnato in Germania. Ma non mi sembra di essere grave, non mi duole, mi sento soltanto indolenzito. Ho perso il fuscello di bocca, che sfortuna».
Il suo viso tornava a colorirsi, e i suoi occhi erano inspiegabilmente tutti dolcezza. Era un gran corpo rilassato sulla sedia, con quella luce incredibile negli occhi. Si rivolse a Friani.
«Però te le ho date, eh? E ora, ci tornerai sul lavoro?».
A Metello disse:
«Anche tu, persuadili, ormai quello che si è fatto si è fatto, di più non è possibile. Loro, lo vedi, sparano. Mica lo sanno, Dio! che tanto di qua che di là ci sono dei padri di famiglia. E che è la disperazione che ci mette gli uni contro gli altri. Vaglielo, Dio! a far capire».
«Non bestemmiare, bestemmiando cosa rimedi?»gli disse Santino.
«O Albertario mio, quando ci vuole». Gli vide il graffio sulla fronte e sorrise: «Ti hanno cresimato» gli disse.
E sospirò.
«Ora mi dovranno cavare la pallottola. Certo è rimasta dentro, da parte a parte non mi ha passato. Si sarà fermata su un osso. Perderò altri due o tre giorni, vuoi vedere? Con la situazione che ho a casa!».
«Non ti agitare» gli disse Metello.
«Ma se io sto meglio di te, coglione».
La camicia, sul petto, un palmo sopra il cuore, si era arrossata appena: un cerchietto largo quanto doveva essere largo il foro, o quasi. Del diametro di un diecione, si disse poi. Così sembrò, dopo che gli ebbero denudato il torace, a stagnare il sangue erano bastati i peli. Nardini gli mise sopra un batuffolo intriso di tintura di jodio.
«Ti brucia?».
Sulla porta, Badolati parlava coi poliziotti; il brigadiere spolverava il tubino passandoci la manica della giacca. «Meno male» ripeteva l'Ingegnere «sembra una ferita leggera, meno male».
«Mi pizzica, non mi brucia».
Al di là, s'intravedeva lo sterrato, dove i soldati, respinti i curiosi ai margini della Ferrovia e della massicciata, riunitisi sulle due file, stavano in posizione di riposo, ma ancora coi fucili saldi nelle mani e il colpo dentro la canna, dinnanzi a quegli uomini, gli scioperanti e i crumiri, ora più che mai l'uno all'altro vicino, sotto il sole. Se qualcuno si era allontanato, non ci se ne accorgeva.
«Sono degli stupidi» disse il Tedesco. «Perché non si mettono all'ombra, dietro le impalancate?».
«Lascia perdere, non ti eccitare. Ora viene la Pubblica Assistenza e domani stai meglio di jeri» Metello disse. «E' andato Parigi a chiamarla, ci vorrà un quarto d'ora».
«Eh, sì, la lettiga mi abbisogna, a piedi non ce la farei fino all'Ospedale».
«Se in corsia ti mettono accanto ad Aminta, non rincominciate».
«A patto che non ricominci lui, Dio! Albertario caro, ti sembra questo il momento in cui dovrei dire le orazioni?».
Santino gli rimise sulle spalle la camicia, e Metello gli ravviò i capelli con la mano.
Ora, lungo il fosso che sbucava sul Mugnone, la cornetta Parigi correva a chiamare la Croce Verde delle Cure: risalito l'argine, avrebbe accorciato il cammino.
«Se strada facendo, trovi un "legno", piglialo e torna al galoppo. Vai, galoppa tu» gli aveva detto l'Ingegnere.
Doveva percorrere cinquecento metri, e non incontrò nessuna carrozza. Tuttavia, si fermò tre volte. Subito, imboccato il passaggio che congiungeva il fosso al torrente, nella galleria aperta sotto il piano stradale per adattarvi le tubature, un groviglio di corpi bloccava l'uscita. Costì, allo scuro, era tutto un agitarsi di braccia: gridi soffocati, insulti, bestemmie, qualcuno chiedeva pietà e si lamentava. Non era più una rissa, era un linciaggio. Olindo, raggomitolato faccia a terra, il capo tra le mani, ingojava polvere e sangue. Su di lui, ginocchioni, Duili, il Pomero, il decano, un quarto che Parigi non riuscì a vedere, lo colpivano, a turno si sarebbe detto, sulla testa, ai fianchi: si alzavano e gli davano dei calci; lo sollevavano di peso e lo lasciavano ricadere.
«Ma l'ammazzate!» esclamò Parigi.
«Non muore, no. E' il minor castigo che gli si potesse dare».
Nel trambusto succeduto agli spari, dopo che il Tedesco era caduto, Olindo, preso dal panico era scappato, costoro lo avevano visto e inseguito.
«Come sta il Tedesco?» chiese Duili.
«Non sembra grave, vado a chiamare la Croce Verde».
«E allora vai, cosa ti sei fermato a fare?».
Parigi raggiunse l'uscita, risalì l'argine e udiva ancora i lamenti di Olindo, sotto i colpi dei suoi torturatori.
«Ohi, basta, ho quattro figlioli».
«Te ne ricordi ora».
«Carogna».
«Sudicio».
«Non li posso lasciar morir di fame».
«E i nostri? E noi?».
Fuori la galleria, c'era un gran sole, era alto mattino, il Mugnone era in secca, le cicale cantavano e ricoprivano quelle voci.
Parigi imboccò il Ponte, correndo, e a metà, incrociò il calessino dell'Ingegnere giovane. Il nipote di Badolati teneva le redini, e accanto a lui, dove un'ora prima sedeva il figlio di Madii, c'era Del Buono. Parigi lo riconobbe quando il calesse era digià passato. Bastiano? Si fermò a capo il Ponte. Ora il calesse costeggiava la massicciata. Il suo cappello di paglia, la sua giacca nera, dal collo sbucava il solino di tante dita! Era Del Buono, ora che lo vedeva di spalle ne fu anche più sicuro.
«O te, Parigi!» lo chiamò il suo amico Renzoni.
Veniva, correndo dalla parte della Barriera, col fiato grosso e il sudore che gli scorreva a rivoli sul viso.
«Che corsa! Di quanto mi hanno distaccato? Hai visto che Metello aveva ragione? E mio nonno, e Lippi e Corsiero e Duili: bisogna rimettergli l'onore a questi vecchi, ne sanno più di noi. Andiamo».
«Vieni tu con me. Il Tedesco è ferito».
Correndo insieme, affannati, si partecipavano le notizie e gli ultimi avvenimenti di cui erano stati spettatori. Cose e fatti, gli sembrava, che la vita non gli avrebbe più riservato uguali.
«Negli altri Cantieri è andata suppergiù come da noi».
«Tu eri in giro. Non sai che da noi hanno sparato».
«Mi ci sono ritrovato al Cantiere Madii. Lì a sparare sono stati i soldati».
«Ma anche da noi».
«Ma in aria».
«A noi ci hanno sparato addosso. Siamo vivi per miracolo».
«E intanto, senza che sui Cantieri si sapesse, a Firenze c'era lo sciopero generale, per via della chiusura della Camera del Lavoro. Siamo stati noi a dar fuoco, e mentre divampava s'era all'oscuro».
«Il Tedesco è ferito, e al Tinaj qualcuno gli ha gonfiato il viso».
«In nottata è arrivato Pescetti da Roma. Lui e una rappresentanza di quelli del Pignone, sono stati in Palazzo Riccardi di primo mattino. Roma ha chiamato al telefono il Prefetto. Sembra ci fosse Giolitti all'altro capo del filo. Fatto sta che Del Buono l'hanno scarcerato su due piedi, ora va in giro da un Cantiere all'altro per fare accettare le proposte dei Padroni. Vogliono venire agli accordi entro stamani».
Parigi si fermò, erano a pochi passi dalla meta, dovette chinarsi ad allacciare una scarpa che altrimenti gli usciva dal piede.
«Che accordi?».
«Non lo so di preciso. Certo, non ci daranno quanto si è chiesto dapprincipio, ma quasi. O almeno, qualcosa».
E di lì a poco, ora correndo dietro la lettiga, e restando distaccati dai quattro militi che la spingevano, più freschi e in fiato di loro.
«Il Tedesco dove l'hanno colpito?».
«Al petto».
«Come un fratello Bandiera».
«Ti sembra di poterci scherzare?».
«Ma se è leggero! Non lo sai, non te l'ho detto? E' arrivato anche quello di Torino, coi soldi della sottoscrizione. Ora sono tutti alla Camera del Lavoro. Ha portato sulle tremila lire».
«Allora stasera è come se si riscuotesse?».
«Si mangia».
«Si fuma».
«Ci entrasse da potere andare in via dell'Amorino» disse Renzoni piccolo.
«La tua bambinaja che ce l'hai a fare?».
«Quella è una cosa seria. Anzi, mi aspetta a mezzogiorno sotto la Torre della Zecca».
«Saranno digià le undici passate, non ci potrai andare».
«Non ne posso fare a meno. Oltretutto mi porta da mangiare».
«Vieni di qua, scendiamo per l'argine, si fa più presto. Così si arriva quando la lettiga».
Dentro la galleria, trovarono Olindo solo, che piangeva, lui uomo di trent'anni, come un bambino, il sangue gli colava dai labbri spaccati e da uno zigomo. Cotesto sangue, e le lacrime, la barba lunga, la polvere che gli impiastricciava il viso, il suo atteggiamento e il modo di lamentarsi, gli conferivano un'aria di can frustato e d'ecceomo, che un po' faceva compassione e un po' muoveva al riso.
«O Tinaj» gli disse il piccolo Renzoni. «Siete cascato male».
Lo aiutarono a mettersi in piedi, e lo persuasero a seguirli, dal momento che lo sciopero era finito per tutti, e bastava non conservare rancore, perché il passato fosse morto e seppellito.
«Via, Olindo, non vedete là fuori che bel sole?».
Il Tedesco era ferito leggero, sembrava; e a Santino, al Pomero, a Duili gli bastò farsi medicare al Pronto Soccorso o in farmacia. Santino riapparve con la testa fasciata, lui davvero Nino Bixio se non un fratello Bandiera. Ed era arrivato Leopoldo, scarcerato come Del Buono, e subito portatosi sul lavoro. La truppa e gli agenti, di lì a un'ora, vennero ritirati: abbassarono le armi soltanto duecento metri lontano dal Cantiere.
Il sole batteva a picco, e pareva non fosse successo nulla di nulla, ora che Bastiano stabiliva i nuovi patti anche con l'Ingegnere, come aveva fatto con Tajuti, con Fiaschi, con Madii, coi Massetani. Tornare sui «ponti», subito, alle una, piuttosto che domattina, significava riguadagnare, dopo tanto riposo! qualche ora.
CAPITOLO 24.
Dal Forte di Belvedere, il cannone annunciò mezzogiorno. I lavoratori del Cantiere Badolati erano tutti attorno a Del Buono che risaliva sul calessino, mentre l'Ingegnere gli stringeva la mano: uno di quegli avvenimenti che entrano nella storia, e non ci si fa caso quando accadono sotto i nostri occhi. E' sempre così, l'indomani se ne comprende il significato leggendo i giornali; o lo si impara decenni dopo, sui libri. Sono le date delle vittorie. Passerà mezzo secolo, saremo morti e seppelliti, nel frattempo le cose avranno fatto magari un passo indietro, ma quella data resta. E' una longarina che tiene anche se batte il terremoto. Come la cacciata del Granduca. Siamo stati forse meglio, una volta entrato Vittorio? Lo stesso, il Ventisette Aprile del 1859, il decano aveva vent'anni, se ne poteva ricordare, fu un gran giorno. «Che giorno, figlioli!». Egli si trovava su un «ponte», dalle parti del Gelsomino, la sera tornando a casa seppe che Canapone era fuggito. Come il 20 settembre, quando si prese Roma al Papa, il medesimo per il quale si era cantato:
"Sceso è dal cielo un angelo,
che Nono Pio si noma..."
I Fiorentini, cosa ci avevano guadagnato? Trasferitasi la Capitale era succeduto il Decennio della Carestia. Eppure, proprio quel 20 settembre, l'Italia era diventata Una. E la notte di San Silvestro del '900, tre anni prima. Si trovò l'alba per le strade e nelle osterie; si buttarono dalle finestre i cenci vecchi e le brocche che in altra fine d'anno si sarebbero portate allo stagnino; dappertutto si ballava, i ragazzi e i ricchi s'eran vestiti in maschera come di Carnevale; ci furono le luminarie e i fuochi artificiali, e l'indomani seguì un Capodanno qualunque: chi aveva bevuto più del normale, si svegliò con la testa pesante e il bruciore allo stomaco. Ci si accorse che faceva un gran freddo e che c'era l'umido alle pareti. Ma era stata ugualmente una notte che, in bene o in male, soltanto i figli dei nipoti avrebbero potuto rivivere. Cent'anni avanti, dissero i giornali, c'era Napoleone, Marx aveva da nascere e la locomotiva era ancora da inventare, come dire che tra un secolo il mondo sarebbe socialista e tutti gli uomini potrebbero volare. Ecco, oggi, a Firenze, per la prima volta, un Capo dei Sindacati era entrato in un luogo di lavoro col benestare dei Padroni, si era seduto a un tavolo con essi, e il più umano e cortese di tutti, «il meno boja», gli aveva stretto la mano.
Era per questo una gran data?
Poi, l'Ingegnere e Del Buono avevano assistito anche questo era nei patti, alla riconciliazione. Metello aveva abbracciato Olindo e i soldati e gli agenti avevano tolto l'assedio; Crispi faceva il suo fagotto, trasferito com'era in un altro Cantiere. E partito Del Buono, in attesa che venisse il tocco e si riprendesse il lavoro, si erano vuotate le tasche e comprati due fiaschi di vino: all'ombra delle impalancate, ciascuno si fermava lo stomaco con pane e frittata, pane e uva, pane solo. I manovali già stavano rimestando la calcina; Nardini, Metello e l'Ingegnere erano saliti sui «ponti», a sperimentare se le sei settimane d'abbandono non avessero portato dei guasti: c'erano delle passerelle da cambiare e qualche parapetto su cui ribattere i chiodi. Nulla di serio, cose da potersi aggiustare durante il lavoro.
«E' una vittoria».
«Ci possiamo contentare».
«Meglio che nulla» si dicevano, seduti sotto le impalancate, passandosi il fiasco del vino.
Avevano resistito quarantasei giorni, contro la fame e contro le tentazioni. Erano ridotti pelle e ossa, carichi di debiti e di sospesi. La storia essi la vivevano, e questo episodio non era stato tale da poter cambiare di colpo il loro umore.
Lo sciopero del Due.
Il 30 giugno.
I Gruppi dei Ventuno.
Nomi, fatti, date che avrebbero esaltato figli e nipoti, per loro, in definitiva, eran parole. Trattandosi di una vittoria, si sarebbero attesi un che di eccezionale, allegria, battimani. Come lo Scoppio del Carro. Un primo di maggio. La Festa dell'Ascensione. Al contrario, tutto si era risolto rapidamente, in un modo tanto semplice da parere oscuro. E' la vittoria di Pirro, si era portati a dire. Son nozze coi fichi secchi. E' un trionfo di cartone. Sei soldi all'ora, come si richiedeva, avrebbero significato due lire e cinquanta di più al giorno, una lira e sessanta per i manovali, qualcosa di ragionevole. L'avvenire, anche se non tinto di rosa, gli sarebbe apparso meno oscuro, per questo avevano alzato il braccio, sei settimane prima, al raduno di Monterivecchi. Ora, coi debiti che si ritrovavano, l'aumento ottenuto rappresentava sì un miglioramento, e aver vinto una battaglia data ormai per perduta, ma non migliorava in nulla la situazione. Sarebbero dovuti passare dei mesi perché ne potessero risentire un beneficio. E durante lo sciopero, era trascorsa metà della stagione buona; tra un mese, poco più, secondo il Sesto Cajo Baccelli e secondo l'esperienza, si sarebbero rotti i tempi. Da qui a scivolare all'autunno e a novembre e dicembre, era questione di un sospiro.
Ma avevano vinto, Badolati aveva stretto la mano a Del Buono, non si era mai visto nulla d'uguale sui Cantieri, i licenziamenti erano stati annullati ed era stata riaperta, dopo nemmeno un giorno, la Camera del Lavoro. A sera, riuniti in Corso de' Tintori, con animo diverso da ventiquattr'ore prima, ciascuno avrebbe riscosso la parte che gli spettava dei soldi della sottoscrizione. Anche i crumiri, che a rigore non se lo sarebbero meritato.
«E' stata una vittoria» si ripetevano.
«I Padroni hanno ceduto»
«Poco, ma hanno ceduto».
Avevano ritirato i licenziamenti dei Ventuno e aderito a ritoccare le tariffe. Non accedevano alle loro richieste, non gli venivano nemmeno incontro a metà strada, ma una concessione l'avevano fatta. 6 centesimi all'ora per i muratori e 4 per i manovali; ai primi e ai mezzi muratori l'aumento veniva arrotondato rispettivamente nella misura di mezza lira e di otto soldi la settimana.
«Roma gli ha messo paura».
«Li hanno minacciati di penale negli appalti per conto dello Stato».
«Non vogliono creare movimenti in vista delle Elezioni».
Era una vittoria, e per parziale che fosse, conseguita su tutta la linea di combattimento. Dall'Ospedale, le notizie del Tedesco, erano buone. Ossia, lo si sapeva in sala operatoria. Aminta, invece, l'avevano digià tolto dal reparto osservazione e passato all'isolamento. Ora cosa avesse lo si sapeva: ricoverato per fargli smaltire la crisi d'epilessia, e medicare l'occhio pesto, gli avevano trovato addosso, ma via? lo scorbuto. Una forma leggera, per fortuna, anche la sua. Era il male della fame, qualcuno aveva sorriso. E il decano, che negli ultimi tempi aveva mangiato ciò che aveva mangiato Aminta, sporto in fuori il petto, ci bussò col pugno e disse:
«E' davvero un'altra generazione».
Tacque, aveva pensato ai bambini di Aminta, alla moglie di lui e alla propria vecchia. «E un male che attacca?» chiese.
«Finora» disse Leopoldo «avevo sempre saputo che lo pigliavano soltanto le galline»
Era ormai l'una, e si aspettava che Nardini desse il segnale; da un momento all'altro sarebbe apparso il piccolo Renzoni che non aveva potuto fare a meno di recarsi all'appuntamento con la sua bambinaja e col suo desinare.
Discesi dall'impalancate, l'Ingegnere aveva detto a Metello di raggiungerlo in Direzione. Questa volta era un ordine, non c'era ragione di rifiutarsi. Badolati lo fece sedere e gli offerse da fumare. Cominciano sempre così, Metello pensò, siano poliziotti o siano Padroni. Ma cosa gli dovesse dire, non riusciva ad immaginarselo. Pensava che a porte chiuse, firmati gli accordi, andatosene Del Buono, l'Ingegnere gli volesse far pesare la sua generosità e diffidarlo per l'avvenire. Dapprima, credé di avere indovinato, siccome Badolati disse:
«Se un'ora fa tu mi avessi seguito, a quest'ora il Tedesco non si troverebbe in un letto d'ospedale».
«Non mi farà la colpa d'avere sparato?».
«Quasi. Se il Tedesco fosse morto e al posto del miracolo ci fosse stata una strage, ce l'avreste un po' tutti sulla coscienza, tu in particolare».
«Ergo, mi scusi Ingegnere, si fa' così per dire, ergo, lei, dalla coscienza, vivo o morto, il Tedesco, lasciamo andare gli altri tre o quattro feriti, sono leggèri, ma il Tedesco davvero lei se l'è bello e scaricato?».
«Eccome, lo credo. Ho detto e ripeto che se tu mi avessi seguito in Direzione, l'incidente non sarebbe scoppiato. E' evidente anche ai ciechi. E non parliamone più per ora».
«Per ora».
«Per sempre. Quando ci sono delle responsabilità, ciascuno deve prendersi quelle che gli competono».
«Sia».
«E', caro Salani, è. Dianzi, ti avrei detto proprio questo: che l'Associazione era ormai nell'ordine d'idee di venirvi incontro e che non vi conveniva pregiudicare la situazione».
«Perché non l'ha detto in presenza a tutti? Non era una notizia che riguardava me solo».
«O bella, perché ancora la decisione ultima non era stata presa. Mio nipote faceva apposta la spola tra Cantiere e l'altro. E io, è un mese che mi sto battendo contro l'ottusità di Fiaschi e di Madii. Alla fine ho avuto ragione, si son piegati. Io li ho fatti piegare, non vojaltri, è chiaro?».
«Ma se stamani noi si fosse messo la firma?». L'Ingegnere sorrise, era un lottatore a cui piaceva scherzare col fuoco, ed avere a che fare con uomini che gli tenessero testa; ancorché invecchiato e con un formicolìo costante dalla parte del cuore, era sempre quello che si metteva sullo stesso piano dell'anarchico Pallesi, e lo insultava e sapeva incassarne le ingiurie. Disse:
«Avrei avuto torto. Ma ti avrei levato la stima».
«Ecco» esclamò Metello. «Siamo alle solite. Lei mi attribuisce un'importanza che non ho. Io non capeggio nulla, non ho forzato la volontà di nessuno».
Badolati finse di non aver udito; si passò il sigaro da un angolo all'altro della bocca, lo trattenne tra i denti, e d'improvviso, dopo questo breve silenzio in cui aveva continuato a guardarlo in viso:
«Secondo gli accordi, ho trasferito Crispi al Cantiere dei Massetani. Ora mi trovo, nelle condizioni di dovere assumere un altro caporale, o di nominarne uno nuovo. Vorrei sceglierlo tra la mano d'opera che ho qui a disposizione. Ti chiedo un parere, sentiamo?».
«Aspetti che il Tedesco sia guarito, è un galantuomo, è una persona posata».
«Sembra, ma al momento opportuno è un impulsivo».
«Provi Lippi, vecchio com'è tirerebbe un po' il fiato».
«Non ho nessuna voglia di scherzare, parlo sul serio. Un caporale deve avere il cervello sveglio, io mi debbo fidare. Dev'essere forte di carattere, di salute e nel mestiere. Non c'è bisogno che te lo insegni. Se io son fuori, e non c'è il mio sostituto, li dirige lui i lavori. Ricopre lo stesso posto dell'Assistente, e piglia all'incirca la stessa paga».
Metello si guardò le mani, temeva di sentirsele tremare, poi rialzò la testa, disse:
«Se non avessi trent'anni appena, porrei la mia candidatura. Ma è che sono troppo giovane, e a questa età è ancora difficile cambiar pelo».
Fu in piedi e fece un mezzo inchino.
«Salani» lo richiamò l'Ingegnere. Egli era sulla soglia e si rimetteva il berretto; si udì Nardini battere la sirena. «Sei una carogna, Salani. Ma sta' attento, bada, riga diritto, altrimenti te lo liscio io, il pelo».
Fuori la Direzione gli si avvicinò Olindo. Aveva lo sguardo di un innocente malgrado gli occhi mezzi chiusi, e sul naso una specie di sbucciatura, il labbro gonfio, e tossicchiava.
«Metello» gli disse. «Ci siamo abbracciati, ma non ci siamo detti una parola, ti vorrei spiegare».
Egli gli posò la mano attorno alle spalle.
«A me? A tutti dovresti spiegare. Ma poi, che cosa? Ormai sono cose superate. Ricordatene un'altra volta».
«Speriamo passi del tempo, prima che ci si reimbarchi in una pazzia simile».
Metello dové superare un'avversione per rispondergli. «Sei la solita carogna» gli avrebbe voluto dire. Invece disse: «Sai cosa ho pensato? Appena non ci scomoderanno i soldi del viaggio, verrò a Rincine con Ersilia. Non conosco ancora tua moglie e i tuoi figlioli, è una vergogna. Eppoi, questa rimpatriata, dopo quindici anni, non mi dispiace».
«Rivedresti Cosetta».
«Magari mi facesse salir gratis sulla corriera».
Olindo sembrò aver toccato questo argomento per ristabilire la consueta intimità d'affetti, subito aggiunse: «Lo sai che mi hanno anche picchiato? Guarda che occhi ho, ci vedo appena».
«Tutti, chi più chi meno, ne abbiamo buscate. Ci sono tre feriti e il Tedesco è all'Ospedale».
«Già, ma me mi hanno aggredito a cose finite. Sono dei vigliacchi».
Metello non gli poté rispondere. «Tu bisogna cambi mestiere. Non è un ambiente per te, questo dei cantieri» stava per dirgli.
«Svelti, si riattacca» gridò Nardini.
Alte, sotto il sole che batteva a perpendicolo, si stagliavano le impalancate: di ponte in ponte, per mezzo delle scale, si sarebbe saliti fino al quinto ripiano dove i lavori erano rimasti interrotti. I manovali riempivano i cofani di calcina; infilavano le scale, sorreggendosi con la mano di piolo in piolo, recando sull'omero i cofani e le pile di mattoni. La squadra di Metello, lui Lippi e Friani che lavoravano fianco a fianco, si avviò; Friani aveva portato le cazzuole prese nel deposito adiacente al Dormitorio, e i fili a piombo, e il regolo e la squadra. Il Nipote Assistente li aveva preceduti e ispezionava le pareti calcinate un mese e mezzo prima.
Ora, correndo come una furia lungo la massicciata, apparve il piccolo Renzoni.
I muratori raggiungevano i «ponti», spingendosi su per le scale; il sole ricominciava a cuocere il loro viso, le braccia, la nuca; grondavano sudore e non ancora avevano attaccato a lavorare. Nondimeno, proprio adesso, si sentivano invasi da un sentimento che se non era allegria, era digià buonumore. Non si dicevano più: è stata una vittoria; ma: forza, dài, te ne rammenti ancora come si combaciano due mattoni?
«Metello» gridò il piccolo Renzoni. «Eccomi qui, sono arrivato. Diglielo tu a Nardini che non mi metta la multa, è il tocco e tre minuti!».
«Piuttosto che chiamare il babbo, fai il tuo dovere» lo interruppe Nardini e gli dette uno scapaccione.
Renzoni prese la pala e riempì il suo cofano di calcina.
«E' venuta?» gli chiese Parigi che lì a un passo, compiva il suo stesso lavoro.
«La vedessi: ci aveva un vestito rosa a quadratini. E in mezzo al filoncino, c'era una braciola impanata».
«Finirà che la sposi».
«Se non cambio idea sotto le armi, di sicuro».
«O Nino, ci fai aspettare un po' troppo, con cotesta calcina» gli gridò Lippi sporgendosi dalle impalancate, mentre ancora saliva.
Un quarto d'ora dopo, era come se il lavoro non si fosse mai lasciato; steso il primo strato di calcina sulle pietre e i mattoni, i muri venivano su di nuovo, freschi, sotto il sole. Il cantiere risuonava delle voci, dei colpi dei carpentieri che ribadivano i parapetti di legno e i pali maestri, e segavano le assi, fissavano nuove giunture alle tavolate; i manovali impastavano acqua e cemento; il canelupo si era steso all'ombra e dormiva. Olindo andava avanti e indietro con la sua carriola di pietrisco, e lì vicino, Parigi tirava la fune che scorreva sulla carrucola e trasportava sui ponti gli arnesi, i cofani e i mattoni, snellendo la fatica ai manovali e accelerando i tempi ai muratori.
Dalla cima della fabbrica in costruzione, il riflesso del sole costringeva a riparare gli occhi sotto la visiera dei berretti. Si vedevano gli alberi della Fortezza, al di là dei quali svettava la lanterna di Santa Maria del Fiore; e dall'opposto orizzonte, le case più basse, lasciavano scoperta tutta la campagna e le ciminiere attorno Rifredi, si seguiva il corso del Mugnone e i binari della Ferrovia. Un treno sbucò fischiando dal tunnel, col suo pennacchio di fumo. Il decano disse:
«Beato chi può viaggiare. Chi viaggia non ha certe preoccupazioni».
«Parli come un bambino» disse Friani.
«E' che non ho mai preso il treno in vita mia».
Metello disse: «Se parli ti aumenta il caldo e la fatica, nonno, te ne sei dimenticato?».
«Ma se l'ho insegnato io a te!».
«E allora?».
«Penso al povero Aminta. E al Tedesco, gliel'avranno trovata subito la pallottola in sala operatoria?».
«Ti vuoi chetare?».
«Ecco l'Ingegnere» disse Friani.
Il nipote gli andò incontro e gli porse la mano per aiutarlo a salire gli ultimi gradini. Dietro Badolati veniva il piccolo Renzoni, già al suo terzo viaggio, col cofano sulle spalle e la fronte madida di sudore. L'Ingegnere proseguì sul ponte: si era fermato accanto a Metello, e insieme a lui e al nipote considerava, sui lucidi, la ripresa dei lavori.
«Lippi, o Lippi, datemi una mano» disse Renzoni.
Piccolo, come lo chiamavano, e piccolo di statura, una notte a metà perduta, e su e giù di corsa tutta la mattina, la stanchezza gli tagliava ora le gambe: si appoggiò al palo maestro che aveva alle spalle, e vi si sostenne aderendovi col cofano pieno di calcina.
«Vieni» disse Lippi. E monotono nella sua ironia. «Questa sarebbe la nuova generazione». esclamò. «Che ci vai a fare di leva? Appena arrivi ti passano all'infermeria».
«Magari, magari mi rimandassero subito a casa. Mi sposerei prima».
«Bella prospettiva» disse il decano. «Porgimi il cofano, su».
Renzoni piccolo emergeva sul «ponte» di tutto il busto, fidandosi al terzo e al quarto piolo della scala, le spalle appoggiate al cofano e questo a contrasto col palo maestro che sovrastava il «ponte» dove si sarebbe coperta la costruzione.
«Sta fermo, te lo tolgo io» aggiunse Lippi.
Si chinò, ma i reni non lo assistettero; trascinato dal peso del cofano che aveva agguantato con le due mani, cadde in ginocchio e in avanti, tentò di riprendersi aggrappandosi a Renzoni che a sua volta si puntellò al palo maestro e gli porse la mano. Ma il palo cedette, una delle giunture non ancora ribattuta si aperse, il palo oscillò e il piccolo Renzoni cadde all'indietro, nel vuoto. Il decano, d'istinto cercò di venirgli in aiuto, lo sfiorò appena e portato dallo slancio, precipitò con lui. Un urlo solo e si schiacciarono sullo sterrato.
Il decano spirò all'istante, e il piccolo Renzoni, senza avere ripreso conoscenza, mentre lo trasportavano all'Ospedale. Là dove anche il Tedesco era uscito inanimato per sempre dalla sala operatoria: estratta la pallottola, come d'incanto gli si era fermato il cuore.
CAPITOLO 25.
Quel mattino, Cesare e la bell'Idina erano partiti senza salutare. Ersilia aveva aperto per caso l'uscio sulle scale e li aveva visti scendere: lei avanti, col vestito lilla e l'ombrellino; lui dietro, carico di valige. «Buon viaggio, buone sabbiature!». «Grazie» rispose Cesare, e aveva aggiunto, ma senza ironia, non ne era capace, evidentemente si era impappinato: «Anche a lei Ersilia, anche a suo marito». «Chissà cosa ti ha dato a bere» ella pensò. «Poveruomo». Ida, la bella Idina, lasciandosi cadere sugli strapuntini della carrozza di piazza: «Uffa!» sembrò esclamare, mentre sorrideva alla Celeste che le batteva le mani dal suo davanzale. «Intanto sono bastati due ceffoni per spedirti da Pancaldi» pensò Ersilia. «Quando sarai di ritorno, vedremo».
Nel pomeriggio, consegnato il lavoro alla vedova Roini, ella aveva potuto dare un acconto al fornaio e preparare la cena. Era poi andata di là d'Arno dalla madre e si era ripreso il bambino. Aveva suonato il campanello di Annita; l'amica non c'era. C'era quella parente che gli badava i ragazzi. «Non lo sa che a quest'ora Annita si trova in Manifattura?». Dunque, se perfino le sigaraje lavoravano, lo sciopero generale era fallito. Nessuno, in San Frediano, sapeva nulla di preciso. Qua e là, sui muri, c'erano i manifesti di cui le aveva parlato Metello: sembravano vecchi di mesi. Il traffico, nel centro della città e nei rioni, era normale. Tanta calma quanto faceva caldo e si sudava. In piazza Santa Croce la gola, più che la sete, la costrinse a fermarsi dall'acquajolo. Ora le restavano tre centesimi, il seme.
Metello era già in casa, seduto al tavolo di cucina, stanco, abbattuto. Se lei fosse stata sola, non si sarebbe alzato; ma Libero ch'essa teneva in collo e gli porgeva le manine, lo decise. Aveva uno sguardo cupo che metteva timore e che nemmeno la presenza del bambino riuscì a schiarire. I suoi occhi non erano arrossati, tuttavia sembrava avesse pianto fino a un momento prima.
«Sei tornato per tempo» ella disse. «Ti aspettavo all'ora di cena. Ho fatto il minestrone prima di uscire, so che ti piace riposato».
E c'era la soprassata, il vino, cinque o sei ciliege. Nella tasca del grembiule, ella nascondeva mezzo toscano: una sorpresa su cui Metello aveva finito per contare.
«Dopo» egli disse. «Ora mi fermo pochi minuti. Son voluto passare siccome temevo tu stessi in pensiero».
Le raccontò, in modo concitato, quanto era accaduto: dal suo arrivo all'appuntamento dei Ventuno, alle ultime parole che il piccolo Renzoni aveva scambiato con Parigi e che costui gli aveva riferito.
«E' stato un incidente» concluse. «Non è il primo e non sarà l'ultimo. Lippi e Renzoni nipote, son morti come morì tuo padre. Sono cose che càpitano a chi lavora per aria. Lo sciopero non c'entra. Ma col Tedesco... Il Tedesco l'ha ammazzato l'agente col tubino, sembra sia un Delegato. Oppure il maresciallo. Quei soldati dicono che è stato il Delegato a sparare. In Questura dànno la colpa al sottufficiale. Ma sono tutti d'accordo nel sostenere che si sia stati noi a provocarli. E che i sassi sono partiti avanti del primo colpo di pistola, e che noi gli si andava incontro per assalirli di sorpresa, io e il Tedesco in testa, capirai, così, a mani ignude! Dopo la caduta di Lippi e di Renzoni, si è sospeso il lavoro, non era nemmeno mezz'ora che avevamo ricominciato. Siamo andati tutti davanti all'Ospedale. Costì ci hanno fermato, noi, «i caporioni» come ci chiamano, ci hanno portato in Questura, credevo non ci volessero rilasciare. Ho ancora i brividi addosso».
Ella si trovò seduta, le mani sul ventre, senza saper cosa dire. Disse:
«Che si debba sempre pagar tutto così caro».
Egli le porse il bambino e scontrosamente le dette un bacio sulla fronte.
«Tieni Libero, debbo tornare alla Camera del Lavoro, si distribuiscono i soldi della sottoscrizione. Per la verità» aggiunse «dopo quello che è accaduto, l'idea di Del Buono sarebbe stata di farne tre parti sole, per le tre famiglie dei morti, ma la maggioranza non ha aderito. Non se la sentono di tornare a casa senza una lira anche stasera. Gli vuoi dire: egoisti? Non tutti si trovano nelle nostre condizioni».
«Quali?» ella disse. «Ho dei centesimi in tasca, e i debiti che sai. Senza pensare che domani sera mi scade la rata della strozzina».
Poi disse: «Scusami; parlo, ma sto pensando a quei disgraziati. Del resto, loro sono morti e alle famiglie non glieli ripagate di certo facendo i generosi. Neppure se gli metteste in mano mille lire. E' per l'avvenire che vi dovreste preoccupare. Tassatevi in modo da dargli un tanto la settimana, almeno per qualche mese. Badolati cosa ha detto?».
«Offrirà le solite cinquanta o cento lire, te ne sei scordata? E perché è il meno boja. I Padroni non hanno nessun obbligo d'iscriverci alle Assicurazioni. Ce ne vorranno di scioperi, e di bare, prima di conquistare un diritto come questo».
«Metello» ella esclamò. Lo guardava fissa, e riappuntava con lo spillo le brache del bambino. «Io ti ho sempre dato ragione. Ma tu non mi devi mettere paura».
Due ore dopo, egli era stato alla Camera del Lavoro e a visitare quei morti, era tornato e aveva posato sul tavolo le tredici lire che gli erano toccate di sua parte. Il tavolo era apparecchiato a nuovo, c'era il lume a petrolio acceso, e ci volava attorno una farfalla, Libero dormiva nel suo angolo di letto, dalla strada proveniva la musica e la voce del concertino, Ersilia disse: «E loro?». Le donne dei morti, intendeva dire. «Le hai viste, ci hai parlato?».
«C'è la vecchia del Lippi, fa compassione. Se lo carezza e lo chiama Gigino come un figliolo. Non piange nemmeno. Lo chiama e gli ravvia la testa. La mamma del Renzoni, lei urla, non ci si resiste... Renzoni, il nonno, è fermo su una sedia, sembra calato di peso dall'Impruneta su quella sedia, è mezzo paralizzato, non parla, farfuglia, dice: 'Tutti i sabati mi portava le spuntature. Appena riscosso il salario, era la prima cosa a cui pensava...'. Noi si sapeva che Renzoni piccolo era fidanzato, ma con chi? La conoscevamo di vista. Qualcuno è andato su e giù per il Lungarno, non l'ha incontrata.... Ma quello che fa più pena è il Tedesco, solo come un cane. Tutti i fiori che c'erano, si sono messi vicini a lui. La moglie, saputa la notizia, forse gliel'hanno detta senza cautela, è cascata in terra, e poco dopo, siccome era incinta, ha abortito. Ora è alla Maternità, domani tu e Annita ci dovreste andare. La bambina l'hanno presa dei vicini, parla più tedesco che italiano, suo padre glielo faranno vedere prima di chiuderlo nella bara. Lei e la mamma sono rimaste sole, non hanno parenti, non hanno nessuno».
Così dicendo mangiava, voracemente, senza accorgersene pareva, era un uomo umiliato e carico di dolore, di ira, che cercava di fare ordine nei propri pensieri. Presto, ebbe finito e si affacciò alla finestra. Ersilia abbassò la fiammella del lume, e lo raggiunse, gli porse il mezzo toscano e la scatola di zolfini. Rimasero in silenzio, nell'ombra, a guardare la vita che si rappresentava sulla strada: il marito della Celeste giocava a carte col bacalaro, c'erano le donne sulle porte delle case a illudersi di godere un po' di refrigerio, e il concertino fuori l'osteria, i ragazzi che giocavano a rincorrersi, arrivò l'ultima diligenza dal contado.
«E Olindo?» gli chiese Ersilia.
«Ha avuto la sua parte di soldi ed è sparito. A quest'ora sarà digià a Rincine.
«Non gli vuoi perdonare?».
Trascorsero dei minuti, ella aveva passato il proprio braccio attorno al suo, gli si stringeva al fianco; infine, come concludendo un soliloquio, egli disse:
«Oh, non avrà certamente cambiato parere. Sono sicuro che penserà di dovere essere lui a perdonare me e quelli che l'hanno cazzottato. Si sente dalla parte della ragione... E forse, chissà che non sia lui nel vero. Ci viene sempre a costare tutto così caro» disse. «Troppo. Dianzi, Del Buono ha parlato ha parlato, e a me ballavano in testa quelle tue parole. Mi sono dovuto trattenere dal non gridarle ad alta voce».
E fu ancora lei, Ersilia, a venirgli incontro, col proprio equilibrio, la propria amorosa presenza.
«Sta' a vedere che ora ne saprò più io di Del Buono!» esclamò. Poi disse:, «E tu, saresti il peggiore nemico di te stesso se proprio in un momento simile incominciassi a dubitare».
«Non si tratta di dubitare, ma di caricarsi di una responsabilità o di farne a meno. Io non mi sono mai ficcato di mia iniziativa in prima linea. Ma quando mi ci sono trovato, o mi ci hanno spinto le circostanze, come potevo tirarmi indietro? Avrebbero avuto ragione a sputarmi in faccia, non ti pare?».
«Epperciò» ella disse. «Non ti tormentare. Basterà che tu, e tutti, vi ricordiate più spesso di avere qualcuno a casa, e di non farvi pigliare dalla disperazione».
Egli la strinse a sé per le spalle.
«A momenti, se uno non si sentisse l'animo tranquillo, verrebbe da piangere, cosa credi? Non è come poté succedere quattro anni fa. Allora, non c'era lavoro, mancava il pane.... Ora lavoro c'è, il pane ci si guadagna, perché ce lo debbono lo stesso far mancare? Il Tedesco è morto per questo: ci aveva la moglie gravida, e quella bambina, fino dal primo giorno ci aveva espresso il suo pensiero. E Lippi e Renzoni, perché son morti? Il palo, sì, era allentato, ma li poteva reggere se si agguantavano, s'andrebbe giù tutti i giorni altrimenti, tra pericoli di questo genere ci si sguazza. Dovevano essere stanchi, come tutti, al vecchio gli è preso di sicuro un capogiro, e si è trascinato dietro il ragazzo. Loro e il Tedesco, più o meno, sono morti per la medesima ragione. Ci vanno sempre di mezzo gli innocenti» continuò. «Lippi, lui cos'era questa vita lo sapeva, coi figli grandi e sposati come aveva, non aveva più doveri. Ma il Tedesco, che lascia al mondo due creature, la bambina affidata alla mamma che si sa esprimere anche meno di lei.... E Renzoni piccolo! Tu l'hai conosciuto, ti rammenti che occhi aveva? Celesti, nuovi, chi se li potrà scordare?».
E d'improvviso: erano gli occhi di Betto, si disse, uguali. Ma non confidò ad Ersilia questa sua impressione, che gli aveva aperto come una voragine dentro il cuore. Piano piano gli sembrò che associando la memoria di Betto a quella del piccolo Renzoni, ancora tepido nella sua bara di legno comune, una forza inspiegabile tornasse a possederlo. Aveva avuto paura, e ora ne scampava.
«Non ti so spiegare» disse.
Era a se medesimo che si rivolgeva, parlando a Ersilia.
E a notte alta, supino nel letto, con la moglie al suo fianco, e Libero sull'altro lato che si succhiava le dita nel sonno:
«Davvero, come tutto ci deve venire a costar caro. Ho trent'anni e ne ho passate! eppure, ci credi? mi sembra di essere entrato soltanto ora nell'età della ragione».
«Meno male» ella disse.
«Perché, ti pare che abbia sbagliato?».
«No no» ella disse. «Sono i casi della vita».
L'accolse sul suo petto e l'abbracciava.
Egli disse: «Si sarebbe così felici se intorno a noi tutto non sembrasse fatto apposta per farci disperare».
«Non bisogna lasciarcisi pigliare» ella ripeté. Non si rimedia a nulla con la disperazione».
Era una notte afosa, e malgrado le finestre spalancate, i loro corpi nudi si scambiavano un velo di sudore, egli le carezzò il mento.
«Lo so» egli disse. «Ma anche noi di persona, si pèncola proprio quando non si dovrebbe».
Le rovesciò dolcemente il viso e la baciò sulla bocca. Ella sentiva sciogliersi dentro di sé una pena che improvvisamente le aveva fatto groppo alla gola. Egli si accorse che le lacrime le bagnavano il volto, rispettò il suo pianto, e piuttosto che del rimorso, provò un sentimento di amorosa protezione. Le chiese:
«E' stata contenta del tuo lavoro, la Roini?».
«Uhm uhm» ella fece e infantilmente stropicciò il naso sul suo petto.
Si congiunsero in silenzio, com'erano abituati, dominando a denti stretti il loro spasimo per non destare il bambino, e nondimeno con un trasporto, una gioja a lungo protratta e che da qualche tempo non conoscevano. Quindi, con la stessa naturalezza, sospinto dallo stato di perfezione e d'abbandono che succede all'amore, e complice l'oscurità, la luce della luna che si arrestava sul davanzale, come concludendo un discorso che non avevano mai nemmeno sfiorato, egli disse:
«L'iniziativa è stata mia, lei non ci ha nessuna colpa. Però me ne sono subito pentito».
Ersilia gli si strinse nuovamente al fianco, ora con la coscia come incollata, per via del sudore, sulla sua: «Ne sei proprio sicuro?» gli chiese.
«Se tu vuoi si può anche venire a un chiarimento».
«A quest'ora è digià al mare».
«Quando torna...».
«Quando torna, sembra andrà ad abitare in un'altra casa. No, non l'ha detto a me. L'ha detto alla Celeste, da finestra a finestra».
«Ah» egli esclamò. «Questo non me lo so spiegare».
«Te lo spiegherò io» ella disse. «Ma domani, ora dormi.... Sono due notti e due giorni che non riposi».
«Non ho voluto farti un torto. E' capitato com'è capitato».
«Me lo immagino».
«Non te lo puoi immaginare.... Soltanto, non ha impegnato il cuore».
«Lo spero» ella disse.
«E' la verità, devi esserne sicura».
«Mi ci vorrà un po' di tempo».
«Non è poi la fine del mondo».
«Oh, no, questo no. Ma potrebbe essere il principio».
«Nemmeno».
«Lo spero» ella ripeté. «Altrimenti non starei qui a parlarne».
«Ma come hai fatto a capirlo tanto alla svelta?» egli sillabò. Si era già addormentato.
Ella rimase desta, immobile, tra il marito e il bambino che entrambi, girandosi, nel sonno, le avevano voltato le spalle. Presto fu l'alba, sentì il bacalaro che apriva lo stallaggio, e partire la prima diligenza, e arrivare il lattaio. Si alzò, mise il bricco e i soldi nel paniere, come ogni mattina; ritirava la fune, quando i poliziotti sbucarono da via Michelangelo: erano tre e vennero a fermarsi davanti alla porta di strada. Ersilia li vide e si sentì gelare il cuore.
Nella medesima ora, come avevano arrestato Metello, avevano arrestato Giannotto, e Corsiero, e l'anarchico Friani, tutti i componenti i Gruppi dei Ventuno. Mancavano il decano e Renzoni piccolo, già in pace con Dio e con la Questura. Li imputavano di «attentato e ribellione alla forza pubblica, istigazione alla sommossa e associazione a delinquere».
Un'assurdità, e infatti li avrebbero assolti in istruttoria, ma dopo sei mesi di carcere. Centosettantacinque giorni, uno di seguito all'altro passati alle Murate.
CAPITOLO 26.
Così, Metello trascorse lontano dalla famiglia il suo trentesimo compleanno; e per la seconda volta conobbe la prigione e per la terza volta, il mattino dell'arresto, entrò in una guardina. La stessa carbonaja nella quale era finito adolescente andando in cerca di Betto. Ci trovò dei ladruncoli che assomigliavano a quelli di allora, come il Delegato siciliano, i piantoni, il cortile che s'intravedeva dall'inferriata. Soltanto, non c'era più Michela; e lui aveva l'età che in quel tempo doveva avere Chellini. Ma dove delle finestre danno su un cortile, anche se a livello vi si apre la bocca di lupo di una carbonaja, non può mancare una ragazza che canta da mattina a sera. E' bella, è onesta, è sana? Questa, cantava una canzone anche più antica, che non gli ricordava Michela, ma Napoli e la sua vita di soldato.
"Sul mare luccica
l'astro d'argento,
placida è l'onda,
prospero il vento..."
Nemmeno le Murate erano diverse dal maggio del '98. Le medesime celle e i medesimi insetti che ti divorano, e il buriolo e l'afa da non respirare; l'umidità, il gelo non appena venne l'autunno. Ma nel camerone dove li avevano riuniti, conclusi gli interrogatori, c'erano degli amici adesso, dei compagni di idee e di lavoro. Ci si intendeva. Oltre a Giannotto, c'era Corsiero ch'era stato il suo primo maestro nel mestiere, e che ora gli insegnava, teoricamente mancandogli le carte, i giochi di prestigio, e giorno per giorno, gli raccontava i "Tre Moschettieri". Quest'uomo di cinquant'anni aveva gli entusiasmi di un bambino. C'era Friani, l'anarchico, col quale non era andato mai molto d'accordo, ma che al solito, se incominciava a parlare, li lasciava a bocca spalancata. Allora, ciò ch'egli sapeva della Comune, anche agli anziani riusciva come nuovo: là, socialisti e anarchici erano stati una cosa sola, tutti finiti allo stesso muro.
E loro dei Gruppi dei Ventuno, tanti quanti erano, e già due ne mancavano all'appello, nessun che si dimostrasse scoraggiato, che non tornerebbe a fare le stesse cose. Avevano difeso se stessi e gli altri, in una lotta per un po' più pane. E perché il lavoro, se non secondo il sudore, gli venisse compensato «nella misura minima della ragione». Non gli pareva di avere sbagliato. La morte del Tedesco non pesava sulla loro coscienza, semmai l'esaltava. Ora che si trovavano carcerati, le famiglie non erano abbandonate; ogni settimana dalla Camera del Lavoro, dalle Mutuo Soccorso, dalle Leghe, gli portavano degli aiuti, una miscèa. Ma in ogni famiglia c'erano donne che non si lascjavano abbattere; gli bastava, a coteste madri e spose, la promessa, fatta con persuasione, che una volta liberi, prima di compromettersi di nuovo, doveva nevicare d'agosto, seccarsi il mare, «lo Spiombi diventare un corazziere». Pescetti aveva riunito un Collegio d'eccezione, se si fosse celebrato il processo sarebbe sceso in campo anche Turati. Come aveva parlato per quelli dei Fasci Siciliani, otto anni prima, e quattro anni fa s'era trovato in mezzo ai moti, avrebbe difeso loro. A costo di tornare lui stesso in galera; e ne era uscito da poco. Parlava difficile, non alla buona come Pescetti o come Bastiano, ma si finiva per capirlo, eccòme. Giannotto ricordava un passo del suo discorso, dopo la condanna di Barbato, che pressappoco diceva: «"La borghesia ha lanciato la sua sfida. L'ha gettata agli oppressi che gemono, l'ha gettata agli organizzatori che tentano sottrarli agli impeti incomposti, per scortarli lungo le vie della saggezza, verso una nuova civiltà. Questa sfida pensino a raccoglierla quelli a cui è diretta, ché, se i lavoratori d'Italia firmano con la loro accidia la sentenza che condanna Barbato e compagni, essi, con quella condanna, avranno firmato la propria. Nessuna gente sarà mai stata nella storia, più supina e più vile"».
Da fuori, ricevevano lettere, rispondevano; ogni mese gli era concesso mezz'ora di Parlatorio. A sera, «come dei militari consegnati», mettevano insieme le notizie, belle o brutte, e le malignità, le deduzioni. Sui Cantieri, la vita era tranquilla, coi soliti Imprenditori, i soliti Assistenti e i soliti caporali. Non tutti dei boja, in definitiva. Tra Badolati e Madii una differenza c'era, come tra Crispi e Nardini. Il sabato le paghe erano aumentate di sei soldi e di un ventino. Le ferite del Pomero, di Duili, del Santino avevano lasciato delle cicatrici che si vedevano appena. Anche Aminta era guarito ed aveva potuto, finalmente, metter su casa e riunire la famiglia, qualcuno gli aveva dato una mano, forse c'entrava quell'ortolano presso il quale ultimamente sua moglie aveva lavorato. La vedova del decano, gli era sopravvissuta di un mese; e la Tedesca, lei non avendo un aggancio, nulla, era tornata in Germania, a Lipsia, dove suo fratello l'ospitava: avrebbe ripreso a fare la cameriera in una birreria, magari quella stessa dove Butóri l'aveva conosciuta. Così era finito il suo viaggio in Italia; Badolati le aveva pagato il biglietto del treno, per lei e per la bambina, Lotte, che aveva i capelli quasi bianchi, come una vecchia e diceva «"Ja", sì, oh, "bitte", scusi». Olindo, infine, da un po' di tempo mancava sul lavoro, quei manovali di Contea e di Londa che rientravano in famiglia una volta la settimana, dicevano ch'era «in un fondo di letto, bianco come la cera». Ma di questo, per timore di dispiacere a Metello, non ne parlavano mai, nel camerone. Piuttosto, dopo che Giannotto ci aveva alluso, un po' tutti lo tormentavano chiedendogli com'era andata a finire la sua relazione con la bell'Idina. «Un rospo simile, Annita non lo avrebbe digerito tanto alla leggera». Forse che Ersilia gli voleva meno bene di quanto non ne volesse Annita a suo marito?
Era più intelligente, Metello si diceva, era più moderna. E sapeva capire.
Ora, dopo avere ogni volta anticipato col pensiero il giorno ch'egli verrebbe liberato, piuttosto che dei sentimenti si partecipavano dei fatti: si scrivevano di Libero, dei fiori, dei coniugi Lombardi che appena di ritorno dal mare avevano sgomberato, e dei nuovi pigionali: «una famiglia in cui non ci sono sposine» gli scriveva Ersilia. Ella lo vedeva una volta al mese, in Parlatorio, e ogni giorno, come quattro anni prima, gli portava il pranzo dentro il tovagliolo legato per le cocche. C'era adesso abbastanza sale, sulla scaloppa e nel minestrone.
«Fammi più spesso quello di fagioli» egli le diceva. «E mettici la pasta tagliata corta, sai, le chioccioline».
«Piano, cavaliere» ella gli rispondeva. «Qui non si naviga nell'oro. E' una stagione morta per i fiori. Adelaide Roini mi dà si delle ordinazioni, ma non come d'estate. I pranzi che ti portavo a luglio, ora a settembre non te li posso più portare. E la signora Lorena ci ha chiuso il borsellino, tanto a me che ad Annita. Giannotto lo deve digià sapere, domandaglielo, e sentirai».
Anche, egli la informava dei suoi pensieri; e ciò che le taceva, siccome le sue lettere andavano vistate: le allusioni, i giochi di parole, ella non faticava a spiegarseli.
«Non avrei mai immaginato di tornare così presto tra queste mura. Ma ora è molto diverso da quattro anni fa. Sono io diverso. Ossia, sono anch'io la medesima persona, ma ho qualche anno di più. Sono innocente come allora, ma mi sento più sicuro. Quando rispondo al Giudice, la mia innocenza gliela so spiegare. 'Peccato tu non abbia studiato' mi ha detto nell'ultimo interrogatorio. 'Ho studiato sui ponti, gli ho risposto 'sapesse quanto ci si impara'. E' la verità. Mettere un mattone sopra l'altro, calibrato, pareggiare la calcina, dar d'intonaco, stuccare, sembra facile, provaci. Diventa facile quando s'incomincia a capirne il modo. Come in tutte le cose. E qui siamo tra amici e tra muratori, se uno non è aggiornato, gli si spiega... Ma i miei pensieri più belli» le scrisse quel settembre «riguardano te e li tengo segreti. Sono passati cinque anni; se nel frattempo ho fatto centro su qualcosa, è perché c'eri te».
«Tu conosci il tuo mestiere e io il mio» ella gli rispose. «So fare i fiori, so fare la treccia, volendo saprei anche mettere in prova un vestito, ma non gli do troppa importanza, se no mi ci sperdo. Io ambirei vivere tranquilla: tu, Libero ed io, magari anche un altro figlio se dovesse venire. Mi basterebbe un pezzo di pane e un gocciolo di vino. Ma so che non è possibile, perciò ti do ragione. Però, te l'ho detto un'altra volta, tu non mi devi spaventare. E quando mi scrivi, non mi trattare come una fidanzata. Non vorrei che dipendesse dal fatto che ti trovi rinchiuso tra coteste mura! Succede, vedi, che io non sono brava a contraccambiare, sto qui da un'ora a mordere il cannuccio della penna. Se ti scrivessi: «Metello mio come t'amo», mi sembrerebbe di pigliare in giro te e di pigliarmi in giro. Ho chiesto aiuto a Libero. «Il babbo vorrebbe delle paroline, che gli scriviamo?». Sai cosa mi ha risposto? "Polta lallo". Sogna sempre il cavallo a dondolo, glielo aveva promesso quella persona. Bisognerà proprio accontentarlo per la Befana. Ci mancano più di due mesi, tu sarai tornato, Pescetti l'altra sera ci giurava, anche Del Buono, tutti sono di questo parere. Andremo insieme a comprarglielo la vigilia, il 5 gennajo. Ti dice nulla questa data?».
«Che sono passati quasi tre anni, e mi sembra jeri, Ersilia.... Ora mi accorgo di non avere mantenuto la promessa che ti feci entrando nel Caffè di Piazza Piattellina. E' che, più ti tiri indietro, più c'è qualcosa che ti riporta in prima linea. Ma d'ora in avanti, ti prometto, ti... Lo so, tu non vuoi che giuri».
Verso la fine di settembre, Olindo mandò sue notizie, attraverso un'infermiera che conosceva Ersilia. «E' all'Ospedale» ella scrisse a Metello. «Gli è scoppiata l'etisìa».
«Vallo a trovare, portagli qualcosa, digli che né io né nessuno di quelli che sono qui, coviamo del rancore. Ha agito secondo il suo carattere».
«Ci sono tornata jeri, c'ero digià stata, avevo taciuto per vedere come la pigliavi. E' ridotto male, povero Olindo, a stargli mezz'ora vicino schianta il cuore. Parla di te come di un Padre Eterno, debbo essere proprio io a fargli la tara».
A voce, in Parlatorio, gli disse: «Non te l'ho scritto perché poteva capitare che la lettera andasse in mano ai tuoi compagni, ma Olindo non è rassegnato affatto. Dà la colpa a quelli che lo picchiarono di avergli spaccato i polmoni. Non è vero, lo so. Era digià malato quando tornò dal Belgio. Ma certo, quelle botte, non gli dovettero giovare. Comunque, è avvelenato, forse ce l'ha anche con te. Davanti a me non fa che dire: «Metello Metello», ma poi dietro, chissà... Ora ho da riferirti una cattiva notizia; me l'ha data Olindo, è naturale. Là in Belgio, il 10 d'agosto, è morta mamma Isolina».
Nel giorno e nella notte dipoi, egli non riuscì a parlare coi suoi compagni, né a dormire. Solo, nel buio e nel tanfo del camerone, gli si inumidirono gli occhi, più che se fosse morta sua madre; era stata mamma Isolina la sua vera madre. E per contrasto, non pensava di essere né ingiusto né crudele, sentì accrescersi la sua avversione per Olindo: lo avrebbe voluto saper guarito, possibilmente, ma lontano, non rivederlo mai.
Dopo aver cercato di spiegarle il proprio stato d'animo: «Questo mi ha fatto ricordare il passato» scrisse ad Ersilia. Confusamente, le partecipava il suo sgomento e insieme, la sua forza morale. «Da quando ero bambino e incominciavo a capire, fino ad oggi, qui dove mi trovo. Le persone che più mi hanno giovato, e con le quali speravo di fare un lungo pezzo di strada, ora questo ora quello, mi sono scappate davanti agli occhi senza saper come. Non dico soltanto i genitori, che non ho conosciuto, e non soltanto mamma Isolina, ma Betto, e poi Pestelli, e poi tuo padre. E il Chellini, che morì a Portolongone, dicono di polmonite, comunque anche lui solo come un cane. Che aiuto gli ho potuto dare? Nessuno. Cosa ho creduto d'imparare? A non espormi, a non conoscere nemmeno di vista la prigione, e ci sono finito due volte diritto come un fuso.... Perciò ho stabilito» concludeva «che il passato bisogna scordarselo, ce lo portiamo dietro ma non ci deve pesare. I morti che ci hanno fatto del bene, si ricompensano guardando in faccia i vivi. Ci si dovrebbe semmai più ricordare dei loro sbagli che delle loro cose indovinate. E' coi vivi che siamo alle prese. E con loro, ti devi esporre per forza. Primo o ultimo, ci troviamo tutti sulla stessa barricata». Poi le scrisse. «Ma a volte, fa certi scherzi, la memoria! Ricordi cose di vent'anni fa, e non riesci a mettere insieme quelle che ti sono capitate ieri. Oppure, crolla una casa e tu rammenti quei passerotti che son volati via. Tutta la mia vita è venuta a far massa durante il mese e mezzo dello sciopero, fino all'ultimo giorno sciagurato, e di cotesto ultimo giorno, la circostanza che più mi balza all'occhio, è la meno importante. Anzi, non c'entra proprio. E' la donna che incontrai in Piazza dell'Annunziata, mentre mi dirigevo alla Fortezza. Lei doveva aver lasciato una creatura alla "ruota". Non la vidi nemmeno. La sentii soltanto scappare e dire: «Addio, mimmino!». Ma il rumore di quei tacchi e quelle parole, mi stanno conficcati in testa più degli spari, più della ferita del Tedesco, più di come era ridotto il decano cascato a testa in giù, più degli occhi del piccolo Renzoni. C'è una spiegazione? Non c'è».
«C'è» ella gli rispose. «Sono i casi della vita. E tu hai trent'anni e sei d'animo buono. Ma c'entra anche la tua vanità, non dubitare. Al momento opportuno sei capace, non di far del male, no, ma di essere egoista e spensierato, eccòme».
Qualche settimana più tardi, il giorno d'Ognissanti, «spalanca gli occhi» ella gli scrisse: «Stammi a sentire. Stamani facevo il bagno a Libero, quando ha suonato il postino. C'era una lettera, veniva di città, ma non era detto chi spediva. Ed era indirizzata a te, col tuo nome, la strada e il numero precisi. Una calligrafia tutta sdrajata, di persona istruita. Dapprima ho pensato a lei, all'esosa, che mi volesse fare un dispetto. Poi mi sono ricordata di quando, per le Feste, ci mandava cartoline di auguri da piano a piano, che carina! Scriveva peggio di me; non poteva essere lei. Ma non ti voglio fare stare con l'animo sospeso più di quanto non sono rimasta io con quella busta in mano. Alla fine l'ho aperta. e ci ho trovato dentro cento lire. Cotesto foglio da cento, e non un rigo, nulla. Avranno voluto scherzare? Può esistere gente tanto infame? Ora esco, vado dal fornajo, anche se il biglietto è falso, non mi denuncerà!
Sono buone, Metello, sono cento lire di quelle vere. Ho pagato il debito col fornajo, per il resto come mi debbo comportare? Non abbiamo mai fatto nessuna buona azione che meritasse una riconoscenza di questo genere, eppoi, perché cosi coperta? Esistono i Maghi, esistono le Fate? Illuminami tu, sulla busta c'era il tuo nome».
«Non lo so, Ersilia, nemmeno io mi so capacitare. Si vede che a questo mondo c'è più bontà di quello che si crede. Non ti lambiccare il cervello, piglia coteste cento lire come un regalo delle Fate, d'un Omobono, d'una Befana anticipata!».
«Lo considero un prestito» ella gli rispose. «Da qualunque parte venga. Ho pagato i debiti più urgenti, la rata della strozzina, il calzolajo, ho dato una spinta ad Annita, mi sono rimaste venti lire, domani Adelaide mi salda il lavoro di una settimana. Siamo ricchi, Metello. Quando torni, potrai farti un pastrano. Grazie a quel Mago. O a quella Fata».
E poi novembre, già si appannavano i vetri alle finestre, a sera calava la nebbia dalle colline, ella si recò a trovarlo in Parlatorio, e questa volta non gli poté più nascondere di aspettare un bambino. «Te lo dicevo che di questo sciopero ce ne saremmo ricordati! Sono entrata nel sesto mese. Non te l'avevo fatto sapere perché tu stessi più tranquillo. E' una buona gravidanza, ti assicuro, anche battere il mazzuolo non mi costa fatica. Non mi s'è nemmeno mai gonfiata la noce del piede».
Egli non seppe fare altro che prenderle le mani e baciarla sulla gota.
«Come lo chiameremo?» le scrisse poi. «Col nome di Betto o col nome di tuo padre? Chissà perché non ci si pose questo pensiero quando si trattò di dare un nome a Libero?».
«Non ci si pensò perché ci trovammo subito d'accordo. Libero, era un nome che pareva un programma, te ne sei scordato? Ora, per questo nuovo, Quinto o Betto, come vorrai. Forse Betto è anche meglio. Ma se invece sarà una bambina?».
«Per una bambina, sempre che a te non dispiacesse, un bel nome potrebbe essere Viola».
«Perché mi dovrebbe dispiacere? Anzi, ci ho digià fatto l'orecchio; se i segni che dicono sono veri, si tratterà proprio di una bambina. Eppoi, non era il nome di quella maestra che conoscesti tanti anni fa, quando ancora avevi da fare il soldato?».
«Sì, ma non ci mettere dell'ironia. Non l'ho più rivista, oggi avrà passato i cinquant'anni. Ho riflettuto, e mi sono detto che i Maghi esistono, esistono le Fate, ma si tratta sempre di persone. Non può essere stata che lei, a mandarci quei quattrini. Ed andarla a cercare, per ringraziarla, dal momento che lei ha voluto restare nel passato, non mi sembra sia il caso».
«Non ti parrebbe una gratitudine un po' fuori dell'ordinario?» ella gli chiese. «Comunque ne riparleremo se sarà davvero una bambina». Gli scriveva ora che suo fratello era venuto in licenza, che avevano fatto un pranzo a casa della madre, in San Frediano, che Libero era sempre più «innamorato della piccola Jole, uno splendore di biondo, va digià a scuola».
Era il 12 dicembre del 1902, l'indomani li avrebbero liberati, da un'ora all'altra, senza preavviso, per evitare che all'uscita del Carcere, si organizzassero delle manifestazioni. Diciannove quanti erano, quattro o sei per volta, si abbracciarono e si strinsero le mani.
«Domattina ci si ritrova sui Cantieri».
«Ci sarà lavoro?».
«Ce lo daranno?».
«Speriamo».
«Da Badolati, forse, di sicuro».
«E da Madii, da Tajuti?».
«Si tratterà di vedere».
«Buonanotte, figlioli».
«Anche questa è passata, buonanotte» disse Corsiero. «Poteva andar peggio».
«Buonanotte».
«A domani».
«Bona».
Erano le cinque di sera, i lampioni erano già accesi, la nebbia sembrava fasciare la città nel giro delle colline e arrestarsi all'altezza dei Viali; sopra le vie e le piazze, il Carcere, le case, il cielo era pulito e compatto, con tutte le stelle e tre quarti di luna. Giannotto, uscito coi primi, dette una voce a Ersilia, passando da via dell'Ulivo, poco lontano dalle Murate, e sulla strada per raggiungere i Lungarni e San Frediano.
Quando Metello varcò il portone, lei stava sul marciapiede dirimpetto, col bambino in braccio e i capelli belli pettinati, uno scialle rosa sulle spalle, il ventre di sette mesi che la sformava e nondimeno la illeggiadriva, in qualche modo. Egli baciò Libero sulla guancia, baciò lei; le tolse il bambino e lei lo prese a braccetto. Percorsero in silenzio tutta via Ghibellina, ed entrarono nel Caffè del Canto alle Rondini. Lei prese un corretto, lui una grappa; lei cavò di tasca un savoiardo e lo mise in mano al bambino. Senza volere, erano venuti a trovarsi di fronte al grande specchio incorniciato d'oro di una reclame, e si sorrisero.
«La Sacra Famiglia» egli disse.
«Su» ella disse. «Non bestemmiare».
«Ma d'ora in avanti».
«D'ora in avanti cosa?».
F I N E.
(1952).
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