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lunedì 5 luglio 2010

(dalla 51 alla 209) F.LLI GRIMM: tutte le Novelle, Favole, Fiabe Integrali e Biografia



Fratelli Grimm


Doppio ritratto dei fratelli Wilhelm (a sinistra) e Jacob Grimm, di Elisabeth Maria Anna Jerichau-Baumann, 1855
Jacob Ludwig Karl Grimm (Hanau, 4 gennaio 1785 – Berlino, 20 settembre 1863) e Wilhelm Karl Grimm (Hanau, 24 febbraio 1786 – Berlino, 16 dicembre 1859) furono due linguisti tedeschi, meglio noti come i fratelli Grimm, ricordati soprattutto per aver raccolto e rielaborato le fiabe della tradizione popolare tedesca nelle opere Fiabe (Kinder und Hausmärchen, 1812-1822) e Saghe germaniche (Deutsche Sagen, 1816-1818). Fra le fiabe più celebri da loro pubblicate vi sono classici del genere come Hansel e Gretel, Cenerentola, Il principe ranocchio, Cappuccetto Rosso e Biancaneve, che presero dagli scrittori di fiabe italiani Giovanni Francesco Straparola e Giambattista Basile.
Biografia
I fratelli Grimm nacquero nel 1785 (Jacob) e nel 1786 (Wilhelm) ad Hanau, vicino a Francoforte. Frequentarono il Friedrichs Gymnasium di Kassel e poi studiarono legge all'Università di Marburgo. Furono allievi del noto giurista tedesco Friedrich Carl von Savigny, del quale rielaborarono il pensiero e gli studi di metodologia della scienza giuridica. Dal 1837 al 1841, si unirono a cinque colleghi professori dell'università di Göttingen per protestare contro l'abrogazione della costituzione liberale dello stato di Hannover da parte del re Ernesto Augusto I. Questo gruppo divenne celebre in tutta la Germania col nome Die Göttinger Sieben (I sette di Göttingen). In seguito alla protesta, tutti e sette i professori furono licenziati dai loro incarichi universitari e alcuni di loro furono persino deportati. L'opinione pubblica e l'accademia tedesche, tuttavia, si schierarono decisamente a favore dei Grimm e dei loro colleghi. Wilhelm morì nel 1859; suo fratello maggiore Jacob nel 1863. Sono sepolti nel cimitero di St.Matthäus Kirchhof a Schöneberg, un quartiere di Berlino. I Grimm contribuirono a formare un'opinione pubblica democratica in Germania e sono considerati progenitori del movimento democratico tedesco, la cui rivolta fu in seguito soppressa nel sangue dal regno di Prussia nel 1848.
L'opera letteraria
I fratelli Grimm sono celebri per aver raccolto ed elaborato moltissime fiabe della tradizione tedesca; l'idea fu di Jacob, professore di lettere e bibliotecario. Nei loro volumi pubblicarono tuttavia anche fiabe francesi, che i Grimm conobbero attraverso un autore ugonotto che costituiva una delle loro principali fonti. Le loro storie non erano concepite per i bambini; oggi, molte delle loro fiabe sono ricordate soprattutto in una forma edulcorata e depurata dei particolari più cruenti, che risale alle traduzioni inglesi della settima edizione delle loro raccolte (1857).
Le storie dei fratelli Grimm hanno spesso un'ambientazione oscura e tenebrosa, fatta di fitte foreste popolate da streghe, goblin, troll e lupi in cui accadono terribili fatti di sangue, così come voleva la tradizione popolare tipica tedesca. L'unica opera di depurazione che sembra essere stata messa consapevolmente in atto dai Grimm riguarda i contenuti sessualmente espliciti, piuttosto comuni nelle fiabe del tempo e ampiamente ridimensionati nella narrazione dei fratelli tedeschi.
Analisi moderna
Gli psicologi e antropologi moderni sostengono che molte delle storie per bambini della cultura popolare occidentale, incluse quelle narrate dai Grimm, sono rappresentazioni simboliche di sensazioni negative quali la paura dell'abbandono, l'abuso da parte dei genitori, e spesso alludono al sesso e allo sviluppo sessuale. Lo psicologo infantile Bruno Bettelheim, nel suo libro Il mondo incantato, sostiene che le fiabe dei Grimm siano rappresentazione di miti freudiani. Secondo altri studiosi, le fiabe dei Grimm conterrebbero il retaggio di miti più antichi e simboli derivati dalla tradizione alchemico-ermetica. Questa lettura a dire il vero si ritrova già presso Alchimisti del Sette e Ottocento. Fra i saggi più recenti (in lingua italiana) che cercano di rintracciare questo particolare filone, troviamo "Alchimia della Fiaba" di Giuseppe Sermonti e "Favole Ermetiche" di Sebastiano B. Brocchi.
I Grimm e la lingua tedesca
All'inizio del XIX secolo il Sacro Romano Impero aveva da poco cessato di esistere, e la Germania era frammentata in centinaia di principati e piccole nazioni, unificate solo dalla lingua tedesca. Una delle motivazioni che spinsero i Grimm a trascrivere le fiabe, altro retaggio culturale comune dei popoli di lingua tedesca, fu il desiderio di aiutare la nascita di una identità germanica.
I fratelli perseguirono questo scopo anche lavorando alla compilazione di un dizionario di tedesco, il Deutsches Wörterbuch. Sebbene meno noto al grande pubblico moderno, il Deutsches Wörterbuch fu un passo essenziale nella definizione della lingua tedesca moderna "standard", probabilmente il più importante dopo la traduzione della Bibbia da parte di Martin Lutero. Il dizionario dei Grimm, in 33 volumi, è ancora oggi considerato la fonte più autorevole per l'etimologia dei vocaboli tedeschi.
Jacob Grimm è soprattutto famoso in linguistica per aver formulato la legge sulla prima mutazione consonantica, legge di Grimm (o erste Lautverschiebung), nelle lingue germaniche rispetto all'indoeuropeo e, più in particolare, sull'evoluzione di alcuni dialetti tedeschi rispetto alle altre lingue germaniche (zweite Lautverschiebung), anticipata dagli studi comparativi del filologo danese Rasmus Rask nel "Saggio sull'origine dell'antico norvegese o islandese" pubblicato nel 1818, ma scritto nel 1814. Grimm è tuttora considerato il più importante tra i fondatori della moderna filologia germanica. Egli approfondì le tematiche studiate da Rask e, nel 1822, le sviluppò nella seconda edizione della Deutsche Grammatik.
Onorificenze

Cavaliere dell'Ordine Pour le Mérite (classe di pace)
— 1842

Cavaliere dell'Ordine di Massimiliano per le Scienze e le Arti
— 1853
Testimonianze nella cultura e nella società moderna
• Un ritratto dei fratelli Grimm appariva sulle banconote da 1000 marchi (le banconote di maggior valore) in corso dal 1990 al 2002 (anno dell'introduzione dell'euro in Germania).
• Appaiono come personaggi di cornice nel film del 1998 La leggenda di un amore - Cinderella.
• Il 26 agosto 2005 è uscito nelle sale il film I fratelli Grimm e l'incantevole strega (The Brothers Grimm), prodotto da New Line Cinema e diretto da Terry Gilliam. La storia era ispirata a varie storie dei Grimm e vedeva gli stessi fratelli Grimm protagonisti; fra gli attori comparivano Matt Damon e Heath Ledger.
Le fiabe più conosciute
• Biancaneve
• Cenerentola
• I musicanti di Brema
• Il cane d'oro
• Il principe ranocchio
• Hänsel e Gretel
• Cappuccetto Rosso
• Il pifferaio di Hamelin
• Raperonzolo
• Scuraterra
• Il Lupo e i sette capretti
• Il ginepro


I fratelli Grimm
Tutte le fiabe, le favole, le novelle


001
Il principe ranocchio o Enrico di Ferro >>>

002
Gatto e topo in società >>>

003
La figlia della Madonna >>>

004
Storia di uno che se ne andò in cerca della paura >>>

005
Il lupo e i sette caprettini >>>

006
Il fedele Giovanni >>>

007
Il buon affare >>>

008
Lo strano violinista >>>

009
I dodici fratelli >>>

010
Gentaglia >>>

011
Fratellino e sorellina >>>

012
Raperonzolo >>>

013
I tre omini del bosco >>>

014
Le tre filatrici >>>

015
Hänsel e Gretel >>>

016
Le tre foglie della serpe >>>

017
La serpe bianca >>>

018
La pagliuzza, il carbone e il fagiolo >>>

019
Il pescatore e sua moglie >>>

020
Il prode piccolo sarto (Sette in un colpo) >>>

021
Cenerentola >>>

022
L'indovinello >>>

023
Il topino, l'uccellino e la salsiccia >>>

024
Madama Holle >>>

025
I sette corvi >>>

026
Cappuccetto Rosso >>>

027
I musicanti di Brema >>>

028
L'osso che canta >>>

029
I tre capelli d'oro del diavolo >>>

030
Pidocchietto e Pulcettina >>>

031
La fanciulla senza mani >>>

032
Gianni testa fina >>>

033
I tre linguaggi >>>

034
La saggia Elsa >>>

035
Il sarto in paradiso >>>

036
Il tavolino magico, l'asino d'oro e il randello castigamatti >>>

037
Pollicino >>>

039
La signora volpe >>>

039
Gli gnomi >>>

040
Il fidanzato brigante >>>

041
Messer Babau >>>

042
Il compare >>>

043
Lo strano invito >>>

044
Comare Morte >>>

045
Il viaggio di Pollicino, il piccolo sarto >>>

046
L'uccello strano >>>

047
Il ginepro >>>

048
Il vecchio Sultano >>>

049
I sei cigni >>>

050
Rosaspina >>>

051
Ucceltrovato >>>

052
Il re Bazza di Tordo >>>

053
Biancaneve >>>

054
Lo zaino, il cappellino e la cornetta >>>

055
Tremotino >>>

056
Il diletto Orlando >>>

057
L'uccello d'oro >>>

058
Il cane e il passero >>>

059
Federico e Caterinella >>>

060
I due fratelli >>>

061
Il contadinello >>>

062
La regina delle api >>>

063
Le tre piume >>>

064
L'oca d'oro >>>

065
Dognipelo >>>

066
La sposa del leprotto >>>

067
I dodici cacciatori >>>

068
Il ladro e il suo maestro >>>

069
Jorinda e Joringhello >>>

070
I tre figli della fortuna >>>

071
I sei che si fanno strada per il mondo >>>

072
Il lupo e l'uomo >>>

073
Il lupo e la volpe >>>

074
La volpe e la comare >>>

075
La volpe e il gatto >>>

076
Il garofano >>>

077
La saggia Ghita >>>

078
Il vecchio nonno e il nipotino >>>

079
L'ondina >>>

080
La morte della gallinella >>>

081
Il Buontempone >>>

082
Il Giocatutto >>>

083
La fortuna di Gianni >>>

084
Gianni si sposa >>>

085
I figli d'oro >>>

086
La volpe e le oche >>>

087
Il ricco e il povero >>>

088
L'allodola che canta e saltella >>>

089
La piccola guardiana di oche >>>

090
Il giovane gigante >>>

091
Lo gnomo >>>

092
Il re del monte d'oro >>>

093
Il corvo >>>

094
La figlia furba del contadino >>>

095
Il vecchio Ildebrando >>>

096
I tre uccelli >>>

097
L'acqua della vita >>>

098
Il dottor Satutto >>>

099
Lo spirito nella bottiglia >>>

100
Il fuligginoso fratello del diavolo >>>

101
La giubba verde del diavolo >>>

102
Il re di macchia e l'orso >>>

103
La pappa dolce >>>

104
I fedeli animali >>>

105
Storie della serpe >>>

106
Il povero garzone e la gattina >>>

107
Le cornacchie >>>

108
Gian Porcospino >>>

109
La camicina da morto >>>

110
L'ebreo nello spineto >>>

111
Il cacciatore provetto >>>

112
La trebbia venuta dal cielo >>>

113
Il principe e la principessa >>>

114
Il saggio piccolo sarto >>>

115
La luce del sole lo rivelerà >>>

116
La luce azzurra >>>

117
Il bambino capriccioso >>>

118
I tre cerusici >>>

119
I sette svevi >>>

120
I tre garzoni >>>

121
Il principe senza paura >>>

122
L'insalata magica >>>

123
La vecchia nel bosco >>>

124
I tre fratelli >>>

125
Il diavolo e sua nonna >>>

126
Fernando fedele e Fernando infedele >>>

127
Il forno >>>

128
La filatrice pigra >>>

129
I quattro fratelli ingegnosi >>>

130
Occhietto, Duocchietti, Treocchietti >>>

131
La bella Caterinella e Pum Pum Fracassino >>>

132
La volpe e il cavallo >>>

133
Le scarpe logorate dal ballo >>>

134
I sei servi >>>

135
La sposa bianca e quella nera >>>

136
L'uomo selvaggio >>>

137
Le tre principesse nere >>>

138
Knoist e i suoi tre figli >>>

139
La ragazza di Brakel >>>

140
Donnette >>>

141
L'agnellino e il pesciolino >>>

142
Il monte Simeli >>>

143
Il giramondo >>>

144
L'asinello >>>

145
Il figlio ingrato >>>

146
La rapa >>>

147
Il fuoco che ringiovanisce >>>

148
Le bestie del Signore e quelle del diavolo >>>

149
La trave del gallo >>>

150
La vecchia mendicante >>>

151
I tre pigri >>>

152
Il pastorello >>>

153
La pioggia di stelle >>>

154
Il centesimo rubato >>>

155
La scelta della sposa >>>

156
Gli scarti >>>

157
Il passero e i suoi quattro figli >>>

158
La favola del paese di Cuccagna >>>

159
Filastrocca di bugie >>>

160
Fiaba indovinello >>>

161
Biancaneve e Rosarossa >>>

179
La guardiana delle oche alla fonte >>>

201
San Giuseppe nel bosco >>>

202
I dodici apostoli >>>

203
La rosa >>>

204
Umiltà e povertà portano in cielo >>>

205
Il cibo di Dio >>>

206
I tre ramoscelli verdi >>>

207
Il bicchierino della Madonna >>>

208
La vecchierella >>>

209
Le nozze celesti >>>

ervi dovettero andare a cercarli. Ma i bambini li videro venir da lontano e Lena disse: -Ucceltrovato, se non mi lasci, neppure io ti lascerò!-. E Ucceltrovato rispose: -N‚ ora n‚ mai!-. Allora Lena disse: -Diventa una chiesa, e io la lumiera!-. Quando giunsero i tre servi, non c'era altro che una chiesa e, dentro, una lumiera. Dissero fra loro: -Cosa stiamo a fare qui? Torniamocene a casa!-. Quando furono a casa la cuoca domandò se non avessero trovato nulla, ed essi risposero che no, null'altro che una chiesa con dentro una lumiera. -Stupidi!- urlò la cuoca -perché‚ non avete distrutto la chiesa e portato a casa la lumiera?- Questa volta la vecchia cuoca si mise lei stessa in cammino e andò alla ricerca dei bambini con i tre servi. Ma i bambini videro venire di lontano i tre servi con la cuoca che barcollava dietro a loro. Allora Lena disse: -Ucceltrovato, se non mi lasci, neppure io ti lascerò!-. E Ucceltrovato rispose: -N‚ ora n‚ mai!-. Disse Lena: -Diventa uno stagno e io l'anitra nello stagno-. Quando la cuoca arrivò e vide lo stagno, si distese sulla riva e voleva berlo tutto. Ma l'anitra accorse a nuoto, la prese con il becco per la testa e la tirò in acqua: e così la vecchia strega dovette annegare. Poi i bimbi se ne tornarono a casa tutti contenti e, se non sono morti, sono ancora viventi.
FINE





Il re Bazza di Tordo
tempo: 10'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 052



Un re aveva una figlia di straordinaria bellezza, ma molto altera e sdegnosa, sicché‚ nessun pretendente le pareva degno di lei, ed ella li respingeva l'uno dopo l'altro, deridendoli per giunta. Una volta il re ordinò una gran festa e invitò quanti desiderassero ammogliarsi. I pretendenti furono messi in fila secondo il grado e il ceto: prima i re, poi i duchi, i principi, i conti e i baroni, e infine i nobili. La principessa fu condotta fra di loro, ma a ciascuno trovava qualcosa da ridire: questo era troppo grasso: -Che botte!- esclamava; quello era troppo lungo: -Lungo, lungo, alto fin là, bella andatura proprio non ha!-; il terzo troppo piccolo: -Così grasso e piccolino, sembra proprio un maialino!-; il quarto troppo pallido: -Terreo come la morte!-; il quinto troppo rosso: -Che tacchino!-; il sesto non era perfettamente diritto: -Legna verde seccata dietro la stufa!-. E così trovava sempre qualcosa da ridire su ciascuno; ma in particolare beffeggiò un buon re che si trovava in prima fila e aveva il mento un po' ricurvo. -Oh- esclamò ridendo -quello ha il mento come il becco di un tordo!- E da quel momento lo chiamarono Bazza di Tordo. Ma il vecchio re andò in collera vedendo che la figlia non faceva altro che prendersi gioco dei pretendenti là riuniti, sdegnandoli, e giurò di darla in moglie al primo mendicante che bussasse alla sua porta. Qualche giorno più tardi un suonatore si mise a cantare sotto la finestra per avere una piccola elemosina. Quando il re l'udì, disse: -Fatelo salire!-. Entrò un suonatore lurido e cencioso, cantò davanti al re e a sua figlia e, quand'ebbe finito, domandò una modesta ricompensa. Il re disse: -Il tuo canto mi è così piaciuto che voglio darti mia figlia in isposa-. La principessa inorridì, ma il re disse: -Ho fatto giuramento di darti al primo accattone e lo manterrò-. A nulla valsero le proteste: fu chiamato il parroco ed ella dovette sposare il suonatore. Celebrate le nozze, il re disse: -Non si confà che la moglie di un mendicante abiti nel mio castello, non hai che da andartene con tuo marito-. Il mendicante se ne andò così insieme a lei. Arrivarono in un grande bosco ed ella domandò:-Questo bel bosco a chi appartiene?- -Bazza di Tordo in suo poter lo tiene. Sarebbe tuo non l'avessi rifiutato.- -Povera me, or tutto ho ricordato, come vorrei che ciò non fosse stato!-Poi attraversarono un bel prato ed ella chiese ancora:-Questo prato verde a chi appartiene?- -Bazza di Tordo in suo poter lo tiene. Sarebbe tuo non l'avessi rifiutato.- -Povera me, or tutto ho ricordato, come vorrei che ciò non fosse stato!-Giunsero poi in una gran città ed ella tornò a domandare:-Che prospera città! A chi appartiene?- -Bazza di Tordo in suo poter la tiene. Sarebbe tuo non l'avessi rifiutato.- -Povera me, or tutto ho ricordato, come vorrei che ciò non fosse stato!-Allora il suonatore disse: -Non mi garba affatto che tu rimpianga sempre un altro marito; non ti basto io, forse?-. Finalmente giunsero ad una piccola casetta, ed ella disse:-Ah, Dio mio! Che casa piccina! A chi appartiene la povera casina?-Il suonatore rispose: -E' la mia casa e la tua, dove abiteremo insieme-. -Dove sono i servi?- chiese la principessa. -macché‚ servi!- rispose il mendicante -devi farti da sola ciò che vuoi. Accendi subito il fuoco e metti l'acqua a bollire per la cena: sono stanco morto.- Ma la principessa non sapeva n‚ accendere il fuoco n‚ cucinare, e il mendicante dovette darle una mano perché‚ potesse cavarsela. Quand'ebbero mangiato il pasto frugale, si coricarono ma, il mattino dopo, egli la buttò fuori dal letto di buon'ora perché‚ sbrigasse le faccende di casa. Per un paio di giorni vissero così alla meno peggio e consumarono le loro provviste. Poi l'uomo disse: -Moglie, non possiamo continuare così, a mangiare senza guadagnare. Farai dei canestri-. Andò a tagliare dei giunchi e li portò a casa; ella incominciò a intrecciarli, ma i giunchi duri le ferivano le mani delicate. -Vedo che non va- disse l'uomo. -Fila piuttosto forse ti riesce meglio.- Ella si mise a sedere e cercò di filare; ma il filo duro le tagliò ben presto le tenere dita facendole sanguinare. -Vedi- disse l'uomo -non sei buona a nulla: con te sono capitato male. Be', voglio provare a commerciare in pentole e stoviglie di terra: venderai la merce al mercato- "Ah," pensò la principessa "se viene al mercato gente dal regno di mio padre, e mi vede seduta a vendere, si farà beffe di me!" Ma non c'era via d'uscita, dovette andarci se non voleva morir di fame. La prima volta andò bene: per la sua grande bellezza, la gente comprava volentieri la sua merce e pagava ciò che ella chiedeva; molti le diedero addirittura il denaro lasciandole le pentole. Tirarono avanti con quel guadagno finché‚ durò, poi l'uomo acquistò un altro mucchio di stoviglie. Ella si mise a sedere in un angolo del mercato ed espose la merce in vendita intorno a s‚. Ma improvvisamente arrivò al galoppo un ussaro ubriaco che finì con il cavallo proprio fra le pentole, mandandole in mille pezzi. Ella si mise a piangere e per l'affanno non sapeva che fare. -Ah, che sarà di me!- esclamò. -Cosa dirà mio marito!- Corse a casa e gli raccontò l'accaduto. -Chi mai va a sedersi all'angolo del mercato con stoviglie di terra!- disse l'uomo. -Smettila di piangere, vedo bene che non sei buona a nulla. Proprio per questo sono stato al castello del nostro re e ho domandato se aveva bisogno di una sguattera; mi hanno promesso che ti prenderanno, in cambio ti daranno da mangiare.- Così la principessa diventò sguattera; dovette aiutare il cuoco ed eseguire i lavori più faticosi. A ogni tasca fissava un pentolino per portare a casa gli avanzi; e così campavano. Ora avvenne che si dovevano celebrare le nozze del figlio primogenito del re; la povera donna salì le scale e si mise davanti alla porta della sala per guardare. Fra tanto lusso e splendore, ella pensava tutta afflitta al suo destino e malediva la superbia e l'arroganza che l'avevano precipitata in tanta miseria. Ogni tanto i servi le buttavano qualche avanzo dei piatti deliziosi che venivano serviti, ed ella li metteva nei suoi pentolini per portarli a casa. D'un tratto entrò il principe tutto vestito d'oro e, quando vide la bella donna sulla porta, la prese per mano e voleva ballare con lei. Ma lei rifiutò, spaventata, poiché‚ riconobbe il re Bazza di Tordo, il pretendente che aveva respinto e dileggiato. Mentre ella faceva resistenza, il principe la tirò nella sala; così si ruppe il cordino da cui pendevano le tasche: i pentolini caddero a terra facendo colar fuori la minestra e gli avanzi si sparsero qua e là. A quella vista, tutti scoppiarono a ridere, sbeffeggiandola; ed ella si vergognò tanto che avrebbe preferito essere mille braccia sotto terra. Corse alla porta e voleva fuggire, ma sulle scale un uomo la raggiunse e la riportò indietro. E quando ella lo guardò, vide che era di nuovo il re Bazza di Tordo. -Non aver paura- le disse questi -io e il suonatore che abitava con te nella misera casetta siamo la stessa persona: per amor tuo mi sono travestito così: e sono anche l'ussaro che ti ha spezzato le stoviglie. Tutto ciò è accaduto per spezzare il tuo orgoglio e per punire l'arroganza con la quale ti sei presa gioco di me. Ma ora tutto è finito, e adesso festeggeremo le nostre nozze.- Allora vennero le ancelle e le fecero indossare le vesti più sontuose, e venne il padre della principessa con tutta la corte per farle gli auguri per il suo sposalizio con il re Bazza di Tordo; e la vera festa incominciò solo allora. Se io e te ci fossimo stati!
FINE





Biancaneve
tempo: 21'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 053



Una volta, in inverno inoltrato, mentre i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina cuciva seduta accanto a una finestra dalla cornice d'ebano. E, mentre cuciva e alzava gli occhi per guardare la neve, si punse un dito e tre gocce di sangue caddero nella neve. Il rosso era così bello su quel candore, che ella pensò fra s‚: "Avessi un bambino bianco come la neve, rosso come il sangue e nero come il legno della finestra! ". Poco tempo dopo, diede alla luce una bimba bianca come la neve, rossa come il sangue e con i capelli neri come l'ebano; e, per questo, la chiamarono Biancaneve. E, quando nacque, la regina morì. Dopo un anno, il re prese di nuovo moglie: una donna bella, ma orgogliosa; non poteva tollerare che qualcuno la superasse in bellezza. Possedeva uno specchio e, quando vi si specchiava, diceva:-Specchio fatato, in questo castello, hai forse visto aspetto più bello?-E lo specchio rispondeva:-E' il tuo, Regina, di tutte il più bello!-Ed ella era contenta, perché‚ sapeva che lo specchio diceva la verità. Ma Biancaneve cresceva, diventando sempre più bella e, quand'ebbe sette anni, era bella come la luce del giorno e più bella della regina stessa. Una volta che la regina interrogò lo specchio:-Specchio fatato, in questo castello, hai forse visto aspetto più bello?- Lo specchio rispose:-Il tuo aspetto qui di tutte è il più bello, ma Biancaneve dalla chioma corvina è molto più bella della Regina!-All'udire queste parole, la regina allibì e sbiancò per l'ira e l'invidia. Da quel momento in poi, la sola vista di Biancaneve la sconvolgeva, tanto la odiava. Invidia e superbia crebbero a tal punto in lei, da non lasciarle più pace n‚ giorno n‚ notte. Allora chiamò un cacciatore e disse: -Conduci la bambina nella foresta selvaggia, non voglio più vederla. Uccidila e portami i polmoni e il fegato come prova della sua morte-. Il cacciatore obbedì e condusse Biancaneve lontano, ma quando estrasse il coltello per trafiggere il suo cuore innocente, ella si mise a piangere e disse: -Ah, caro cacciatore, risparmiami la vita! Me ne andrò nel bosco e non farò mai più ritorno a casa-. Ed ella era tanto bella, che il cacciatore ne ebbe pietà e disse: -Va' pure, povera bimba-. "Le bestie feroci ti divoreranno ben presto" pensava; ma sentiva che gli si era levato un grosso peso dal cuore, non dovendola più uccidere. E siccome, proprio in quel momento, arrivò di corsa un cinghialetto, lo sgozzò, gli tolse i polmoni e il fegato e li portò alla regina come prova. Ella, nella sua bramosia, li fece cucinare sotto sale e li divorò credendo di mangiare polmoni e il fegato di Biancaneve. Intanto la povera bambina era tutta sola nella grande foresta, e aveva tanta paura che temeva anche le foglie degli alberi e non sapeva cosa fare per porsi in salvo. Allora si mise a correre e corse sulle pietre aguzze e fra le spine; le bestie feroci le passavano accanto, ma senza farle alcun male. Corse finché‚ la ressero le gambe; sul far della sera, vide una piccola casetta e vi entrò per riposarsi. Nella casetta ogni cosa era minuscola ma straordinariamente linda e aggraziata. C'era un tavolino ricoperto da una candida tovaglietta e apparecchiato con sette piattini: ogni piattino aveva il suo cucchiaino, sette coltellini, sette forchettine e sette bicchierini. Lungo la parete, l'uno accanto all'altro, c'erano sette lettini, coperti di candide lenzuola. Biancaneve aveva tanta fame e tanta sete che mangiò un po' di verdura e di pane da ciascun piattino, e bevve una goccia d vino da ogni bicchierino, poiché‚ non voleva portare via tutto a uno solo. Poi, dato che era tanto stanca, si sdraiò in un lettino ma non ce n'era uno che le andasse bene: questo era troppo lungo, quell'altro troppo corto; finalmente il settimo fu quello giusto, vi si coricò, si raccomandò a Dio e si addormentò. Quando fu buio arrivarono i padroni di casa: erano sette nani che estraevano i minerali dai monti. Accesero le loro sette candeline e, quando la casetta fu illuminata, si accorsero che era entrato qualcuno, perché‚ non era tutto in ordine come l'avevano lasciato. Il primo disse: -Chi è seduto sulla mia seggiola?- Il secondo: -Chi ha mangiato dal mio piattino?-. Il terzo. -Chi ha preso un pezzo del mio panino?-. Il quarto: -Chi ha mangiato un po' della mia verdura?-. Il quinto: -Chi ha usato la mia forchettina?-. Il sesto: -Chi ha tagliato con il mio coltellino?-. Il settimo: -Chi ha bevuto dal mio bicchierino?- Poi il primo si guardò intorno e vide che il suo letto era un po' schiacciato e disse: -Chi ha schiacciato il mio lettino?-. Gli altri arrivarono di corsa e gridarono: -Anche nel mio c'è stato qualcuno!-. Ma il settimo, quando guardò nel suo lettino, vi scorse Biancaneve addormentata. Allora chiamò gli altri che accorsero e, gridando di meraviglia, presero le loro sette candeline e illuminarono Biancaneve. -Ah, Dio mio! ah, Dio mio!- esclamarono -che bella bambina!- E la loro gioia fu tale che non la svegliarono ma la lasciarono dormire nel lettino. Il settimo nano dormì con i suoi compagni: un'ora con ciascuno, e la notte passò. Al mattino, Biancaneve si svegliò e, vedendo i sette nani, s'impaurì. Ma essi le chiesero con gentilezza: -Come ti chiami?-. -Mi chiamo Biancaneve- rispose. -Come hai fatto ad arrivare fino alla nostra casa?- chiesero ancora i nani. Allora ella si mise a raccontare che la sua matrigna voleva farla uccidere, ma il cacciatore le aveva risparmiato la vita ed ella aveva corso tutto il giorno, finché‚ aveva trovato la casina. I nani dissero: -Se vuoi provvedere alla nostra casa, cucinare, fare i letti, lavare, cucire e fare la calza, e tenere tutto in ordine e ben pulito, puoi rimanere con noi e non ti mancherà nulla-. Biancaneve promise che avrebbe fatto tutto ciò, e tenne in ordine la loro casetta. La mattina i nani andavano nei monti in cerca di minerali e dl oro, la sera ritornavano e la cena doveva essere pronta. Durante la giornata la fanciulla era sola e i nani la misero in guardia dicendole: -Fai attenzione alla tua matrigna, farà in fretta a sapere che tu sei qui: non aprire a nessuno-. Ma la regina, credendo di aver mangiato il fegato e i polmoni di Biancaneve, non pensava ad altro se non ch'ella era di nuovo la prima e la più bella; andò davanti allo specchio e disse:-Specchio fatato, in questo castello, hai forse visto aspetto più bello?-E lo specchio rispose:-Il tuo aspetto qui di tutte è il più bello. Ma lontano da qui, in una casina di sette nani, piccina piccina, è Biancaneve dalla chioma corvina molto più bella della Regina!-La regina inorridì poiché‚ sapeva che lo specchio non mentiva e capì che il cacciatore l'aveva ingannata e che Biancaneve era ancora in vita. E, siccome lo specchio le aveva rivelato che la bambina si trovava fra i monti, presso i sette nani, si mise a pensare nuovamente a come fare per ucciderla: perché‚ se non era la più bella in tutto il paese, l'invidia non le dava requie. Pensa e ripensa, si tinse il viso e si travestì da vecchia merciaia, riuscendo a rendersi perfettamente irriconoscibile. Così camuffata, passò i sette monti e arrivò fino alla casa dei setti nani; bussò alla porta e gridò: -Roba bella, comprate! comprate!-. Biancaneve diede un'occhiata fuori dalla finestra e disse: -Buon giorno, buona donna, cosa avete da vendere?-. -Roba buona, roba bella- rispose la vecchia -stringhe di tutti i colori.- E, così dicendo, ne tirò fuori una di seta variopinta e gliela mostrò. "Questa brava donna posso lasciarla entrare" pensò Biancaneve "ha buone intenzioni." Aprì la porta e si comprò la stringa colorata. -Aspetta bimba- disse la vecchia -come se conciata! Vieni per una volta voglio allacciarti io come si deve!- Biancaneve non sospettò nulla di male, le si mise davanti e si lasciò allacciare con la stringa nuova. Ma la vecchia strinse tanto e così rapidamente che a Biancaneve mancò il respiro e cadde a terra come morta. -Finalmente la tua bellezza è tramontata!- disse la perfida donna, e se ne andò. Poco dopo, a sera, ritornarono i sette nani: come si spaventarono nel vedere la loro cara Biancaneve distesa a terra, immobile come se fosse morta! La sollevarono e, vedendo che aveva la vita troppo stretta, tagliarono la stringa. Allora ella incominciò a respirare a fatica, poi, a poco a poco, riprese vigore. Quando i nani udirono ciò che era accaduto, dissero: -La vecchia merciaia non era altri che la regina. Sta' in guardia, e non lasciar entrare nessuno, mentre noi non ci siamo!-. Ma la regina cattiva, appena a casa, andò davanti allo specchio e domandò:-Specchio fatato, in questo castello, hai forse visto aspetto più bello?-E lo specchio rispose:-Il tuo aspetto qui di tutte è il più bello. Ma lontano da qui, in una casina di sette nani, piccina piccina, è Biancaneve dalla chioma corvina molto più bella della Regina!-All'udire queste parole, il sangue le affluì tutto al cuore dallo spavento, poiché‚ vide che Biancaneve era tornata a vivere. Così si rimise nuovamente a pensare a come potesse sbarazzarsene e pensò di utilizzare un pettine avvelenato. Poi si travestì e prese nuovamente le sembianze di una povera donna, del tutto diversa dalla precedente, però. Passò i sette monti e giunse alla casa dei nani; bussò alla porta e gridò: -Roba bella, comprate! comprate!-. Biancaneve diede un'occhiata fuori e disse: -Non posso lasciar entrare nessuno-. Ma la vecchia disse: -Guarda un po' che bei pettini!-. Tirò fuori quello avvelenato e glielo mostrò. Alla bambina piacque tanto che si lasciò raggirare, aprì la porta e lo comprò. Poi la vecchia disse: -Lascia che ti pettini-. Biancaneve non sospettò nulla di male, ma come la vecchia le infilò il pettine fra i capelli, il veleno agì e la fanciulla cadde a terra come morta. -Finalmente è finita per te!- disse la vecchia, e se ne andò. Ma, per fortuna era quasi sera e i sette nani stavano per ritornare. Non appena videro Biancaneve distesa a terra come morta, pensarono subito a un nuovo imbroglio della cattiva matrigna; si misero a cercare e trovarono il pettine avvelenato. Come l'ebbero tolto, Biancaneve si riebbe e raccontò ciò che le era accaduto. Allora essi le raccomandarono ancora una volta di stare attenta e di non aprire la porta a nessuno. A casa, la regina si mise davanti allo specchio e disse:-Specchio fatato, in questo castello, hai forse visto aspetto più bello?-Come al solito lo specchio rispose:-Il tuo aspetto qui di tutte è il più bello. Ma lontano da qui, in una casina di sette nani, piccina piccina, è Biancaneve dalla chioma corvina molto più bella della Regina!-A queste parole, ella rabbrividì e fremette per la collera. Poi gridò: -Biancaneve deve morire, dovesse costarmi la vita.- Andò in una stanza segreta dove nessuno poteva entrare e preparò una mela velenosissima. Di fuori era così bella rossa, che invogliava solo a vederla, ma chi ne mangiava un pezzetto doveva morire. Quando la mela fu pronta, ella si tinse il viso e si travestì da contadina; così camuffata passò i sette monti e arrivò fino alla casa dei nani. Bussò, Biancaneve si affacciò alla finestra e disse: -Non posso lasciar entrare nessuno, i nani me l'hanno proibito!-. -Non importa- rispose la contadina -venderò lo stesso le mie mele. Tieni, voglio regalartene una.- -No- disse Biancaneve, -non posso accettar nulla.- -Hai forse paura del veleno?- disse la vecchia. -Facciamo così: tu mangerai la parte rossa e io quella bianca.- Ma la mela era fatta con tanta arte che soltanto la parte rossa era avvelenata. Biancaneve desiderava tanto la bella mela e, quando vide che la contadina ne mangiava non pot‚ più trattenersi e allungò la mano per farsi dare la sua metà. Ma al primo boccone, cadde a terra morta. Allora la regina disse: -Questa volta nessuno ti risveglierà!-. Tornò a casa e domandò allo specchio:-Specchio fatato, in questo castello, hai forse visto aspetto più bello?-Finalmente lo specchio rispose:-E' il tuo, Regina, di tutte il più bello!-E il cuore invidioso finalmente ebbe pace, se ci può essere pace per un cuore invidioso. A sera, quando i nani tornarono a casa, trovarono Biancaneve distesa a terra: dalle sue labbra non usciva respiro, era morta. La sollevarono, guardarono se vi fosse qualcosa di velenoso, le slacciarono le vesti, le pettinarono i capelli, la lavarono con acqua e vino, ma inutilmente: la cara bambina era morta e non si ridestò. La distesero allora in una bara, vi si sedettero accanto tutti e sette e la piansero per tre giorni interi. Poi volevano sotterrarla, ma ella era ancora così fresca, le sue guance erano così belle rosse da farla sembrare ancora in vita. Allora dissero -Non possiamo seppellirla nella terra nera- e fecero fare una bara di cristallo, perché‚ la si potesse vedere da ogni lato, ve la deposero, vi misero sopra il suo nome, a caratteri d'oro, e scrissero che era figlia di re. Poi esposero la bara sul monte, e uno di loro vi rimase sempre a guardia. Anche gli animali vennero a piangere Biancaneve: prima una civetta, poi un corvo e infine una colombella. Biancaneve giacque per molto, molto tempo nella bara, ma non si decompose: sembrava che dormisse poiché‚ era ancora bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l'ebano. Ma un bel giorno un principe capitò nel bosco e si recò a pernottare nella casa dei nani. Vide la bara di Biancaneve sul monte e lesse ciò che vi era scritto a caratteri d'oro. Allora disse ai nani: -Lasciatemi la bara; vi darò ciò che vorrete in compenso-. Ma i nani risposero: -Non la cediamo per tutto l'oro del mondo-. -Allora regalatemela- disse egli -non posso vivere senza vedere Biancaneve: voglio onorarla e ossequiarla come colei che mi è più cara al mondo.- A queste parole i buoni nani si impietosirono e gli diedero la bara. Il principe ordinò ai suoi servi di portarla sulle spalle. Ora avvenne che essi inciamparono in uno sterpo e per l'urto il pezzo di mela avvelenata che Biancaneve aveva inghiottito le uscì dalla gola. Ella tornò in vita, si mise a sedere e disse: -Ah Dio! dove sono?-. -Sei con me!- rispose il principe pieno di gioia, le raccontò ciò che era avvenuto e aggiunse: -Ti amo al di sopra di ogni altra cosa al mondo; vieni con me nel castello di mio padre, sarai la mia sposa-. Biancaneve acconsentì e andò con lui, e le nozze furono allestite con gran pompa e splendore. Ma alla festa fu invitata la perfida matrigna.
Indossate le sue belle vesti, ella andò allo specchio e disse:-Specchio fatato, in questo castello, hai forse visto aspetto più bello?-Lo specchio rispose:-Qui sei la più bella, oh Regina, ma molto più bella è la sposina!-All'udire queste parole, la cattiva donna si spaventò, e il suo affanno era così grande che non poteva più dominarsi. Da principio non voleva più assistere alle nozze, ma l'invidia la tormentò al punto che dovette andare a vedere la giovane regina. Entrando, vide che non si trattava d'altri che di Biancaneve e impietrì per l'orrore. Ma sulla brace erano già pronte due pantofole di ferro: quando furono incandescenti gliele portarono, ed ella fu costretta a calzare le scarpe roventi e a ballarvi finché‚ le si bruciarono miseramente i piedi e cadde a terra morta.
FINE





Lo zaino, il cappellino e la cornetta
tempo: 11'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 054



C'erano una volta tre fratelli tanto poveri e, quando la loro miseria crebbe al punto che essi non avevano più nulla da mettere sotto i denti, decisero di andarsene in giro per il mondo per cercare fortuna altrove. Cammina cammina per campi e strade, arrivarono infine in un gran bosco dove c'era un monte d'argento. Il maggiore, soddisfatto, ne prese quanto poteva trasportarne e ritornò a casa; gli altri due invece si augurarono una maggior fortuna, perciò non toccarono l'argento e proseguirono. Dopo aver fatto un bel pezzo di strada, arrivarono a una montagna che era tutta d'oro. Il secondo fratello disse: -Che devo fare? Devo arricchirmi con quest'oro, o andare avanti?-. Si fermò a riflettere, ma alla fine si mise in tasca tutto quel che pot‚ e se ne ritornò a casa. Il fratello minore invece pensò: "Oro e argento non mi toccano: non voglio perdere la mia fortuna, forse mi aspetta qualcosa di meglio-. Lasciò l'oro dov'era, proseguì e dopo tre giorni giunse in un'immensa foresta che non finiva mai; e siccome egli non aveva da mangiare n‚ da bere, fu sul punto di morire di fame. Allora salì su di un albero alto, per vedere se di lassù riusciva a scorgere il limite del bosco, ma non vide che cime d'alberi a perdita d'occhio. Scese dall'albero pensando: "Potessi almeno saziarmi una volta!". Quando fu a terra il suo desiderio si era esaudito: ai piedi dell'albero si trovava infatti un tavolo abbondantemente apparecchiato con cibi di ogni sorta il cui profumo giunse alle sue narici. -Viene proprio a proposito!- diss'egli, s'avvicinò alla tavola e mangiò di gusto finché‚ si fu cavata la fame. Quand'ebbe finito, prese la tovaglietta, la piegò accuratamente e la mise nella bisaccia. Poi proseguì e la sera, quando ebbe di nuovo fame, tirò fuori la tovaglietta, la spiegò e disse: -Desidero che tu ti copra di cibi squisiti-. E d'un tratto comparve una gran quantità di piatti di portata colmi di ogni ben di Dio. Egli comprese così che si trattava di una tovaglietta magica ed esclamò: -Mi sei ben più cara dell'argento e dell'oro!-. Ma non volle ancora tornare a casa e proseguì il suo cammino in giro per il mondo. Una sera giunse da un carbonaio che stava facendo carbone e aveva messo sul fuoco delle patate per cena. Chiacchierarono un po'. Poi il carbonaio invitò il giovane a mangiare le patate con lui. -No- rispose -non voglio toglierti la cena; sarai tu a essere mio ospite.- -E chi preparerà?- disse il carbonaio. -Vedo bene che non hai niente con te.- -Eppure sarà un'ottima cena- rispose il giovane. Prese dalla bisaccia la tovaglietta, la spiegò, formulò il suo desiderio, ed ecco apparire i piatti già bell'e pronti. Il carbonaio strabuzzò gli occhi per lo stupore, ma poi allungò la mano e si servì. Quand'ebbero finito di mangiare, il carbonaio disse: -La tua tovaglietta mi piace, se vuoi fare cambio ti do un vecchio zaino militare che è dotato di virtù magiche e che io non uso più-. -In che cosa consiste la sua virtù?- domandò il giovane. Il carbonaio rispose: -Se lo batti con la mano, compare ogni volta un caporale con sei uomini provvisti di moschetto e arma bianca, ed essi fanno quello che tu ordini-. -Se così deve essere- rispose l'altro -il cambio mi sta bene.- Così il carbonaio si tenne la tovaglietta, mentre il giovane se ne andò con lo zaino. Quand'ebbe fatto un tratto di strada disse: -Devo provare le virtù magiche dello zaino- e bussò. Subito comparvero i sette eroi e il caporale disse: -Cosa comanda il mio signore?-. -Andate dal carbonaio e riprendetegli la tovaglietta magica.- Fianco sinist e, dopo non molto tempo, ritornarono con l'oggetto richiesto, sottratto al carbonaio senza fare troppi complimenti. Egli ordinò loro di ritirarsi e proseguì, sperando che la fortuna lo favorisse sempre. Al tramonto arrivò da un altro carbonaio che si stava preparando la cena sul fuoco. -Salute a te!- disse il carbonaio. -Se vuoi mangiare con me patate senza strutto, non hai che da servirti.- -No- rispose egli -per questa volta sarai tu mio ospite.- Stese la tovaglietta che subito si ricoprì di ogni ben di Dio, ed essi mangiarono e bevvero insieme allegramente. Dopo cena il carbonaio disse: -Darei l'anima per avere la tua tovaglietta! Là c'è un cappellino che non mi serve a nulla: se uno lo mette in testa e lo fa girare, le colubrine sparano come se ne avessero appostate dodici in fila e distruggono tutto. Se mi lasci la tovaglietta ti darò il cappello-. Il giovane accettò, prese il cappello e lasciò la tovaglietta. Ma non aveva fatto molta strada che picchiò sul suo zaino e disse al caporale: -Vai con i tuoi sei uomini e riportami la tovaglietta magica-. I soldati gliela riportarono: così egli ci guadagnò il cappello. Tuttavia non voleva fare ritorno a casa e pensava: "Non è ancora ora che torni; devo proseguire". Ma il bosco non aveva fine, ed egli dovette camminare ancora per un giorno intero. La sera giunse da un terzo carbonaio che, come gli altri, lo invitò a mangiare patate senza strutto. Ma egli divise con lui la cena della tovaglietta magica, e il carbonaio mangiò così di gusto, che finì coll'offrirgli una cornetta. A suonarla crollavano tutte le fortificazioni, le città e i villaggi. Egli lascio la tovaglietta al carbonaio, ma la fece reclamare subito dopo dalla soldatesca, sicché‚ alla fine aveva zaino, cappellino e cornetta insieme. -Ora sono a posto- disse -è tempo che faccia ritorno a casa a vedere come se la passano i miei fratelli.- All'arrivo, trovò che essi vivevano nel fasto grazie alla ricchezza accumulata. Ma quando lo scorsero, in abiti vecchi e laceri, non vollero riconoscerlo e lo scacciarono. Allora egli andò in collera e picchiò sullo zaino finché‚ non ebbe davanti centocinquanta uomini. Ordinò loro di dare una bella lezione ai due fratelli, perché‚ si ricordassero chi egli fosse. Scoppiò un gran baccano, e l'intero paese accorse in aiuto dei due malcapitati; i soldati, tuttavia, erano invincibili. Ne fu informato il re che mandò un capitano con la sua truppa. Ma l'uomo dagli strumenti magici, vedendoli venire, picchiò sullo zaino e radunò altri soldati e cavalieri, sicché‚ il capitano e i suoi uomini furono respinti e dovettero ritirarsi con la faccia pesta. Il re disse: -Bisogna assolutamente sottometterlo!- e il giorno seguente gli mandò contro truppe più numerose. Ma il giovane picchiò sullo zaino finché‚ non si trovò davanti un intero esercito schierato, al quale ordinò di scagliarsi sul nemico. Poi girò un paio di volte il suo cappellino: allora incominciarono a sparare le artiglierie pesanti e gli uomini del re furono battuti e messi in fuga. -Adesso non faccio la pace- diss'egli -se non mi danno la principessa in sposa, e tutto il regno da governare in nome del re.- Il re disse alla figlia: -E' dura da digerire, ma se voglio mantenere la pace e conservare la corona, devo cederti-. Così furono celebrate le nozze, ma la principessa non accettava di essere stata costretta a sposare un uomo tanto sgradevole; rimuginava giorno e notte sul modo di sbarazzarsene e nessun pensiero le era più gradito. Tentò di scoprire su che cosa si fondasse il suo potere, ed egli stesso finì col rivelarle la magia dello zaino. Allora ella prese a fargli mille moine per farselo dare e quando finalmente lo ottenne, abbandonò il marito. Allora egli radunò l'esercito, ma la principessa picchiò sullo zaino aumentando del doppio il numero dei propri soldati. Egli sarebbe stato perduto se non avesse avuto il cappellino. Se lo mise in testa e lo fece girare un paio di volte: subito presero a tuonare le artiglierie e tutto crollò; sicché‚ la principessa stessa dovette andare a chiedere grazia. Egli si lasciò persuadere e le accordò la pace. Dopo non molto tempo, la principessa ricominciò a fare delle indagini e, accortasi dei poteri del cappellino, riuscì a convincere il marito a farselo dare a furia di chiacchiere. Ma non appena l'ebbe ottenuto, fece cacciare lo sposo, pensando così di averla spuntata. Ma egli prese la cornetta e si mise a suonarla: e subito crollarono mura e fortini, città e villaggi, seppellendo il re e la principessa. E se egli non avesse deposto la cornetta e l'avesse suonata ancora un po', tutto sarebbe finito in un cumulo di macerie e non sarebbe rimasta pietra su pietra. Così sopravvisse solo lui e regnò su tutto il paese.
FINE





Tremotino
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 055



C'era una volta un mugnaio che era povero, ma aveva una bella figlia. Un giorno gli capitò di parlare con il re e gli disse: -Ho una figliola che sa filare l'oro dalla paglia-. Al re, cui piaceva l'oro, la cosa piacque, e ordinò che la figlia del mugnaio fosse condotta innanzi a lui. La condusse in una stanza piena di paglia, le diede il filatoio e l'aspo e disse: -Se in tutta la notte, fino all'alba, non fai di questa paglia oro filato, dovrai morire-. Poi la porta fu chiusa ed ella rimase sola. La povera figlia del mugnaio se ne stava là senza sapere come salvarsi, poiché‚ non aveva la minima idea di come filare l'oro dalla paglia; la sua paura crebbe tanto che finì col mettersi a piangere. D'un tratto la porta si aprì ed entrò un omino che disse: -Buona sera, madamigella mugnaia, perché‚ piangi tanto?-. -Ah- rispose la fanciulla -devo filare l'oro dalla paglia e non sono capace!- Disse l'omino: -Che cosa mi dai, se te la filo io?-. -La mia collana- rispose la fanciulla. L'omino prese la collana, sedette davanti alla rotella e frr, frr, frr tirò il filo tre volte e il fuso era pieno. Poi ne introdusse un altro e frr, frr, frr, tirò il filo tre volte e anche il secondo fuso era pieno; andò avanti così fino al mattino: ed ecco tutta la paglia era filata e tutti i fusi erano pieni d'oro. Quando il re andò a vedere, si meravigliò e ne fu molto soddisfatto, ma il suo cuore divenne ancora più avido. Così fece condurre la figlia del mugnaio in una stanza molto più grande, piena di paglia, che anche questa volta doveva essere filata in una notte, se aveva cara la vita. La fanciulla non sapeva a che santo votarsi e piangeva; ma all'improvviso si aprì la porta e l'omino entrò dicendo: -Cosa mi dai se ti filo l'oro dalla paglia?-. -L'anello che ho al dito- rispose la fanciulla. L'omino prese l'anello, la ruota cominciò a ronzare e al mattino tutta la paglia si era mutata in oro splendente. A quella vista il re andò in visibilio ma, non ancora sazio, fece condurre la figlia del mugnaio in una terza stanza ancora più grande delle precedenti, piena di paglia, e disse: -Dovrai filare anche questa paglia entro stanotte; se ci riesci sarai la mia sposa-. Infatti egli pensava che da nessun'altra parte avrebbe trovato una donna tanto ricca. Quando la fanciulla fu sola, ritornò per la terza volta l'omino e disse: -Che cosa mi dai se ti filo la paglia anche questa volta?-. -Non ho più nulla- rispose la fanciulla. -Allora promettimi- disse l'omino -quando sarai regina, di darmi il tuo primo bambino.- "Chissà come andrà a finire!" pensò la figlia del mugnaio e, del resto, messa alle strette, non sapeva che altro fare, perciò accordò la sua promessa all'omino che, anche questa volta, le filò l'oro dalla paglia. Quando al mattino venne il re e trovò che tutto era stato fatto secondo i suoi desideri, la sposò; e la bella mugnaia divenne regina. Dopo un anno diede alla luce un bel maschietto e non si ricordava neanche più dell'omino, quando questi le entrò d'un tratto nella stanza a reclamare ciò che gli era stato promesso. La regina inorridì e gli offrì tutte le ricchezze del regno, purché‚ le lasciasse il bambino; ma l'omino disse: -No, qualcosa di vivo mi è più caro di tutti i tesori del mondo-. Allora la regina incominciò a piangere e a lamentarsi, tanto che l'omino s'impietosì e disse: -Ti lascio tre giorni di tempo: se riesci a scoprire come mi chiamo, potrai tenerti il bambino-. La regina passò la notte cercando di ricordare tutti i nomi che mai avesse udito, inviò un messo nelle sue terre a domandare in lungo e in largo, quali altri nomi si potevano trovare. Il giorno seguente, quando venne l'omino, ella cominciò con Gaspare, Melchiorre e Baldassarre e disse tutta una lunga sfilza di nomi, ma ogni volta l'omino diceva: -Non mi chiamo così-. Il secondo giorno, ella mandò a chiedere come si chiamasse la gente nei dintorni e propose all'omino i nomi più insoliti e strani quali: Latte di gallina, Coscia di montone, Osso di balena. Ma egli rispondeva sempre: -Non mi chiamo così-. Il terzo giorno tornò il messo e raccontò: -Nuovi nomi non sono riuscito a trovarne, ma ai piedi di un gran monte, alla svolta del bosco, dove la volpe e la lepre si dicono buona notte, vidi una casetta; e davanti alla casetta ardeva un fuoco intorno al quale ballava un omino quanto mai buffo, che gridava, saltellando su di una sola gamba:-Fare oggi il pane, la birra domani, la miglior cosa per me che sarà? Avere il figlio del re dopodomani! Mi chiamo Tremotino, questo è il bello! Nessun risponderà all'indovinello!"-. All'udire queste parole, la regina si rallegrò e poco dopo quando l'omino entrò e le disse: -Allora, regina, come mi chiamo?- ella da principio domandò: -Ti chiami Corrado?-. -No.- -Ti chiami Enrico?- -No.- -Ti chiami forse Tremotino?- -Te l'ha detto il diavolo, te l'ha detto il diavolo!- gridò l'omino; e per la rabbia pestò in terra il piede destro con tanta forza, che sprofondò fino alla cintola; poi, nell'ira, afferrò con le mani il piede sinistro e si squarciò.
FINE





Il diletto Orlando
tempo: 9'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 056



C'era una volta una donna che era una strega e aveva due figlie: una, brutta e cattiva, era la sua figlia; l'altra, buona e bella, era la figliastra. Ed ella tanto amava la prima, quanto odiava la seconda. Un giorno la figliastra aveva un bel grembiule che piaceva all'altra, tanto che quest'ultima, invidiosa, andò dalla madre e disse: -Quel grembiule deve essere mio-. -Sta' tranquilla, bimba mia, lo avrai- disse la vecchia. -La tua sorellastra ha meritato la morte da un pezzo, e questa notte, mentre dorme, verrò a tagliarle la testa. Bada solo di coricarti dietro e spingila ben bene sul davanti.- La povera fanciulla sarebbe stata perduta se, per caso, non si fosse trovata in un angolo da cui pot‚ sentire tutto. Quando fu l'ora di andare a dormire, lasciò che si coricasse prima la sorella cattiva, e che si mettesse dietro, come desiderava; ma non appena questa fu addormentata, la sollevò e la mise sul davanti vicino al bordo del letto, prendendo il suo posto dall'altra parte. Durante la notte entrò quatta quatta la vecchia: nella mano destra aveva una scure, mentre con la sinistra tastava se c'era qualcuno sul davanti; poi afferrò la scure con ambo le mani e spiccò la testa alla propria figlia. Quando se ne fu andata, la figliastra si alzò, corse dal suo innamorato, che si chiamava Orlando, e bussò alla sua porta. Quand'egli uscì, gli disse: -Ascolta, mio diletto, dobbiamo fuggire più in fretta possibile: la matrigna voleva uccidermi, ma ha colpito sua figlia. Quando si fa giorno e vede ciò che ha fatto, siamo perduti-. Orlando disse: -Però dobbiamo portarle via la bacchetta magica, altrimenti, se c'insegue, non possiamo salvarci-. La fanciulla prese la bacchetta magica, poi afferrò la testa della morta e lasciò cadere a terra tre gocce di sangue, una davanti al letto, una in cucina, una sulla scala. E fuggì con l'innamorato. Al mattino, quando la strega si alzò, chiamò sua figlia per darle il grembiule, ma quella non venne. Allora gridò: -Dove sei?-. -Qui sulla scala che spazzo!- rispose una goccia di sangue. La vecchia uscì ma non vide nessuno sulla scala e gridò di nuovo: -Dove sei?-. -Qui in cucina che mi scaldo!- rispose la seconda goccia di sangue. La vecchia andò in cucina, ma non trovò nessuno; allora gridò per la terza volta: -Dove sei?-. -Ah, sono qui nel letto che dormo!- disse la terza goccia di sangue. Ella entrò nella camera e si accostò al letto. E cosa vide? Sua figlia era immersa in una pozza di sangue e lei stessa le aveva tagliato la testa. La strega andò su tutte le furie, si precipitò alla finestra e, poiché‚ vedeva assai lontano, scorse la fanciulla che fuggiva con il suo diletto. -Avete già fatto un bel pezzo di strada- gridò -ma non servirà a nulla: vi raggiungerò lo stesso!- Infilò i suoi stivali delle sette leghe e, dopo aver fatto un paio di passi, li aveva già raggiunti. Ma la fanciulla, ben sapendo che li avrebbe inseguiti, con la bacchetta magica trasformò il suo diletto Orlando in un lago e se stessa in un'anitra che nuotava in mezzo al lago. La strega si fermò sulla riva e cercò di attirare l'anitra gettandole briciole di pane; ma essa non si lasciò sedurre e, alla sera, la vecchia dovette tornarsene a casa senza avere concluso nulla. La fanciulla e il suo innamorato ripresero il loro aspetto umano e camminarono tutta la notte, fino allo spuntar del giorno. Allora ella si trasformò in un bel fiore in mezzo a una siepe di spine, e il diletto Orlando in un violinista. Dopo poco tempo giunse la strega a grandi passi e disse al violinista: -Caro violinista, posso cogliere quel bel fiore?-. -Certamente- egli rispose -intanto io suonerò.- E mentre la vecchia si introduceva di furia fra le spine cercando di raggiungere il fiore, che ben conosceva, il violinista si mise a suonare ed ella, volente o nolente, dovette ballare, poiché‚ era una danza incantata. Egli continuò a suonare, e la strega fu costretta a ballare senza posa; le spine le strapparono le vesti di dosso, la punsero e la scorticarono, finché‚ alla fine ella giacque a terra morta. Liberatisi della strega, Orlando disse: -Ora andrò da mio padre a preparare le nozze-. -Intanto io resterò qui ad aspettarti- rispose la fanciulla -e perché‚ nessuno mi riconosca, mi voglio tramutare in una pietra rossa.- Così Orlando se ne andò, e la fanciulla rimase nel campo ad aspettarlo, trasformata in pietra rossa. Ma quando Orlando arrivò a casa, fu ammaliato da un'altra e scordò la sua vera fidanzata. La poverina attese a lungo, ma vedendo che non tornava, divenne triste e si tramutò in un fiore pensando che qualcuno l'avrebbe calpestata. Ma avvenne che un pastore pascolasse con le sue pecore in quel campo; scorse il fiore e, poiché‚ era tanto bello, lo colse, lo portò con s‚ e lo mise nel suo armadio dicendo: -Non ho mai trovato un fiore così bello-. Ma da quel giorno ne capitarono delle belle in casa del pastore! Quando si alzava al mattino, tutte le faccende di casa erano già sbrigate: la stanza era spazzata e spolverata, il fuoco acceso, il secchio riempito al suo posto; e a mezzogiorno, quando rincasava, in tavola era già servito un bel pranzetto. Egli non capiva come fosse possibile, poiché‚ non vedeva mai anima viva; e anche se gli piaceva essere servito così bene, finì coll'impaurirsi e andò a chiedere consiglio a un'indovina. Ella disse: -C'è sotto una magia: domani mattina, all'alba, guarda bene se non si muove nulla nella stanza; se vedi qualcosa, buttaci sopra in fretta un panno bianco: l'incanto si romperà-. Il pastore fece come gli era stato detto, e il mattino seguente vide aprirsi l'armadio e uscirne il fiore. D'un balzo egli vi gettò sopra un panno bianco. Subito cessò la magia: davanti a lui c'era una bella fanciulla, colei che si era presa cura della sua casa. Ed era tanto bella che il pastore le domandò se voleva diventare la sua sposa, ma ella rifiutò perché‚ voleva rimanere fedele al diletto Orlando; tuttavia promise di non andar via e di continuare a occuparsi della casa. Intanto si avvicinava il giorno in cui Orlando doveva maritarsi e, secondo un'antica usanza, furono avvertite tutte le ragazze del paese, perché‚ si presentassero a cantare in onore degli sposi. La fedele fanciulla, quando udì che il suo diletto Orlando stava per sposare un'altra, si rattristò tanto che credette le si spezzasse il cuore, e non voleva andarci; ma alla fine vi fu costretta. Quando toccò a lei cantare, si tirò indietro, finché‚ si trovò a essere l'ultima; allora non pot‚ più sottrarsi e cantò. Ma all'udirla Orlando saltò in piedi e gridò: -Questa è la vera sposa e non ne voglio altra!-. Egli l'aveva riconosciuta dalla voce, e tutto ciò che aveva dimenticato gli era ritornato in cuore. Così la fanciulla fedele sposò il suo diletto Orlando, e il dolore si mutò in gioia.
FINE





L'uccello d'oro
tempo: 18'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 057



C'era una volta un re che aveva un parco nel quale si trovava un albero che aveva delle mele d'oro. Quando le mele furono mature, non fece in tempo a trascorrere la notte e già ne mancava una, sicché‚ il re andò in collera e ordinò al giardiniere di vegliare ogni notte sotto l'albero. Il giardiniere lasciò di guardia il figlio maggiore, ma questi a mezzanotte si addormentò e il giorno dopo mancava un'altra mela. La notte seguente dovette vegliare il secondo, ma a mezzanotte anch'egli di addormentò e al mattino mancava una mela. Ora era la volta del terzo figlio, e il giardiniere non ne era gran che soddisfatto, ma poi si convinse e gli permise di fare la guardia. Il giovane si distese sotto l'albero e vegliò, vegliò. Allo scoccare della mezzanotte, udì nell'aria un frullar d'ali e vide un uccello d'oro giungere in volo. Mentre l'uccello stava staccando con il becco una mela dall'albero, il figlio del giardiniere rapidamente gli tirò una freccia. La freccia non gli fece nulla e l'uccello fuggì, lasciando tuttavia cadere a terra una delle sue piume d'oro. Il giovane la raccolse e il mattino dopo la portò al re che riunì subito il consiglio. Tutti dichiararono, unanimi, che una piuma come quella valeva più di tutto il regno. Allora il re disse: -Non me ne faccio nulla di una sola piuma: voglio tutto l'uccello e l'avrò-. Il figlio maggiore si mise allora in cammino, sicuro di trovare l'uccello d'oro. Dopo un po' scorse una volpe al limitare del bosco; subito imbracciò il fucile e prese la mira. Ma l'animale incominciò a parlare e disse: -Non sparare e ti darò un buon consiglio. So che stai cercando l'uccello d'oro, e questa sera arriverai in un villaggio dove ci sono due locande, l'una dirimpetto all'altra. Una è ben illuminata e piena di allegria, ma non entrarci: vai invece nell'altra, anche se ha un brutto aspetto!-. Ma il giovane pensò: "Un animale può forse darmi un consiglio assennato?" e sparò, senza riuscire tuttavia a colpire la volpe che distese la coda e fuggì nel bosco. Egli proseguì e la sera giunse nel villaggio dove si trovavano le due locande: in una cantavano e ballavano, mentre l'altra aveva un aspetto povero e angusto. "Sarei un vero sciocco" pensò "se andassi in quella miserabile locanda, invece di andare nella più bella!" Così entrò nell'allegra osteria, si diede alla bella vita e scordò l'uccello e la propria terra natia. Passò un po' di tempo, siccome il figlio maggiore non faceva ritorno, si mise in cammino il secondo. Anche lui incontrò la volpe che gli diede il buon consiglio ma, quando giunse davanti alle due locande, vide suo fratello che lo chiamava dalla finestra di quella piena di baldoria. Egli non seppe resistere e scordò ogni buon proposito. Passò un'altro po' di tempo e anche il terzo fratello volle mettersi in cammino, ma il padre non voleva lasciarlo andare perché‚ gli era affezionato e temeva gli capitasse una disgrazia per cui non potesse più far ritorno come gli altri due. Tuttavia, per aver pace, lo lasciò infine partire. Così anche il terzo figlio incontrò la volpe al margine del bosco e ricevette il buon consiglio. Egli era buono d'animo e le risparmiò la vita; allora la volpe disse: -Sali dietro, sulla mia coda, così andremo più in fretta!-. Non appena fu a posto, la volpe si mise a correre, e via di carriera, che i capelli fischiavano al vento. Quando arrivarono al villaggio, il giovane smontò, seguì il buon consiglio e, senza guardarsi attorno, entrò nella misera locanda, dove pernottò tranquillamente. Il mattino dopo incontrò di nuovo la volpe che gli disse: -Cammina sempre dritto e giungerai a un castello davanti al quale si troverà un intero reggimento di soldati. Dormiranno e russeranno tutti e tu non devi badare a loro: entra invece nel castello, e dentro troverai una stanza dov'è appesa una gabbia di legno con l'uccello d'oro Accanto vi sarà, in bella mostra, una gabbia d'oro; ma bada bene di non togliere l'uccello dalla sua brutta gabbia per metterlo in quella preziosa: potrebbe andarti male-. Dopo aver detto queste parole, la volpe distese nuovamente la coda, il giovane vi si sedette sopra, e via di carriera, che i capelli fischiavano al vento. Giunto al castello, il principe trovò tutto come gli aveva detto la volpe. Entrò nella stanza dove c'era l'uccello d'oro in una gabbia di legno, accanto vi era un'altra gabbia, tutta d'oro, e anche le tre mele, sparse qua e là. Allora egli pensò: "Sarebbe ridicolo lasciare quel bell'uccello in una gabbia così brutta- Così aprì la porticina, afferrò l'animale e lo mise nella gabbia d'oro. Ma subito l'uccello mandò un grido così acuto che i soldati si svegliarono, catturarono il principe e lo condussero davanti al re. Il giorno dopo fu giudicato e, siccome egli ammise la propria colpa, fu condannato a morte. Ma il re disse. -Puoi aver salva la vita a una sola condizione: devi portarmi il cavallo d'oro che corre veloce come il vento; in compenso ti potrò regalare l'uccello d'oro-. Il principe si mise in cammino, tutto triste, sospirando. D'un tratto si trovò davanti la volpe che gli disse: -Vedi cosa ti è successo a non ascoltarmi? Tuttavia, se vuoi seguirmi, ti aiuterò a trovare il cavallo d'oro. Devi andare sempre dritto fino a quando arriverai a un castello; e lì, nella scuderia c'è il cavallo d'oro. Davanti alla scuderia ci saranno gli stallieri, ma dormiranno e russeranno, così tu potrai entrare tranquillamente e portare via il cavallo d'oro. Bada solo di mettergli la sella brutta di legno e cuoio non quella d'oro appesa lì accanto-. Dopo che la volpe ebbe detto queste parole, il principe le si sedette sulla coda, e via di carriera, che i capelli fischiavano al vento. Tutto si svolse come aveva detto la volpe: gli stallieri russavano tenendo in mano delle selle d'oro. Ma quando egli vide il cavallo d'oro, si rammaricò di dovergli mettere la sella brutta. "Farà una brutta figura" pensò. "E' opportuno che gli metta una sella che si addica a un animale così bello!" E mentre stava cercando di togliere una sella d'oro dalle mani di uno stalliere, questi si svegliò, e con lui si svegliarono anche gli altri, acciuffarono il giovane e lo gettarono in prigione. Il giorno dopo fu nuovamente condannato a morte, tuttavia gli promisero di fargli grazia e di regalargli l'uccello e il cavallo d'oro, se fosse riuscito a conquistare una meravigliosa principessa. Il giovane si mise in cammino tutto triste, ma ben presto si imbatté‚ di nuovo nella volpe. -Perché‚ non mi hai ascoltato?- disse l'animale. -A quest'ora avresti l'uccello e il cavallo. Ti aiuterò ancora una volta: vai sempre dritto e questa sera giungerai a un castello. A mezzanotte la bella principessa va a fare il bagno nel padiglione, tu entraci e dalle un bacio: così potrai portarla con te; bada solo che non dica addio ai suoi genitori.- Poi la volpe stese la coda, e via di carriera, che i capelli fischiavano al vento. Quando giunse al castello trovò tutto come aveva detto la volpe e a mezzanotte egli baciò la bella principessa nel padiglione. Ella disse che l'avrebbe seguito volentieri, ma lo supplicò piangendo di lasciarla andare a prendere congedo dal padre. Da principio egli rifiutò, ma la principessa piangeva sempre più e gli si gettò ai piedi, finché‚ egli finì col cedere. Ma non appena la fanciulla andò dal padre, questi si svegliò, e con lui si svegliarono tutti gli altri che erano nel castello; arrestarono il giovane e lo misero in prigione. Il re gli disse: -Non avrai mai mia figlia, a meno che tu non riesca a spianare il monte che è davanti alle mie finestre e mi toglie la vista; ti do otto giorni di tempo-. Ma la montagna era così grande che neanche la forza di tutti gli uomini del mondo avrebbe potuto spostarla. Il principe lavorò sette interi giorni senza interrompersi mai, ma quando vide quanto poco avesse concluso ne ebbe grande dolore. Tuttavia la sera del settimo giorno arrivò la volpe e gli disse: -Va' pure a dormire, farò io il, tuo lavoro-. Il mattino dopo, quando il giovane si svegliò, la montagna era scomparsa; allora andò dal re tutto contento, gli disse che aveva assolto il suo compito e che a lui toccava ceder la figlia. Volente o nolente, il re dovette mantenere la promessa. Così i due partirono insieme, ma la volpe li raggiunse e disse: -Adesso dobbiamo fare in modo di ottenere tutte e tre le cose: la fanciulla, il cavallo e l'uccello-. -Sì, se ti riesce- rispose il giovane -ma sarà difficile.- -Ascoltami e sarà cosa fatta- disse la volpe, e aggiunse: -Quando giungerai dal re che ti ha chiesto di portargli la principessa meravigliosa, digli: "Eccovela!". Tutti andranno in visibilio e tu monterai subito in sella al cavallo d'oro, porgerai la mano a tutti in segno d'addio, e per ultimo, alla bella fanciulla. Allora tirala su di slancio e parti a spron battuto-. Il principe seguì il consiglio e si portò via la bella fanciulla; allora la volpe gli disse di nuovo: -Quando arriveremo davanti al castello dov'è custodito l'uccello, io e la principessa ti aspetteremo fuori dal portone; tu invece entrerai nel cortile a cavallo dicendo: "Vedete bene che vi ho portato l'animale che volevate!". Essi allora ti porteranno l'uccello, ma tu rimarrai seduto a cavallo e dirai che anche tu vuoi vedere se davvero si tratta dell'animale che volevi, e, quando lo avrai in mano, parti alla gran carriera-. Tutto andò a meraviglia e, quando il principe ebbe anche l'uccello d'oro, fece sedere la fanciulla sul cavallo e proseguirono il cammino finché‚ giunsero in un gran bosco. Là li raggiunse la volpe e disse: -Adesso devi uccidermi e tagliarmi la testa e le zampe-. Ma il giovane rifiutò e la volpe disse: -Se proprio non vuoi farlo, accetta ancora un buon consiglio. Guardati da due cose: non comprare carne da forca e non sederti sull'orlo di un pozzo-. "Se non si tratta che di questo, non è niente di difficile!" pensò il giovane. Proseguì per la sua strada con la fanciulla, finché‚ giunse al villaggio dove erano rimasti i suoi fratelli. C'era gran tumulto e rumore, e quand'egli chiese di che si trattasse, gli risposero che dovevano essere impiccati due furfanti. Avvicinandosi, vide che si trattava dei suoi due fratelli, che avevano compiuto ogni sorta di misfatti dissipando i loro averi. Allora egli disse: -Non è proprio possibile risparmiare la loro vita?-. -No- rispose la gente -a meno che non vogliate impiegare il vostro denaro per riscattarli.- Egli non stette a pensarci due volte e pagò quanto gli chiesero. Allora i fratelli furono liberati e proseguirono il viaggio con lui. Ma quando giunsero nel bosco in cui avevano incontrato la volpe per la prima volta, il luogo era tanto fresco e ameno che i due fratelli dissero: -Riposiamoci un po' accanto al pozzo, mangiamo e beviamo!-. Egli acconsentì, e mentre parlavano, si sedette distrattamente sull'orlo del pozzo, senza alcun sospetto. Ma i due fratelli lo spinsero all'indietro, facendolo precipitare in fondo al pozzo; poi presero la fanciulla, il cavallo e l'uccello e ritornarono dal padre dicendo: -Abbiamo conquistato tutte queste cose e te le portiamo-. Tutti erano felici, tranne il cavallo che non mangiava, l'uccello che non cantava e la fanciulla che piangeva sempre. Il fratello minore si trovava intanto in fondo al pozzo, che per fortuna era asciutto e, benché‚ non si fosse rotto neanche un osso, non riusciva tuttavia a escogitare il modo di uscirne. In quel mentre arrivò ancora una volta la volpe e lo sgridò perché‚ non aveva ascoltato il suo consiglio. -Pure- disse -non posso fare a meno di aiutarti a venir fuori; afferra la mia coda e tienti forte.- Così, strisciando, la volpe riuscì a tirarlo fuori dal pozzo Quando furono in salvo, l'animale disse: -I tuoi fratelli hanno fatto appostare delle sentinelle che hanno l'incarico di ucciderti se ti vedono-. Allora egli indossò le vesti di un pover'uomo e giunse così, senza che nessuno lo riconoscesse, alla corte di suo padre. E non appena arrivò il cavallo si rimise a mangiare l'uccello riprese a cantare e la fanciulla smise di piangere. Il re si stupì e domandò spiegazioni alla fanciulla. -Non so- rispose la principessa -ero così triste, e ora sono tanto felice! Come se fosse arrivato il mio vero sposo.- E gli raccontò tutto quello che era successo, malgrado gli altri fratelli avessero minacciata di ucciderla se mai rivelava qualcosa. Il re fece chiamare a raccolta tutta la gente del castello, e venne anche il giovane, nei suoi cenci da mendicante, ma la fanciulla lo riconobbe subito e gli si gettò fra le braccia. I fratelli furono arrestati e giustiziati, mentre il giovane sposò la bella fanciulla e, dopo la morte del padre, ne ereditò il regno. Molto tempo dopo, il principe tornò nel bosco e incontrò la vecchia volpe che lo supplicò nuovamente di ucciderla e di tagliarle la testa e le zampe. Egli lo fece, e subito la volpe si trasformò in un uomo: era il fratello della regina che finalmente era libero da un incantesimo.
FINE





Il cane e il passero
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 058



Un mastino aveva un cattivo padrone che gli faceva patire la fame. Quando non ne pot‚ più, se ne andò via tutto triste. Per strada incontrò un passero che gli disse: “Fratello cane, perché‚ sei così triste?” - “Ho tanta fame,” rispose, “e non ho niente da mangiare.” Allora il passero disse: “Caro fratello, vieni con me in città: ti sfamerò.” Così andarono insieme in città e quando giunsero davanti a una macelleria, il passero disse al cane: “Fermati qui, ti butterò giù un pezzo di carne.” Si posò sul banco, si guardò intorno caso mai qualcuno lo stesse osservando, e a forza di beccate e di strattoni riuscì a far cadere un pezzo che si trovava sull’orlo. Il cane lo acchiappò, corse in un angolo e lo divorò. “Adesso vieni con me in un altro negozio,” disse il passero. “Voglio riuscire a strappare un altro pezzo, così potrai saziarti.” Quando il cane ebbe divorato anche il secondo pezzo, il passero domandò: “Fratello cane, sei sazio ora?” - “Carne, ne ho mangiata a sufficienza,” rispose l’altro, “ma non ho ancora avuto del pane.” E il passero: “Avrai anche quello, vieni con me.” Lo condusse fino a una panetteria e con il becco fece rotolare giù un paio di panini; poi, dato che il compagno ne voleva ancora, lo condusse da un altro panettiere e fece cadere altro pane. Quando il cane l’ebbe mangiato, il passero chiese “Fratello cane, sei sazio adesso?” - “Sì,” rispose quello, “andiamo un po’ a passeggio fuori le mura.”

Così se ne andarono insieme sulla strada maestra. Faceva caldo e dopo un po’ il cane disse: “Sono stanco e dormirei volentieri.” - “Dormi pure,” rispose il passero, “io nel frattempo mi poserò su un ramo.” Il cane si sdraiò sulla strada e si addormentò profondamente. Mentre dormiva arrivò un carrettiere su di un carro con tre cavalli carico di due botti di vino. Ma il passero vide che non aveva intenzione di deviare dalla carreggiata in cui si trovava il cane e gli gridò: “Carrettiere non farlo, altrimenti ti ridurrò in miseria!” Ma il carrettiere brontolò fra s’: “Non sarai certo tu a ridurmi in miseria.” Fece schioccare la frusta e spinse il carro addosso al cane, che fu schiacciato dalle ruote. Allora il passero gridò: “Hai ucciso il mio fratello cane, ti costerà carro e cavalli.” - “Sì, carro e cavalli!” disse il carrettiere. “Per il danno che puoi farmi tu!” e proseguì. Allora il passero si insinuò sotto la coperta del carro e si mise a beccare il tappo che chiudeva una delle due botti finché‚ riuscì a staccarlo e tutto il vino si versò senza che il carrettiere se ne accorgesse. Quando finalmente si voltò, vide che il carro gocciolava; esaminò le botti e trovò che una era vuota. “Ah, povero me!” esclamò. “Sì, ma non ancora abbastanza!” disse il passero; volò sulla testa di un cavallo e gli cavò gli occhi. A quella vista, il carrettiere tirò fuori la roncola per colpire l’uccello, ma questo si alzò in volo e il carrettiere colpì sulla testa il cavallo che stramazzò a terra morto. “Ah, povero me!” esclamò. “Sì, ma non abbastanza!” disse il passero; e quando il carrettiere proseguì con i due cavalli, si insinuò di nuovo sotto la coperta del carro e si mise a beccare il tappo della seconda botte, sicché‚ tutto il vino si rovesciò per via. Quando il carrettiere se ne accorse, gridò di nuovo: “Ah, povero me!” Ma il passero rispose: “Sì, ma non abbastanza!” Si posò sulla testa del secondo cavallo e gli cavò gli occhi. Il carrettiere arrivò di corsa levando la roncola, ma il passero si alzò in volo e il colpo prese il cavallo che stramazzò. “Ah, povero me!” - “Sì, ma non abbastanza!” disse il passero, si posò sulla testa del terzo cavallo e gli cavò gli occhi. Il carrettiere, furioso, si scagliò sul passero, alla cieca, ma non riuscì a colpirlo e abbatté‚ invece anche il suo terzo cavallo. “Ah, povero me!” gridò. “Sì, ma non abbastanza!” rispose il passero. “Ora ti porterò la miseria in casa!” e volò via.

Il carrettiere dovette abbandonare il carro e se ne andò a casa pieno di collera e di rabbia. “Ah,” disse alla moglie, “che disgrazia mi è capitata! Il vino si è rovesciato per strada e sono morti tutti e tre i cavalli!” - “Ah, marito,” rispose ella, “che uccello cattivo si è installato in casa nostra! Ha radunato tutti gli uccelli del mondo, e si sono gettati sul nostro grano, in solaio, e se lo stanno divorando!” Egli andò in solaio e trovò migliaia di uccelli che avevano divorato il grano; e il passero era in mezzo a loro. Allora il carrettiere esclamò: “Ah, povero me!” - “Sì, ma non abbastanza!” rispose il passero. “Carrettiere, ti costerà anche la vita!” e volò via.

Il carrettiere aveva perduto tutti i suoi beni; scese nella stanza e andò a sedersi dietro la stufa, fortemente adirato. Ma il passero si era posato sul davanzale della finestra e gridò: “Carrettiere, ti costerà anche la vita!” Il carrettiere afferrò la roncola e la tirò dietro il passero, ma invece di colpirlo ruppe il vetro della finestra. Il passero saltellò fin dentro la stanza e si posò sulla stufa gridando: “Carrettiere, ti costerà anche la vita!” Pazzo e cieco per la collera, l’uomo spaccò la stufa e, man mano che il passero si spostava da un luogo all’altro, tutte le sue suppellettili: specchietto, sedie, panche, tavola, e infine le pareti della casa; senza tuttavia riuscire a colpirlo. Ma alla fine arrivò ad acchiapparlo. Allora sua moglie disse: “Devo ucciderlo?” - “No,” gridò egli, “sarebbe troppo comodo! deve morire ben più atrocemente: lo ingoierò.” E lo inghiottì in un boccone. Ma il passerò cominciò a svolazzargli in corpo, e svolazzando gli tornò in bocca, sporse la testa fuori e gridò: “Carrettiere, ti costerà anche la vita!” Il carrettiere diede allora la roncola alla moglie e le disse: “Moglie, ammazzami l’uccello in bocca.” La donna colpì ma sbagliò il colpo e prese il marito proprio sulla testa, sicché‚ questi stramazzò a terra morto. Ma il passero volò via.
FINE





Federico e Caterinella
tempo: 16'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 059



C’era un uomo che si chiamava Federico, e una donna che si chiamava Caterinella; si erano sposati e vivevano insieme da sposi novelli. Un giorno Federico disse: “Adesso vado nel campo, Caterinella; quando ritorno deve esserci in tavola qualcosa di arrostito per la fame, e una bevanda fresca per la sete.” - “Va’ pure, Richetto,” rispose Caterinella, “va’ pure, farò tutto quanto.” Quando si avvicinò l’ora del pranzo, staccò una salsiccia dal camino, la pose in una padella con un po’ di burro e la mise sul fuoco. La salsiccia incominciò a friggere e sfrigolare, mentre Caterinella se ne stava lì, soprappensiero, tenendo il manico della padella; d’un tratto le venne in mente: Intanto che la salsiccia cuoce, potresti spillare la birra in cantina. Così assicurò il manico della padella, prese un boccale e scese in cantina a spillar birra. La birra veniva giù nel boccale e Caterinella stava a guardarla; d’un tratto le venne in mente: Ohi, non sarà mica entrato il cane di sopra, che mi porti via la salsiccia dalla padella? Sarebbe il colmo! e si precipitò su per le scale. Ma il birbante aveva già la salsiccia in bocca e se la trascinava per terra. Caterinella si mise a inseguirlo e lo rincorse per un bel tratto nei campi, ma il cane era più veloce di lei e non mollò neppure la salsiccia che gli saltellava dietro. “Quel che è stato è stato!” disse Caterinella; si voltò e, siccome era stanca per la corsa, si mise a camminare tranquillamente, asciugandosi il sudore. Nel frattempo la birra continuava a uscire dalla botte, perché‚ la donna non aveva chiuso il rubinetto; e quando il boccale fu pieno, e altro posto non c’era la birra incominciò a scorrere in giro per la cantina, finché‚ la botte fu vuota. Caterinella era ancora sulla scala, e già si accorse della disgrazia. “Accidenti,” gridò. “Che fare perché‚ Federico non se ne accorga?” Pensò un po’; infine le venne in mente che dall’ultima sagra c’era ancora in solaio un sacco di bella farina di frumento, poteva andare a prenderlo e spargerlo sulla birra. “Sì,” disse, “ogni cosa ritirata, quando serve è già trovata!” Andò così a prendere il sacco in solaio, lo portò giù e lo buttò proprio sul boccale pieno che si rovesciò spandendo la birra di Federico per la cantina. “Benone!” disse Caterinella, “dov’è l’uno dev’esserci anche l’altro.” E sparse dappertutto la farina. Quand’ebbe finito, disse, tutta contenta del proprio lavoro: “Com’è bello, lucido e pulito!”

A mezzogiorno tornò a casa Federico. “Allora, moglie, cosa mi hai preparato?” - “Ah, Richetto,” rispose ella, “volevo arrostirti una salsiccia, ma il cane l’ha portata via mentre io spillavo la birra; e mentre rincorrevo il cane, la birra si è rovesciata; e mentre asciugavo la birra con la farina, ho rovesciato anche il boccale; in compenso la cantina è bell’asciutta adesso!” Federico disse: “Caterinella, Caterinella, non dovevi farlo! ti fai rubare la salsiccia, lasci aperto il rubinetto della botte, e per di più ci butti sopra la farina!” - “Già, Richetto, non lo sapevo, avresti dovuto dirmelo!”

L’uomo pensò: Con una simile moglie, devi essere più accorto. Aveva messo insieme una bella somma di denaro, e pensò, così, di cambiarlo in oro e disse a Caterinella: “Guarda, sono cicerchie gialle: le metto in una pentola e le sotterro nella stalla sotto la mangiatoia; ma tu stanne alla larga o te ne pentirai.” - “No, Richetto,” diss’ella, “non le toccherò di certo.” Quando Federico se ne fu andato, arrivarono dei mercanti nel villaggio che vendevano tegami e pentole di terra, e domandarono alla giovane sposa se intendeva comprarne. “Brava gente,” disse Caterinella, “io non ho denaro e non posso comprare nulla, a meno che non vi servano delle cicerchie gialle.” - “Cicerchie gialle? e perché‚ no? Fatecele vedere,” risposero i mercanti. “Andate nella stalla e scavate sotto la mangiatoia: le troverete lì: io non posso andarci.” I furfanti andarono a scavare e trovarono oro puro; lo presero e tagliarono la corda, lasciando in casa pentole e tegami. Caterinella pensò di usare le pentole in qualche maniera e, poiché‚ in cucina ne aveva a sufficienza, le sfondò e infilò per ornamento sui pali della staccionata tutt’intorno alla casa. Quando Federico rincasò e vide quella decorazione, disse: “Cos’hai fatto, Caterinella?” - “Le ho comprate, Richetto, con le cicerchie gialle nascoste sotto la mangiatoia. Io non ci sono andata, i venditori hanno dovuto dissotterrarsele da s’” - “Ah, moglie,” esclamò Federico, “che hai fatto! non erano delle cicerchie, ma oro puro, ed era tutto il nostro avere! Non avresti dovuto farlo!” - “Sì, Richetto,” rispose ella, “ma non lo sapevo, dovevi dirmelo prima.”

Caterinella stette un po’ a pensare, poi disse: “Ascolta, Richetto, riusciremo ad avere di nuovo il nostro denaro: corriamo dietro ai ladri.” - “Vieni,” disse Federico, “proviamo, ma prendi con te burro e formaggio, per avere qualcosa da mangiare per strada.” - “Sì, Richetto, lo prenderò.” Si misero in cammino e, siccome Federico era una buona gamba, Caterinella rimase indietro. Che importa, pensò, quando torniamo indietro avrò già fatto un pezzo di strada! Arrivò a un monte, e ai due lati della strada c’erano dei solchi profondi. “Ma guarda un po’,“ disse Caterinella, “come hanno rotto, sbucciato e schiacciato questo povero terreno! non guarirà mai più.” E, con cuore pietoso, prese il burro e lo spalmò sulle carreggiate a destra e a sinistra, perché‚ non fossero schiacciate dalle ruote; ma, mentre si chinava in quel gesto misericordioso, un formaggio le uscì di tasca e rotolò giù per il pendio. Caterinella disse: “Ho già fatto la strada una volta, non ho voglia di ritornare giù; ci andrà un altro ad acchiapparlo!” Così prese di tasca un altro formaggio e lo fece rotolare giù. Ma i formaggi non ritornavano; allora ne buttò un terzo pensando che forse aspettavano compagnia e non gradivano stare soli. Siccome non tornavano neppure in tre, disse: “Non capisco proprio! Ma potrebbe essere che il terzo non ha trovato la strada e si sia smarrito: spedirò giù il quarto a chiamarli.” Ma il quarto non fece meglio del terzo. Allora Caterinella s’arrabbiò e gettò giù anche il quinto e il sesto; ed erano gli ultimi. Stette ad aspettarli per un po’, ma poi, vedendo che non arrivavano mai, disse: “Lenti come siete, potrei mandarvi a chiamare la morte! pensate forse che voglia aspettarvi ancora? Me ne vado per la mia strada, se volete potete rincorrermi, le vostre gambe sono più giovani delle mie!” Caterinella andò e trovò Federico che si era fermato ad aspettarla perché‚ aveva voglia di mangiare qualcosa. “Fammi vedere quel che hai portato.” Ma ella gli porse pane asciutto. “Dove sono il burro e il formaggio?” domandò Federico. “Ah, Richetto,” rispose Caterinella, “con il burro ho spalmato la carreggiata e i formaggi stanno per arrivare: uno mi è scappato, allora ho mandato gli altri a chiamarlo.” Federico disse: “Non avresti dovuto farlo, Caterinella, spalmare burro per strada e gettare i formaggi giù dal monte!” - “Sì, Richetto, ma avresti dovuto dirmelo!”

Mangiarono insieme il pane asciutto, poi Federico disse: “Caterinella, hai chiuso bene la casa prima di venir via?” - “No, Richetto, avresti dovuto dirmelo prima.” - “Allora torna indietro a chiuder casa, prima che andiamo avanti, e porta anche qualcos’altro da mangiare. Io ti aspetterò qui.” Caterinella tornò indietro e pensò: Richetto vuole qualcos’altro da mangiare, ma burro e formaggio non gli piacciono, perciò gli porterò un tovagliolo pieno di pere secche e una brocca d’aceto per bere. Poi mise il catenaccio alla parte superiore della porta; quella inferiore, invece, la scardinò e se la mise sulle spalle, credendo che la casa fosse più sicura se si portava dietro la porta. Dopo si mise in cammino tutta tranquilla e quando raggiunse Federico disse: “Eccoti qua la porta, Richetto, così potrai tu stesso custodire la casa!” - “Ah, Dio!” esclamò questi, “che moglie furba che ho! Scardina la porta in basso, che chiunque può entrarci, e mette il catenaccio in alto! Adesso è troppo tardi per ritornare ancora a casa, ma visto che hai voluto portarti l’uscio fin qui, lo porterai anche oltre.” - “Porterò l’uscio, Richetto, ma le pere secche e la brocca d’aceto pesano troppo: le appendo all’uscio che le porti lui.”

Così andarono nel bosco a cercare i ladri, ma non li trovarono. Nel frattempo si era fatto buio e i due salirono su di un albero per passarvi la notte. Ma non appena furono lassù, arrivarono coloro che portano via ciò che non vuol seguirli e trovano le cose prima che vadano smarrite. Si sedettero sotto l’albero, accesero un fuoco e volevano spartirsi il bottino. Federico scese dall’altra parte, raccolse delle pietre e risalì con l’intento di scagliarle addosso ai ladri uccidendoli a sassate. Ma le pietre non li colpirono e i malviventi esclamarono: “E’ quasi mattina, il vento fa cadere le pigne.” Caterinella aveva sempre l’uscio sulla schiena, e poiché‚ pesava tanto pensò che fosse colpa delle pere secche e disse: “Richetto, devo buttar giù le pere!” - “No, Caterinella, non ora,” rispose egli, “potrebbero tradirci.” - “Ah, Richetto, devo farlo per forza pesano troppo!” - “E allora buttale, per la miseria!” Le pere secche rotolarono fra i rami, ma i ladri dissero: “Sterco di uccelli.” Dopo un po’, siccome l’uscio continuava a pesare, Caterinella disse: “Ah, Richetto, devo rovesciare l’aceto!” - “No, Caterinella, non devi, potrebbe tradirci.” - “Ah, Richetto, devo farlo per forza, pesa troppo!” - “E allora buttalo, dannazione!” Caterinella rovesciò l’aceto spruzzando i ladri che dissero: “Incomincia già a cadere la rugiada.” Finalmente Caterinella pensò: E se fosse la porta a pesarmi tanto? e disse: “Richetto, devo buttar giù la porta.” - “No, Caterinella, non ora, potrebbe tradirci.” - “Ah, Richetto, devo farlo per forza, pesa troppo!” - “No, Caterinella, tienila forte!” - “Ah, Richetto, la lascio andare!” - “E allora,” rispose Federico furibondo, “lasciala andare per tutti i diavoli!” La porta cadde con gran fragore e i ladri gridarono: “Il diavolo scende dall’albero!” e tagliarono la corda piantando lì tutto. All’alba, quando i due scesero dall’albero, ritrovarono tutto il loro oro e se lo portarono a casa.

A casa Federico disse: “Adesso, Caterinella, devi metterti a lavorare d’impegno.” - “Sì, Richetto,” rispose ella, “lo farò. Andrò nel campo a mietere.” Quando fu nel campo, Caterinella disse fra s’: Mangio o dormo prima di mietere? Be’, prima mangerò! Mangiò e mangiando le venne sonno; così si mise a mietere e, mezzo addormentata, tagliò i suoi vestiti: grembiule, gonna e camicia. Quando si svegliò, dopo un sonno profondo, si trovò mezza nuda e disse fra s’: “Sono o non sono io? Ah, non sono certo io!” Nel frattempo era calata la notte; Caterinella corse al villaggio, bussò alla finestra del marito e gridò: “Richetto?” - “Cosa c’è.” - “Vorrei sapere se Caterinella è in casa.” - “Sì, sì,” rispose Federico, “starà dormendo.” Ella disse: “Allora non sono proprio io,” e corse via.

Fuori Caterinella trovò dei lestofanti che volevano rubare. Si avvicinò a loro e disse: “Voglio aiutarvi a rubare.” Quelli pensarono che conoscesse le opportunità che offriva il luogo, e accettarono soddisfatti. Ma Caterinella passava davanti alle case e gridava: “Gente, avete qualcosa? Vogliamo derubarvi!” Abbiamo fatto un bell’affare! pensarono i malandrini, e desiderarono disfarsi di Caterinella. Le dissero: “Il parroco ha un campo di rape davanti al villaggio; vacci e raccoglile.” Caterinella andò nel campo e incominciò a raccogliere le rape, ma era così pigra che non si raddrizzava mai. Un passante si fermò a guardarla e pensò che fosse il diavolo a scavare fra le rape. Corse in paese dal parroco e disse: “Reverendo, nel vostro campo c’è il diavolo che raccoglie le rape.” - “Ah, Dio,” rispose il parroco, “ho un piede zoppo e non posso andare a scacciarlo!” Disse l’uomo: “Allora vi porterò in spalla,” e lo portò fuori. E, quando arrivarono al campo, Caterinella si raddrizzò, stirandosi. “Ah, il diavolo!” gridò il parroco, e se la diedero a gambe tutti e due; e, per la gran paura, il parroco, con il suo piede zoppo, correva più dritto dell’uomo che l’aveva portato in spalle, con le gambe sane.
FINE





I due fratelli
tempo: 55'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 060



C'erano una volta due fratelli, uno ricco e uno povero. Il ricco era un orefice ed era malvagio; il povero invece campava facendo scope ed era buono e onesto. Quest'ultimo aveva due figli gemelli che si assomigliavano come due gocce d'acqua. I due ragazzi frequentavano la casa del ricco e, di tanto in tanto, toccava loro qualche avanzo. Un giorno che il pover'uomo era andato nel bosco a raccogliere rami secchi, vide un uccello tutto d'oro, bello come non gli era mai capitato di vederne. Prese un sassolino, glielo gettò e riuscì a colpirlo, ma cadde soltanto una penna d'oro e l'uccello fuggì via. L'uomo prese la piuma e la portò al fratello che la esaminò e disse: -E' oro puro- e in cambio gli diede parecchio denaro. Il giorno seguente, l'uomo salì su una betulla per tagliare qualche ramo quando, d'un tratto, vide levarsi dall'albero il medesimo uccello; si mise a cercare e trovò un nido con dentro un uovo d'oro. Prese l'uovo e lo portò nuovamente al fratello che ripeté‚: -E' oro puro- e glielo pagò il prezzo dovuto. Infine l'orefice disse: -Vorrei avere anche l'uccello-. Il pover'uomo si recò per la terza volta nel bosco e, di nuovo, vide l'uccello posato sull'albero; prese una pietra, lo abbatté‚ e lo portò al fratello che, in cambio, gli diede un bel gruzzolo di monete d'oro. "Così posso tirare avanti per un po' '' pensò, e se ne andò a casa tutto contento. L'orefice era furbo e accorto e sapeva bene di quale uccello si trattasse. Chiamò la moglie e le disse: -Arrostiscimi l'uccello d'oro, ma bada che non ne manchi neanche un pezzo: voglio mangiarmelo tutto intero-. L'uccello, infatti, non era un animale comune, ma era di una specie rara che, a mangiarne il cuore e il fegato, ogni mattina si trovava una moneta d'oro sotto il cuscino. La donna preparò l'uccello, l'infilzò con uno spiedo e lo fece arrostire. Ma mentre l'animale cuoceva sul fuoco, la donna fu costretta a uscire dalla cucina per sbrigare delle faccende; ed ecco entrare di corsa i due figli del povero fabbricante di scope, che si misero davanti allo spiedo e lo fecero girare un paio di volte. E siccome, proprio in quel momento, caddero nella padella due pezzettini, uno disse: -Possiamo ben mangiare quei due bocconcini! Io ho tanta fame, nessuno lo noterà-. E li mangiarono. Ma in quella arrivò la donna, e vedendo che stavano mangiando, disse: -Cosa avete mangiato?-. -I due piccoli pezzettini, caduti dall'uccello- risposero. -Erano il cuore e il fegato- esclamò la donna spaventata e, perché‚ il marito non andasse in collera, sgozzò in tutta fretta un galletto, gli prese il cuore e il fegato e li mise nell'uccello d'oro. Quando fu ben cotto, lo portò all'orefice che se lo mangiò tutto. Il mattino dopo egli pensava di trovare una moneta d'oro sotto il guanciale, e invece non trovò un bel niente. I due bambini erano ignari della fortuna che era loro toccata. Al mattino, quando si alzarono, qualcosa cadde a terra tintinnando: erano due monete d'oro. Essi le presero e le portarono al padre che disse stupito: -Com'è possibile?-. Ma quando, il giorno dopo, ne trovarono altre due e così ogni giorno, egli andò dal fratello e gli raccontò quella strana storia. L'orefice capì subito come stavano le cose, e che i bambini avevano mangiato il cuore e il fegato dell'uccello d'oro; allora, per vendicarsi, invidioso e perfido com'era disse al padre: -I tuoi bambini se l'intendono con il diavolo; non prendere il denaro e cacciali da casa, poiché‚ il diavolo li ha in suo potere e può portare anche te alla dannazione-. Il padre temeva il maligno, e, per quanto gli fosse penoso, condusse i due gemelli nel bosco e li abbandonò con il cuore grosso. I due bambini se ne andarono per il bosco qua e là, cercando la via di casa, ma non la trovarono e si persero sempre più. Finalmente incontrarono un cacciatore che domandò loro: -Chi siete, bambini?-. -Siamo i figli del povero fabbricante di scope- risposero; e gli raccontarono che il padre li aveva abbandonati perché‚ ogni mattina c'era una moneta d'oro sotto il loro guanciale. Il cacciatore era un buon uomo e, siccome i bambini gli piacevano ed egli non ne aveva, se li portò a casa dicendo: -Vi farò io da padre e vi alleverò-. Da lui impararono l'arte della caccia, e la moneta d'oro che ognuno trovava al risveglio fu messa da parte nel caso essi ne avessero avuto bisogno in futuro. Quando furono cresciuti, il padre adottivo li condusse un giorno nel bosco e disse: -Oggi dovete sparare voi stessi, perché‚ possa promuovervi cacciatori-. Si appostarono con lui e attesero a lungo, ma selvaggina non ne arrivava. D'un tratto il cacciatore alzò gli occhi e vide un gruppo di oche selvatiche che volavano disposte a triangolo; allora disse a uno dei ragazzi: -Abbattine una per angolo-. Egli eseguì l'ordine e superò il suo tiro di prova. Poco dopo arrivò un'altra fila di oche selvatiche, che volavano disposte come se raffigurassero il numero due; il cacciatore ordinò anche all'altro ragazzo di sparare abbattendone una per angolo, e anche questi superò la prova. Allora il cacciatore disse: -Ormai siete dei cacciatori provetti-. Poi i due fratelli se ne andarono insieme nel bosco, si consigliarono e concertarono insieme qualcosa. La sera, quando si sedettero a tavola per cena, dissero al padre adottivo: -Non tocchiamo cibo se prima non ci accordate un favore-. -Di che cosa si tratta?- chiese il padre. -Ora che siamo cacciatori- risposero -vorremmo provare a girare il mondo. Permetteteci, dunque, di partire!- Allora il vecchio disse, pieno di gioia: -Parlate da bravi cacciatori; non desideravo di meglio per voi, andate, avrete fortuna!-. Ciò detto, mangiarono e bevvero insieme allegramente. Quando giunse il giorno stabilito, il padre adottivo regalò a ciascuno un bello schioppo e un cane; inoltre lasciò che si servissero a piacer loro dell'oro risparmiato. Poi li accompagnò per un tratto di strada e, nel salutarli, diede loro un coltello lucente dicendo: -Se doveste separarvi, piantate questo coltello in un albero al bivio; così, quando uno di voi ritorna, può vedere com'è andata al fratello, poiché‚, la parte della lama rivolta verso la direzione presa dall'assente arrugginisce se egli muore; finché‚ vive, invece, rimane lucida-. I due fratelli proseguirono e arrivarono in un bosco così grande che era impossibile attraversarlo in un sol giorno. Così vi pernottarono e mangiarono quello che avevano messo nella bisaccia. Ma anche il giorno dopo, pur avendo camminato senza sosta, non riuscirono a uscire dal bosco. Siccome non avevano nulla da mangiare, uno disse: -Dovremmo ammazzare qualcosa, altrimenti patiremo la fame-. Caricò lo schioppo e si guardò intorno. Vide venire di corsa una vecchia lepre e prese la mira; ma la lepre gridò:-Caro cacciatore, se vivere potrò, volentieri due piccini ti darò.-Saltò nella macchia e portò due piccoli. Ma i leprotti giocavano così allegramente ed erano così graziosi, che i cacciatori non ebbero il coraggio di ucciderli. Perciò li tennero con s‚ e i leprotti li seguirono bravamente. Poco dopo, giunse una volpe; volevano spararle ma la volpe gridò:-Caro cacciatore, se vivere potrò, volentieri due piccini ti darò.-E portò due volpacchiotti; e anche questi i cacciatori non osarono ucciderli, li diedero per compagni ai leprotti, e tutti e quattro li seguirono. Poco dopo arrivò un lupo; i cacciatori stavano per sparare, ma anch'egli si salvò la vita gridando:-Caro cacciatore, se vivere potrò, volentieri due piccini ti darò.-I cacciatori misero i due lupacchiotti con gli altri animaletti, e tutti li seguirono. Poi venne un orso, e anch'egli non voleva che gli si sparasse e gridò:-Caro cacciatore, se vivere potrò, volentieri due piccini ti darò.-I cacciatori misero i due orsacchiotti con gli altri animali. E alla fine chi arrivò? Un leone. Questa volta uno dei due giovani prese la mira ma anche il leone disse:-Caro cacciatore, se vivere potrò, volentieri due piccini ti darò.- Ora i cacciatori avevano due leoni, due orsi, due lupi, due volpi, e due lepri che li seguivano pronti a servirli. Ma, nel frattempo, la fame non si era calmata; perciò dissero alle volpi: -Ascoltate, sornione, procurateci qualcosa da mangiare, voi che siete astute e maliziose-. -Non lontano da qui- risposero le volpi -c'è un villaggio dove abbiamo già preso diversi polli; vi mostreremo la strada.- Raggiunsero il villaggio, si comprarono qualcosa e fecero dar da mangiare anche ai loro animali; poi proseguirono. Le volpi continuarono a indicare ai cacciatori la buona strada, pratiche com'erano dei luoghi ove si trovavano dei pollai. Così vagabondarono per un po', ma non trovarono nessun posto dove potessero prestare servizio insieme.
Allora dissero: -Non c'è altra soluzione, dobbiamo separarci-. Si divisero gli animali cosicché‚ ognuno aveva un leone, un orso, un lupo, una volpe e una lepre, poi si congedarono promettendosi amore fraterno fino alla morte e conficcarono in un albero il coltello donato dal padre adottivo; poi l'uno prese la strada verso oriente, l'altro verso occidente. Il più giovane giunse con i suoi animali in una città tutta parata a lutto. Entrò in una locanda e domandò all'oste se poteva dare alloggio alle sue bestie. L'oste li mise in una stalla che aveva un buco nella parete, così la lepre saltò fuori e andò a prendersi un cavolfiore, mentre la volpe si prese una gallina e, quando l'ebbe mangiata, andò a prendersi un gallo. Invece il lupo, l'orso e il leone non poterono uscire perché‚ erano troppo grossi. Allora l'oste li fece condurre in un prato dove c'era una mucca, e lasciò che si saziassero. Dopo aver provveduto alle sue bestie, il cacciatore chiese all'oste perché‚ la città fosse parata a lutto. L'oste rispose: -Perché‚ domani morirà l'unica figlia del nostro re-. -E' condannata da una malattia?- domandò il cacciatore. -No- rispose l'oste -è sanissima, tuttavia deve morire. Fuori dalla città c'è un'alta montagna sulla quale dimora un drago, che ogni anno deve avere una vergine, altrimenti devasta tutto il paese. Ormai gli sono state date tutte le vergini e non resta che la principessa. Non c'è speranza alcuna, deve essergli consegnata domani.- -Perché‚ non uccidete il drago?- chiese il cacciatore. -Ah- rispose l'oste -già tanti cavalieri hanno tentato, ma ci hanno rimesso la vita tutti. A chi ucciderà il drago, il re ha promesso che darà sua figlia in sposa e lo farà erede del regno.- Il cacciatore tacque, ma il mattino dopo prese i suoi animali e salì con essi sul monte del drago. Lassù trovò una chiesetta e sull'altare c'erano tre calici colmi con accanto la scritta: -Colui che vuoterà questi calici diventerà l'uomo più forte del mondo e brandirà la spada sotterrata davanti alla soglia-. Il cacciatore non bevve, uscì e cercò la spada sotto terra, senza tuttavia riuscire a smuoverla. Allora vuotò i calici e divenne forte a sufficienza per poter sollevare la spada e maneggiarla con facilità. Giunta l'ora in cui la principessa doveva essere consegnata al drago, il re, il maresciallo e i cortigiani l'accompagnarono fuori dalla città. Ella vide di lontano il cacciatore sulla cima del monte e, pensando che si trattasse del drago, non voleva più salire, ma alla fine dovette decidersi altrimenti l'intera città sarebbe stata perduta. Il re e i cortigiani se ne tornarono a casa profondamente addolorati, mentre il maresciallo dovette rimanere a sorvegliare che il drago portasse via la fanciulla. Quando la principessa giunse sulla montagna, non trovò il drago ad attenderla, bensì il giovane cacciatore. Egli la consolò dicendole che l'avrebbe salvata, poi la condusse nella chiesetta e ve la rinchiuse. Poco dopo, ecco arrivare con gran fracasso il drago dalle sette teste. Vedendo il cacciatore, si stupì e disse. -Che sei venuto a fare qui sul monte?-. Il cacciatore rispose: -Voglio combattere con te-. -Già tanti cavalieri hanno perso la vita- disse il drago -la spunterò anche con te!- E lanciò fuoco dalle sette fauci, per incendiare l'erba all'intorno e soffocare il cacciatore nella vampa e nel fumo. Ma le bestie accorsero e lo spensero subito con le zampe. Allora il drago si scagliò contro il cacciatore, ma questi brandì la spada risonante e gli tagliò tre teste. Allora il drago s'infuriò: si alzò in aria vomitando fiamme e tentando di avventarsi sul cacciatore, ma egli tornò a vibrar la spada e gli mozzò altre tre teste. Il mostro cadde sfinito eppure volle di nuovo lanciarsi contro il giovane che, con le ultime forze che gli restavano, gli mozzò la coda. Poi, incapace di lottare ancora, quest'ultimo chiamò le sue bestie perché‚ sbranassero il drago. Terminato il combattimento, il cacciatore aprì la chiesa e trovò la principessa distesa a terra, svenuta per la paura e l'angoscia. La portò fuori per farle riprendere i sensi e quand'ella aprì gli occhi, le mostrò il drago fatto a pezzi e le disse che era libera. Felice, ella esclamò: -Sarai il mio diletto, poiché‚ mio padre mi ha promessa a colui che avrebbe ucciso il drago- Poi si tolse la collana di corallo e la divise fra gli animali, e al leone toccò il fermaglietto d'oro. Invece al cacciatore diede il fazzoletto con il suo nome; ed egli andò a tagliare le lingue dalle sette teste del drago e le avvolse serbandole con cura. Fatto questo, poiché‚ era esausto per il fuoco e la lotta, disse alla fanciulla: -Siamo sfiniti tutti e due, dormiamo un po'!-. Ella acconsentì, si sdraiarono a terra e il cacciatore disse al leone: -Veglia, che nessuno ci sorprenda nel sonno!- e si addormentarono entrambi. Il leone si distese accanto a loro per vegliare, ma la lotta aveva stancato anche lui, perciò chiamò l'orso e gli disse: -Sdraiati accanto a me, io devo dormire un po'; se succede qualcosa chiamami-. L'orso gli si sdraiò accanto, ma anch'egli era stanco, perciò chiamò il lupo e disse. -Sdraiati accanto a me, io devo dormire un po'; se succede qualcosa chiamami.-. Il lupo gli si sdraiò accanto, ma era stanco anche lui, così chiamò la volpe e disse: -Sdraiati accanto a me io devo dormire un po'; se succede qualcosa chiamami-. La volpe gli si sdraiò accanto, ma anche lei era stanca, così chiamò la lepre e le disse: -Sdraiati accanto a me, io devo dormire un po'; se succede qualcosa chiamami-. La lepre le si sdraiò accanto, ma era stanca anche lei, poverina, e non poteva chiamare nessuno a fare la guardia; e si addormentò. Così dormivano la principessa, il cacciatore, il leone, l'orso, il lupo, la volpe e la lepre; e tutti quanti dormivano un sonno profondo. Ma il maresciallo, che aveva dovuto vigilare di lontano, non vedendo il drago volar via con la fanciulla, e poiché‚ sul monte tutto era tranquillo, si fece coraggio e salì. Lassù trovò il drago che giaceva a terra fatto a pezzi e, non molto lontano, c'era la principessa e un cacciatore con i suoi animali, tutti profonda mente addormentati. E poiché‚ egli era empio e malvagio, afferrò la spada e mozzò la testa al cacciatore; poi prese in braccio la fanciulla e la portò giù dal monte. Ella si svegliò e inorridì; ma il maresciallo disse: -Ormai sei nelle mie mani, devi dire che sono stato io a uccidere il drago-. -Non posso farlo- rispose ella -è stato un cacciatore con i suoi animali.- Allora egli trasse la spada e minacciò di ucciderla se non avesse obbedito; così la obbligò a dargli la propria parola. Poi la condusse dal re il quale non si teneva più dalla gioia, rivedendo la sua cara figliola che immaginava già uccisa dal mostro. Il maresciallo disse: -Ho ucciso il drago e liberato la fanciulla e il regno; perciò chiedo che ella mi sia data in moglie, secondo la promessa-. Il re domandò alla fanciulla: -E' vero ciò che dice?-. -Ah sì- rispose -ma desidero che le nozze non siano celebrate prima di un anno e un giorno.- Sperava infatti di sapere qualcosa del suo caro cacciatore, in quel periodo di tempo. Sul monte del drago gli animali dormivano ancora accanto al loro signore morto, quando arrivò un grosso calabrone che si posò sul naso della lepre; ma la lepre lo scacciò con la zampa e continuò a dormire. Il calabrone tornò una seconda volta, ma la lepre lo scacciò di nuovo e continuò a dormire. Allora tornò una terza volta e le punse il naso, svegliandola. Ella si svegliò e subito chiamò la volpe, la volpe il lupo, il lupo l'orso, e l'orso il leone. E quando il leone si svegliò e vide che la fanciulla non c'era più e che il suo signore era morto, si mise a ruggire terribilmente e gridò: -Chi ha fatto questo? Orso, perché‚ non mi hai svegliato?-. L'orso chiese al lupo: -Perché‚ non mi hai svegliato?- e il lupo alla volpe: -Perché‚ non mi hai svegliato?- e la volpe alla lepre: -Perché‚ non mi hai svegliato?-. Ma la povera lepre non seppe cosa rispondere, e la colpa ricadde su di lei. Volevano saltarle tutti addosso, ma ella li supplicò dicendo: -Non uccidetemi, restituirò la vita al nostro padrone. Conosco un monte sul quale cresce una radice che, a metterla in bocca, guarisce ogni malattia e ogni ferita. Ma la montagna si trova a duecento ore da qui-. Il leone disse: -In ventiquattr'ore devi andare e tornare con la radice-. La lepre corse via e ritornò dopo ventiquattr'ore con la radice. Il leone mise la testa del cacciatore sul tronco, e la lepre gli mise in bocca la radice; i pezzi si ricongiunsero all'istante, il cuore ricominciò a battere e la vita tornò in lui. Il cacciatore si svegliò e, non vedendo la fanciulla accanto a s‚, pensò: "E' fuggita mentre dormivo per liberarsi di me". Nella fretta, il leone gli aveva messo la testa al contrario, senza che egli se ne accorgesse, assorto com'era nei suoi tristi pensieri. Ma, a mezzogiorno, quando volle mangiare qualcosa vide che aveva la faccia di dietro, non riuscendo a capire il perché‚ domandò agli animali che cosa mai gli fosse successo mentre dormiva. Allora il leone gli raccontò che anche loro si erano addormentati e, al risveglio, lo avevano trovato morto con la testa mozza; la lepre era però andata a prendere la radice della vita e lui, nella fretta, gli aveva messo la testa nel verso sbagliato; ma avrebbe rimediato all'errore. Gliela strappò di nuovo, la girò, e la lepre la fissò con la radice. Ma il cacciatore era triste; non volle più tornare in città e se ne andò in giro per il mondo, facendo ballare le sue bestie in pubblico. Era trascorso proprio un anno quando gli capitò di ritornare là dove aveva liberato la principessa dal drago e, questa volta, la città era parata di scarlatto. -Cosa significa?- chiese all'oste. -Un anno fa la città era parata con nastri neri, perché‚ mai oggi vi sono paramenti rossi?- L'oste rispose: -Un anno fa, la figlia del nostro re doveva essere sacrificata al drago; ma il maresciallo l'ha ucciso, e domani saranno festeggiate le loro nozze: allora la città era, dunque, parata a lutto, mentre oggi è parata di rosso in segno di gioia-. Il giorno delle nozze, il cacciatore disse all'oste a mezzogiorno: -Ci crede, signor oste, che oggi mangerò pane della tavola reale?-. -Sì- rispose l'oste -e io ci scommetto cento monete d'oro che non è vero.- Il cacciatore accettò la scommessa e giocò una borsa con altrettante monete. Poi chiamò la lepre e disse: -Va', tu che sei destra nel saltare, e portami un po' del pane che mangia il re-. Il leprottino era il più piccolo degli animali e non poteva passare l'incarico a un altro, perciò dovette incamminarsi. "Ah" pensava "ad andarmene così solo in giro per le strade, i cani mi correranno dietro!" E infatti aveva ragione: i cani lo inseguivano per rammendargli la pelliccia! Ma egli, in men che non si dica, spiccò il balzo e andò a nascondersi in una garitta, senza che il soldato se ne accorgesse. Arrivarono i cani a scovarlo, ma al soldato non garbò l'affare e si mise a dar botte con il calcio del fucile, sicché‚ scapparono urlando. Il leprotto ebbe così via libera; corse al castello, andò a mettersi proprio sotto la sedia della principessa e le grattò il piede. -Va' via!- diss'ella pensando che fosse il suo cane. La lepre le grattò di nuovo il piede ed ella ripeté‚: -Va' via!- credendo che fosse il cane. Ma la lepre non si lasciò confondere e grattò per la terza volta; ella abbassò gli occhi e, dalla collana, riconobbe la lepre. Allora prese l'animale in grembo, lo portò nella sua camera e disse: -Cara lepre, cosa vuoi?-. La lepre rispose: -Il mio signore, quello che ha ucciso il drago, è qui e mi manda a chiedere un pane, di quello che mangia il re-. Piena di gioia, ella fece chiamare il fornaio e gli ordinò di portare un pane, di quello che mangiava il re. -Ma il fornaio deve anche portarmelo- disse il leprottino -perché‚ i cani non mi facciano nulla.- Il fornaio glielo portò fino alla porta dell'osteria; poi la lepre si mise sulle zampe posteriori, prese il pane con quelle anteriori e lo portò al suo padrone. Il cacciatore disse: -Vede, signor oste? Le cento monete d'oro sono mie-. L'oste si meravigliò, ma il cacciatore aggiunse: -Sì, signor oste, ho avuto il pane, ma adesso voglio mangiare anche l'arrosto del re-. -Voglio proprio vedere- replicò l'oste, ma non volle più scommettere. Il cacciatore chiamò la volpe e le disse: -Volpicina mia, va' e portami un po' di arrosto, di quello che mangia il re-. Pelo Rosso la sapeva più lunga, sgattaiolò di qua e di là senza che neanche un cane la vedesse, andò a infilarsi sotto la sedia della principessa e le grattò il piede. Ella guardò giù e riconobbe la volpe dalla collana; se la portò in camera e disse: -Cara volpe cosa vuoi?-. La volpe rispose: -Il mio signore, quello che ha ucciso il drago, è qui e mi manda a chiedere un po' di arrosto di quello che mangia il re-. La principessa fece venire il cuoco che dovette preparare un arrosto come quello del re, e portarlo fino alla porta dell'osteria; poi la volpe gli prese il piatto e lo portò al suo signore. -Vede, signor oste?- disse il cacciatore. -Pane e carne sono qua, ma ora voglio anche la verdura, di quella che mangia il re.- Allora chiamò il lupo e gli disse: -Caro lupo, va' e portami un po' di verdura, di quella che mangia il re-. Il lupo che non aveva paura di nessuno, andò dritto al castello e, quando arrivò nella stanza dov'era la principessa, la tirò per la veste perché‚ si voltasse. Ella lo riconobbe dalla collana, se lo portò in camera e disse: -Caro lupo, cosa vuoi?-. Il lupo rispose: -Il mio signore, quello che ha ucciso il drago, è qui e mi manda a chieder un po' di verdura, di quella che mangia il re- Allora ella mandò a chiamare il cuoco che dovette preparare della verdura come quella che mangiava il re, e portarla fino alla porta dell'osteria; poi il lupo prese il piatto e lo portò al suo signore. -Vede, signor oste?- disse il cacciatore. -Ora ho pane, carne e verdura, ma voglio anche il dolce, come lo mangia il re.- Chiamò l'orso e gli disse: -Caro orso, tu ti ingozzi volentieri di dolci, va' e prendimene un po' di quelli che mangia il re-. L'orso trottò fino al castello, e tutti lo evitavano, ma quando giunse davanti al corpo di guardia, gli puntarono contro il fucile e non volevano lasciarlo passare. Allora l'orso si rizzò e con le zampe assegnò un paio di schiaffi a destra e a sinistra, sicché‚ tutto il corpo di guardia cadde a terra; poi se ne andò dritto dalla principessa, si fermò dietro di lei e brontolò un po' Ella si volse, riconobbe l'orso, lo introdusse nella sua camera e gli disse: -Caro orso, cosa vuoi?-. L'orso rispose: -Il mio signore, quello che ha ucciso il drago, è qui e mi manda a chiedere un dolce, di quelli che mangia il re.- Allora ella fece chiamare il pasticcere che dovette preparare un dolce come quelli che mangiava il re, e portarlo fino all'osteria; poi l'orso si rizzò sulle zampe di dietro, prese il piatto e lo portò al suo padrone che disse: -Vede, signor oste, ora ho pane, carne, verdura e dolce, ma adesso voglio anche il vino del re-. Chiamò il leone e disse: -Caro leone, tu che bevi volentieri, va' a prendermi un po' di vino, di quello che beve il re-. Il leone si mise in cammino e la gente scappava al vederlo; e quando giunse al corpo di guardia, volevano sbarrargli il passaggio; ma bastò un ruggito e filarono via tutti quanti. Il leone andò alla sala del trono e bussò alla porta con la coda. La principessa uscì e, vedendolo, per poco non si spaventò, ma poi lo riconobbe dal fermaglio d'oro della sua collana, lo condusse in camera sua e disse: -Caro leone, cosa vuoi?-. Il leone rispose: -Il mio signore, quello che ha ucciso il drago, è qui e mi manda a chiedere un po' di vino, di quello che beve il re-. Allora ella fece chiamare il coppiere perché‚ desse al leone un po' di vino, di quello che beveva il re. Ma il leone disse: -Andrò anch'io a controllare che mi dia quello buono-. Scese con il coppiere e, quando furono in cantina, questi voleva spillargli del vino comune, di quello che bevono i servi; ma il leone disse: -Fermo lì, prima voglio assaggiarlo-. Se ne spillò mezzo boccale e lo bevve in un sorso. -No- disse -non è quello buono.- Il coppiere lo guardò storto, ma andò a prenderne da un'altra botte, che era quella del maresciallo. Disse il leone: -Fermo lì, prima voglio assaggiarlo-. Se ne spillò un mezzo boccale e lo bevve. -Questo è migliore, ma non è ancora quello buono.- Allora il coppiere si arrabbiò e disse: -Cosa vuol saperne di vino una bestia!-. Ma il leone gli assestò una botta dietro le orecchie che lo fece cadere malamente a terra; e quando si rialzò lo condusse in silenzio in una cantina a parte, dove si trovava il vino del re, che a nessun altro era concesso di bere. Il leone ne spillò mezzo boccale, lo assaggiò e disse: -Questo sì che è buono- e ordinò al coppiere di riempirgliene sei bottiglie. Poi salirono di sopra ma quando il leone si trovò all'aperto, barcollava, un po' brillo, e il coppiere dovette così portargli il vino fino alla porta dell'osteria; poi il leone prese il cesto e lo portò al suo padrone. Il cacciatore disse: -Vede, signor oste? Ora ho pane, carne, verdura, dolce e vino, come il re; adesso mangerò con le mie bestie-. Si mise a tavola, mangiò e bevve e diede da mangiare e da bere anche alla lepre, alla volpe, al lupo, all'orso e al leone, ed era tutto contento perché‚ capiva che la principessa lo amava ancora. Quand'ebbe terminato di mangiare, disse: -Signor oste, ho mangiato e bevuto come mangia e beve il re; ora andrò a corte e sposerò la principessa-. L'oste domandò: -Com'è possibile, dato che ha già un fidanzato e oggi si sposeranno?-. Il cacciatore allora tirò fuori il fazzoletto che gli aveva dato la principessa sul monte del drago e in cui si trovavano avvolte le sette lingue del mostro, e disse: -Mi aiuterà ciò che tengo in mano-. L'oste guardò il fazzoletto e disse: -Potrei credere a tutto, ma non a questo, e sarei pronto a giocarmi tutto quel che posseggo-. Ma il cacciatore prese una borsa di monete d'oro, la mise sulla tavola e disse: -E io mi gioco questa-. Nel frattempo alla tavola reale il re disse alla figlia: -Che cosa volevano da te tutte quelle bestie che sono entrate e uscite dal mio castello?-. Ella rispose: -Non posso dirlo, ma mandate a chiamare il loro padrone: sarà cosa ben fatta-. Il re mandò un servo alla locanda a invitare il forestiero, e il servo arrivò proprio quando il cacciatore e l'oste stavano scommettendo. Allora il cacciatore disse: -Vede, signor oste? Il re manda un servo a invitarmi, ma io non ci vado ancora-. Poi disse al servo: -Di' al re che lo prego di mandarmi abiti regali, una carrozza con sei cavalli, e dei servi ai miei ordini-. Quando il re udì la risposta, disse alla figlia: -Cosa devo fare?-. Ella disse: -Mandatelo a prendere come desidera: sarà cosa ben fatta-. Allora il re mandò abiti regali, una carrozza con sei cavalli e dei servi ai suoi ordini. Vedendoli arrivare, il cacciatore disse: -Vede, signor oste? Vengono a prendermi come voglio io-. Indossò gli abiti regali, prese il fazzoletto con le lingue del drago e si recò dal re. Vedendolo venire, il re disse alla figlia: -Come devo riceverlo?-. Ella rispose: -Andategli incontro: sarà cosa ben fatta-. Allora il re gli andò incontro e lo fece salire, con tutti i suoi animali. Gli indicò un posto accanto a s‚ e a sua figlia, mentre il maresciallo, in qualità di sposo, si sedette dall'altra parte, senza riconoscere il cacciatore. Proprio in quel momento furono portate le sette teste del drago e il re disse: -Queste teste le ha mozzate il maresciallo, per questo oggi gli darò mia figlia in isposa-. Allora il cacciatore si alzò in piedi, aprì le sette fauci e disse: -Dove sono le sette lingue del drago?-. Il maresciallo sbalordì e si fece pallido non sapendo che cosa rispondere; infine disse turbato: -I draghi non hanno lingua-. -Coloro che mentono non dovrebbero averla- esclamò il cacciatore -ma le lingue del drago sono il segno del vincitore.- Sciolse il fazzoletto, dov'erano tutte e sette, e in ogni fauce mise una lingua che combaciò perfettamente. Poi prese il fazzoletto, sul quale era ricamato il nome della principessa, lo mostrò alla fanciulla, e le domandò a chi l'avesse dato. Ella rispose: -A chi ha ucciso il drago-. Poi egli chiamò le sue bestie, a ciascuna tolse la collana e al leone tolse il fermaglio d'oro, li mostrò alla principessa chiedendole a chi appartenessero. Ella rispose: -Sono miei; ho diviso la collana fra gli animali che aiutarono a sconfiggere il drago-. Allora il cacciatore disse: -Mentre dormivo, spossato dal combattimento, è giunto il maresciallo che mi ha mozzato la testa, e ha portato via la principessa dando a credere di essere stato lui a uccidere il drago. Ma che abbia mentito, lo dimostrano le lingue, il fazzoletto e la collana-. E raccontò come le sue bestie l'avevano risanato grazie a una radice miracolosa e che, con loro, aveva girovagato per un anno; infine, ritornato, aveva appreso l'inganno del maresciallo dall'oste. Allora il re chiese alla figlia: -E' vero che costui ha ucciso il drago?-. -Sì, è vero- rispose ella. -Ora posso finalmente rivelare la scelleratezza del maresciallo, dato che è venuta alla luce senza il mio aiuto; egli mi aveva infatti costretta a promettergli di tacere. Per questo ho voluto che le nozze non fossero celebrate prima di un anno e un giorno.- Allora il re fece chiamare dodici consiglieri che dovettero pronunciarsi sulla sorte del maresciallo e sentenziarono che fosse squartato da quattro buoi. Così il maresciallo fu giustiziato, e il re diede la figlia in isposa al cacciatore e lo nominò suo luogotenente in tutto il regno. Le nozze furono festeggiate con grande gioia, e il giovane re mandò a prendere suo padre e il padre adottivo e li colmò di ogni bene. Non dimenticò neanche l'oste; lo fece chiamare e gli disse: -Vede, signor oste? Ho sposato la principessa, perciò ogni Suo avere è mio- -Sì- rispose l'oste -sarebbe giusto.- Ma il giovane re disse: -Invece Le farò grazia: terrà il Suo avere e le regalerò anche le mille monete d'oro-. Ora il giovane re e la regina vivevano insieme felici e contenti. Egli si recava spesso a caccia, essendo per lui il miglior divertimento, e le bestie lo accompagnavano. Nelle vicinanze, c'era un bosco che si diceva fosse incantato: chi vi entrava non ne usciva tanto facilmente. Ma il giovane aveva tanta voglia di andarvi a cacciare, che non lasciò in pace il vecchio re finché‚ questi non gli accordò il suo permesso. Così partì a cavallo con un seguito numeroso ma, quando giunse nel bosco, vide una cerva bianca come la neve, e disse ai suoi: -Fermatevi qui finché‚ non sarò di ritorno, voglio cacciare quel bell'animale- e lo rincorse a cavallo, addentrandosi nel bosco, seguito soltanto dalle sue bestie. Gli uomini del seguito lo aspettarono fino a sera, ma egli non tornò; allora rientrarono al castello e raccontarono alla giovane regina: -Il giovane re ha inseguito una cerva bianca nel bosco incantato e non ha più fatto ritorno-. Ella era in grande apprensione, ma egli aveva rincorso a cavallo il bell'animale, senza poterlo mai raggiungere; quando pensava che fosse a tiro, eccolo di nuovo distante, finché‚ sparì del tutto. Accortosi di essersi addentrato nel più folto del bosco, prese il corno e lo suonò, ma non ricevette risposta poiché‚ il suo seguito non poteva udirlo. Calarono le tenebre ed egli vide che per quel giorno non poteva fare ritorno a casa; scese da cavallo e si accese un fuoco sotto un albero, per passarvi la notte. Mentre se ne stava accanto al fuoco con le bestie distese vicino, gli parve di udire una voce umana; si guardò attorno ma non riuscì a scorgere nessuno. Poco dopo tornò a udire un gemito che pareva provenire dall'alto; alzò gli occhi e vide una vecchia seduta sull'albero, che si lamentava dicendo: -Uh, uh, uh, che freddo!-. Egli disse: -Scendi a scaldarti, se hai freddo-. Ma ella replicò: -No, le tue bestie mi mordono-. -Non ti fanno niente, nonnina- disse egli -vieni pure giù.- Ma ella era una strega e disse: -Ti getterò una bacchetta; se li tocchi con quella sul dorso, non mi faranno niente-. Gli gettò una bacchetta, e con quella egli toccò le bestie, che subito giacquero immobili, trasformate in pietra. Quando la strega non ebbe più paura degli animali, saltò giù e toccò anche lui con una bacchetta trasformandolo in pietra. Poi, ridendo, lo trascinò con i suoi animali in una fossa, dove c'erano già altre pietre di quella sorta. Il giovane re non tornava mai e la paura e la preoccupazione della regina aumentavano sempre di più. Ora avvenne che proprio in quel tempo giunse nel regno l'altro fratello che, al momento della separazione, se ne era andato verso oriente. Aveva cercato invano un lavoro, poi aveva girato qua e là facendo ballare le sue bestie. Un giorno gli venne in mente, per sapere come stesse suo fratello, di andare a vedere il coltello che, nel separarsi, essi avevano conficcato nell'albero. Quando giunse al bivio vide che, dalla parte del fratello, la lama era per metà arrugginita e per metà ancora lucida. Spaventato, egli pensò: "A mio fratello deve essere accaduta una terribile disgrazia, ma forse posso ancora salvarlo, perché‚ la lama è ancora lucida a metà". E si mise in cammino verso occidente. Quando giunse alla porta della città, gli venne incontro la sentinella domandandogli se doveva annunciare alla moglie il suo arrivo: già da un paio di giorni la giovane regina era in ansia per la sua assenza, temendo che fosse perito nel bosco incantato. La sentinella credeva infatti che si trattasse del giovane re in persona tanto gli assomigliava, anch'egli seguito dagli animali. Egli comprese così che si trattava del fratello e pensò: "E' meglio che mi faccia passare per lui, così potrò forse salvarlo più facilmente". Si fece, dunque, accompagnare dalla sentinella al castello, dove fu ricevuto con gran gioia. La giovane regina credette che fosse il suo sposo, ed egli le raccontò di essersi smarrito nel bosco senza sapere come uscirne. La sera fu condotto al letto regale, ma fra s‚ e la giovane regina mise una spada a due tagli; ella non comprese il perché‚, ma non osò fare domande. Egli rimase là un paio di giorni, cercando di scoprire tutto ciò che riguardava il bosco incantato; alla fine disse: -Voglio andare di nuovo a cacciare laggiù-. Il re e la giovane regina volevano dissuaderlo, ma egli insistette e partì con un gran seguito. Quando giunse nel bosco vide anche lui la cerva bianca e disse ai suoi: -Rimanete qui ad aspettarmi finché‚ non sarò di ritorno, voglio cacciare quel bell'animale- ed entrò nel bosco seguito dalle sue bestie. Gli accadde lo stesso che al fratello: non pot‚ raggiungere la cerva bianca e si addentrò tanto nel bosco che fu costretto a pernottarvi. Quand'ebbe acceso un fuoco, udì gemere dall'alto: -Uh, uh, uh, che freddo!-. Alzò gli occhi e vide la strega sull'albero. -Se hai freddo- disse -scendi a scaldarti, nonnina.- Ma ella rispose: -No, le tue bestie mi mordono-. -Non ti fanno niente- disse egli. La strega replicò: -Ti getterò una bacchetta; se li tocchi con quella, non mi fanno niente-. Ma il cacciatore diffidò delle sue parole e disse: -Le mie bestie non le tocco; vieni giù o vengo a prenderti!-. Ella gridò: -Cosa credi? tanto non puoi farmi nulla!-. Ma egli rispose: -Se non scendi, sparo-. Ella disse: -Spara pure, le pallottole non mi faranno nulla-. Egli prese la mira e sparò, ma la strega era invulnerabile al piombo; diede una risata stridula e gridò: -Non riuscirai a colpirmi!-. Ma il cacciatore la sapeva lunga: strappò dalla giubba tre bottoni d'argento e li mise nello schioppo poiché‚ contro l'argento le arti della strega erano vane; e, quando sparò, ella precipitò a terra urlando. Allora egli disse, tenendola ferma con un piede: -Vecchia strega, se non confessi subito dov'è mio fratello, ti prendo e ti butto nel fuoco-. Piena di paura, ella chiese grazia e disse: -E' in una fossa, insieme alle sue bestie, trasformato in pietra-. Egli la costrinse ad accompagnarlo dicendo: -Vecchio gattomammone, adesso ridesti mio fratello e tutti coloro che sono qui dentro, o finisci nel fuoco-. Ella prese una bacchetta e toccò le pietre: il fratello si ridestò, insieme ai suoi animali, e così tanta altra gente si alzò: mercanti, artigiani e pastori, lo ringraziarono per averli liberati e se ne tornarono a casa. I due fratelli si baciarono, felici di rivedersi. Poi afferrarono la strega, la legarono e la buttarono nel fuoco, e, quando fu bruciata, il bosco si aprì, facendosi chiaro e luminoso, sicché‚ si poteva vedere il castello reale, a tre ore di cammino. I due fratelli ritornarono a casa insieme e, per via, si raccontarono le loro avventure. E quando il più giovane disse di essere il luogotenente del re, l'altro aggiunse: -Me ne sono accorto! Quando sono arrivato in città, infatti, mi hanno scambiato per te e sono stato trattato con tutti gli onori: la giovane regina mi ha creduto il suo sposo e ho dovuto mangiare al suo fianco e dormir nel tuo letto-. All'udir queste parole, il fratello, geloso e furente, trasse la spada e gli tagliò la testa. Ma quando giacque a terra morto, ed egli ne vide scorrere il sangue vermiglio, si pentì amaramente e disse: -Mio fratello mi ha liberato dall'incantesimo, e io l'ho ucciso!- e si lamentava a gran voce. Allora venne la sua lepre e gli disse che sarebbe andata a prendere la radice miracolosa. Corse via e la portò ancora in tempo: il morto fu risuscitato e non s'accorse affatto della ferita. Proseguirono il cammino e il giovane disse: -Tu hai il mio aspetto, indossi vesti regali come me e, come me, hai delle bestie al tuo seguito: entriamo in città da due porte opposte e presentiamoci insieme al vecchio re-. Si separarono e al vecchio re si presentarono nello stesso momento, le sentinelle dell'una e dell'altra porta, ad annunciargli che il giovane re era tornato dalla caccia con i suoi animali. Il re disse: -Non è possibile, le porte distano un'ora l'una dall'altra-. Ma in quella, i due fratelli entrarono da parti opposte nel cortile del castello e salirono insieme. Allora il re disse a sua figlia: -Dimmi dunque qual è tuo marito. Si somiglian tanto ch'io non potrei dirlo-. Ella era in grande imbarazzo e non avrebbe saputo dirlo, quando le venne in mente la collana che aveva dato agli animali. Vide al collo di uno dei leoni il fermaglio d'oro, ed esclamò tutta contenta: -Il padrone di questo leone è il mio vero sposo-. Il giovane re si mise a ridere e disse: -Sì, è proprio vero!-. Sedettero a tavola tutti insieme e mangiarono e bevvero allegramente. La sera, quando il giovane re andò a letto, sua moglie gli disse: -Perché‚ le notti scorse hai sempre messo nel nostro letto una spada a due tagli? Ho creduto che volessi uccidermi-. Allora egli capì come il fratello gli fosse stato fedele.
FINE





Il contadinello
tempo: 13'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 061



C'era un villaggio dove tutti i contadini erano ricchi, meno uno che chiamavano il contadinello. Egli non aveva neanche una mucca e men che meno denaro per comprarla; e dire che lui e sua moglie avrebbero tanto desiderato averla! Un giorno egli le disse: “Ascolta, ho una bell'idea: il nostro compare falegname ci farà un vitello di legno, verniciato di scuro, che sembri un vitello come gli altri; con il tempo crescerà e diventerà una mucca.” Alla donna piacque l'idea, e il compare falegname formò e piallò per bene il vitello, lo verniciò come si conveniva e lo fece con la testa abbassata come se stesse mangiando.

Il mattino dopo, quando condussero le mucche al pascolo, il contadinello chiamò il pastore e gli disse: “Vedete, ho qui un vitellino, ma è ancora troppo piccolo e bisogna portarlo.” - “Sta bene!” disse il pastore; lo prese in braccio, lo portò al pascolo e lo lasciò sul prato. Il vitellino stette sempre fermo come se mangiasse, e il pastore disse: “Ben presto sarà in grado di correr da solo: guarda come mangia!” La sera, quando fu ora di ricondurre il branco, disse al vitello: “Se sai stare qui a rimpinzarti, puoi anche andar con le tue gambe; non ho più voglia di portarti a casa in braccio.” Ma il contadinello se ne stava sulla porta ad aspettare il suo vitellino; quando vide il pastore attraversare il villaggio senza il vitellino, gliene chiese notizie. Il pastore rispose: “E ancora là che mangia; non ha voluto smetterla per venire con noi.” Ma il contadinello disse: “Storie! Io devo riavere la mia bestia.” Ritornarono insieme nel prato, ma qualcuno doveva aver rubato il vitello perché‚ non c'era più. Disse il pastore: “Se ne sarà andato.” Ma il contadinello disse: “Non la bevo!” e condusse davanti al sindaco il pastore che fu condannato per la sua negligenza e dovette dare al contadinello una mucca a risarcimento del vitello smarrito.

Finalmente il contadinello e sua moglie avevano la mucca tanto desiderata; si rallegrarono di cuore, ma non avevano mangime e non potevano nutrirla, perciò decisero di macellarla. Salarono la carne e il contadinello andò in città a vendere la pelle, per comperare con il ricavato un altro vitellino. Strada facendo giunse a un mulino dove trovò un corvo senz'ali; per pietà lo raccolse e lo avvolse nella pelle. Ma il tempo era tanto brutto, tirava vento e la bufera imperversava, sicché‚ egli, non potendo proseguire, tornò al mulino e chiese alloggio.

La mugnaia era sola in casa e disse al contadinello: “Sdraiati sulla paglia,” e gli diede un po' di pane e formaggio. Il contadinello mangiò e si coricò con la sua pelle vicino; la mugnaia pensò: "Costui è stanco e dorme." In quella arrivò il prete, e la donna, accogliendolo con cortesia, disse: “Mio marito non c'è, possiamo far baldoria.” Il contadinello tese le orecchie e, sentendo parlare di ristoro, si seccò che avesse dovuto accontentarsi di pane e formaggio. La donna intanto mise in tavola ogni ben di Dio: arrosto, insalata, focaccia e vino. Si erano appena seduti a tavola e stavano per mettersi a mangiare, quando da fuori bussarono alla porta. “Ah, Dio, è mio marito!” e in fretta nascose l'arrosto nel tegame, il vino sotto il guanciale, l'insalata nel letto, la focaccia sotto il letto e il prete nell'armadio. Poi aprì al marito e disse: “Dio sia lodato, sei qui!” Il mugnaio vide il contadinello disteso sulla paglia e domandò: “Che cosa vuole costui?” - “Ah,” disse la moglie, “è arrivato durante la tempesta e ha chiesto ricovero; allora gli ho dato del pane e formaggio e gli ho detto di sdraiarsi sulla paglia.” L'uomo disse: “Non ho nulla in contrario, dammi solo qualcosa da mangiare.” La donna rispose: “Ho soltanto del pane e del formaggio.” - “Da' pure,” rispose l'uomo. Guardò il contadinello e disse: “Vieni a mangiare con me!” Il contadinello non se lo fece dire due volte, si alzò e mangiò con lui. Poi il mugnaio gli chiese: “Cos'hai lì nella pelle?” Il contadinello rispose: “C'è dentro un indovino.” - “Può indovinare anche per me?” domandò il mugnaio. “Perché‚ no?” rispose il contadinello, “ma dice solo quattro cose e la quinta la tiene per se.” Il mugnaio, incuriosito disse: “Fallo indovinare.” Allora il contadinello premette il corvo sulla testa e quello gracchiò facendo ‘crr, crr’. “Che ha detto?” domandò il mugnaio. Il contadinello rispose: “Per prima cosa ha detto che c'è del vino sotto il guanciale.” - “Sarà roba del diavolo!” esclamò il mugnaio, andò e trovò il vino. “Continua!” soggiunse. Il contadinello fece di nuovo gracchiare il corvo e disse: “Secondo: ha detto che c'è dell'arrosto nel tegame.” - “Sarà roba del diavolo!” esclamò il mugnaio, andò e trovò l'arrosto. Il contadinello interrogò ancora l'indovino e disse: -Terzo: ha detto che c'è dell'insalata nel letto-. -Sarà roba del diavolo!- esclamò il mugnaio, andò e trovò l'insalata. Infine il contadinello premette ancora una volta il corvo, facendolo gracchiare e disse: -Quarto: ha detto che c'è della focaccia sotto il letto-. -Sarà roba del diavolo!- esclamò il mugnaio, andò e trovò la focaccia. I due si sedettero insieme a tavola, ma la mugnaia aveva una gran paura; andò a letto e prese con s‚ tutte le chiavi. Il mugnaio avrebbe saputo volentieri anche la quinta cosa, ma il contadinello disse: -Prima mangiamo tranquillamente le altre quattro, perché‚ la quinta è sgradevole-. Mangiarono e poi contrattarono quanto dovesse pagare il mugnaio per il quinto pronostico, finché‚ si accordarono su trecento scudi. Allora il contadinello premette ancora una volta la testa del corvo che gracchiò forte. Il mugnaio domandò: -Che ha detto?-. Il contadinello rispose: -Ha detto che fuori, nell'armadio del corridoio c'è nascosto il diavolo-. Il mugnaio disse: -Il diavolo deve uscire!-. Spalancò la porta di casa, si fece dare le chiavi dalla moglie e il contadinello aprì l'armadio. Allora il prete corse fuori più in fretta che pot‚ e il mugnaio disse: -Ho visto una figura tutta nera!-. All'alba il contadinello se la svignò con i trecento scudi. Al villaggio il contadinello a poco a poco s'ingrandì costruendosi una bella casa, e i contadini dicevano: -Il contadinello è sicuramente stato dove nevica l'oro e lo si porta a casa a palate- Allora fu chiamato dal sindaco a render conto della sua ricchezza. Egli rispose: -In città ho venduto la pelle della mucca per trecento scudi-. Udendo questo i contadini vollero anch'essi approfittarne: corsero a casa, ammazzarono tutte le mucche e le scuoiarono per venderne la pelle in città a caro prezzo. Il sindaco disse: -Per prima andrà la mia serva- Quando questa giunse in città dal mercante, non ricavò più di tre scudi per una pelle e, quando arrivarono gli altri, il mercante diede loro ancora di meno dicendo: -Che cosa me ne faccio di tutte queste pelli?-. Allora i contadini si arrabbiarono, perché‚ il contadinello li aveva presi in giro; vollero vendicarsi e lo denunciarono per truffa davanti al sindaco.

Questi condannò il contadinello a morte: doveva essere gettato in acqua in una botte forata. Il contadinello fu condotto fuori e gli portarono un prete che doveva leggergli l'uffizio dei morti. Gli altri dovettero allontanarsi tutti e quando il contadinello guardò il prete riconobbe in lui quello che era stato dalla mugnaia. Così gli disse: -Io vi ho liberato dall'armadio, voi liberatemi dalla botte-. In quella passò di lì un pastore con le sue pecore; il contadinello, sapendo da un pezzo che egli desiderava diventare sindaco, gridò forte: -No, non lo faccio! Anche se tutto il mondo lo volesse, non lo faccio, no!-. All'udirlo, il pastore si avvicinò e chiese: -Che intendi dire, cos'è che non vuoi fare?-. Il contadinello rispose: -Vogliono farmi sindaco se entro nella botte, ma io non lo faccio!-. Il pecoraio disse: -E' tutto qui? Per diventare sindaco io ci entrerei subito-. Il contadinello disse: -Se ci entri diventi anche sindaco-. Il pastore acconsentì soddisfatto, entrò nella botte e il contadinello chiuse il coperchio; poi prese il gregge e lo condusse via. Il prete andò in municipio a dire che l'uffizio funebre era terminato. Allora andarono e rotolarono la botte in acqua. Quando la botte incominciò a rotolare, il pastore gridò: -Sono contento di diventare sindaco! Sono contento di diventare sindaco!-. Tutti credettero che si trattasse del contadinello e risposero: -Lo crediamo anche noi, ma prima devi dare un'occhiata là sotto!-. E gettarono la botte in acqua. Poi i contadini se ne andarono a casa e, quando giunsero al villaggio, videro arrivare il contadinello che, tutto contento, menava tranquillamente un branco di pecore. I contadini allibirono e dissero: -Contadinello da dove vieni? Dall'acqua forse?-. -Certo- rispose il contadinello -sono andato giù giù, finché‚ ho toccato il fondo. Ho sfondato la botte con un calcio e sono sgusciato fuori: c'erano dei bellissimi prati, dove pascolavano tanti agnelli, e ho portato il gregge con me.- I contadini dissero: -Ce ne sono ancora?-. -Oh sì- rispose il contadinello -più del vostro fabbisogno.- Andarono tutti insieme al fiume e nel cielo azzurro c'erano quelle nuvolette che si chiamano pecorelle e si specchiavano in acqua. I contadini gridarono: -Vediamo già le pecore sul fondo!-. Il sindaco si fece avanti e disse: -Scenderò per primo a dare un'occhiata; se tutto va bene vi chiamerò-. Si tuffò e l'acqua fece "plump!". Essi credettero che egli li chiamasse gridando: -Giù!- e tutti quanti si precipitarono dietro in gran fretta. Così il villaggio rimase disabitato e il contadinello, unico erede, divenne un uomo ricco.
FINE





La regina delle api
tempo: 6'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 062



Due principi se ne andarono in cerca di avventure e finirono col menare una vita viziosa e dissoluta, sicché‚ non fecero più ritorno a casa. Il più giovane, che era chiamato il Grullo, se ne andò alla ricerca dei fratelli, ma quando li trovò essi lo presero in giro perché‚ egli, con la sua dabbenaggine, voleva farsi strada nel mondo, mentre loro non ci erano riusciti pur essendo molto più avveduti. Si misero in cammino tutti e tre insieme e giunsero a un formicaio. I due maggiori volevano buttarlo all'aria, per vedere le formichine andare qua e là impaurite, e portare via le uova. Ma il Grullo disse: -Lasciatele in pace quelle bestie, non sopporto che le disturbiate-. Proseguirono e giunsero a un lago dove nuotavano tante tante anatre. I due fratelli volevano catturarne un paio per farle arrostire, ma il Grullo ripeté‚: -Lasciatele in pace quelle bestie, non tollero che le uccidiate-. Infine giunsero a un alveare, dove c'era tanto miele che colava sul tronco. I due volevano appiccare il fuoco all'albero per soffocare le api e prendere il miele. Ma il Grullo tornò a tenerli lontani dicendo: -Lasciate in pace quelle bestie, non tollero che le bruciate-. I tre fratelli arrivarono a un castello: nelle scuderie c'erano soltanto dei cavalli di pietra e non si vedeva anima viva. Attraversarono tutte le sale, finché‚ giunsero a una porta con tre serrature; ma in mezzo alla porta c'era uno spioncino attraverso il quale si poteva vedere nella stanza. Videro un omino grigio seduto a un tavolo. Lo chiamarono una, due volte, ma egli non sentì. Infine lo chiamarono per la terza volta, allora si alzò e uscì dalla stanza. Senza dire neanche una parola li condusse a una tavola riccamente imbandita e, quand'ebbero mangiato e bevuto, diede a ciascuno di loro una camera da letto. Il mattino dopo l'omino andò dal maggiore, gli fece un cenno con il capo e lo portò a una lapide, sulla quale erano scritte le tre imprese che si dovevano compiere per liberare il castello. La prima consisteva in questo: nel bosco, sotto il muschio, bisognava cercare le mille perle della principessa; ma se al tramonto ne mancava una sola, colui che le aveva cercate diventava di pietra. Il maggiore andò e cercò per tutto il giorno ma, al tramonto, ne aveva trovate soltanto cento; così accadde ciò che diceva la lapide ed egli fu tramutato in pietra. Il giorno seguente fu il secondo fratello a tentare l'avventura; ma non fu più fortunato del primo, trovò infatti solo duecento perle e anch'egli impietrì. Infine fu la volta del Grullo; si mise a cercare fra il muschio, ma era così difficile trovare le perle e ci voleva tanto di quel tempo! Allora sedette su di una pietra e si mise a piangere. Mentre se ne stava là arrivò il re delle formiche, al quale una volta egli aveva salvato la vita. Lo accompagnavano cinquemila formiche, e non trascorse molto tempo che le bestioline avevano trovato tutte le perle, riunendole in un mucchio. Il secondo compito consisteva nel ripescare dal lago la chiave che apriva la camera da letto della principessa Quando il Grullo arrivò al lago, le anatre che egli aveva salvato accorsero a nuoto, si tuffarono e ripescarono la chiave dal fondo. Ma la terza impresa era la più difficile: delle tre principesse addormentate bisognava scegliere la più giovane e la più amabile. Esse erano perfettamente uguali, e nulla le distingueva se non che la maggiore aveva mangiato un pezzo di zucchero, la seconda un po' di sciroppo e la più giovane un cucchiaio di miele. Egli doveva riconoscere dal respiro colei che aveva mangiato il miele. Ma in quella giunse la regina delle api che il Grullo aveva protetto dal fuoco; assaggiò la bocca di tutt'e tre e infine si fermò su quella che aveva mangiato miele, così il principe riconobbe quella giusta. Allora l'incanto svanì, ogni cosa fu liberata dal sonno e chi era di pietra riacquistò la forma umana. Il Grullo sposò la più giovane e la più amabile delle principesse e divenne re dopo la morte del padre di lei. I fratelli invece sposarono le altre due fanciulle.
FINE





Le tre piume
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 063



C'era una volta un re che aveva tre figli: due erano intelligenti e avveduti, mentre il terzo parlava poco, era semplice, e lo chiamavano il Grullo. Quando il re diventò vecchio e pensò alla sua fine, non sapeva quale dei figli dovesse ereditare il regno dopo la sua morte. Allora disse loro: -Andate, colui che mi porterà il tappeto più sottile diventerà re dopo la mia morte-. E perché‚ non litigassero fra di loro, li condusse davanti al castello, soffiando fece volare in aria tre piume e disse: -Dovete seguire il loro volo-. Una piuma volò verso oriente, l'altra verso occidente, mentre la terza se ne volò diritto e non arrivò molto lontano, ma cadde a terra ben presto. Così un fratello andò a destra, l'altro se ne andò a sinistra; il Grullo invece fu deriso perché‚ dovette fermarsi là dov'era caduta la terza piuma. Il Grullo si mise a sedere tutto triste. D'un tratto scorse una botola accanto alla piuma. L'aprì e discese una scala venendosi a trovare davanti a un'altra porta; bussò e sentì gridare dall'interno:-Oh, Donzelletta verde e piccina dalla zampa secca, sparuta cagnolina, ehi proprio tu, stammi a sentire, chi c'è là fuori mi devi dire!-La porta si aprì ed egli vide un rospo grande e grosso, con tanti piccoli rospetti attorno. Il rospo grande gli domandò che cosa egli desiderasse. Rispose -Un tappeto che sia il più bello e il più sottile di tutti-. Allora il rospo chiamò uno dei suoi rospetti e disse:-Oh, Donzellettaverde e piccina dalla zampa secca, sparuta cagnolina, ehi proprio tu, stammi ad ascoltare, proprio la scatola mi devi portare!-La bestiola andò a prendere la scatola e il rospo grande l'aprì e diede al Grullo un tappeto, bello e sottile come nessun altro sulla terra. Il Grullo ringraziò e se ne tornò a casa. Gli altri due fratelli credevano che il minore fosse tanto sciocco che non sarebbe stato in grado di trovare nulla. -Perché‚ darsi la pena di cercare tanto!- dissero; tolsero alla prima pecoraia che incontrarono le rozze vesti e le portarono al re. In quella arrivò anche il Grullo con il suo bel tappeto, e quando il re lo vide si meravigliò e disse: -Il regno spetta al più giovane-. Ma gli altri due non gli diedero pace, dicendo che era impossibile che il Grullo diventasse re; e lo pregarono di porre un'altra condizione. Allora il padre disse: -Erediterà il regno colui che mi porterà l'anello più bello-. Condusse fuori i tre fratelli e soffiò in aria le piume che essi dovevano seguire. I due maggiori se ne andarono di nuovo verso oriente e verso occidente, mentre la piuma del Grullo volò dritta e cadde accanto alla botola. Egli scese di nuovo dal grosso rospo e gli disse che aveva bisogno dell'anello più bello del mondo. Il rospo si fece portare la scatola e gli diede un anello bellissimo, quale nessun orefice sulla terra avrebbe mai saputo fare. I due fratelli maggiori si fecero beffe del Grullo che andava in cerca di un anello d'oro, e non si diedero molta pena: schiodarono un anello da un vecchio timone e lo portarono al re. Ma quando questi vide lo splendido anello che aveva portato il Grullo, disse: -Il regno spetta a lui-. Ma i due maggiori tormentarono tanto il re finché egli pose una terza condizione e stabilì che avrebbe ottenuto il regno chi avesse portato a casa la donna più bella. Tornò a soffiare in aria le tre piume, che volarono come le altre volte. Allora il Grullo si recò per la terza volta dal rospo e disse: -Devo portare a casa la donna più bella-. -Accidenti!- rispose l'animale -la donna più bella! Sarai tu ad averla.- Gli diede una zucca cui erano attaccati sei topolini. "Che me ne faccio" pensò il Grullo tutto triste. Ma il rospo disse: -Adesso mettici dentro uno dei miei rospetti-. Egli ne prese uno a caso e lo mise nella zucca; ma non appena l'ebbe sfiorato, il rospo si tramutò in una bellissima fanciulla, la zucca divenne una carrozza e i sei topolini, sei cavalli. Salirono in carrozza, e il giovane baciò la fanciulla e la portò al re. Giunsero anche i fratelli, che avevano sottovalutato a tal punto il fratello da condurre con s‚ le prime contadine che avevano incontrato. Allora il re disse: -Dopo la mia morte il regno toccherà al minore-. Ma i due maggiori ricominciarono di nuovo a protestare dicendo di non poter ammettere che il Grullo diventasse re, e pretesero che avesse la preferenza quello la cui moglie era in grado di saltare attraverso un cerchio appeso in mezzo alla sala. Essi infatti pensavano: "Le contadine sono forti e ci riusciranno, la delicata fanciulla invece si ammazzerà saltando". Il re accordò anche questa prova. Le due contadine saltarono e riuscirono sì ad attraversare il cerchio, ma erano così sgraziate che caddero a terra spezzandosi braccia e gambe. Poi saltò la bella fanciulla che il Grullo aveva portato con s‚; saltò attraverso l'anello con agilità estrema e conquistò il regno. Alla morte del re, il Grullo ereditò così la corona e regnò a lungo con grande saggezza.
FINE





L'oca d'oro
tempo: 10'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 064



C'era un uomo che aveva tre figli; il minore, chiamato il Grullo, era disprezzato, dileggiato e messo da parte in ogni occasione. Un giorno il maggiore volle andare nel bosco a far legna e prima di uscire la madre gli diede una bella frittata e una bottiglia di vino perché‚ non patisse la fame e la sete. Quando giunse nel bosco, incontrò un vecchio omino grigio, che lo salutò e disse: -Dammi un pezzo della tua frittata e fammi bere un sorso del tuo vino, ho tanta fame e tanta sete!-. Ma il figlio avveduto rispose: -Se ti do la mia frittata e il mio vino, a me non resta più nulla. Vattene per la tua strada!- e se ne andò. Incominciò a tagliare un albero, ma ben presto sbagliò il colpo ferendosi il braccio con la scure e dovette andare a casa a farsi bendare. In realtà si trattava del castigo dell'omino grigio. Poi toccò al secondo figlio andare nel bosco, e la madre diede anche a lui una frittata e una bottiglia di vino. Anch'egli s'imbatté‚ nel vecchio omino grigio, che gli chiese un pezzo di frittata e un sorso di vino. Ma anche il secondo figlio parlò ragionevolmente: -Ciò che do a te, manca a me. Vattene per la tua strada!- e proseguì. L'omino non fece tardare il castigo: dopo aver dato due o tre colpi di scure a un albero, il giovane si ferì la gamba e dovettero trasportarlo a casa. Allora il Grullo disse: -Padre, voglio andare a far legna anch'io-. Il padre rispose: -I tuoi fratelli si sono fatti male; tu lascia perdere, tanto non ne capisci niente-. Ma il Grullo lo pregò tanto che il padre finì col dirgli: -Va' pure, imparerai a tue spese-. La madre gli diede una focaccia cotta nella cenere e una bottiglia di birra acida. Quando arrivò nel bosco, incontrò anch'egli il vecchio omino grigio, che lo salutò e gli disse: -Dammi un pezzo della tua focaccia e un sorso della tua bottiglia, ho tanta fame e tanta sete-. Il Grullo rispose: -Ho soltanto una focaccia cotta nella cenere e birra acida; se ti va bene possiamo sederci a mangiare-. Si sedettero e quando il Grullo tirò fuori la sua focaccia, trovò una bella frittata, e la birra acida era del buon vino. Mangiarono e bevvero, poi l'omino disse: -Poiché‚ hai buon cuore e dividi volentieri con altri ciò che è tuo, voglio renderti fortunato. Là c'è un vecchio albero; abbattilo e troverai qualcosa nelle radici-. Ciò detto si congedò da lui. Il Grullo andò ad abbattere l'albero, e quand'esso cadde trovò nelle radici un'oca dalle piume d'oro puro. La tirò fuori, la prese con s‚ e andò a pernottare in una locanda. Ma l'oste aveva tre figlie che, vedendo l'oca, erano curiose di sapere di che strano uccello si trattasse, e avrebbero preso volentieri una delle sue piume d'oro. La maggiore pensò: "Devo assolutamente avere una piuma!". Aspettò che il Grullo fosse uscito e afferrò l'oca per l'ala, ma le dita vi rimasero appiccicate. Poco dopo arrivò la seconda, e non aveva altro pensiero che prendersi anche lei una piuma; si avvicinò, ma non appena ebbe sfiorato la sorella, vi rimase attaccata. Infine venne anche la terza a reclamare una piuma; allora le altre gridarono: -Sta' lontana, per l'amor di Dio, sta' lontana!-. Ma ella non capiva il perché‚ e pensò: "Se ci sono loro posso esserci anch'io". Si avvicinò di corsa, ma non appena ebbe sfiorato sua sorella, le rimase attaccata. Così dovettero trascorrere la notte con l'oca. Il mattino dopo il Grullo prese in braccio l'oca, e se ne andò senza curarsi affatto delle tre fanciulle. Esse erano costrette a corrergli sempre dietro, a destra e a sinistra, dove lo portavano le gambe. Il mezzo ai campi incontrarono il parroco che, vedendo quella processione, disse: -Vergognatevi razza di scostumate. Vi pare decente correre per i campi dietro a quel ragazzo?-. Ciò detto afferrò la più giovane per la mano perché‚ si fermasse ma, non appena l'ebbe sfiorata, rimase attaccato anche lui e dovette correre dietro a loro. Poco dopo giunse il sagrestano e vide il parroco che stava tallonando tre ragazze. Meravigliato, gridò: -Ehi, signor parroco, dove andate così in fretta? Oggi abbiamo ancora un battesimo!-. Lo rincorse, lo afferrò per la manica e rimase attaccato anche lui. Mentre i cinque trottavano così uno dietro l'altro, dal campo giunsero due contadini con le loro zappe e il parroco li chiamò, pregandoli di venire a liberarli. Ma avevano appena sfiorato il sagrestano che rimasero attaccati anche loro; così adesso erano in sette a correr dietro al Grullo con l'oca. Poi egli giunse in una città dove regnava un re che aveva una figlia tanto seria che nessuno riusciva a farla ridere. Perciò egli aveva stabilito che l'avrebbe avuta in isposa solo colui che vi fosse riuscito. Il Grullo, quando lo seppe, si presentò con l'oca e tutto il seguito alla principessa; e quand'ella vide i sette che correvano l'uno dietro l'altro, incominciò a ridere forte, e non la smetteva più. Allora il Grullo pretese che gliela si desse in moglie, ma il re fece un mucchio di obiezioni e disse che prima doveva portargli un uomo che fosse in grado di bere tutto il vino di una cantina. Il Grullo pensò che l'omino grigio avrebbe potuto aiutarlo; andò nel bosco e là dove aveva abbattuto l'albero vide un uomo seduto con la faccia tutta triste. Il Grullo domandò che cosa lo addolorasse tanto. -Ah!- rispose quello -ho tanta sete e non ho da bere a sufficienza; ho sì vuotato una botte di vino, ma cos'è una goccia su di una pietra bollente?- -Posso aiutarti io- disse il Grullo -vieni con me, ti disseterai.- Lo condusse nella cantina del re e l'uomo si gettò su quelle grosse botti, e bevve, bevve tanto che gli dolevano i fianchi; prima che fosse trascorsa la giornata aveva vuotato la cantina. Il Grullo chiese nuovamente la fanciulla in isposa, ma il re si seccò che un volgare ragazzotto, che tutti chiamavano il Grullo, gli portasse via la figlia, e pose altre condizioni: doveva portargli un uomo che fosse in grado di mangiare una montagna di pane. Il Grullo si recò nuovamente nel bosco e dove si trovava l'albero trovò un uomo che si stringeva la vita con una cinghia e diceva, con viso burbero: -Ho mangiato un'intera infornata di panini, ma non può certo bastare con la fame che mi ritrovo! Mi sento lo stomaco vuoto, e non mi resta che stringermi la vita se non voglio morire di fame-. Udendo queste parole, il Grullo disse, tutto contento: -Alzati e vieni con me, ti sazierai-. Lo condusse a corte dove il re aveva ordinato di raccogliere tutta la farina del regno e di cuocere un'enorme montagna di pane. Ma l'uomo del bosco vi si mise davanti, incominciò a mangiare e in un giorno e una notte l'intera montagna era sparita. Il Grullo chiese nuovamente la sposa, ma il re cercò un'altra scusa e gli disse di procurargli una nave che andasse per mare e per terra; se fosse riuscito in quest'impresa avrebbe avuto subito la fanciulla in isposa. Il Grullo andò ancora una volta nel bosco e ci trovò il vecchio omino grigio al quale aveva dato la sua focaccia e che gli disse: -Ho bevuto e mangiato per te, e ora ti darò anche la nave. Faccio tutto questo perché‚ sei stato pietoso con me-. Gli diede la nave che andava per mare e per terra; e, quando il re la vide, dovette accordargli la figlia. Furono celebrate le nozze, il Grullo ereditò poi il regno e visse a lungo felice con la sua sposa.
FINE





Dognipelo
tempo: 14'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 065



C'era una volta un re che aveva una moglie con i capelli d'oro, ed era così bella come nessun'altra al mondo. Ma avvenne che la regina si ammalò e quando sentì di essere prossima a morire chiamò il re e disse: -Se vorrai risposarti dopo la mia morte, non prendere una che sia meno bella di me e non abbia i capelli d'oro come i miei; devi promettermelo-. Quando il re gliel'ebbe promesso, chiuse gli occhi e morì. Per molto tempo il re fu inconsolabile e non pensò a riprender moglie. Ma alla fine i consiglieri dissero: -Non c'è altra soluzione, il re deve riammogliarsi perché‚ possiamo avere una regina-. Inviarono dei messi dappertutto a cercare una sposa che fosse bella come la regina morta. Ma nessuna principessa al mondo era tanto bella e, anche se l'avessero trovata, non avrebbe avuto quei capelli d'oro. Allora i messi ritornarono senza aver concluso nulla. Ma il re aveva una figlia che era proprio bella come la madre morta e aveva i capelli d'oro come i suoi. Era ormai grande quando un giorno il re osservandola vide che somigliava in tutto alla moglie morta; allora egli provò un amore ardente per lei e disse ai consiglieri: -Voglio sposare mia figlia: è il ritratto di mia moglie morta, altrimenti non troverò altra sposa su questa terra-. All'udire queste parole, i consiglieri inorridirono e dissero: -Dio ha vietato che il padre sposi la figlia; dal peccato non può venire alcun bene-. Anche la fanciulla inorridì quando venne a conoscenza dell'intento del padre, ma sperava ancora di poterlo dissuadere. Così gli disse: -Prima di secondare il vostro desiderio, devo avere tre abiti: uno d'oro come il sole, l'altro d'argento come la luna, e il terzo splendente come le stelle; e inoltre voglio un mantello fatto con pellicce di ogni sorta, e ogni animale del vostro regno deve dare un pezzo della sua-. Ella infatti pensava che l'idea fosse impossibile a realizzarsi, e che il padre avrebbe abbandonato i propri propositi. Ma il re non cedette, e le fanciulle più abili del regno dovettero tessere i tre abiti, uno d'oro come il sole, l'altro d'argento come la luna e uno lucente come le stelle; e i suoi cacciatori dovettero catturare tutti gli animali del regno e togliere loro un pezzo di pelle; così fu cucito un mantello fatto di pellicce di ogni sorta. Quando fu pronto, il re glielo fece portare e disse: -Domani ci saranno le nozze-. La principessa vide che non c'era più speranza di mutare il volere del padre, e così, di notte, mentre tutti dormivano, si alzò e prese tre dei suoi gioielli d'oro: un anello, un piccolo fuso ed un piccolo aspo. Mise poi in un guscio di noce le tre vesti di sole, di luna e di stelle, indossò il manto di pellicce di ogni sorta e si annerì il viso e le mani con la fuliggine. Poi si raccomandò a Dio e se ne andò. Camminò tutta la notte finché‚ giunse in un gran bosco, e, poiché‚ era tanto stanca, si sedette in un albero cavo e si addormentò. Il sole era già alto ed ella continuava a dormire. Ora avvenne che il re cui quel bosco apparteneva stava andando a caccia; i suoi cani arrivarono all'albero, fiutarono e abbaiando si misero a corrervi attorno. Il re disse ai cacciatori: -Guardate un po' che animale si nasconde laggiù-. I cacciatori andarono e ritornarono dicendo: -Nell'albero cavo c'è uno strano animale che non abbiamo mai visto: sulla pelle ha ogni sorta di pelo; è sdraiato e dorme-. Disse il re: -Cercate di catturarlo vivo, poi legatelo sul carro e portatelo con voi-. Ma quando i cacciatori l'afferrarono, la fanciulla si svegliò e, spaventata, disse: -Sono una povera fanciulla abbandonata dai genitori: abbiate pietà di me e prendetemi con voi-. Quelli risposero: -Sì, Dognipelo, tu vai bene per la cucina; vieni con noi, potrai scopare la cenere-. La fecero sedere sul carro e la portarono al castello reale. Là le indicarono un bugigattolo nel sottoscala, dove non arrivava mai la luce del giorno, e dissero: -Bestiola ispida, qui potrai alloggiare e dormire-. Poi la spedirono in cucina, dov'ella portò l'acqua e la legna, attizzò il fuoco, spennò il pollame, pulì la verdura, spazzò la cenere e fece tutti i lavori più sgradevoli. Così Dognipelo visse a lungo miseramente. Ah, bella principessa, che sarà mai di te! Ma un bel giorno nel castello diedero una festa, ed ella disse al cuoco: -Posso salire per un po' a vedere? Mi metterò fuori, davanti alla porta-. Il cuoco rispose: -Sì, va' pure, ma fra mezz'ora devi essere di nuovo qui a spazzare la cenere-. Allora ella prese un lume, andò nel suo bugigattolo, si tolse il mantello e la fuliggine da mani e volto, sicché‚ ricomparve tutta la sua bellezza, come il sole quando spunta dietro le nubi. Aprì la noce e ne tirò fuori l'abito splendente come il sole. Poi si recò alla festa e tutti le cedevano il passo, poiché‚ nessuno la conosceva e pensavano che fosse senz'altro una principessa. Ma il re le andò incontro, le porse la mano e ballò con lei, pensando in cuor suo: "Non ho mai visto una fanciulla tanto bella". Alla fine della danza ella s'inchinò e, quando il re si guardò attorno, era sparita chissà dove. Furono chiamate le guardie che si trovavano davanti al castello, ma nessuno l'aveva vista. Ella era corsa nel suo bugigattolo, si era tolta in fretta l'abito, si era annerita il viso e le mani e aveva indossato il mantello ridiventando Dognipelo. Quando entrò in cucina per rimettersi al lavoro e spazzare la cenere, il cuoco disse: -Lascia stare fino a domani e prepara la zuppa per il re: voglio andare anch'io di sopra a vedere un po'. Ma bada di non lasciarci cadere dentro dei capelli o non avrai più niente da mangiare!-. Il cuoco se ne andò e Dognipelo preparò la zuppa per il re; la cucinò meglio che poteva e, quando fu pronta, andò a prendere nello sgabuzzino il suo anello d'oro e lo mise nel piatto in cui doveva essere servita la zuppa. Finito il ballo, il re si fece portare la zuppa; la mangiò, e gli piacque tanto che gli parve di non averne mai mangiata una migliore. Ma quando arrivò al fondo, trovò l'anello d'oro e non riuscì a capire come vi fosse capitato. Allora mandò a chiamare il cuoco. Udendo l'ordine, questi si spaventò e disse a Dognipelo: -Hai sicuramente lasciato cadere un capello nella zuppa: se è così le prendi-. Quando si presentò davanti al re, questi gli domandò chi avesse fatto la zuppa. Il cuoco rispose: -L'ho preparata io-. -Non è vero- disse il re -era fatta diversamente dal solito, ed era molto migliore.- Allora il cuoco disse: -Devo confessare che non sono stato io a farla, ma Dognipelo-. -Fatela venire- disse il re. Quando Dognipelo arrivò, il re chiese: -Chi sei?-. Ella rispose: -Sono una povera fanciulla che non ha più i genitori-. Egli proseguì: -Che fai nel mio castello?-. -Non sono buona a nulla, se non a prendermi gli stivali sulla testa.- -Dove hai preso l'anello che ho trovato nella zuppa?- -Dell'anello non so nulla.- Così il re non riuscì a scoprire nulla e dovette rimandarla in cucina. Dopo qualche tempo vi fu un'altra festa, e anche questa volta Dognipelo domandò al cuoco il permesso di assistere al ballo. Il cuoco rispose: -Sì, ma fra una mezz'ora devi essere di ritorno a preparare la zuppa che il re mangia tanto volentieri-. Ella corse allora nel suo bugigattolo, si lavò in fretta, prese dalla noce l'abito argenteo come la luna e l'indossò. Salì e pareva proprio una principessa; il re le andò incontro, felice di rivederla e, poiché‚ stava incominciando una danza, ballarono insieme. Ma come la danza finì, ella scomparve così in fretta che il re la perse di vista. La fanciulla corse invece nel suo bugigattolo, si trasformò nuovamente in animale ispido, e andò in cucina a preparare la zuppa. Mentre il cuoco era di sopra, prese il fuso d'oro, lo mise nella scodella e ci versò sopra la zuppa. Poi la portarono al re che la mangiò di gusto, come la prima volta; fece chiamare il cuoco che dovette ammettere nuovamente di averla fatta preparare da Dognipelo. Dognipelo tornò a presentarsi al re, ma rispose che era buona solo a riceversi gli stivali sulla testa e che non sapeva nulla del fuso d'oro. Quando il re diede una festa per la terza volta, tutto andò come le altre volte. Veramente il cuoco disse: -Tu sei una strega, ispida bestiola, e metti sempre qualcosa nella zuppa, per farla così buona che al re piace più di quella che faccio io-. Ma ella lo pregò tanto, che la lasciò andare per il tempo stabilito. Ella indossò allora l'abito che brillava come le stelle ed entrò nella sala. Il re danzò di nuovo con la bella fanciulla, e pensava che non era mai stata così bella. E, mentre ballavano, le infilò un L anello d'oro al dito, senza che ella se ne accorgesse; e aveva ordinato che la danza durasse molto a lungo. Quando finì, le strinse le mani per trattenerla, ma ella si liberò a forza e fuggì fra la gente, così in fretta che egli non la vide più. Corse più veloce che poteva nel suo bugigattolo del sottoscala; e, siccome si era fermata più di mezz'ora, non pot‚ togliersi il bell'abito, ma lo coprì semplicemente con il mantello di pelo; e, nella fretta, non si coprì del tutto di fuliggine, ma un dito rimase bianco. Poi corse in cucina a preparare la zuppa per il re e, quando il cuoco se ne fu andato, vi mise dentro l'aspo d'oro. Il re, trovatolo sul fondo del piatto, fece nuovamente chiamare Dognipelo; e scorse il dito bianco e l'anello che le aveva messo durante la danza. Allora la prese per mano tenendola ferma, e quando ella fece per liberarsi e correr via, il mantello di pelo si aprì un po', facendo trasparire lo scintillio dell'abito. Il re afferrò il mantello e lo strappò. Allora comparvero i capelli d'oro e il bel vestito, che ormai non poteva più nascondere. Si tolse cenere e fuliggine dal viso, ed ecco la più bella principessa che si fosse mai vista al mondo. Il re disse: -Tu sei la mia cara sposa, e non ci separeremo mai più-. Furono celebrate le nozze, e vissero felici fino alla morte.
FINE





La sposa del leprotto
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 066



C'era una volta una donna che aveva una figlia e un bell'orto pieno di cavoli. D'inverno venne un leprotto che mangiava tutti i cavoli. Allora la donna disse alla figlia: -Va' nell'orto, e scaccia il leprotto-. La fanciulla disse al leprotto: -Via, via, leprotto, non mangiare tutto il cavolo!-. Il leprotto disse: -Vieni, fanciulla, siediti sul mio codino e vieni nella mia casetta-. La fanciulla non volle. Il giorno dopo il leprotto tornò a mangiare il cavolo, e la donna disse di nuovo alla figlia: -Va' nell'orto e scaccia il leprotto-. La fanciulla disse al leprotto: -Via, via, leprotto, non mangiare tutto il cavolo!-. Il leprotto disse: -Vieni, fanciulla, siediti sul mio codino e vieni nella mia casetta-. La fanciulla non volle. Il terzo giorno il leprotto tornò a mangiare il cavolo. Allora la donna disse alla figlia: -Va' nell'orto e scaccia il leprotto-. Disse la fanciulla: -Via, via, leprotto, non mangiare tutto il cavolo!-. Il leprotto disse: -Vieni, fanciulla, siediti sul mio codino e vieni nella mia casetta-. La fanciulla si sedette sul codino del leprotto e questi la portò lontano lontano, nella sua casetta e disse: -Adesso prepara verza e miglio, io farò gli inviti per le nozze-. E tutti gli invitati arrivarono insieme. (E chi erano? Te la dirò come me l'hanno raccontata: erano tutte lepri, la cornacchia faceva da parroco per benedire gli sposi, la volpe da sagrestano, e l'altare era sotto l'arcobaleno.) Ma la fanciulla era triste, perché‚ era tanto sola. Il leprotto va a dirle: -Apri, apri! gli invitati sono allegri-. La sposa non dice nulla e piange. Il leprotto se ne va, poi torna e dice: -Apri, apri! gli invitati hanno fame-. La sposa non dice nulla e piange. Il leprotto se ne va, poi torna e dice: -Apri, apri! gli invitati aspettano-. La sposa non dice nulla e il leprotto se ne va; ma ella fa una bambola di paglia, le mette i suoi vestiti, le dà un mestolo, la porta davanti alla pentola del miglio e va dalla madre. Il leprotto ritorna e dice: -Apri, apri! gli invitati aspettano-. Dà uno scappellotto alla bambola e le fa cadere la cuffia. Allora il leprotto si accorge che la sposa è sparita e se ne va tutto triste.
FINE





I dodici cacciatori
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 067



C'era una volta un principe che aveva una fidanzata e l'amava teneramente. Un giorno che si trovava insieme a lei, tutto felice, giunse la notizia che il padre stava per morire e desiderava vederlo ancora una volta. Allora egli disse alla sua amata: -Devo partire e lasciarti, ma ti do quest'anello in mio ricordo. Quando sarò re, tornerò a prenderti-. Poi partì a cavallo e, quando arrivò, il padre era in fin di vita e gli disse: -Figlio diletto, ho voluto vederti ancora una volta; promettimi di sposarti secondo la mia volontà-. E gli nominò una certa principessa che doveva diventare sua sposa. Il figlio era così afflitto che rispose, senza riflettere: -Sì, caro padre, sarà fatta la vostra volontà-. Il re chiuse gli occhi e morì. Il principe fu proclamato re e, quando fu trascorso il periodo di lutto, dovette mantenere la promessa fatta al padre: fece perciò chiedere la mano della principessa e gli fu concessa. Lo venne a sapere la sua prima fidanzata, e si addolorò tanto dell'infedeltà che quasi ne morì. Allora il padre le disse: -Figliola cara, perché‚ sei tanto infelice? Avrai tutto ciò che desideri-. Ella rifletté‚ un momento, poi disse: -Caro padre, desidero undici fanciulle che mi somiglino nelle fattezze e nel volto-. Il re disse: -Se è possibile, sarà fatto-. E fece cercare in tutto il regno, finché‚ si trovarono undici fanciulle simili a sua figlia nelle fattezze e nel volto. Quando si presentarono alla principessa, ordinò dodici abiti da cacciatore, tutti uguali, e le undici fanciulle dovettero indossarli, mentre ella indossò il dodicesimo. Poi prese congedo da suo padre e se ne andò con loro, cavalcando fino alla corte del suo fidanzato di un tempo, che tanto amava. Ella gli domandò se avesse bisogno di cacciatori e se non volesse prenderli tutti al suo servizio. Il re la guardò senza riconoscerla e, trattandosi di gente dal bell'aspetto, disse che li avrebbe presi volentieri: così diventarono i dodici cacciatori del re. Ma il re aveva un leone che era una strana bestia: sapeva tutto ciò che era nascosto e segreto. Una sera disse al re: -Pensi di avere dodici cacciatori?-. -Sì- rispose il re -sono dodici cacciatori.- -Ti sbagli- replicò il leone -sono dodici fanciulle.- Rispose il re: -Non è possibile! Come puoi provarlo?-. -Oh, fa' spargere dei piselli nell'anticamera- rispose il leone -e lo vedrai subito: gli uomini hanno un passo fermo e se calpestano i piselli non se ne muove neanche uno; ma le fanciulle trotterellano, zampettano, camminano strisciando i piedi e fanno rotolare i piselli.- Al re piacque l'idea e fece spargere i piselli. Ma c'era un servo del re che proteggeva i cacciatori, e quando udì che volevano metterli alla prova, andò e raccontò loro tutto quanto, dicendo: -Il leone vuole dimostrare al re che siete fanciulle-. La principessa lo ringraziò e poi disse alle sue ancelle: -Controllatevi e camminate sui piselli con passo deciso-. Quando la mattina dopo il re fece chiamare i dodici cacciatori, ed essi entrarono nell'anticamera dov'erano sparsi i piselli, ci camminarono sopra con tanta sicurezza e avevano un passo così fermo e deciso, che neanche uno rotolò n‚ si mosse. Se ne andarono e il re disse al leone: -Mi hai ingannato, camminano proprio come uomini-. Il leone rispose: -Sapevano che sarebbero state messe alla prova, e hanno controllato la loro andatura. Ma fai portare nell'anticamera dodici filatoi: ci si avvicineranno con gioia, e questo nessun uomo lo fa-. Al re piacque l'idea e fece disporre i filatoi nell'anticamera. Ma il servo che proteggeva i cacciatori andò da loro e rivelò il tranello. Come furono sole, la principessa disse alle sue undici fanciulle: -Controllatevi e non guardate mai i filatoi-. La mattina dopo, quando il re fece chiamare i suoi dodici cacciatori, questi attraversarono l'anticamera senza guardarli affatto. Allora il re disse nuovamente al leone: -Mi hai ingannato, sono uomini: non hanno guardato i filatoi-. Il leone rispose: -Sapevano che sarebbero state messe alla prova e si sono controllate-. Ma il re disse: -Non voglio più crederti-. Così i dodici cacciatori seguivano sempre il re durante la caccia, ed egli li amava sempre di più. Ma un giorno, mentre si trovavano a caccia, annunciarono che stava giungendo la sposa del re. La notizia afflisse a tal punto la vera fidanzata, che le parve di morire e cadde a terra priva di sensi. Il re pensò che fosse successa una disgrazia al suo caro cacciatore, corse a soccorrerlo e gli tolse il guanto. Ed ecco egli scorse l'anello che aveva dato alla sua prima fidanzata e, guardandola bene in viso, la riconobbe. Tutto commosso, la baciò, e quand'ella aprì gli occhi, le disse: -Tu sei mia e io sono tuo, e questo nessun uomo al mondo potrà cambiarlo-. Inviò un messo all'altra sposa pregandola di ritornare nel suo regno, poiché‚ egli aveva già una fidanzata, e chi ritrova la vecchia chiave, non ha bisogno di una nuova. Poi furono celebrate le nozze, e anche il leone ritornò in grazia, perché‚ aveva pur detto la verità.
FINE





Il ladro e il suo maestro
tempo: 5'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 068



C'era una volta un uomo che voleva far imparare un mestiere al figlio; va in chiesa a domandare a Nostro Signore che cosa fosse meglio. Dietro l'altare c'era il sagrestano che dice: -Il mestiere del ladro! Il mestiere del ladro!-. Allora egli va a casa e dice al figlio che deve imparare a fare il ladro: glielo ha suggerito Nostro Signore. E parte con lui per cercare qualcuno che conosca il mestiere. Cammina un'intera giornata e arriva in un gran bosco, dove c'è una casina e dentro una vecchietta. Dice il padre: -Non conoscete per caso qualcuno che sappia l'arte del ladro?-. -Potete imparare benissimo qui, mio figlio ne è maestro.- Allora egli parla con il figlio e gli chiede se davvero sa fare il ladro. Il maestro dice: -Istruirò vostro figlio. Tornate fra un anno, e se lo riconoscerete non voglio nessun compenso, ma se non lo riconoscerete, dovrete darmi duecento scudi-. Il padre torna a casa e il figlio impara bene l'arte degli stregoni e dei ladri. Trascorso l'anno, il padre si incammina e piange, perché‚ non sa come fare a riconoscere il figlio. Mentre va e piange, gli viene incontro un omino che dice: -Perché‚ piangete, siete così afflitto?-. -Oh- risponde -un anno fa ho lasciato mio figlio da un ladro perché‚ ne imparasse il mestiere; questi mi ha detto di tornare dopo un anno, e se non avessi riconosciuto mio figlio, avrei dovuto dargli duecento scudi, mentre se lo avessi riconosciuto non avrei dovuto dargli niente. Adesso ho tanta paura di non riconoscerlo e non so dove trovare il denaro.- Allora l'omino gli dice di prendere un pezzetto di pane e di andare a mettersi sotto il camino: -Là, sopra la spranga, c'è una gabbietta con dentro un uccellino che guarda fuori: è vostro figlio-. Il padre va e getta un pezzo di pane davanti alla gabbia, allora viene fuori l'uccellino e lo guarda. -Olà! sei qui, figlio mio?- dice il padre. Il figlio è tutto contento di rivedere il padre, ma il maestro dice: -Ve l'ha detto il diavolo, come riconoscere vostro figlio!-. -Andiamo, babbo!- dice il ragazzo. Il padre ritorna a casa con suo figlio; per strada passa una carrozza e il figlio dice: -Mi tramuterò in levriero grigio e vi farò guadagnare molto denaro-. Il signore grida dalla carrozza: -Buon uomo, volete forse vendere il cane?-. -Sì- dice il padre. -Quanto volete?- -Trenta scudi.- -Ehi, buon uomo, è una bella somma, ma è un cane così bello che lo prenderò ugualmente.- Il signore fa salire il cane in carrozza ma, dopo aver fatto un tratto di strada, il cane salta fuori dal finestrino: non era più un levriero ed era tornato da suo padre. Se ne vanno insieme a casa. Il giorno dopo c'è mercato nel villaggio vicino e il giovane dice a suo padre: -Mi muterò in cavallo; vendetemi, ma quando mi vendete toglietemi la cavezza, altrimenti non posso più riprendere l'aspetto umano-. Il padre porta il cavallo al mercato, ed ecco arrivare il maestro del figlio che compra il cavallo per cento scudi; ma il padre si scorda di togliergli la cavezza. L'uomo va a casa con il cavallo e lo mette nella stalla. Arriva la serva e il cavallo dice: -Toglimi la cavezza, toglimi la cavezza!-. La serva si ferma e borbotta: -Sai forse parlare?-. Va e gli toglie la cavezza; allora il cavallo diventa un passero e vola fuori dalla porta, e il maestro diventa anche lui un passero e gli vola dietro. S'incontrano e si sfidano, ma il maestro perde, si butta in acqua e diventa un pesce. Anche il giovane si tramuta in pesce, si sfidano di nuovo e il maestro perde. Si trasforma in pollo mentre il giovane diventa una volpe e con un morso stacca la testa al maestro. Così quello è morto e morto rimane.
FINE





Jorinda e Joringhello
tempo: 6'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 069



C'era una volta un vecchio castello nel cuore di una foresta grande e fitta; là abitava, tutta sola, una vecchia strega molto potente. Di giorno si trasformava in gatto o in civetta, mentre la sera riprendeva l'aspetto umano. Sapeva come attirare la selvaggina e gli uccelli, poi li macellava e li cucinava lessi o arrosto. Se qualcuno arrivava a cento passi dal castello, era costretto a fermarsi e non poteva più muoversi finché‚ ella non lo liberava Ma se una vergine entrava in quel cerchio, la vecchia la trasformava in uccello e la rinchiudeva in una gabbia che metteva in una delle stanze del castello. Di quelle gabbie ne aveva ben settemila, con dentro uccelli tanto rari. C'era una fanciulla che si chiamava Jorinda, più bella di ogni altra. Era promessa sposa a un giovane leggiadro di nome Joringhello. Il giorno delle nozze si avvicinava, ed essi erano felici in compagnia l'uno dell'altro. Per poter parlare e confidarsi, se ne andarono nel bosco a passeggiare. -Fai attenzione- disse il giovane -di non avvicinarti troppo al castello.- Era una bella serata, il sole brillava fra i tronchi degli alberi, chiaro nel verde cupo della foresta, e la tortora gemeva sulle vecchie betulle. Ogni tanto Jorinda piangeva, si sedeva al sole lamentandosi, e così pure faceva Joringhello. Erano sgomenti come se dovessero morire. Si guardarono intorno: si erano persi e non sapevano come ritrovare la via di casa. Il sole era già tramontato per metà dietro al monte. Il giovane guardò fra i cespugli e vide in prossimità le vecchie mura del castello; a quella vista si spaventò a morte. Jorinda cantava:-Il mio uccellino dal rosso anellino, canta lamenti, lamenti, lamenti. Predice alla colomba la morte fra i tormenti; canta lamenti, sì! Chiù, chiù, chiù!-Joringhello la guardò: Jorinda si era mutata in un usignolo che cantava: -Chiuì, chiuì-. Una civetta dagli occhi ardenti le volò attorno tre volte, e per tre volte gridò: -Sciù, uh, uh, uh-. Joringhello non poteva muoversi: era rigido come pietra e non poteva piangere, n‚ parlare, n‚ muovere la mano o il piede. Ora il sole era tramontato: la civetta volò in un cespuglio, e, subito dopo, ne venne fuori una vecchia tutta curva, gialla e rinsecchita con degli occhiacci rossi e il naso tanto adunco che le toccava il mento con la punta. Ella borbottò qualcosa, poi afferrò l'usignolo e lo portò via. Joringhello non poteva dire nulla n‚ muoversi; l'usignolo era scomparso. Finalmente la vecchia ritornò e disse con voce roca: -Salute, Zachiele, quando la luna splende nel cerfoglio, sciogli, Zachiele, alla buon'ora-. E Joringhello fu libero. Si gettò ai piedi della vecchia pregandola di ridargli la sua Jorinda; ma ella rispose che non l'avrebbe riavuta mai più e se ne andò. Egli gridò, pianse, si lamentò, ma invano. -Oh, che sarà mai di me?- Joringhello se ne andò e giunse infine in un villaggio sconosciuto, dove fece il guardiano di pecore per lungo tempo. Spesso si aggirava intorno al castello, senza tuttavia avvicinarsi troppo. Infine una notte sognò di trovare un fiore rosso sangue con in mezzo una perla bella grossa. Egli colse il fiore e andò al castello, e tutto ciò che toccava con il fiore si liberava dall'incantesimo. Sognò inoltre che in quel modo era riuscito a riavere la sua Jorinda. La mattina, quando si svegliò, incominciò a cercare quel fiore per monti e valli. Cercò fino al nono giorno, e, di mattino presto, trovò il fiore rosso sangue. In mezzo c'era una goccia di rugiada, grossa come la perla più bella. Portò con s‚ il fiore giorno e notte, finché‚ giunse al castello. Là, non fu più immobilizzato dall'incantesimo, ma proseguì fino al portone. Joringhello se ne rallegrò, lo toccò con il fiore, e il portone si spalancò. Egli entrò, attraversò il cortile e tese l'orecchio per capire di dove venisse il canto degli uccelli. Infine lo capi, andò e trovò la sala dove si trovava la strega che stava dando da mangiare agli uccelli nelle settemila gabbie. Quand'ella vide Joringhello, andò su tutte le furie, lo maledì, gli sputò addosso fiele e veleno, ma dovette fermarsi a due passi da lui. Egli non si curò di lei e andò a vedere le gabbie con gli uccelli. Ma c'erano molte centinaia di usignoli e, fra tanti, come poteva ritrovare la sua Jorinda? Mentre guardava, si accorse che la vecchia prendeva di nascosto una gabbietta con un uccello e si avviava verso la porta. Le si avvicinò d'un balzo e, con il fiore, toccò la gabbietta e anche la vecchia, che non pot‚ più fare incantesimi. Jorinda era là, gli aveva gettato le braccia intorno al collo, ed era bella come un tempo. Egli ridiede aspetto umano anche agli altri uccelli, poi se ne ritornò a casa con la sua Jorinda e vissero a lungo insieme felici e contenti.
FINE





I tre figli della fortuna
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 070



Una volta un padre chiamò a s‚ i suoi tre figli, e al primo regalò un gallo, al secondo una falce e al terzo un gatto. -Sono già vecchio- disse -e la mia morte è vicina, prima della mia fine voglio riuscire a provvedere ancora a voi. Danaro non ne ho, e ciò che vi ho dato adesso sembra aver poco valore; in realtà non avete che da usarlo con giudizio: cercate un paese dove queste cose siano ancora sconosciute e sarà la vostra fortuna.- Dopo la morte del padre, il maggiore dei fratelli se ne andò di casa con il suo gallo, ma in qualunque città si recasse, già di lontano scorgeva, sulle torri, il gallo girare al vento; nei villaggi ne udì cantare più di uno, e nessuno si meravigliò di quella bestia, sicché‚ non pareva proprio che dovesse fare la sua fortuna. Ma alla fine gli capitò di arrivare in un'isola, dove la gente non sapeva che cosa fosse un gallo e ignorava persino come si potesse dividere il giorno. Sapevano, è vero, quando era mattina o sera, ma di notte, se non dormivano, nessuno sapeva che ora fosse. -Guardate- diss'egli -che animale superbo, ha una corona color del rubino sulla testa, e porta gli speroni come un cavaliere; di notte vi chiama tre volte a ore fisse, e l'ultima volta è quando sta per sorgere il sole. Ma se canta in pieno giorno, allora state all'erta che certo pioverà.- Alla gente piacque la novità: non dormì per un'intera notte, e ascoltò con soddisfazione il gallo gridare a piena gola alle due, alle quattro e alle sei. Gli domandò se l'animale era in vendita e quanto denaro egli volesse. -Tant'oro quanto può portarne un asino- rispose -Un modico prezzo per un animale così prezioso!- esclamarono tutti in coro, e gli diedero ciò che aveva chiesto. Quand'egli fece ritorno a casa con tutta quella ricchezza, i suoi fratelli si meravigliarono, e il secondo disse: -Mi metterò anch'io in cammino per vedere se riesco a vendere altrettanto bene la mia falce-. Ma sembrava proprio di no, poiché‚ ovunque incontrava dei contadini che portavano sulle spalle una falce come la sua. Alla fine, però, ebbe anche lui la fortuna di trovare un'isola dove la gente non aveva mai visto una falce. Quando il grano era maturo, piazzavano dei cannoni davanti ai campi e l'abbattevano a forza di spari. Ma la cosa era maldestra: qualcuno sbagliava il tiro sparando oltre, altri invece dello stelo colpivano le spighe e le spazzavano via, sicché‚ molto grano andava perduto, e per di più c'era un gran baccano. Il giovane allora si mise all'opera e falciò così in fretta e in silenzio, che la gente rimase a bocca aperta per lo stupore. Gli diedero volentieri il prezzo che chiedeva ed egli si prese un cavallo carico d'oro, quanto poteva portarne. Ora anche il terzo fratello volle cercare qualcuno a cui vendere il suo gatto. Anche a lui le cose non andarono diversamente: finché‚ rimase sulla terraferma, non vi fu nulla da fare, poiché‚ ovunque c'erano gatti, e ce n'erano tanti che i piccoli, appena nati, venivano spesso annegati. Finalmente si fece trasportare su di un'isola, e là gli capitò la fortuna che non avessero mai visto un gatto; e i topi prosperavano al punto che ballavano su tavole e panche, ci fosse o no il padrone di casa. La gente si dava alla disperazione e lo stesso re non riusciva a mettersi al riparo da quella piaga: in ogni angolo del castello i topi fischiavano, e rosicchiavano tutto quel che potevano mettere sotto i denti. Allora il gatto incominciò la sua caccia e, ben presto, ripulì un paio di sale, tanto che la gente pregò il re di acquistare per il regno quell'animale meraviglioso. Il re diede volentieri ciò che gli fu chiesto: un mulo carico d'oro; e il terzo fratello se ne tornò a casa più ricco di tutti. Nel castello, il gatto si divertiva un mondo con i topi, finché ne ammazzò tanti che non si contavano più. Alla fine, a forza di lavorare, gli venne caldo ed ebbe sete: allora si fermò, alzò la testa e gridò: -Miau, miau!-. All'udire quello strano grido, il re e i cortigiani si spaventarono e corsero tutti insieme fuori dal castello, pieni di paura. Il re tenne consiglio sul da farsi, e infine si stabilì di inviare al galoppo un araldo a ordinargli di lasciare il castello, se non voleva che usassero la forza. I consiglieri dicevano: -Piuttosto preferiamo il flagello dei topi, cui siamo abituati, che lasciare la nostra vita in preda a quel mostro-. Un paggio dovette andare a chiedere al gatto se intendeva abbandonare il castello. Ma il gatto, che aveva ancora più sete, rispose semplicemente: -Miau, miau!-. Il paggio capì: -Assolutamente no!- e portò la risposta al re. -Se è così- dissero i consiglieri -cederà alla forza!- Furono appostati dei cannoni e spararono provocando un incendio nel castello. Quando il fuoco giunse nella sala dove si trovava il gatto, questi saltò agilmente fuori dalla finestra; ma gli assedianti non smisero di sparare, finché‚ tutto il castello fu ridotto a un cumulo di macerie.
FINE





I sei che si fanno strada per il mondo
tempo: 13'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 071



C'era una volta un uomo che si intendeva di ogni arte; prestò servizio come soldato, comportandosi in modo valoroso; ma, terminata la guerra, fu congedato e gli dettero tre soldi di compenso. -Aspetta un po'- disse -non mi raggirate tanto facilmente: se trovo gli uomini giusti, il re dovrà darmi le ricchezze di tutto il paese.- Pieno di rabbia, andò nel bosco e vide un uomo che aveva sradicato sei alberi come se fossero state spighe di grano. Gli disse: -Vuoi diventare mio servitore e seguirmi?- -Sì- rispose quello -ma prima voglio portare a mia madre quel mucchietto di legna.- Afferrò allora uno degli alberi, lo legò intorno agli altri cinque e, presa la fascina sulle spalle, se la portò via. Poi ritornò e si mise in cammino con il suo padrone che disse: -Noi due dobbiamo farci strada nel mondo-. Quand'ebbero percorso un tratto di strada, incontrarono un cacciatore che, in ginocchio, aveva caricato il fucile e stava prendendo la mira. L'uomo gli disse: -A cosa vuoi sparare, cacciatore?-. Quello rispose: -A due miglia da qui c'è una mosca sul ramo di una quercia; voglio cavarle l'occhio sinistro-. -Oh, vieni con me- disse l'uomo -noi tre insieme ci faremo strada nel mondo.- Il cacciatore andò con loro ed essi arrivarono a sette mulini a vento, le cui ali giravano rapidamente anche se non c'era vento e non si muoveva neanche una foglia. Disse l'uomo: -Non capisco cosa faccia muovere i mulini, non c'è un filo d'aria!-. Proseguì il cammino con i suoi servi e, quand'ebbero fatto due miglia, videro un uomo, seduto su di un albero, che si teneva chiusa una narice e soffiava con l'altra. -Che stai facendo lassù?- chiese l'uomo. Quello rispose: -A due miglia da qui ci sono sette mulini a vento; vedete? io soffio per farli girare-. -Oh, vieni con me- disse l'uomo -noi quattro insieme ci faremo strada nel mondo.- Allora quello che soffiava scese dall'albero e andò con loro. Dopo un po' videro uno che se ne stava su di una gamba sola: aveva staccato l'altra e se l'era messa accanto. -Ti sei messo comodo per riposare!- esclamò l'uomo. -Sono un corridore- rispose quello -e per non correre troppo in fretta mi sono staccato una gamba; infatti se corro con tutt'e due, vado più veloce di un uccello che vola.- -Oh, vieni con me, noi cinque insieme ci faremo strada nel mondo.- Egli andò con loro e dopo un po' incontrarono uno che portava un cappellino che gli copriva tutto un orecchio. Allora l'uomo gli disse: -Che bellino! Ma metti a posto il tuo cappello: hai l'aria di uno sciocco!-. -Non posso- rispose quello -se lo raddrizzo, viene un gran freddo e gli uccelli che se ne stanno all'aria aperta gelano e cadono a terra morti.- -Oh, vieni con me- disse l'uomo -noi sei, tutti insieme, ci faremo strada nel mondo.- I sei arrivarono in una città dove il re aveva reso noto che colui che avesse voluto gareggiare con la figlia nella corsa, se vinceva la gara l'avrebbe sposata, ma se perdeva, ci avrebbe rimesso la testa. L'uomo si presentò e disse: -Farò correre il mio servo per me-. Il re rispose: -Allora devi impegnare anche la sua vita, sicché‚ le vostre due teste saranno il pegno della vittoria-. Dopo essersi accordati, l'uomo attaccò al corridore l'altra gamba e gli disse: -Adesso sii veloce e aiutami, che si possa vincere-. Si era deciso che avrebbe vinto colui che, per primo, avesse portato l'acqua da una lontana sorgente. Il corridore e la principessa ebbero entrambi una brocca e incominciarono a correre nello stesso momento; ma in un attimo, mentre la principessa aveva percorso solo un breve tratto, più nessuno riusciva a vedere il corridore, passato veloce come il vento. In breve tempo giunse alla fontana, attinse l'acqua riempiendo la brocca e tornò indietro. Ma a metà percorso lo prese la stanchezza, depose la brocca, si distese e si addormentò. Appoggiò, tuttavia, la testa su di un teschio di cavallo, per dormire sul duro e svegliarsi presto. Intanto la principessa, che correva bene anche lei, ma come una persona qualunque, era arrivata alla fonte, e se ne tornava indietro con la brocca piena d'acqua. Quando vide il corridore disteso a terra che dormiva, disse tutta contenta: -Il nemico è nelle mie mani-. Gli vuotò la brocca e riprese a correre. Tutto sarebbe stato perduto se il cacciatore, con i suoi occhi acuti, non avesse fortunatamente visto tutto dall'alto del castello. -La principessa non deve averla vinta- disse; poi caricò il fucile e sparò con tanta destrezza da portar via il teschio sotto la testa del corridore senza fargli alcun male. Il corridore così si svegliò, saltò su e vide che la sua brocca era vuota e la principessa già molto lontana. Ma non si perse d'animo, prese la brocca, tornò a riempirla alla fonte e riuscì ad arrivare ancora dieci minuti prima della principessa, vincendo la gara. -Vedete?- disse -finalmente ho adoperato le gambe, perché‚ prima non si poteva proprio parlare di corsa!- Ma il re era avvilito, e sua figlia ancora di più all'idea di essere portata via da un qualunque soldato in congedo, e tramarono insieme il modo di sbarazzarsi di lui e dei suoi compagni. Il re le disse: -Ho trovato il sistema; non aver paura, non torneranno più-. E disse loro: -Adesso dovete fare baldoria, mangiare e bere tutti insieme-. Li condusse in una stanza che aveva il pavimento e la porta di ferro e le finestre chiuse da sbarre di ferro. Nella stanza c'era una tavola sulla quale vi era ogni ben di Dio, e il re disse: -Entrate e godetevela!-. E, quando furono entrati, fece sprangare la porta. Poi chiamò il cuoco e gli ordinò di accendere un gran fuoco sotto la stanza affinché‚ il ferro si arroventasse. Il cuoco obbedì e i sei, mentre sedevano a tavola, incominciarono a sentire un gran caldo e pensarono che fosse effetto del cibo; ma il calore aumentava sempre di più e, quando vollero uscire, trovarono porta e finestra chiusi; allora capirono che il re aveva cattive intenzioni e voleva soffocarli. -Ma non l'avrà vinta!- disse quello con il cappellino -farò venire un freddo tale, che il fuoco dovrà vergognarsi e nascondersi.- Drizzò il suo cappellino e subito venne un tale freddo che estinse ogni calore e i cibi incominciarono a gelare nei piatti. Trascorse un paio d'ore il re, credendo che il calore li avesse soffocati, fece aprire la porta e andò a vedere di persona. Ma quando la porta si aprì, erano là tutti e sei freschi e sani; e dissero che erano ben contenti di poter uscire a scaldarsi, perché‚, con il gran freddo che faceva nella stanza, i cibi si congelavano nei piatti. Allora, pieno di collera, il re scese dal cuoco rimproverandolo aspramente e chiedendogli perché‚ non avesse eseguito con maggior attenzione ciò che gli era stato ordinato. Ma il cuoco rispose: -Di calore ce n'è abbastanza, andate a vedere voi stesso-. E il re vide che sotto la stanza di ferro ardeva un gran fuoco e capì che con quei sei non l'avrebbe spuntata. Allora si mise nuovamente a pensare a come liberarsi di quegli ospiti sgraditi; fece chiamare il loro capo e disse: -Se accetti dell'oro e, in cambio, rinunci ai diritti che hai su mia figlia, ti darò quanto vuoi-. -Sì, maestà- rispose egli -se mi date quanto può portare il mio servo, rinuncio a vostra figlia.- Il re era soddisfatto, e quello proseguì: -Tornerò a prenderlo fra quindici giorni-. Poi fece radunare tutti i sarti del regno, che per quindici giorni, dovettero starsene seduti a cucire un sacco. Quando il sacco fu pronto, quello che sradicava gli alberi dovette metterselo sulle spalle e recarsi insieme al capo dal re. Il re disse: -Che razza di energumeno è costui che porta sulle spalle quel sacco di tela gigantesco!- e inorridì pensando a quanto oro si sarebbe trascinato via. Allora fece portare una tonnellata d'oro, che dovettero portare sedici dei suoi uomini più forti; ma il forzuto la prese con una mano, la mise nel sacco e disse: -Perché‚ non ne fate portare subito di più? Questo copre appena il fondo-. Così, poco per volta, il re dovette far portare tutte le sue ricchezze; l'uomo le cacciò nel sacco che non era pieno neanche a metà. -Portatene di più- gridò -le briciole non riempiono.- Così furono costretti a radunare, in tutto il regno, altri settemila carri colmi d'oro; e quello li mise nel sacco insieme ai buoi che vi erano attaccati. -Non sto a fare il difficile- diss'egli -prendo quel che capita, pur di riempire il sacco.- Quanto tutto fu dentro, ci sarebbe stato ancora dell'altro, ma egli disse: -Basta così: si può legare un sacco anche se non è del tutto pieno-. Poi se lo caricò sulla schiena e se ne andò con i suoi compagni. Il re, vedendo quell'uomo portare via tutte le ricchezze del paese, andò in collera e ordinò alla cavalleria di montare in sella e di rincorrere i sei uomini per riprendere il sacco. Ben presto i due reggimenti li raggiunsero e gridarono: -Siete prigionieri: mettete giù quel sacco con l'oro o vi travolgeremo!-. -Che cosa?- esclamò quello che soffiava. -Noi prigionieri? Prima dovrete ballare in aria tutti quanti.- Si chiuse una narice, mentre con l'altra soffiò contro i due reggimenti che si dispersero nell'aria, oltre i monti, uno qua e l'altro là. Un furiere implorò grazia, dicendo che aveva nove ferite, che era stato coraggioso e che, perciò, non meritava di essere punito. Allora l'uomo soffiò un po' meno forte, sicché‚ il soldato cadde a terra senza farsi male; poi gli disse: -Adesso ritorna dal re e digli di mandare pure dell'altra cavalleria: soffierei anche quelli per aria!-. Il re, quando udì il messaggio, disse: -Lasciateli andare, hanno il diavolo in corpo!-. Così i sei portarono a casa tutta quella ricchezza, se la divisero fra loro e vissero felici fino alla morte.
FINE



Il lupo e l'uomo
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 072



Una volta una volpe raccontò al lupo quanto l'uomo fosse forte: nessuna bestia poteva resistergli, e dovevano adoperare l'astuzia per salvarsi da lui. Il lupo rispose: -Però, se mi capitasse di vederne uno, gli salterei addosso-. -Posso aiutarti io- disse la volpe -vieni da me domani mattina presto, te ne indicherò uno.- Il lupo arrivò per tempo e la volpe lo accompagnò alla strada che il cacciatore percorreva ogni giorno. Dapprima giunse un vecchio soldato in congedo. -E' un uomo, questo?- domandò il lupo. -No- rispose la volpe -lo è stato.- Poi passò un fanciullo che andava a scuola. -E' un uomo, questo?- -No, lo diventerà.- Finalmente passò il cacciatore, con la doppietta sulla schiena e il coltello al fianco. La volpe disse al lupo: -Vedi, quello è un uomo: devi saltargli addosso; io però me la do a gambe e vado a rifugiarmi nella mia tana-. Il lupo si slanciò contro l'uomo, e il cacciatore, vedendolo, disse: -Peccato che il fucile non sia caricato a palla!-. Prese la mira e gli scaricò i pallini sul muso. Il lupo fece una bella smorfia, ma non si lasciò intimorire e andò avanti; allora il cacciatore gli sparò addosso la seconda carica. Il lupo contenne il dolore e gli si scagliò contro; allora l'uomo tirò fuori il coltello e gli diede un paio di colpi, a destra e a sinistra, sicché‚ il lupo se ne tornò dalla volpe urlando, tutto sanguinante. -Bene, fratello lupo,- disse la volpe -come te la sei cavata con l'uomo?- -Ah- rispose il lupo -non immaginavo che la sua forza fosse così! Prima si è tolto un bastone di spalla, ci ha soffiato dentro, e mi è volato sul muso qualcosa che pungeva terribilmente; ha poi soffiato di nuovo nel bastone, e intorno al naso mi è volato qualcosa come una saetta e della grandine; e quando gli fui vicino, ha tirato fuori dal suo corpo una costola rilucente, e con quella mi ha picchiato tanto che a momenti ci restavo.- -Vedi, che razza di gradasso sei!- disse la volpe. -Fai il passo più lungo della gamba!-
FINE





Il lupo e la volpe
tempo: 5'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 073



Il lupo aveva con s‚ la volpe; e questa era obbligata a fare ciò che egli voleva, poiché‚ era la più debole; sicché‚ le sarebbe tanto piaciuto liberarsi di quel padrone. Un giorno attraversarono il bosco insieme, e il lupo disse: -Pelorosso, procurami qualcosa da mangiare, o mangio te-. La volpe rispose: -Conosco una fattoria dove ci sono due agnellini; se vuoi possiamo prenderne uno-. Il lupo fu d'accordo: andarono, la volpe rubò l'agnellino, lo portò al lupo e se ne andò. Il lupo lo divorò, ma non era ancora sazio; voleva anche l'altro e andò a prenderselo; ma agì in modo così goffo che la madre dell'agnellino se ne accorse e si mise a gridare e a belare a più non posso, finché‚ i contadini non accorsero. Trovarono il lupo e lo conciarono da far pietà, sicché‚ egli arrivò dalla volpe zoppicando e urlando. -Me l'hai combinata bella!- disse. -Volevo prendere l'altro agnello quando i contadini mi hanno acciuffato e conciato per le feste.- La volpe rispose: -E tu perché‚ sei così ingordo?-. Il giorno dopo se ne tornarono per i campi e il lupo disse: -Pelorosso, procurami qualcosa da mangiare, o mangio te-. La volpe rispose: -Conosco una fattoria dove questa sera la padrona cucina le frittelle; andiamo a prenderne-. Andarono, e la volpe strisciò attorno alla casa; poi sbirciò e fiutò finché‚ riuscì a trovare il piatto con le frittelle; ne prese sei e le portò al lupo. -Ecco qua da mangiare- disse, e se ne andò per la sua strada. Il lupo divorò le frittelle e disse: -Fanno solo aumentare la voglia-. Tornò alla casa e tirò giù tutto il piatto, rompendolo. Ci fu un gran baccano; la padrona uscì fuori e quando vide il lupo chiamò soccorso: vennero e lo picchiarono tanto che egli arrivò nel bosco, dalla volpe, zoppo da due gambe e urlando disse: -Che razza di guaio mi hai combinato? I contadini mi hanno acchiappato e conciato per le feste-. Ma la volpe rispose: -E tu perché‚ sei così ingordo?-. Il terzo giorno, mentre erano fuori insieme, il lupo avanzava a fatica, ma tornò a dire: -Pelorosso, procurami qualcosa da mangiare, o mangio te-. La volpe rispose: -Conosco un uomo che ha macellato, e tiene la carne salata in cantina; andiamo a prenderla-. Il lupo disse: -Ma io voglio venire subito con te, perché‚ tu possa aiutarmi se non posso scappare-. -Per me!- disse la volpe, e lo condusse per vicoli e sentieri, finché‚ arrivarono alla cantina. Là vi era carne in abbondanza, e il lupo ci si buttò sopra, pensando: "Prima che abbia finito, c'è tempo!". Anche la volpe mangiò di gusto, ma si guardava attorno, e correva sovente al buco attraverso cui erano entrati, provando se il suo corpo era ancora abbastanza sottile per passarci. Il lupo disse: -Cara volpe, perché‚ mai continui a correre qua e là e salti dentro e fuori?-. -Devo ben vedere se viene qualcuno!- rispose quella astutamente. -Bada solo di non mangiar troppo!- Il lupo rispose: -Non me ne vado prima che la botte sia vuota-. Ma in quella arrivò il contadino, che aveva sentito i salti della volpe. Scorgendolo, Pelorosso saltò d'un balzo fuori dal buco; anche il lupo volle seguirla, ma aveva mangiato tanto che non riuscì più a passare e rimase in trappola. Allora il contadino venne con un randello e lo ammazzò. La volpe invece corse nel bosco ed era felice di essersi liberata di quel vecchio ingordo.
FINE





La volpe e la comare
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 074



Una lupa mise al mondo un lupacchiotto e invitò la volpe a fare da madrina. -E' nostra parente stretta- disse -è astuta e ha molto giudizio: potrà addestrare il mio figlioletto e aiutarlo a farsi strada nel mondo.- La volpe fu molto onorata per l'invito e disse: -Vi ringrazio per l'omaggio che mi fate; io mi comporterò in modo da contentarvi-. Durante il banchetto mangiò a quattro palmenti divertendosi allegramente, poi disse: -Cara signora comare, è nostro dovere provvedere al piccolo; dovete nutrirvi bene perché‚ si irrobustisca. Conosco un ovile dove sarà facile prenderci un bel bocconcino-. L'idea piacque alla lupa, e si avvicinò alla cascina con la volpe. Questa le mostrò l'ovile di lontano e disse: -Da quella parte potrete intrufolarvi dentro inosservata; nel frattempo voglio guardarmi un po' attorno da quest'altra, per vedere di acchiappare un pollastrello-. In realtà la volpe non ci andò affatto: si acquattò al limitare del bosco, distese le zampe e si riposò. La lupa strisciò dentro alla stalla, ma là c'era un cane che fece tanto di quel rumore che i contadini accorsero, sorpresero la signora comare e le tolsero il pelo a bastonate. Alla fine ella riuscì a fuggire e si trascinò fuori; là trovò la volpe che giaceva a terra e che lamentandosi disse: -Ah, cara signora comare, mi è andata male! I contadini mi hanno sorpresa e mi hanno rotto tutte le ossa! Se non volete che rimanga qui distesa a morire di fame, dovete portarmi via-. La lupa avanzava lei pure a stento, ma si preoccupò tanto per la volpe che se la prese sulla schiena e, piano piano, riuscì a portare fino a casa la comare, sana come un pesce. Lì, la volpe le gridò: -Addio, cara signora comare, e buon pro vi faccia l'arrosto!-. E corse via ridendo a più non posso.
FINE





La volpe e il gatto
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 075



Un giorno un gatto incontrò la signora volpe nel bosco, e poiché‚ pensava che era saggia, esperta, e che grande era il suo prestigio in società, le rivolse la parola con garbo, dicendo: -Buon giorno, cara signora volpe! Come va? Come state? Come ve la passate in questo periodo di carestia?-. La volpe, piena di sussiego, squadrò il gatto da capo a piedi, e per un bel pezzo fu incerta se rispondergli o no. Infine disse: -Oh tu, misera bestia pezzata, morto di fame, acchiappatopi, che ti viene in mente? Osi domandare come va a me che sono maestra di cento arti!-. Il gatto stava per risponderle con modestia, quando arrivò di corsa un cane bassotto. Quando la volpe lo vide, andò subito a rifugiarsi nella sua tana, mentre il gatto saltò svelto su di un albero, andando ad accomodarsi sulla cima, dove i rami e il fogliame lo nascondevano completamente. Poco dopo giunse il cacciatore e il bassotto fiutò la volpe e la prese. Il gatto, vedendo la scena, gridò: -Ehi, signora volpe! Siete in trappola con le vostre cento arti. Se aveste saputo arrampicarvi come me, avreste avuta salva la vita-.
FINE





Il garofano
tempo: 11'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 076



C'era una volta una regina che non poteva mettere al mondo figli per volere di Nostro Signore. Ogni mattina si recava in giardino a pregare che Iddio le facesse dono di un figlio o di una figlia. Ed ecco, un angelo venne dal cielo e disse: -Rallegrati, avrai un figlio i cui desideri saranno realizzati: qualunque cosa al mondo egli voglia, l'avrà-. Ella andò dal re ad annunciargli la lieta notizia e, quando fu tempo, diede alla luce un figlio con grande gioia del re. Tutte le mattine ella andava a lavarsi nel parco con il bimbo, e un giorno, quando questi era già un po' cresciuto, le accadde di addormentarsi mentre lo aveva in braccio. In quella giunse il vecchio cuoco; egli sapeva che i desideri del bambino si sarebbero realizzati e lo rapì. Prese poi un pollo, lo sgozzò e spruzzò di sangue il grembiule e la veste della regina. Poi portò il bambino in un luogo nascosto, dove lo fece allattare da una balia, e corse dal re ad accusare la regina di esserselo lasciato rapire dalle bestie feroci. Il re, vedendo il sangue sul grembiule, lo credette e s'infuriò a tal punto che fece costruire un'alta torre, nella quale non penetrava luce; là rinchiuse la moglie facendo murare la porta. Ella doveva starci sette anni senza mangiare n‚ bere, e morirvi di fame. Ma Dio le mandò due angeli dal cielo che, sotto forma di bianche colombe, dovevano volare da lei due volte al giorno, per portarle da mangiare fino allo scadere dei sette anni. Ma il cuoco pensò: "Se si avvera qualche desiderio del bambino e io sono qui, potrei essere rovinato". Lasciò così il castello e andò dal fanciullo che era già grande abbastanza per parlare. -Desidera un bel castello- gli disse -con un giardino e tutto ciò che occorre.- E, come il bambino ebbe formulato il desiderio, ecco comparire il castello. Dopo un po' di tempo, il cuoco gli disse: -Non va bene che tu sia così solo, desidera una bella fanciulla come compagna-. Il principe espresse il desiderio e la fanciulla comparve innanzi a lui, bella come nessun pittore avrebbe potuto dipingerla. I due giovani giocavano insieme amandosi teneramente, e il vecchio cuoco andava a caccia come un signore. Ma gli venne in mente che il principe avrebbe potuto desiderare di essere con suo padre, precipitandolo così in grave imbarazzo. Allora andò a casa, prese da parte la fanciulla e le disse: -Questa notte, mentre il ragazzo dorme, vai nel suo letto, piantagli un coltello nel cuore e portami il suo fegato e la sua lingua; se non lo farai perderai la vita-. Poi se ne andò e quando tornò, il giorno dopo, ella non lo aveva fatto e gli disse: -Perché‚ mai dovrei versare il sangue di un innocente che non ha ancora offeso nessuno?-. Il cuoco tornò a dirle: -Se non lo fai, ti costerà la vita-. Allora ella si fece portare una cerbiatta, la fece uccidere, prese il cuore e la lingua, li mise su di un piatto e quando vide arrivare il vecchio, disse al giovane: -Mettiti a letto e copriti con la coperta!-. In quella entrò il malfattore e disse: -Dove sono il cuore e il fegato del ragazzo?-. La fanciulla gli porse il piatto, ma il principe gettò via la coperta e disse: -Vecchio ribaldo, perché‚ volevi uccidermi? Adesso pronuncerò la tua condanna: ti trasformerai in un cane barbone con una catena d'oro intorno al collo e mangerai carboni ardenti così che le fiamme ti divampino dalla gola-. Come ebbe pronunciato queste parole, il vecchio si trasformò in un cane barbone con una catena d'oro intorno al collo, e i cuochi dovettero portargli dei carboni ardenti che egli divorò, sicché‚ le fiamme gli uscivano dalle fauci. Il principe rimase là ancora per qualche tempo, e pensava a sua madre, se mai fosse ancora viva. Infine disse alla fanciulla: -Voglio tornare in patria; se vieni con me penserò io a mantenerti-. -Ah- rispose ella -è così lontano! e poi che farei in un paese sconosciuto?- Così, poiché‚ non consentiva ad accompagnarlo, e tuttavia non volevano lasciarsi, egli desiderò che la fanciulla diventasse un bel garofano, e lo portò con se. Partì, e il cane barbone dovette seguirlo. Giunto in patria, andò subito alla torre dove era rinchiusa sua madre, e siccome la torre era tanto alta, desiderò una scala che arrivasse fino in cima. Salì, guardò dentro e gridò: -Carissima mamma, vivete ancora o siete morta?-.
Ella rispose: -Ho appena mangiato e sono ancora sazia- credendo che ci fossero gli angeli. Egli disse. -Sono il vostro caro figlio, quello che le bestie feroci vi avrebbero rapito, ma sono ancora vivo e presto vi salverò-. Poi scese e andò dal padre facendosi annunciare come un cacciatore forestiero che chiedeva di entrare al suo servizio. Il re rispose che poteva venire se era abile e riusciva a procurargli della selvaggina; ma in tutta quella zona non se n'era mai vista. Il cacciatore promise che avrebbe procurato tanta selvaggina quanta si addiceva a una tavola regale. Poi fece radunare tutti i cacciatori e ordinò che lo seguissero nel bosco. Andarono e, una volta giunti nel bosco, egli li fece disporre a forma di cerchio, aperto da un lato, poi vi entrò e si mise a desiderare della selvaggina. Ed ecco entrare di corsa nel cerchio duecento e più animali selvaggi, e i cacciatori dovettero ucciderli. Poi caricarono il tutto su sessanta carri e lo portarono al re che, finalmente, pot‚ guarnire la propria tavola di selvaggina, dopo essersene privato per tanti anni. Tutto contento, il re decise che il giorno dopo l'intera corte avrebbe pranzato con lui e diede un gran banchetto. Quando furono tutti riuniti, disse al cacciatore: -Vista la tua bravura, siederai accanto a me-. Ma quello rispose: -Sire, Vostra Maestà mi perdoni, sono solo un principiante-. Ma il re insistette dicendo: -Devi sederti accanto a me- finché‚ egli obbedì. Quando fu seduto pensò alla sua diletta madre e desiderò che almeno uno dei cortigiani si mettesse a parlare di lei, chiedendo come stesse nella torre, se viveva ancora o se era morta di fame. Aveva appena formulato questo pensiero, che il maresciallo prese a dire: -Maestà, noi qui banchettiamo allegramente, ma come sta Sua Maestà la regina, nella torre? Vive ancora o è morta di fame?-. Ma il re rispose: -Non voglio sentir parlare di lei: ha lasciato sbranare il mio caro figlio dalle bestie feroci- Allora il cacciatore si alzò e disse: -Mio nobile padre, la regina vive ancora, e io sono suo figlio; non sono stato rapito dalle bestie feroci, ma da quell'infame vecchio cuoco che mi ha portato via dal suo grembo mentre ella dormiva e le ha spruzzato il grembiule con il sangue di un pollo-. Afferrò il cane con il collare d'oro e disse: -Ecco lo scellerato!- e fece portare dei carboni ardenti che il cane dovette mangiare di fronte a tutti, finché‚ le fiamme gli uscirono dalle fauci. Poi il giovane domandò al re se voleva vedere il cuoco nel suo vero aspetto; formulò il desiderio ed eccolo comparire con il grembiule bianco e il coltello al fianco. Vedendolo, il re andò su tutte le furie e ordinò che fosse gettato nel carcere più fondo. Poi il cacciatore aggiunse: -Padre mio, volete vedere anche la fanciulla che mi ha educato amorevolmente, e che doveva uccidermi, ma non l'ha fatto?-. Il re rispose: -Sì, la vedrò volentieri-. Il figlio disse: -Mio nobile padre, ve la mostrerò sotto forma di un bel fiore-. Tirò fuori di tasca il garofano, e lo mise sulla tavola regale, bello come il re non ne aveva mai visti. Poi il figlio disse: -Ora voglio mostrarvela nel suo vero aspetto-. Desiderò che ridiventasse una fanciulla, ed eccola comparire tanto bella, che più bella nessun pittore avrebbe potuto dipingerla. Il re inviò allora due cameriere e due servi alla torre, perché‚ andassero a prendere la regina e la conducessero alla tavola regale. Ma quando vi giunse la regina non toccò cibo e disse: -Iddio clemente e misericordioso, che mi ha mantenuta in vita nella torre, mi libererà presto-. Visse ancora tre giorni,poi morì serenamente. L'accompagnarono alla sepoltura le due bianche colombe che le avevano portato il cibo nella torre, ed erano angeli del cielo; e si posarono sulla sua tomba. Il vecchio re fece squartare il cuoco, ma anch'egli non sopravvisse a lungo per il dolore. Il figlio invece sposò la bella fanciulla che aveva portato in tasca sotto forma di fiore; e se vivono ancora lo sa Iddio.
FINE





La saggia Ghita
tempo: 6'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 077



C'era una volta una cuoca di nome Ghita che aveva un paio di scarpe con i tacchi rossi; e, quando se le metteva, si voltava di qua e di là, tutta contenta, e pensava: "Sei proprio una bella ragazza!". E, quando tornava a casa, per la gioia beveva un sorso di vino, e dato che il vino fa venir fame, assaggiava le cose migliori che aveva cucinato finché‚ era sazia e diceva: -Una cuoca deve sapere che gusto hanno le sue pietanze!-. Ora avvenne che una volta il padrone le disse: -Ghita, questa sera viene un ospite, preparami due bei polli-. -Sarà fatto, padrone- rispose Ghita. Sgozzò i polli, li scottò, li spennò, li infilò allo spiedo e, verso sera, li mise sul fuoco ad arrostire. I polli incominciavano a prendere un bel colore ed erano quasi cotti, ma l'ospite non arrivava. Allora Ghita gridò al padrone: -Se l'ospite non viene, devo togliere i polli dal fuoco; ma è un vero peccato non mangiarli subito, quando sono ben sugosi-. Il padrone disse: -Andrò a chiamare l'ospite di corsa-. Come il padrone ebbe voltato le spalle, Ghita mise da parte lo spiedo con i polli e pensò: "Stare tanto tempo accanto al fuoco fa sudare e venir sete; chissà quando vengono! Nel frattempo faccio un salto in cantina a bere un sorso". Corse giù, prese un boccale dicendo: -Buon pro ti faccia, Ghita!- e bevve un bel sorso. -Un sorso tira l'altro- aggiunse -e non va bene interrompersi.- Poi tornò in cucina, rimise i polli sul fuoco, li unse di burro e girò allegramente lo spiedo. Ma l'arrosto aveva un odore così buono che ella pensò: "Potrebbe mancare qualcosa, devo assaggiarlo!". Si leccò il dito e disse: -Come sono buoni questi polli! E' un vero peccato non mangiarli subito!-. Corse alla finestra a vedere se il padrone e l'ospite arrivavano, ma non vide nessuno; tornò ai polli e pensò: "Quest'ala brucia, è meglio che la mangi". Così la tagliò e se la mangiò di gusto; quand'ebbe finito pensò: "Devo far sparire anche l'altra, altrimenti il padrone si accorge che manca qualcosa!". Dopo aver mangiato le due ali, tornò a guardare se arrivava il padrone, ma non lo vide. "Chissà" le venne in mente "forse non vengono affatto e sono andati a mangiare da qualche altra parte." Allora disse: -Animo, Ghita, sta' allegra: uno l'hai già incominciato, beviti un altro bel sorso e finiscilo; quando non ce n'è più sei tranquilla: perché‚ sciupare tutto quel ben di Dio?-. Corse di nuovo in cantina, bevve un sorso poderoso e finì allegramente il pollo. Quando l'ebbe ingoiato, siccome il padrone non veniva, Ghita guardò anche l'altro pollo e disse: -Devono farsi compagnia, dov'è l'uno deve esser l'altro; quel che conviene all'uno, va bene anche all'altro; credo che se berrò un sorso non mi farà male-. Così diede un'altra bella sorsata e mandò il secondo pollo a tenere compagnia al primo. Sul più bello, mentre stava mangiando, arrivò in fretta il padrone, dicendo: -Svelta, Ghita, l'ospite sta per arrivare.- -Sì, padrone, preparo subito!- rispose Ghita. Nel frattempo il padrone andò a vedere se la tavola era bene apparecchiata, prese il coltello grosso con cui trinciava i polli, e si mise ad affilarlo. In quella giunse l'ospite, e bussò con fare discreto alla porta. Ghita corse a guardare chi fosse; vedendo l'ospite, si mise un dito sulla bocca e disse: -Zitto! zitto! Fuggite in fretta: guai a voi se il mio padrone vi acchiappa! Se vi ha invitato a cena, è solo perché‚ ha intenzione di tagliarvi le due orecchie. Ascoltate come sta affilando il coltello!-. L'ospite udì il rumore e si precipitò giù per le scale più in fretta che pot‚. Ghita, senza perdere tempo, corse gridando dal padrone e disse: -Bell'ospite che avete invitato!-. -Perché‚, Ghita, che intendi dire?- -Sì- diss'ella -non ha fatto che prendere dal piatto di portata i due polli che stavo per portare in tavola ed è corso via.- -Che modi!- esclamò il padrone, dispiaciuto per quei due polli. -Se almeno me ne avesse lasciato uno, mi sarebbe rimasto qualcosa da mangiare!- Gli gridò di fermarsi, ma l'ospite fece finta di non sentire. Allora gli corse dietro con il coltello ancora in mano gridando: -Uno solo! uno solo!- intendendo che l'ospite gli lasciasse almeno un pollo e non se li portasse via tutti e due l'ospite invece pensò di dover lasciare una delle sue orecchie, e corse via come se avesse il fuoco alle calcagna, per portarsele a casa tutt'e due.
FINE





Il vecchio nonno e il nipotino
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 078



C'era una volta un povero vecchio infermo; le ginocchia gli tremavano, non vedeva n‚ sentiva nulla e non aveva più denti Quando sedeva a tavola, riusciva a stento a tenere il cucchiaio, sicché‚ versava la minestra sulla tovaglia, e gliene colava anche fuori dalla bocca. Il figlio e la nuora ne erano disgustati, così il vecchio nonno dovette finire col sedersi in un angolo dietro la stufa, e gli diedero da mangiare in una scodellina di terracotta, e, per giunta, in quantità assai scarsa; ed egli guardava con tristezza verso la tavola e gli occhi gli si inumidivano. Una volta le sue mani tremanti non riuscirono a tenere ferma la scodellina che cadde a terra rompendosi. La giovane donna lo sgridò ma egli non disse nulla e sospirò soltanto. Allora gli comprarono una scodellina di legno per pochi soldi, e lo fecero mangiare in quella. Mentre se ne stavano seduti là, il nipotino di quattro anni metteva insieme delle assicelle per terra. -Che cosa stai facendo?- gli chiese il padre. -Faccio un piccolo truogolo- rispose il bambino -perché‚ ci mangino dentro il babbo e la mamma quando sarò grande.- Allora il marito e là moglie stettero a guardarsi per un po' e poi si misero a piangere; avvicinarono subito il vecchio nonno al tavolo e da allora in poi lo fecero sempre mangiare con loro senza dire più nulla anche quando si sbrodolava un po'.
FINE





L'ondina
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 079



Un fratellino e una sorellina giocavano accanto a una fontana e, mentre giocavano, vi finirono dentro. Là dentro vi era un'ondina che disse: -Adesso che siete in mio potere, vi toccherà servirmi per bene!-. Così alla fanciulla diede da filare del brutto lino tutto aggrovigliato e la costrinse a portare acqua in una botte forata, mentre il ragazzo doveva abbattere un albero con una scure senza più il filo; e da mangiare non ricevevano altro che gnocchi duri come pietre. Alla fine i bambini persero la pazienza, aspettarono una domenica e, mentre l'ondina era in chiesa, fuggirono. Finita la messa, l'ondina si accorse che gli uccellini avevano preso il volo e li inseguì a grandi balzi. Ma i bambini la scorsero da lontano e la fanciulla si gettò una spazzola dietro le spalle; e ne venne una montagna di spazzole con mille e mille setole pungenti, sulle quali l'ondina dovette arrampicarsi a gran fatica; ma alla fine riuscì a oltrepassarle. I bambini la videro e il ragazzo si buttò dietro le spalle un pettine; e ne venne fuori una montagna di pettini con mille e mille denti, ma l'ondina vi si aggrappò saldamente e riuscì a passare anche stavolta. Allora, la fanciulla gettò dietro di s‚ uno specchio e ne venne fuori una montagna di specchio, così liscia, ma così liscia che l'ondina non poteva arrampicarvisi. Allora pensò: "Andrò in fretta a casa a prendere la mia ascia e spaccherò il monte di specchio". Ma prima che tornasse e l'avesse spaccato, i bambini erano già fuggiti da un pezzo e l'ondina dovette andare di nuovo nella sua fonte.
FINE





La morte della gallinella
tempo: 4'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 080



Una volta gallinella e galletto andarono sul monte delle noci e stabilirono che chi dei due avesse trovato un gheriglio l'avrebbe spartito con l'altro. La gallinella trovò una noce bella grossa, ma non disse nulla, perché‚ voleva mangiarsela da sola. Ma il gheriglio era così grosso che non riuscì a ingoiarlo; le rimase in gola e, temendo di soffocare, la gallinella gridò: -Galletto, ti prego, corri più in fretta che puoi e vai a prendermi dell'acqua, altrimenti soffoco-. Il galletto corse veloce alla sorgente: -Sorgente, devi darmi dell'acqua, la gallinella sul monte dei noci ha inghiottito un grosso gheriglio e sta per soffocare-. La sorgente rispose: -Prima corri dalla sposa e fatti dare della seta rossa-. Il galletto corse dalla sposa: -Sposa, dammi della seta rossa, la seta rossa devo portarla alla sorgente, la sorgente deve darmi dell'acqua, e l'acqua la porterò alla gallinella che è sul monte dei noci e sta soffocando per aver inghiottito un grosso gheriglio-. La sposa rispose: -Prima corri a prendermi la mia coroncina che è rimasta appesa a un salice-. Allora il galletto corse al salice, prese la coroncina dal ramo e la portò alla sposa, e la sposa gli diede in cambio la seta rossa, ch'egli portò alla sorgente, che gli diede in cambio l'acqua. Finalmente il galletto portò l'acqua alla gallinella, ma quando arrivò la gallinella era già soffocata e giaceva a terra stecchita. Il galletto era così triste che si mise a gridar forte, e tutte le bestie vennero a piangere la gallinella e sei topi costruirono una piccola carrozza, per accompagnarla alla sepoltura; e quando la carrozza fu pronta, vi si attaccarono davanti mentre il galletto guidava. Ma per strada incontrarono la volpe: -Dove vai, galletto?-. -Vado a seppellire la mia gallinella.- -Posso venire con te?- -Va bene, ma sali dietro all'istante, o per i topi sarai troppo pesante!- Allora la volpe si sedette dietro, poi giunsero anche il lupo, l'orso, il cervo, il leone e tutti gli animali del bosco. Così proseguirono il viaggio, finché‚ arrivarono a un ruscello. -Come facciamo ad attraversarlo?- domandò il galletto. Sulla riva c'era un filo di paglia che disse -Mi metterò di traverso, così potrete passarmi sopra-. Ma quando i sei topi si avviarono, il filo di paglia scivolò e cadde in acqua, e in acqua finirono pure i sei topi che annegarono. Non sapevano più che pesci prendere, quando sopraggiunse un tizzone e disse: -Sono grosso abbastanza, mi stenderò sopra l'acqua e voi mi passerete sopra-. Così anche il tizzone si mise sopra l'acqua, ma, disgraziatamente, la sfiorò: sfrigolò, si spense e morì. Un sasso assistette alla scena e volle aiutare il galletto mettendosi anch'esso sopra l'acqua. Questa volta la carrozza la tirò il galletto da solo; era appena passato ed era a riva con la gallinella morta, e voleva farci venire anche gli altri che sedevano dietro, ma ormai erano in troppi: la carrozza si rovesciò e tutti caddero in acqua e annegarono. Ora il galletto era di nuovo solo con la gallinella morta; le scavò una fossa, ve la depose e fece un tumulo. Si sedette là sopra ed era tanto addolorato che finì col morire anche lui; e così morirono tutti.
FINE





Il Buontempone
tempo: 27'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 081



Una volta ci fu una grande guerra e quando finì molti soldati furono congedati. Anche il Buontempone ebbe il suo congedo, e nient'altro all'infuori di una piccola forma di pane secco e quattro soldi; e così se ne andò. Ma san Pietro si era seduto sul ciglio della strada come un povero mendicante e quando arrivò il Buontempone gli chiese l'elemosina. Quello rispose: -Caro mendicante, che cosa posso darti? Sono stato soldato, ho ottenuto il mio congedo e nient'altro che questo pane e quattro soldi; quando li avrò finiti, dovrò mendicare come te. Ma ti darò lo stesso qualcosa-. Divise il pane in quattro parti, e ne diede una all'apostolo con un soldo. San Pietro ringraziò, proseguì e andò ad aspettarlo di nuovo sulla strada, prendendo le sembianze di un altro mendicante; e quando il soldato lo raggiunse tornò a chiedergli l'elemosina. Il Buontempone parlò come prima e tornò a dargli un quarto di pane e un soldo. San Pietro ringraziò e proseguì, poi prese per la terza volta l'aspetto di un mendicante e, messosi sulla strada, chiese l'elemosina al Buontempone. Questi gli diede anche il terzo quarto di pane e il terzo soldo. San Pietro ringraziò e il Buontempone proseguì il suo cammino con una sola moneta e un solo pezzo di pane. Entrò in un'osteria a mangiarlo e si fece portare un soldo di birra. Quand'ebbe finito continuò per la sua strada, e subito tornò a incontrare san Pietro, con l'aspetto anche lui di un soldato in congedo. -Buon giorno, camerata- disse questi -mi daresti un pezzo di pane e un soldo per una bevuta?- -E dove lo prendo?- rispose il Buontempone. -Insieme al congedo non ho avuto altro che una pagnotta e quattro soldi. Per strada ho incontrato tre mendicanti, e a ciascuno ho dato un quarto del mio pane e un soldo. L'ultimo quarto me lo sono mangiato all'osteria, e con l'ultimo soldo ho bevuto un bicchiere. Adesso non mi resta più nulla, e se anche per te è lo stesso, possiamo andare a mendicare insieme.- -No, non ce n'è bisogno- rispose san Pietro -m'intendo un po' di medicina e così mi guadagnerò da vivere.- -Sì- rispose il Buontempone -io non ne capisco nulla, perciò mi toccherà chiedere l'elemosina da solo.- -Be', vieni con me!- disse san Pietro. -Se guadagno qualcosa avrai la metà.- -Mi sta bene- rispose il Buontempone, e se ne andarono insieme. Passarono davanti a una casa di contadini dove si udivano grida e pianti; entrarono, e c'era l'uomo gravemente ammalato e prossimo a morire, mentre la donna gridava e si disperava. -Non piangete e non lamentatevi più- disse san Pietro -guarirò quest'uomo.- Prese di tasca una pomata, e all'istante sanò l'ammalato che pot‚ alzarsi, perfettamente guarito. Marito e moglie dissero, tutti contenti: -Come possiamo ricompensarvi, cosa dobbiamo darvi?-. Ma san Pietro non voleva nulla e più i contadini insistevano, più egli rifiutava. Allora il Buontempone gli diede una gomitata e disse: -Ma prendi qualcosa, ne abbiamo bisogno!-. Alla fine, la contadina portò un agnello e disse a san Pietro di accettarlo, ma egli non voleva. Il Buontempone tornò a dar di gomito e disse: -Suvvia, prendilo, sciocco; ne abbiamo davvero bisogno!-. Finalmente san Pietro disse: -Va bene, prenderò l'agnello, ma non lo porterò io; visto che sei tu a volerlo, te lo porterai-. -D'accordo- disse il Buontempone -lo porterò io.- E se lo mise in spalla. Camminarono finché‚ giunsero in un bosco; l'agnello incominciava a pesare e il Buontempone aveva fame, sicché‚ disse a san Pietro: -Guarda che bel posto, potremmo cucinare l'agnello e mangiarlo-. -Per me va bene- rispose san Pietro -però non so occuparmi di cucina; se vuoi cucinare tu, eccoti un paiolo; io, intanto, me ne vado in giro qua attorno finché‚ è cotto. Ma non iniziare a mangiare prima che io sia di ritorno; arriverò per tempo.- -Va' pure- disse il Buontempone -so cucinare, ci penserò io.- San Pietro se ne andò e il Buontempone sgozzò l'agnello, accese il fuoco, mise la carne nel paiolo e la fece cuocere. L'agnello era già cotto, ma l'apostolo non tornava; allora il Buontempone lo tolse dal paiolo, lo tagliò e trovò il cuore. -Dev'essere il pezzo migliore- disse, lo assaggiò e finì poi col mangiarselo tutto. Finalmente ritornò san Pietro e disse: -Puoi mangiarti pure tutto l'agnello, io voglio soltanto il cuore: dammelo-. Allora il Buontempone prese coltello e forchetta e finse di cercare fra la carne, ma non riuscì a trovare il cuore; così finì col dire: -Non c'è-. -Ma dove sarà mai?- disse l'apostolo. -Non lo so- rispose il Buontempone -ma guarda un po' che sciocchi che siamo! Cerchiamo il cuore dell'agnello e non ci viene in mente che l'agnello non ha cuore!- -Oh!- esclamò san Pietro -questa è proprio nuova! Tutte le bestie hanno il cuore, perché‚ l'agnello non dovrebbe averlo?- -No di certo, fratello, l'agnello non ha cuore. Pensaci bene un momento e ti verrà in mente che non ce l'ha davvero.- -Va bene, va bene- disse san Pietro -se il cuore non c'è non voglio altri pezzi; puoi mangiarti l'agnello da solo.- -Quello che non riesco a mangiare lo metto nello zaino- disse il Buontempone; mangiò metà agnello e mise il resto nello zaino. Proseguirono e san Pietro fece in modo che un gran corso d'acqua attraversasse il loro cammino, ed essi dovettero attraversarlo. San Pietro disse: -Va' tu avanti-. -No- rispose il Buontempone -vacci tu.- E pensava: "Se l'acqua è troppo alta per lui, io me ne resto qua". San Pietro attraversò e l'acqua gli arrivava soltanto alle ginocchia. Allora volle passare anche il Buontempone, ma l'acqua s'alzò e gli arrivò fino al collo. -Aiutami, fratello!- gridò, ma san Pietro rispose: -Confesserai di aver mangiato il cuore dell'agnello?-. -No- rispose quello -non l'ho mangiato.- L'acqua crebbe ancora e gli arrivò alla bocca. -Aiutami, fratello!- gridò il soldato. San Pietro tornò a dire: -Confesserai di aver mangiato il cuore dell'agnello?-. -No- rispose -non l'ho mangiato.- San Pietro non lo lasciò affogare, fece abbassare l'acqua e lo aiutò a passare sull'altra riva. Proseguirono e giunsero in un regno dove sentirono che la principessa era in punto di morte. -Olà, fratello- disse il soldato a san Pietro -è una bella fortuna per noi! Se la guariamo siamo a posto per tutta la vita.- Ma gli pareva che san Pietro non camminasse abbastanza svelto. -Su, muovi le gambe, caro fratello- gli diceva. -Dobbiamo arrivare in tempo.- Ma san Pietro camminava sempre più adagio, benché‚ il Buontempone lo spingesse e lo incitasse; infine udirono che la principessa era morta. -Ecco, bel risultato!- disse il Buontempone. -E tutto grazie alla tua pigrizia!- -Sta' tranquillo- rispose san Pietro -so far meglio che guarire i malati: posso risuscitare i morti.- -Be', se è così tanto meglio- disse il Buontempone -come ricompensa potremo ottenere almeno metà del regno!- Così entrarono nel castello reale che era in gran lutto; ma san Pietro disse al re che avrebbe risuscitato la morta. Fu condotto da lei e disse: -Portatemi un paiolo con dell'acqua-. Quando l'ebbe, fece uscire tutti, e solo al Buontempone permise di rimanere. Poi tagliò a pezzi le membra della morta, le gettò in acqua, accese il fuoco sotto il paiolo e le fece cuocere. Quando la carne si staccò, prese le belle ossa bianche, le mise sulla tavola disponendole una accanto all'altra secondo il loro ordine naturale. Compiuta quest'operazione, vi si mise davanti e, per tre volte, disse: -In nome della Santissima Trinità, alzati o morta!-. Alla terza volta, la principessa si alzò, viva, bella e sana. Il re, tutto contento disse a san Pietro: -Chiedi pure la tua ricompensa: fosse anche la metà del regno, te la darò-. Ma san Pietro rispose: -Io non voglio nulla-. "Oh, ma che sciocco!" pensò fra s‚ il Buontempone; diede di gomito all'amico e gli disse: -Non essere così stupido: se tu non vuoi niente, a me occorre invece qualcosa!-. Ma san Pietro non voleva nulla. Tuttavia il re vide che l'altro avrebbe accettato volentieri qualcosa e ordinò che gli riempissero lo zaino d'oro. Proseguirono il cammino e, quando giunsero in un bosco, san Pietro disse al Buontempone: -Adesso divideremo l'oro-. -Sì- rispose quello -dividiamolo.- San Pietro divise l'oro e ne fece tre parti. Il Buontempone pensò: "Chissà che razza di nuova idea ha per la testa! Fa tre parti e siamo in due!". Ma san Pietro disse: -Ho fatto le parti giuste: una parte per me, una per te e una per chi ha mangiato il cuore dell'agnello-. -Oh, l'ho mangiato io!- rispose il Buontempone intascando subito l'oro -puoi credermi.- -Come può essere vero?- disse san Pietro -Un agnello non ha cuore!- -Ehi, ma che dici fratello? L'agnello ha il cuore come qualsiasi altro animale: perché‚ solo lui non dovrebbe averlo?- -D'accordo, non ne parliamo più- disse san Pietro -tienti pure tutto il denaro; io però non rimango più con te, me ne andrò per la mia strada.- -Come vuoi, fratello caro- rispose il soldato. -Addio.- San Pietro prese un'altra strada e il Buontempone pensò: "E' un bene che se ne vada: è un tipo così strano!". Ora egli aveva denaro a sufficienza, ma non seppe amministrarlo: lo dissipò, lo regalò e dopo poco tempo non ne aveva più. Giunse allora in un paese dove udì che la principessa era morta. "Olà" pensò "le cose si mettono bene! La risusciterò e mi farò pagare a dovere." Così andò dal re e gli propose di risvegliare la morta. Il re aveva udito parlare di un soldato in congedo che andava in giro a risuscitare i morti, e pensò che si trattasse del Buontempone; tuttavia, dato che non se ne fidava, domandò prima il parere dei suoi consiglieri; e questi gli dissero che poteva rischiare, visto che la fanciulla era ormai morta. Allora il Buontempone si fece portare un paiolo d'acqua, ordinò a tutti di uscire, tagliò le membra della fanciulla, le gettò in acqua e accese il fuoco sotto il paiolo, proprio come aveva visto fare a san Pietro. L'acqua incominciò a bollire e la carne si staccò; allora egli tirò fuori le ossa e le mise sulla tavola; ma non sapeva in che ordine disporle e le mise tutte alla rinfusa. Poi vi si mise davanti e disse: -In nome della Santissima Trinità, alzati, o morta-. Lo disse tre volte ma la principessa non si mosse. Lo disse altre tre volte ma invano. -Alzati, diavolo di una ragazza!- gridò. -Alzati, o guai a te!- Come ebbe pronunciato queste parole, ecco san Pietro entrare dalla finestra con l'aspetto di un soldato in congedo, e disse: -Cosa stai facendo, disgraziato? Come puoi risuscitare la morta se hai buttato all'aria tutte le ossa?-. -Caro fratello, ho fatto quel che ho potuto!- rispose il Buontempone. -Per questa volta ti tirerò fuori dai pasticci; ma bada che se proverai un'altra volta, ti andrà male; inoltre non accetterai o esigerai dal re nemmeno la più piccola ricompensa.- Poi san Pietro dispose le ossa nel loro ordine giusto e disse tre volte: -In nome della Santissima Trinità, alzati o morta!- e la principessa si alzò bella e sana come prima. Poi san Pietro tornò a uscite per la finestra. Il Buontempone era soddisfatto che tutto fosse andato così bene, ma lo irritava l'esser costretto a non accettar nulla. "Vorrei proprio sapere che razza di idee ha per la testa" pensava. "Ciò che dà con una mano, lo toglie con l'altra: non ha senso!" Il re gli offrì ciò che voleva, ma il Buontempone non poteva accettare nulla; tuttavia a forza di astuzie e di allusioni, riuscì a fare in modo che il re gli riempisse lo zaino d'oro; e con quello se ne andò. Quando uscì, davanti al portone trovò san Pietro che gli disse: -Guarda che razza di uomo sei! Ti avevo proibito di accettare alcunché, e hai lo zaino pieno d'oro-. -Che colpa ne ho- rispose il Buontempone -se me l'hanno riempito a mia insaputa!- -Ti avverto: guardati bene dal fare un'altra volta cose simili, o te la vedrai brutta.- -Ehi, non ti preoccupare fratello! Di oro adesso ne ho: perché‚ mai dovrei mettermi a cuocer ossa?- -Sì- disse San Pietro -l'oro durerà a lungo! Ma perché‚ tu non ti rimetta a fare ciò che non devi, farò in modo che il tuo zaino contenga tutto ciò che desideri. Addio, non mi rivedrai più.- -Addio!- disse il Buontempone, e pensava: "Sono ben felice che tu te ne vada, strano tipo! Non ti verrò certo dietro!". Ma al potere miracoloso dello zaino non pensò più. Il Buontempone vagò qua e là con il suo oro, spendendolo e dissipandolo come la prima volta. Quando non gli rimasero che quattro soldi, passò davanti a un'osteria e pensò: "Spendiamo anche questi ultimi!". E si fece portare tre soldi di vino e uno di pane. Mentre se ne stava là seduto a bere gli giunse alle nari il profumo d'oca arrosto. Si guardò attorno e vide che l'oste aveva messo nella stufa due oche. Allora gli venne in mente ciò che il camerata gli aveva detto: qualunque cosa egli desiderasse, l'avrebbe trovata nello zaino. "Olà, devi provare con le oche!" Uscì e, davanti alla porta, disse: -Voglio che le due oche che sono nella stufa finiscano nel mio zaino!-. Detto questo, aprì lo zaino, ci guardò dentro e le trovò tutt'e due. -Ah, così sì che va bene!- esclamò. -Ora sono proprio a posto!- Andò in un prato e tirò fuori l'arrosto. Mentre mangiava di gusto, arrivarono due garzoni e guardarono con occhi affamati l'oca che egli non aveva ancora toccato. Il Buontempone pensò: "Una ti basta". Chiamò i due garzoni e disse: -Prendete quest'oca e mangiatevela alla mia salute!-. Quelli ringraziarono, andarono all'osteria, si fecero portare mezzo litro di vino e del pane, tirarono fuori l'oca regalata e incominciarono a mangiarla. L'ostessa, che li osservava, disse al marito: -Quei due mangiano un'oca, va' un po' a controllare che non sia una delle due che abbiamo nella stufa-. L'oste corse a vedere, ma la stufa era vuota. -Razza di ladri! Volevate mangiare l'oca a buon mercato, vero? Pagate immediatamente o vi lavo con succo di bastone!- I due garzoni dissero: -Non siamo ladri: è stato un soldato in congedo a regalarci l'oca, là fuori, sul prato-. -Non menatemi per il naso! Il soldato è stato qui, ma se n'è andato da persona per bene, ho fatto attenzione a lui, siete voi i ladri e dovete pagare!- Ma siccome non avevano soldi, prese il randello e li cacciò fuori a bastonate. Il Buontempone intanto se ne andava per la sua strada e giunse in un luogo dove c'era uno splendido castello e, non molto lontano, una misera osteria. Egli vi entrò e chiese un letto per la notte, ma l'oste glielo rifiutò e disse: -Non c'è più posto, la locanda è piena di ospiti di riguardo-. -Mi meraviglia- disse il Buontempone -che vengano da voi e non vadano in quel magnifico castello.- -Sì- rispose l'oste -non c'è da fidarsi a passarvi una notte: chi ha provato non ne è uscito vivo.- -Se altri hanno tentato- disse il Buontempone -tenterò anch'io!- -Lasciate perdere!- soggiunse l'oste -ne va della vostra pelle.- -Questo è da vedersi- disse il Buontempone -datemi soltanto le chiavi, da mangiare e da bere in abbondanza.- L'oste gli diede la chiave, da mangiare e da bere; poi, presa ogni cosa, il Buontempone andò al castello. Mangiò di gusto e quando gli venne sonno si sdraiò per terra perché‚ non c'era neanche un letto. Non tardò ad addormentarsi, ma, durante la notte, fu svegliato da un gran rumore, aprì gli occhi e vide che nella stanza c'erano nove orrendi diavoli: avevano fatto cerchio attorno a lui e ballavano. Il Buontempone disse: -Ballate pure quanto volete, basta che non mi veniate troppo vicino-. Ma i diavoli gli si avvicinavano sempre di più e gli pestavano quasi la faccia con i loro sudici piedi. -Piantatela, spiriti maligni!- disse il Buontempone, ma quelli facevano sempre peggio. Allora egli andò in collera e gridò: -Adesso vi metto io a tacere!- Afferrò una sedia per le gambe e si mise a dar colpi a destra e a manca. Ma nove diavoli contro un soldato erano pur sempre troppi e, mentre egli picchiava quelli che gli stavano davanti, gli altri di dietro l'afferrarono per i capelli e lo trascinarono miseramente. -Furfanti di diavoli!- disse -adesso ne ho proprio abbastanza; ma aspettate un po'!- E aggiunse: -Voglio che tutti e nove i diavoli finiscano nel mio zaino-. In un baleno furono dentro; poi egli chiuse lo zaino e lo buttò in un angolo. Di colpo, tutto tornò tranquillo, il Buontempone si sdraiò di nuovo e dormì fino a giorno chiaro. Allora giunsero l'oste e il signore cui apparteneva il castello, per vedere come gli fosse andata. Quando lo videro sano e arzillo si stupirono e gli domandarono: -Non vi hanno fatto niente gli spiriti?. -Perbacco!- rispose il Buontempone -li ho tutti e nove nel mio zaino. Potete tornare ad abitare tranquillamente il vostro castello: d'ora in poi non ci saranno più spiriti!- Il nobiluomo lo ringraziò ricompensandolo con ricchi doni e offrendogli di entrare al suo servizio: avrebbe provveduto a mantenerlo per tutta la vita. -No- rispose il Buontempone -sono abituato a girovagare per il mondo, voglio proseguire per la mia strada.- Così se ne andò; entrò in una fucina, mise sull'incudine lo zaino con dentro i nove diavoli e pregò il fabbro e i suoi garzoni di picchiarci sopra. Quelli adoperarono tutta la forza che avevano e picchiarono con i loro grossi martelli, sicché‚ i diavoli levavano grida da far paura. Poi quando egli apri lo zaino, otto erano morti; solo uno viveva ancora, perché‚ si era rannicchiato in una piega; saltò fuori e se ne andò all'inferno. Il Buontempone andò a lungo in giro per il mondo e, a saperle, se ne potrebbero raccontare molte. Ma alla fine diventò vecchio e pensò alla morte. Allora andò da un eremita, conosciuto come uomo pio, e gli disse: -Sono stanco di girovagare, desidererei entrare nel Regno dei cieli-. L'eremita rispose: -Vi sono due vie: una è larga e piacevole e conduce all'inferno, l'altra è stretta e aspra e conduce in cielo-. "Sarei proprio uno sciocco, se scegliessi il cammino stretto e aspro!" pensò il Buontempone. Imboccò la via larga e piacevole e giunse infine davanti a una grande porta nera, che era la porta dell'inferno. Bussò e il custode guardò chi fosse. Ma quando riconobbe il Buontempone, si spaventò: si trattava proprio del nono diavolo, che era stato chiuso nello zaino e ne era uscito con un occhio nero. Perciò tornò a tirare in fretta il catenaccio, corse dal capo dei diavoli e gridò: -Fuori c'è un tale con uno zaino e vuole venire dentro; ma per carità, non lasciatelo entrare, altrimenti tutto l'inferno finisce nel suo zaino. Là dentro, una volta, mi ha fatto picchiare di santa ragione con il martello-. Perciò gridarono al Buontempone di andarsene via, che non l'avrebbero lasciato entrare. "Se qui non mi vogliono" pensò "andrò a vedere se troverò asilo in paradiso: da qualche parte devo pur alloggiare!" Tornò indietro e camminò finché‚ giunse davanti alla porta del paradiso, e bussò di nuovo. San Pietro faceva da guardiano proprio in quel momento; il Buontempone lo riconobbe e pensò: "Qui trovo qualcuno che conosco, le cose andranno meglio". Ma san Pietro disse: -Suppongo che tu voglia entrare in paradiso-. -Suvvia, fratello, lasciami entrare! Devo pure alloggiare da qualche parte; se all'inferno mi avessero preso, non sarei venuto qui!- -No- disse san Pietro -tu non entri.- -Bene, se non vuoi lasciarmi entrare, riprenditi pure il tuo zaino: non voglio avere niente da te!- disse il Buontempone. -Dammelo!- disse san Pietro. Egli fece allora passare lo zaino in paradiso attraverso l'inferriata, san Pietro lo prese e lo mise accanto alla sua sedia. Allora il Buontempone disse: -E ora voglio essere nello zaino-. In un baleno vi fu dentro, ed eccolo in paradiso; e san Pietro dovette lasciarvelo.
FINE





Il Giocatutto
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 082



C'era una volta un uomo che non faceva altro che giocare e, per questo, la gente lo chiamava il Giocatutto; e siccome non la smetteva davvero mai, aveva finito col perdere la casa e ogni avere. Ora, proprio il giorno prima che i creditori gli prendessero la casa, arrivarono Nostro Signore e san Pietro, e gli chiesero alloggio per quella notte. Il Giocatutto rispose: -Per me, potete rimanere questa notte; ma non posso darvi n‚ letto n‚ da mangiare-. Allora Nostro Signore disse che doveva soltanto dar loro ospitalità, a comprare qualcosa da mangiare ci avrebbero pensato loro; e il Giocatutto fu d'accordo. San Pietro gli diede tre soldi e gli disse di andare dal panettiere a prendere un pane. Si mise in cammino, ma quando giunse davanti alla casa dove si trovavano i giocatori che gli avevano fatto perdere tutto, questi lo chiamarono e gridarono: -Giocatutto vieni dentro!-. -Sì- diss'egli -volete che perda anche i tre soldi!- Ma quelli insistevano. Alla fine egli entrò e perse anche i tre soldi. San Pietro e Nostro Signore lo aspettavano da un pezzo, ma siccome egli non arrivava mai, gli andarono incontro. Ma il Giocatutto, quando li incontrò, fece finta che il denaro fosse caduto in una pozzanghera e continuava a rovistarci dentro; Nostro Signore però già sapeva che l'aveva perso al gioco. Allora san Pietro gli diede altri tre soldi. E questa volta egli non si lasciò tentare da nessuno e portò loro il pane. Nostro Signore domandò se non avesse del vino, ed egli rispose: -Ah, Signore, le botti sono tutte vuote!-. Allora Nostro Signore gli disse di scendere in cantina: -C'è ancora del vino, e proprio del migliore-. Per un pezzo egli non volle crederlo, ma alla fine disse: -Ci andrò, ma so che non ce n'è-. Ma come si mise a spillare la botte, ne uscì dell'ottimo vino. Egli portò loro il vino e i due si fermarono a pernottare. Il giorno seguente, di buon mattino, Nostro Signore disse al Giocatutto di domandare tre grazie. Pensava che avrebbe chiesto di andare in paradiso, e invece il Giocatutto chiese delle carte e dei dadi con i quali si vincesse sempre, e un albero sul quale crescesse ogni tipo di frutta e, se qualcuno ci fosse salito non potesse più scenderne, finché‚ non glielo avesse ordinato lui. Nostro Signore gli diede tutto ciò che egli aveva domandato e se ne andò con san Pietro. Ora il Giocatutto si mise a giocare a destra e a manca e non molto tempo dopo aveva vinto mezzo mondo. Allora san Pietro andò da Nostro Signore e disse: -Signore, così non va; quello finisce col vincere il mondo intero; dobbiamo mandargli la Morte-. Così gli mandarono la Morte. Quand'essa arrivò, il Giocatutto era proprio intento a giocare, e la Morte gli disse. -Vieni un po' fuori!-. Ma il Giocatutto rispose: -Aspetta solo un momento che finisca il gioco; nel frattempo sali su quell'albero e cogli qualcosa, per aver di che mangiare per strada!-. La Morte salì sull'albero e quando volle scendere non pot‚. Il Giocatutto la lasciò lassù per sette anni e, nel frattempo, non moriva più nessuno. Allora san Pietro andò da Nostro Signore e disse: -Signore, così non va, non muore più nessuno! Bisogna andare da lui-. Ci andarono di persona e Nostro Signore gli ordinò di far scendere la Morte. Egli andò subito e disse alla Morte: -Scendi!- e quella lo prese e lo strozzò. Se ne andarono insieme e giunsero all'aldilà; il nostro Giacatutto si recò alla porta del paradiso e bussò. -Chi è?- -Il Giocatutto.- -Ah, non abbiamo bisogno di te: va' via!- Allora andò alla porta del purgatorio e tornò a bussare. -Chi è?- -Il Giocatutto.- -Ah, abbiamo già abbastanza guai! Non abbiamo voglia di giocare: va ' via!- Allora egli andò alla porta dell'inferno e qui lo lasciarono entrare, ma in casa non c'era nessuno tranne il vecchio Lucifero e qualche diavolo zoppo (quelli diritti avevano da fare sulla terra). Subito egli si mise a sedere e incominciò a giocare. Ma Lucifero non aveva nulla all'infuori dei suoi diavoli zoppi; il Giocatutto glieli vinse e li prese perché‚ con le sue carte riusciva a vincere qualsiasi cosa. Così se ne andò con i suoi diavoli, e se ne andarono a Hohenfurt, strapparono la pertica dei luppoli e con quella salirono in paradiso e si misero a far leva; e il paradiso scricchiolò. Allora san Pietro disse nuovamente: -Signore, così non va! Dobbiamo lasciarlo entrare, altrimenti ci butta giù dal paradiso!-. Così lo lasciarono entrare, ma il Giocatutto si rimise subito a giocare e fu subito un tal baccano e un tal fracasso che nessuno capiva più quel che diceva. Allora san Pietro tornò a dire: -Signore, così non va! Dobbiamo buttarlo giù, altrimenti ci porta lo scompiglio in tutto il paradiso!-. Allora andarono da lui e lo buttarono giù: la sua anima andò in pezzi ed entrò negli altri giocatori che vivono ancora.
FINE





La fortuna di Gianni
tempo: 14'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 083



Gianni aveva prestato servizio dal suo padrone per sette anni, quando gli disse: -Padrone, ho terminato il tirocinio; ora vorrei tornare a casa da mia madre: datemi ciò che mi spetta-. Il padrone rispose: -Mi hai servito bene e con fedeltà: il compenso sarà pari al tuo servizio-. E gli diede un pezzo d'oro grosso come la testa di Gianni. Gianni prese di tasca il fazzoletto, e vi avvolse l'oro, se lo mise in spalla e s'incamminò verso casa. Mentre camminava, un passo dopo l'altro, vide un cavaliere che, fresco e giulivo, trottava su di un cavallo focoso. -Ah- disse Gianni ad alta voce -che bella cosa è cavalcare! Si sta seduti come su di una sedia; non si inciampa nei sassi, si risparmiano le scarpe e si va avanti senza accorgersene.- Il cavaliere che lo aveva sentito, gli gridò: -Ehi, Gianni, perché‚ tu vai a piedi?-. -Eh!- rispose Gianni -devo portare a casa questo peso: è vero che è oro, ma non posso tenere la testa diritta, mi preme sulle spalle.- -Sai un cosa?- disse il cavaliere. -Facciamo cambio, io ti do il mio cavallo e tu mi dai il tuo pezzo d'oro.- -Ben volentieri- disse Gianni -ma vi avverto che farete fatica a portarlo!- Il cavaliere smontò, prese l'oro e aiutò Gianni a salire a cavallo; gli diede le redini da tenere in mano, ben salde, e disse: -Se vuoi andare veloce, devi schioccare la lingua e gridare: "hop, hop!"-. Gianni era felice di essere in groppa al suo cavallo e di poter cavalcare a briglia sciolta. Dopo un po' gli venne in mente di andare più veloce, si mise a schioccare la lingua e a gridare: "hop, hop!". Il cavallo di mise a trottare forte e, in men che non si dica, Gianni fu sbalzato di sella e finì in un fosso che divideva i campi dalla strada. Il cavallo sarebbe scappato se non lo avesse fermato un contadino che veniva per la strada spingendo una mucca. Gianni si rimise in sesto e si alzò in piedi. Ma, indispettito, disse al contadino: -Bel divertimento andare a cavallo, soprattutto se ti capita un brocco come questo che inciampa e ti butta a terra rischiando di farti rompere l'osso del collo! Non ci salirò mai più! La vostra mucca invece sì che mi piace: uno se la tira dietro con tutto comodo, e, ogni giorno, latte, burro e formaggio sono assicurati. Cosa darei per avere una mucca simile!-. -Be'- disse il contadino -se vi piace tanto, cambierò la mucca con il vostro cavallo.- Gianni accettò tutto felice, e il contadino saltò in groppa al cavallo e corse via. Gianni menava ora la mucca tranquillamente davanti a se pensando al buon affare: -Mi basta avere un pezzo di pane, e certamente non mi mancherà, e posso mangiare burro e formaggio finché‚ ne ho voglia; se ho sete, mungo la mia mucca e bevo il latte. Cosa potrei desiderare di meglio?-. Quando arrivò a un'osteria, si fermò, mangiò allegramente tutto ciò che aveva con s‚, pranzo e cena e, con gli ultimi soldi che gli restavano, si fece portare un mezzo bicchiere di birra. Poi riprese a menare la sua mucca verso il villaggio di sua madre. Ma, verso mezzogiorno, il caldo si fece sempre più opprimente, e Gianni si trovava in una landa con un'ora di cammino davanti a s‚. Aveva un caldo tale che, per la sete, la lingua gli si era incollata al palato. "Devo fare qualcosa" pensò Gianni. "Mi metterò a mungere la mucca e mi ristorerò con il latte." La legò a un albero secco e ci mise sotto il suo berretto di cuoio, ma per quanto si desse da fare, non veniva neanche una goccia di latte. E siccome mungeva senza alcuna abilità, l'animale, impaziente, finì coll'assestargli un tale colpo alla testa con la zampa di dietro, ch'egli barcollò e cadde a terra; e per un bel po' non riuscì più a capire dove fosse. Fortunatamente, proprio in quel momento si trovava a passare un macellaio che aveva un porcellino su di una carriola. -Che brutti scherzi!- esclamò, e aiutò il buon Gianni ad alzarsi. Gianni raccontò quel che gli era successo. Il macellaio gli allungò la sua fiaschetta e gli disse: -Bevete un sorso che vi renderà le forze. Questa mucca non vi darà mai latte: è vecchia, e va giusto bene come bestia da tiro o da macello-. -Ahi, ahi- disse Gianni, passandosi una mano fra i capelli -chi l'avrebbe mai detto! Certo è una bella cosa poter macellare una bestia simile in casa propria! Quanta carne! Ma io non me ne faccio un gran che della carne di mucca: non la trovo abbastanza saporita. Un così bel maialino invece ha tutt'un altro sapore, senza parlar delle salsicce!- -Sentite, Gianni- disse il macellaio -vi farò un piacere e in cambio della mucca vi lascerò il porcello.- -Dio ricompensi la vostra cortesia!- disse Gianni; gli diede la mucca, fece slegare il porcellino dalla carriola e si fece mettere in mano la corda che lo legava. Gianni proseguì per la sua strada pensando come tutto gli andava bene: quando incappava in qualche contrattempo, subito riusciva a porvi rimedio. Poco dopo, s'imbatté‚ in un ragazzo che portava sotto il braccio una bell'oca bianca. Si salutarono e Gianni incominciò a raccontargli della sua fortuna, e degli scambi vantaggiosi che aveva fatto. Il ragazzo gli raccontò che portava l'oca a un pranzo di battesimo. -Provate un po' a sollevarla- soggiunse, afferrandola per le ali -com'è pesante ma è stata anche ingrassata per due mesi. A chi morde quest'arrosto, resterà la bocca unta!- -Sì- disse Gianni alzandola con una mano -è bella pesante, ma anche il mio maiale non scherza!- Il ragazzo prese allora a guardarsi attorno con aria pensierosa, e continuava a scuotere la testa. -Sentite- disse poi -per quel che riguarda il vostro maiale, deve esserci qualcosa sotto. Sono passato da un villaggio dove ne avevano appena rubato uno dalla stalla del sindaco. Temo proprio che si tratti di questo qui. Sarebbe un brutto affare se vi trovassero con l'animale come minimo vi ficcherebbero in gattabuia!- Il buon Gianni ebbe paura: -Ah, Dio- disse -aiutatemi a venirne fuori! Voi qui siete pratico della zona, prendetevi il maiale e lasciatemi la vostra oca.- -Certo è un bel rischio- rispose il ragazzo -ma non voglio che finiate nei guai per colpa mia.- Così prese in mano la corda e, in fretta, condusse via il maialino per una via traversa. Il buon Gianni, invece, liberato dalle sue preoccupazioni, proseguì il cammino verso casa con l'oca sotto il braccio. -A pensarci bene- diceva fra s‚ -ci ho guadagnato a fare cambio: per prima cosa c'è l'arrosto, poi tutto quell'unto che ne gocciolerà e darà grasso d'oca per tre mesi; e infine le belle piume bianche: con quelle ci farò imbottire il cuscino, così mi addormenterò senza bisogno di esser cullato. Come sarà contenta mia madre!- Attraversato l'ultimo paese, Gianni trovò un arrotino con il suo carretto; facendo girare la ruota per affilare i coltelli, egli così cantava:-Faccio l'arrotino, son svelto con la mola, giro e rigiro come una banderuola.-Gianni si fermò a guardarlo; alla fine gli rivolse la parola dicendo: -Pare proprio che ve la passiate bene, dato che siete così allegro!-. -Sì- rispose l'arrotino. -Chi conosce un mestiere è un uomo fortunato. Un bravo arrotino, quando mette la mano in tasca, ci trova del denaro. Ma dove avete comprato quella bell'oca?- -Non l'ho comprata, l'ho avuta in cambio di un maiale.- -E il maiale?- -L'ho avuto in cambio di una mucca.- -E la mucca?- -L'ho avuta in cambio di un cavallo.- -E il cavallo?- -Per averlo ho dato un pezzo d'oro grande come la mia testa.- -E l'oro?- -Eh, era la somma che mi spettava per aver prestato servizio sette anni!- -Avete sempre saputo arrangiarvi- disse l'arrotino. -Se adesso riuscite a sentir tintinnare i soldi in tasca, quando vi alzate, sarebbe fatta la vostra fortuna.- -E come potrei fare?- disse Gianni. -Dovete diventare un arrotino come me; per questo non serve che una mola, il resto viene da s‚. Ne ho qui una che è un po' rovinata, ma in cambio chiedo soltanto la vostra oca: siete d'accordo?- -E me lo chiedete?- rispose Gianni. -Diventerò l'uomo più fortunato di questa terra; se trovo del denaro ogni volta che infilo la mano in tasca, che cosa potrei desiderare di meglio?- e gli porse l'oca. -E ora- disse l'arrotino, raccogliendo una pietra qualunque che gli si trovava accanto -eccovi anche una bella pietra, su cui potrete picchiare per bene e raddrizzare i chiodi vecchi. Prendetela e serbatela con cura.- Gianni si caricò la pietra sulle spalle e proseguì il cammino con il cuore pieno di gioia; gli occhi gli luccicavano dalla contentezza, ed egli pensava fra s‚: "Devo proprio essere nato con la camicia! Tutto quello che desidero si avvera come se fossi venuto al mondo di domenica". Nel frattempo, siccome camminava dallo spuntar del giorno, incominciò a sentirsi stanco; inoltre lo tormentava la fame, poiché‚ aveva divorato in un colpo tutte le provviste, per la gioia di aver ottenuto la mucca. Ora avanzava a stento e doveva fermarsi in continuazione; e per di più le pietre gli pesavano terribilmente, Gianni continuava a pensare come sarebbe stato bello se non avesse dovuto portarle proprio allora. Lento come una lumaca, riuscì a trascinarsi fino a una sorgente, dove voleva sostare e rinfrescarsi con un bel sorso d'acqua fresca. Ma per non rovinare le pietre sedendosi, le posò con cautela accanto a s‚ sull'orlo della fonte. Poi si volse e si chinò per bere ma, per sbaglio, le urtò un poco e tutt'è due le pietre cascarono in acqua. Gianni, vedendole sprofondare, fece un salto di gioia e si inginocchiò a ringraziare Dio con le lacrime agli occhi per avergli concesso anche questa grazia: l'aveva liberato da quei pietroni in modo che egli non dovesse rimproverarsi nulla, era proprio quel che ci voleva per renderlo pienamente felice! -Felice come me- esclamò -non c'è davvero nessuno su questa terra!- A cuor leggero, e libero da ogni peso, corse via finché‚ arrivò a casa da sua madre.
FINE





Gianni si sposa
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 084



C'era una volta un contadinello di nome Gianni. Suo cugino avrebbe voluto trovargli una moglie ricca, perciò un giorno lo mise a sedere dietro la stufa e fece accendere un bel fuoco. Poi prese una caraffa piena di latte e un bel po' di pane bianco, gli diede un soldo luccicante e nuovo di zecca e disse: -Gianni, tieni stretto il soldo, e il pane inzuppalo nel latte; e stai seduto qui senza muoverti finché‚ torno-. -Sì, lo farò- rispose Gianni. Il cugino infilò un paio di vecchi calzoni rattoppati, andò nel villaggio vicino, dalla figlia di un ricco contadino, e disse: -Non vorreste sposare mio cugino Gianni? Vi prendereste un uomo valido e capace che vi piacerà-. Il padre, avaro, domandò: -Come sta a quattrini? Ha di che bollire in pentola?-. -Caro amico- rispose il cugino -Gianni se ne sta seduto al caldo, qualche bel quattrino ce l'ha, né gli manca la zuppa. Inoltre di pezze ("Pezze": con questo termine si designavano le proprietà. Nota dell'Autore.) non dovrebbe averne meno delle mie!- E, così dicendo, si batté‚ le mani sui calzoni rattoppati. -Se volete incomodarvi a venire con me, vi sarà provato all'istante che le cose stanno come dico.- L'avaraccio non volle lasciarsi sfuggire quella bella occasione e disse: -Se è vero, non ho nulla contro questo matrimonio-. Così furono celebrate le nozze al giorno stabilito e quando la giovane moglie volle andare nei campi a vedere i beni dello sposo, Gianni si tolse il vestito della festa, indossò il camiciotto pieno di toppe e disse: -Il vestito buono potrei rovinarlo!-. Poi se ne andarono insieme nei campi e, per via, quando si vedevano i confini di un vigneto, di un campo o di un prato, Gianni li indicava con il dito, e batteva poi con la mano su di una pezza grande o piccola del suo camiciotto, dicendo: -Questo è mio, tesoro, e quello pure, guarda qui!-. E intendeva dire che la moglie non stesse a guardare i campi a bocca aperta, ma guardasse piuttosto il suo camiciotto, che era proprio suo. -Sei stato anche tu alle nozze?- -Eccome se ci sono stato! L'acconciatura era di burro, è venuto il sole e si è sciolta; il mio vestito era di ragnatela e si strappò passando fra le spine; le scarpe erano di vetro, ho inciampato in una pietra, hanno fatto "clink" e si sono spezzate!-
FINE





I figli d'oro
tempo: 13'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 085



C'era una volta un pover'uomo e una povera donna, che possedevano solamente una piccola capanna, si cibavano di pesce e vivevano alla giornata. Ma un giorno, mentre l'uomo sedeva vicino all'acqua a gettare la sua rete, gli accadde di pescare un pesce che era tutto d'oro. E mentre lo contemplava, pieno di meraviglia, il pesce si mise a parlare e disse: -Ascolta, pescatore, se mi ributti in acqua, trasformerò la tua capanna in uno splendido castello-. Il pescatore rispose: -Che cosa me ne faccio di un castello se non ho niente da mangiare?-. Il pesce d'oro soggiunse: -Provvederò anche a questo: nel castello ci sarà un armadio, e ogni volta che lo aprirai vi troverai dentro dei piatti colmi di ogni sorta di cibo che tu possa desiderare-. -Se è così- disse l'uomo -posso proprio farti questo favore!- -Sì- rispose il pesce -ma a condizione che tu non dica a nessuno, chiunque egli sia, da dove viene la tua fortuna. Basta che tu dica una sola parola e tutto sparirà.- L'uomo tornò a gettare in acqua il pesce incantato e andò a casa. Ma dove c'era la sua capanna sorgeva ora un grande castello. Egli fece tanto d'occhi, entrò e vide sua moglie vestita con abiti eleganti, che se ne stava seduta in una splendida stanza. Tutta contenta gli disse: -Marito è successo tutt'a un tratto. Mi piace tanto!-. -Sì- rispose l'uomo -piace anche a me, ma ho una gran fame, dammi qualche cosa da mangiare.- La donna disse: -Non ho nulla e non so trovare niente nella casa nuova-. -Oh- disse l'uomo -vedo là un grosso armadio, aprilo un po'.- Quand'ella lo aprì, dentro c'era focaccia, carne, frutta e vino, con un aspetto molto invitante. Allora la donna esclamò, piena di gioia: -Cuor mio, che cosa desideri di più?-. Ed essi bevvero e mangiarono insieme. Quando furono sazi, la donna chiese: -Marito, di dove viene mai tutta questa ricchezza?-. -Ah!- rispose egli -non me lo domandare, non posso dirtelo, poiché‚ se lo rivelo a qualcuno la nostra fortuna è finita.- -Be'- diss'ella -dato che non devo saperlo, non mi interessa neanche.- Ma non parlava sul serio; non ebbe più pace n‚ giorno n‚ notte e prese a tormentare il marito, finché‚ questi le disse che la ricchezza proveniva da un magico pesce d'oro, che egli un giorno aveva pescato e rimesso in libertà. E come ebbe parlato, il bel castello e l'armadio scomparvero, ed essi tornarono a stare nella vecchia capanna. L'uomo dovette tornare a fare il pescatore. Ma la fortuna volle che egli pescasse di nuovo il pesce d'oro. -Ascolta- disse il pesce -se mi ributti in acqua, ti ridarò il castello con l'armadio pieno di lesso e di arrosto; bada solo a non rivelare chi te l'ha dato, altrimenti lo perdi di nuovo.- -Farò bene attenzione- rispose il pescatore e gettò il pesce in acqua. A casa tutto era tornato splendido come prima, e la moglie era felice di tanta fortuna, ma la curiosità non le lasciava pace e, dopo un paio di giorni, ella ricominciò a chiedere come fosse andata e come avesse fatto. Il marito per un po' non disse nulla, ma ella lo seccò a tal punto che finì collo sbottare e rivelò il segreto. Il castello scomparve all'istante, ed essi si ritrovarono nuovamente nella vecchia capanna. -Adesso sarai contenta!- disse l'uomo. -Così possiamo tornare a far la fame.- -Ah- disse la donna -preferisco rinunciare alla ricchezza, piuttosto che non sapere da dove viene; altrimenti non mi do pace.- L'uomo tornò a pescare e dopo un po' di tempo non gli andò diversamente: pescò per la terza volta il pesce d'oro. -Ascolta- disse il pesce -vedo bene che devo cadere nelle tue mani; portami a casa e tagliami in sei pezzi: due dalli da mangiare a tua moglie, due al tuo cavallo e due sotterrali, ti porteranno fortuna.- L'uomo portò il pesce a casa e fece quel che gli aveva detto. Ma avvenne che dai due pezzi sepolti sotto terra germogliarono due gigli d'oro, il cavallo partorì due puledri d'oro e la moglie del pescatore due figli tutti d'oro. I figli crebbero facendosi grandi e belli, e i gigli e i puledri crebbero con loro. Allora essi dissero: -Babbo, vogliamo montare sui nostri cavalli d'oro e andarcene per il mondo-. Tutto triste egli rispose: -Come farò a resistere se ve ne andate e io non so niente di voi?-. Ma essi dissero: -I due gigli d'oro rimangono qui, e dal loro aspetto potrete vedere come stiamo: se sono freschi, stiamo bene; se appassiscono siamo malati; se cadono, siamo morti-. Se ne andarono sui loro cavalli e giunsero a un'osteria dove c'era molta gente e, quando videro i due ragazzi d'oro, li derisero e li canzonarono. All'udire quelle beffe, uno dei due ragazzi si vergognò, non volle più girare il mondo, voltò il cavallo e se ne tornò a casa dal padre. L'altro invece proseguì il suo cammino e giunse a un gran bosco. Quando volle entrarvi, la gente disse: -Non potete attraversare il bosco, è pieno di briganti che vi faranno del male; se poi vedono che voi e il vostro cavallo siete d'oro, vi ammazzeranno-. Ma egli non si lasciò spaventare e disse: -Devo assolutamente attraversarlo!-. Prese delle pelli d'orso, le indossò e con esse ricoprì anche il cavallo di modo che l'oro non si vedesse più, poi si addentrò tranquillamente nel bosco. Dopo un po' udì dei fruscii nei cespugli e delle voci di gente che parlava insieme. Da una parte sentì gridare: -Eccone uno!- ma dall'altra: -Lascialo andare! E' un povero pezzente senza quattrini. Che ce ne facciamo di lui?-. Così il cavaliere d'oro attraversò felicemente il bosco senza che gli accadesse alcunché. Un giorno giunse in un villaggio dove vide una fanciulla così bella che egli pensò che non ne esistessero di più belle a questo mondo. E poiché‚ provò subito un amore ardente per lei, le si avvicinò e disse: -Ti amo con tutto il cuore: vuoi diventare la mia sposa?-. Anch'egli piacque alla fanciulla, sicché‚ ella acconsentì e disse: -Sì, sarò la tua sposa e ti sarò fedele per tutta la vita-. Così si sposarono e, durante i festeggiamenti, sul più bello, giunse il padre della sposa il quale, vedendo la figlia che si sposava, si meravigliò e disse: -Dov'è lo sposo?-. Gli indicarono il ragazzo d'oro, che indossava ancora le sue pelli d'orso. Allora il padre andò su tutte le furie e disse: -Mai e poi mai darò mia figlia a un pezzente!- e voleva ucciderlo. Allora la figlia lo supplicò con tutte le sue forze dicendo: -Ormai è mio marito e io l'amo con tutto il cuore- e alla fine egli si placò. Ma questo pensiero non gli dava pace, sicché‚ il mattino seguente si levò di buon'ora per andare a vedere se il marito di sua figlia fosse un pezzente qualunque. Ma, guardando nella stanza, vide nel letto un bell'uomo d'oro, mentre le pelli d'orso giacevano a terra. Allora ritornò indietro pensando: "Per fortuna ho frenato la mia collera!". Ma il ragazzo d'oro sognò di andare a caccia e di inseguire uno splendido cervo. Al mattino, quando si svegliò, disse alla sua sposa: -Voglio andare a caccia-. Ma ella ebbe paura e lo supplicò di restare, dicendo: -Ti potrebbe succedere una disgrazia-. Egli però rispose: -Devo assolutamente andare-. Si alzò e andò nel bosco, dove ben presto si imbatté‚ in un cervo stupendo, proprio come nel sogno. Egli prese la mira per abbatterlo, ma il cervo scappò via. Allora il cavaliere si mise a rincorrerlo per sterpi e fossati, senza stancarsi mai per tutto il giorno: ma alla sera il cervo sparì, e quando egli si guardò attorno si trovò davanti alla casina di una strega. Bussò e uscì una vecchina che gli chiese: -Che andate cercando così tardi in mezzo a questo grande bosco?-. Egli disse: -Non avete visto un cervo?-. -Sì- rispose ella -conosco bene quel cervo.- E, mentr'ella parlava, un cagnolino che era uscito con lei dalla casa abbaiava furiosamente al cavaliere. -Taci, brutto rospo- disse questi -altrimenti ti ammazzo.- Allora la vecchia strega gridò piena di collera: -Cosa? Vorresti uccidere il mio cagnolino?-. E in men che non si dica trasformò il ragazzo, sicché‚ egli giacque là impietrito, e la sua sposa lo attese invano, pensando: "E' certamente successo ciò che mi faceva tanta paura e mi opprimeva il cuore". Nel frattempo, a casa, l'altro fratello se ne stava davanti ai gigli d'oro, quando improvvisamente uno di essi cadde a terra. -Ah, Dio mio- diss'egli -a mio fratello deve essere accaduta una grave disgrazia! Devo partire per vedere di riuscire a salvarlo.- Disse il padre: -Resta qui: se perdo anche te, come farò?-. Ma egli rispose: -Devo assolutamente andare!-. Partì in sella al suo cavallo d'oro e giunse nel gran bosco dove suo fratello giaceva impietrito. La vecchia strega uscì dalla casa, lo chiamò e voleva ammaliare anche lui, ma egli non si avvicinò e disse: -Ti uccido se non ridai la vita a mio fratello-. Così, benché‚ controvoglia, ella fu costretta a toccare la pietra e a restituirgli la vita. I due ragazzi d'oro, felici di rivedersi, si baciarono e si abbracciarono; poi uscirono insieme a cavallo dal bosco, l'uno per tornare dalla sposa, l'altro a casa dal padre. E il padre disse: -Sapevo che avevi liberato tuo fratello, perché‚ il giglio d'oro si è rialzato d'un tratto e ha continuato a fiorire-. E vissero felici e prosperi fino alla morte.
FINE





La volpe e le oche
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 086



Un giorno una volpe capitò in un prato dove si trovava un branco di oche belle grasse, e ridendo disse: “Arrivo proprio a proposito: ve ne state qui tutte insieme, così posso divorarvi una dopo l'altra.” Le oche si misero a starnazzare, saltarono su e incominciarono a lamentarsi e a chiedere grazia. Ma la volpe disse: “Nessuna pietà, dovete morire.” Finalmente una delle oche si fece coraggio e disse: “Se dobbiamo proprio perdere la nostra giovane vita, concedici almeno una grazia: permettici di dire una preghiera, perché‚ non moriamo nel peccato; poi ci metteremo in fila perché‚ tu possa sceglierti via via la più grassa.” – “Sì,” rispose la volpe, “è ben poca cosa ed è un desiderio pio: pregate, io aspetterò.” Allora la prima incominciò una preghiera ben lunga: “Qua, qua!” E siccome non la voleva smettere, la seconda non aspettò il suo turno, e anche lei incominciò: “Qua, qua!”

(Quando tutte avranno finito di pregare, continueremo la storia, ma, per adesso, pregano ancora.)
FINE





Il ricco e il povero
tempo: 10'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 087



Nei tempi antichi, quando il buon Dio errava ancora sulla terra, fra gli uomini, una sera che era stanco gli accadde di essere sorpreso dalla notte prima di poter giungere a una locanda. Sul suo cammino, si trovavano due case, l'una di fronte all'altra: la prima era grande e bella, la seconda piccola e dall'aspetto misero. Quella grande apparteneva a un ricco, mentre la piccola a un pover'uomo. Nostro Signore pensò: "Al ricco non darò disturbo: busserò a lui". Il ricco, udendo bussare alla sua porta, aprì la finestra e domandò al forestiero che cosa cercasse. Il Signore rispose: -Vi prego di darmi ricovero per la notte-. Il ricco squadrò il viandante da capo a piedi, e siccome il buon Dio era vestito umilmente e non aveva l'aria di uno che ha molto denaro in tasca, scosse il capo e disse: -Non posso ospitarvi: le mie stanze sono piene di verdure e di sementi; e se dovessi dare alloggio a tutti quelli che bussano alla mia porta, potrei andare in giro a mendicare. Cercate una sistemazione altrove-. Detto questo, sbatté‚ la finestra e piantò in asso il buon Dio. Allora questi gli voltò le spalle, andò alla casetta di fronte e bussò. Aveva appena bussato che il povero già gli apriva la porta pregandolo di entrare e di trascorrere la notte in casa sua. -E' già buio- disse -per oggi non potete proseguire.- Il buon Dio ne fu contento ed entrò. La moglie del povero gli porse la mano, gli diede il benvenuto e gli disse si mettersi comodo: doveva accontentarsi perché‚ non avevano molto, ma quel poco che c'era lo davano volentieri. Poi mise delle patate sul fuoco e, mentre cuocevano, munse la sua capra per avere un po' di latte da bere. Quando la tavola fu apparecchiata, il buon Dio si sedette e mangiò con loro, e quel povero cibo gli piacque, perché‚ aveva accanto a s‚ dei visi lieti. Terminata la cena, quando fu ora di dormire, la donna prese da parte il marito e gli disse: -Senti, marito caro, questa notte ci distenderemo sulla paglia e lasceremo il nostro letto al povero viandante perché‚ si riposi: ha camminato tutto il giorno ed è certo stanco-. -Ben volentieri!- rispose il marito. -Vado a offrirglielo.- Andò dal buon Dio e lo pregò, se era d'accordo, di coricarsi nel loro letto per riposare le sue membra. Il buon Dio non voleva portar via ai due vecchi il loro letto, ma essi non lo lasciarono in pace finché‚ egli acconsentì a coricarvisi; essi, invece si coricarono per terra sulla paglia. Il mattino seguente si alzarono prima che facesse giorno e prepararono all'ospite una modesta colazione. Quando il sole brillò attraverso la finestrella, il buon Dio si alzò, mangiò di nuovo con loro e si preparò a riprendere il cammino. Ma quando fu sulla soglia di casa, disse: -Poiché‚ siete così pii e misericordiosi, chiedete tre cose, e io vi esaudirò-. Il povero disse: -Che altro potrei desiderare se non l'eterna beatitudine, e che noi due, finché‚ viviamo, ci manteniamo in salute e possiamo avere il nostro pane quotidiano? Quanto alla terza cosa non so cosa potrei desiderare-. Il buon Dio disse: -Non vuoi una casa nuova al posto di quella vecchia?-. Allora l'uomo rispose che sì, se avesse potuto avere anche quella, gli avrebbe fatto piacere. Allora il Signore esaudì quei desideri e trasformò la loro vecchia casa in una bella e nuova; poi li lasciò e proseguì il cammino. Il sole era già alto quando il ricco si alzò e, messosi alla finestra, vide di fronte una bella casa al posto della vecchia capanna. Fece tanto d'occhi, chiamò la moglie e disse: -Moglie, cerca di sapere come sono andate le cose. Ieri sera c'era ancora quella misera capanna e oggi c'è una bella casa nuova. Corri di fronte e senti com'è andata-. La donna andò a interrogare il povero che così le raccontò: -Ieri sera è arrivato un viandante che cercava ricovero per la notte; questa mattina, nel prendere commiato, ha voluto concederci tre desideri: l'eterna beatitudine, buona salute in vita e il nostro pane quotidiano e, al posto della nostra vecchia capanna, una bella casa nuova-. Quand'ebbe udito tutto ciò, la moglie del ricco corse a casa a raccontare ogni cosa al marito che disse: -Meriterei di essere picchiato e fatto a pezzi! L'avessi saputo! Il forestiero è stato anche da me, ma io l'ho scacciato-. -Affrettati!- disse la moglie -sali a cavallo, il viandante non è molto lontano, puoi ancora raggiungerlo ed esprimere anche tu tre desideri.- Allora il ricco montò a cavallo e raggiunse il buon Dio. Gli si rivolse in modo amabile e cortese dicendogli che non doveva prendersela se non lo aveva fatto subito entrare: aveva cercato la chiave della porta e, nel frattempo, egli se ne era andato. Se fosse tornato un'altra volta, avrebbe dovuto alloggiare da lui. -Sì- disse il buon Dio -se torno lo farò.- Allora il ricco domandò se anche lui poteva esprimere tre desideri come il suo vicino. Sì, rispose il buon Dio, poteva benissimo, ma non era un buon affare per lui, era meglio se non esprimeva alcun desiderio. Ma il ricco pensò che avrebbe scelto comunque qualcosa di vantaggioso per s‚, purché‚ fosse sicuro di essere esaudito. Il buon Dio disse: -Va' a casa; i primi tre desideri che esprimerai saranno esauditi-. Il ricco aveva raggiunto il suo scopo; si mise in cammino verso casa e si mise a pensare a ciò che poteva desiderare. Mentre rifletteva, lasciò andare le redini, e il cavallo si mise a saltare sicché‚ egli era continuamente disturbato e non riusciva a concentrarsi. Allora si arrabbiò e gridò spazientito: -Vorrei che ti rompessi il collo!-. Come ebbe pronunciato queste parole, il cavallo stramazzò a terra, morto stecchito; e il primo desiderio era esaudito. Ma siccome era avaro, non voleva abbandonare i finimenti: li tagliò, se li mise sulla schiena, e dovette andare a casa a piedi. Tuttavia si consolava pensando che gli restavano ancora due desideri. Mentre camminava nella polvere e il sole di mezzogiorno bruciava infuocato, gli venne un gran caldo e diventò di cattivo umore: la sella gli pesava sulle spalle e continuava a non sapere quello che doveva desiderare. Se gli veniva in mente qualcosa, un attimo più tardi gli sembrava troppo poco. Nel frattempo pensò che la moglie a casa se la passava bene, seduta in una stanza fresca a mangiare di buon appetito. Questo lo indispettì per bene, e, senza riflettere, disse: -Invece di trascinarmi questo peso sulla schiena, vorrei che ci fosse lei seduta su questa sella e che non potesse scendere!-. Com'ebbe pronunciato queste parole, la sella scomparve dalla sua schiena, ed egli comprese che anche il secondo desiderio era stato esaudito. Allora sentì ancora più caldo, si mise a correre e pensava, una volta a casa, di potersi chiudere in camera da solo, per riflettere e trovare qualcosa di grande per l'ultimo desiderio. Ma quando arriva e apre la porta, vede, in mezzo alla stanza, sua moglie seduta sulla sella, che piange e si dispera perché‚ non può scendere. Allora egli disse: -Calmati! Stattene lì seduta e ti procurerò tutte le ricchezze di questo mondo!-. Ma ella rispose: -Che cosa me ne faccio di tutte le ricchezze del mondo se non posso scendere da questa sella? Tu hai desiderato ch'io finissi qua sopra, adesso devi anche aiutarmi a scendere!-. Così, che lo volesse o no, egli dovette chiedere, come terzo desiderio, che sua moglie fosse libera e potesse scendere dalla sella; e il desiderio fu subito esaudito. Così da quella storia egli non ebbe che rabbia, fatica e un cavallo perduto. I poveri invece vissero felici, tranquilli e pii fino alla loro morte serena.
FINE





L'allodola che canta e saltella
tempo: 16'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 088



C'era una volta un uomo che si preparava a partire per un lungo viaggio e, nel prender commiato dalle sue tre figlie, chiese loro che cosa avrebbero voluto ricevere in dono. La prima voleva delle perle, la seconda diamanti, mentre la terza disse: -Caro babbo, desidero un'allodola che canta e saltella-. Il padre disse: -Sì, se riesco a prenderla l'avrai-. Le baciò tutt'e tre e partì. Quando fu tempo di ritornare a casa, aveva comprato perle e diamanti per le due maggiori, per la minore invece non era riuscito a trovare l'allodola che canta e saltella, benché‚ l'avesse cercata ovunque; e ciò gli dispiaceva perché‚ la figlia più piccola era la sua prediletta. La strada lo condusse attraverso un bosco in mezzo al quale si trovava uno splendido castello e, vicino al castello, un albero, sulla cima del quale egli vide un'allodola che cantava e saltellava. -Ehi, capiti proprio a proposito!- disse tutto contento, e gridò al servo di arrampicarsi sull'albero e di catturare l'uccellino. Ma come questi si avvicinò all'albero, saltò fuori un leone che scosse la criniera e ruggì da far tremare le foglie degli alberi. -Se qualcuno vuole rubarmi l'allodola che canta e saltella, io lo divoro!- Allora l'uomo disse: -Non sapevo che l'uccello ti appartenesse. Posso riscattarmi in qualche maniera?-. -No- rispose il leone -non vi è nulla che possa salvarti se non prometti di accordarmi la prima cosa che ti verrà incontro facendo ritorno a casa; se prometti ti risparmio la vita e ti regalo pure l'uccello per tua figlia.- Ma l'uomo rifiutò e disse: -Potrebbe trattarsi della mia figlia minore: mi vuole bene più di ogni altro e mi corre sempre incontro quando ritorno a casa-. Il servo ebbe paura e disse: -Ma potrebbe anche trattarsi di un gatto o di un cane!- L'uomo si lasciò persuadere e, con il cuore grosso, prese l'allodola che canta e saltella, facendo al leone la promessa di accordargli ciò che, a casa, gli fosse venuto incontro per primo. Quando arrivò a casa, la prima ad andargli incontro fu proprio la sua amata figlia minore; venne di corsa, lo baciò e lo abbracciò e quando vide che aveva portato un'allodola che canta e saltella fu ancora più felice. Ma il padre non poteva rallegrarsi; si mise a piangere e disse: -Ah, mia diletta bambina, ho pagato caro quest'uccellino! In cambio ho dovuto prometterti a un feroce leone, e quando ti avrà in suo potere ti sbranerà e ti divorerà-. Le raccontò come erano andate le cose e la supplicò di non andarci, qualunque cosa accadesse. Ma ella lo consolò e disse: -Carissimo babbo, dovete mantenere ciò che avete promesso: andrò dal leone, lo placherò e farò ritorno da voi sana e salva-. Il mattino seguente si fece indicare il cammino, prese congedo e si addentrò fiduciosa nel bosco. Ma il leone era un principe stregato: di giorno era un leone, e con lui diventavano leoni tutti i suoi cortigiani, ma di notte riprendevano il loro aspetto umano. Al suo arrivo, ella fu accolta gentilmente e fu celebrato il suo matrimonio con la bestia. Quando venne la notte, il leone divenne un bell'uomo ed essi vissero insieme felici per un lungo periodo, vegliando la notte e dormendo durante il giorno. Un giorno egli andò a dirle: -Domani c'è una festa in casa di tuo padre, perché‚ si sposa la tua sorella maggiore. Se desideri andarci i miei leoni ti accompagneranno-. Ella rispose di sì poiché‚ desiderava rivedere il padre; e andò scortata dai leoni. Al suo arrivo la gioia fu grande, poiché‚ tutti avevano creduto che fosse morta da un pezzo, sbranata dal leone. Ella invece raccontò che stava molto bene, e rimase insieme a loro per tutto il tempo delle nozze, poi fece ritorno nel bosco Quando si sposò anche la seconda figlia, e l'invitarono nuovamente a nozze, ella disse al leone: -Questa volta non voglio andare sola, devi venire anche tu!-. Ma il leone non voleva e disse che era troppo pericoloso per lui, perché‚ se fosse stato sfiorato dalla luce di una candela si sarebbe trasformato in una colomba e avrebbe dovuto volare con le colombe per sette anni. Ma ella non gli diede pace dicendo che lo avrebbe protetto e preservato da ogni luce. Così partirono insieme, portando anche il loro piccino. Ella fece costruire una stanza dai muri così spessi e massicci che nessuna luce poteva penetrarvi; là doveva stare il principe quando avrebbero acceso le fiaccole nuziali. Ma la porta era fatta di legno giovane; si spaccò producendo una piccola fessura che tuttavia nessuno notò. Le nozze furono celebrate con gran pompa, ma quando il corteo fece ritorno dalla chiesa e passò davanti alla stanza con tutte le fiaccole e le candele, un tenue raggio di luce cadde sul principe e, non appena l'ebbe sfiorato, egli si trasformò. Quand'ella venne a cercarlo non trovò più il principe, ma una bianca colomba che le disse: -Per sette anni devo volare per il mondo: ma ogni sette passi lascerò cadere una rossa goccia di sangue e una piuma bianca: ti indicheranno il cammino, e se mi segui puoi liberarmi-. Poi la colomba volò fuori dalla porta ed ella la seguì; ogni sette passi cadevano una rossa gocciolina di sangue e una piuma bianca, a indicarle il cammino. Ed ella vagò in giro per il vasto mondo, senza guardarsi attorno e senza riposarsi mai, e i sette anni erano quasi trascorsi: allora ella se ne rallegrò, pensando che la liberazione fosse vicina; e invece era ancora così lontana! Una volta, mentre camminava, le piume e le goccioline di sangue cessarono di cadere, e quand'ella alzò gli occhi, la colomba era sparita. E poiché‚ pensò che nessun essere umano avrebbe potuto aiutarla, salì fino al sole e gli disse: -Tu che splendi nei crepacci e sulle cime, non hai visto volare una colomba bianca?-. -No- rispose il sole -non l'ho vista. Ma voglio regalarti una scatolina: aprila quando ti troverai in difficoltà.- Ella ringraziò il sole e proseguì il suo cammino finché‚ si fece sera e apparve la luna; allora ella chiese: -Tu splendi tutta la notte per campi e per boschi; non hai visto volare una colomba bianca?-. -No- rispose la luna -non l'ho vista. Ma voglio regalarti un uovo: rompilo quando ti troverai in difficoltà.- Ella ringraziò la luna e proseguì il suo cammino finché‚ soffiò il vento di tramontana; allora ella gli disse: -Tu soffi fra gli alberi e sotto le foglie, non hai visto volare una colomba bianca?-. -No- rispose il vento di tramontana -non l'ho vista, ma chiederò agli altri tre venti, forse loro l'hanno vista.- Vennero il vento di levante e il vento di ponente, ma dissero che non avevano visto nulla; invece il vento di mezzogiorno così parlò: -Ho visto io la colomba bianca: è volata fino al mar Rosso dov'è ridiventata un leone, essendo trascorsi i sette anni. Il leone sta combattendo con un drago, ma il drago è una principessa stregata-. Allora il vento di tramontana le disse: -Voglio darti un consiglio: va' fino al mar Rosso, sulla riva destra ci sono delle grosse canne, contale, taglia l'undicesima e con quella colpisci il drago; allora il leone potrà vincerlo e tutti e due riacquisteranno la loro figura umana. Poi guardati attorno e vedrai un grifone in riva al mar Rosso; saltagli sul dorso con il tuo sposo: l'uccello vi porterà a casa sorvolando il mare. Eccoti anche una noce: quando sei in mezzo al mare, lasciala cadere; subito germoglierà e dall'acqua crescerà un grande albero di noci sul quale il grifone si riposerà; se non potesse riposarsi, non sarebbe abbastanza forte per portarvi fino all'altra riva. E se ti dimentichi di lasciar cadere la noce, vi lascerà cadere in mare-. Ella andò e trovò tutto come aveva detto il vento di tramontana. Tagliò l'undicesima canna e con quella colpì il drago, così il leone lo vinse ed entrambi riacquistarono il loro aspetto umano. Ma non appena la principessa, che prima era un drago, fu liberata dall'incanto, prese il braccio del giovane, salì con lui sul grifone e se lo portò via. E la povera pellegrina restò là, di nuovo sola. -Andrò fin dove soffia il vento- disse -e camminerò finché‚ canta il gallo, e lo troverò.- Se ne andò e, cammina cammina, giunse finalmente al castello dove i due vivevano insieme, e udì che stavano per festeggiare le loro nozze. Ma ella disse: -Dio mio, aiutami tu!-. Prese la scatoletta che le aveva dato il sole, e dentro c'era un abito che risplendeva proprio come il sole. Lo tirò fuori, lo indossò e salì al castello e tutta la gente la guardò meravigliata, compresa la fidanzata. A costei l'abito piacque tanto che pensò di farne il proprio abito da sposa, e le domandò se per caso fosse in vendita. -Non con beni o con monete- ella rispose -ma con carne e sangue l'avrete.- La fidanzata le chiese che cosa intendesse dire, ed ella rispose: -Lasciatemi dormire per una notte nella stanza in cui dorme lo sposo-. La fidanzata non voleva, e tuttavia avrebbe voluto avere il vestito e infine acconsentì, però il cameriere dovette dare al principe un sonnifero. Quando fu notte, e il principe si fu addormentato, la condussero nella stanza. Ella si sedette accanto al suo letto e disse: -Ti ho seguito per sette anni, sono andata dal sole, dalla luna e dai quattro venti a chiedere di te; ti ho aiutato contro il drago: ora vuoi proprio dimenticarmi del tutto?-. Ma il principe dormiva così profondamente che gli parve soltanto di sentire là fuori il vento sussurrare fra gli abeti. Allo spuntar del giorno, ella fu ricondotta fuori e dovette consegnare l'abito d'oro. E poiché‚ anche questo non era servito a nulla, si fece triste, andò su di un prato, si mise a sedere e pianse. E mentre se ne stava là seduta, le venne in mente l'uovo che le aveva dato la luna: lo ruppe e ne uscì una chioccia con dodici pulcini tutti d'oro che correvano qua e là pigolando e poi tornavano a rifugiarsi sotto le ali della madre, sicché‚ al mondo non vi era niente di più bello da vedere. Allora la fanciulla si alzò li spinse innanzi sul prato, finché‚ la fidanzata non li vide dalla finestra; e i pulcini le piacquero tanto che subito scese e le domandò se per caso fossero in vendita. Ed ella rispose: -Non con beni o con monete, ma con carne e sangue l'avrete! Lasciatemi dormire ancora una notte nella stanza dove dorme lo sposo-. La sposa acconsentì e voleva ingannarla come la sera precedente. Ma quando il principe andò a letto, chiese al suo cameriere che cosa era stato quel mormorare e quel sussurrare nella notte. Allora il cameriere gli raccontò tutto: aveva dovuto dargli un sonnifero, poiché‚ una povera fanciulla aveva dormito di nascosto nella stanza; e quella notte doveva dargliene un altro. Il principe allora disse: -Versa il sonnifero accanto al letto-. Durante la notte ella fu nuovamente introdotta nella stanza e quando incominciò a raccontare le sue tristi avventure egli riconobbe subito la sua cara sposa dalla voce; balzò in piedi e disse: -Finalmente sono libero; mi pareva di vivere in un sogno: la principessa straniera mi ha stregato perché‚ ti dimenticassi; ma Dio mi ha soccorso in tempo!-. Durante la notte uscirono insieme di nascosto dal castello, poiché‚ temevano il padre della principessa che era un mago; salirono sul grifone che li portò al di là del mar Rosso; e quando furono in mezzo al mare ella lasciò cadere la noce. Subito crebbe un grande albero di noci sul quale l'uccello pot‚ riposarsi, poi li condusse a casa dove trovarono il loro figlio che era diventato grande e bello; e da allora in poi vissero felici fino alla morte.
FINE





La piccola guardiana di oche
tempo: 14'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 089



C’era una volta una vecchia regina, vedova da molti anni, che aveva una bella figlia. Quando fu cresciuta, la fanciulla fu promessa a un principe che abitava lontano. Giunto il tempo delle nozze, quando dovette partire per il regno straniero, la vecchia madre preparò per lei arredi preziosi e gioielli, oro, argento, coppe e monili: in breve, tutto ciò che si addice a una dote regale, poiché‚ amava teneramente la figlia. Le diede inoltre una fantesca che doveva accompagnarla e consegnarla nelle mani dello sposo; ed entrambe ebbero un cavallo per il viaggio; quello della principessa si chiamava Falada e sapeva parlare. Quando venne l’ora di accomiatarsi, la vecchia madre andò nella propria camera, prese un coltellino e si ferì le dita, per farle sanguinare; poi vi mise sotto una pezzuola bianca, e vi fece cadere tre gocce di sangue, la diede alla figlia e disse: “Cara bambina, serbale con cura, ne avrai bisogno per via.”

Poi si dissero tristemente addio; la principessa si mise la pezzuola in seno, salì a cavallo e si mise in cammino per raggiungere il suo sposo. Dopo aver cavalcato per un’ora, la principessa ebbe una gran sete e disse alla fantesca: “Scendi, e con il bicchiere che hai portato per me prendi acqua dal ruscello: vorrei bere un po’.” - “Se avete sete,” rispose la fantesca, “scendete voi stessa da cavallo, mettetevi sull’orlo del ruscello e bevete; non mi piace farvi da serva!” La principessa aveva tanta sete che scese, si chinò sull’acqua del ruscello e bevve senza poter usare il suo bicchiere d’oro. Allora disse: “Ah, Dio mio!” E le tre gocce di sangue risposero: “Lo sapesse tua madre, il suo cuore si spezzerebbe dal gran dolore!” Ma la principessa era di buon cuore, non disse nulla e risalì a cavallo. Cavalcarono per alcune miglia, ma la giornata era calda, il sole scottava, e ben presto ella tornò a patire la sete. Quando giunsero nei pressi di un altro fiume, ella tornò a dire alla fantesca: “Scendi, e dammi da bere nel mio bicchiere d’oro,” poiché‚ già da un pezzo aveva dimenticato tutte le sue cattive parole. Ma la fantesca rispose in modo ancora più altezzoso: “Avete sete? Scendete giù, a voi da serva non faccio più!” La principessa aveva tanta sete che scese, si chinò sull’acqua corrente e disse piangendo: “Ah, mio Dio!” E le gocce di sangue risposero di nuovo: “Lo sapesse tua madre, il suo cuore si spezzerebbe dal gran dolore!” E, mentre beveva, china sull’acqua, la pezzuola con le tre gocce di sangue le cadde dal seno e fu portata via dalla corrente, senza che ella, nella sua grande angoscia, se ne accorgesse. Ma la fantesca aveva visto tutto e se ne rallegrò perché‚ ormai la sposa era in suo potere: aveva perduto le tre gocce di sangue e ora era debole e impotente. E quando la principessa volle risalire sul suo cavallo, che si chiamava Falada, la fantesca disse: “Falada ora tocca a me, tu cavalcherai il mio ronzino!” La principessa fu costretta a ubbidirle e dovette inoltre togliersi le vesti regali per indossare i suoi brutti panni, e infine, sotto la volta del cielo, dovette giurare che alla corte del re non avrebbe fatto parola di tutto ciò con nessuno, e se si fosse rifiutata di prestare giuramento, sarebbe stata uccisa all’istante. Ma Falada aveva osservato ogni cosa con grande attenzione.

La fantesca montò in sella a Falada mentre la vera sposa salì sul ronzino, e proseguirono il viaggio finché‚ giunsero al castello reale. Furono accolte con grande gioia; il principe corse loro incontro e aiutò la fantesca a scendere da cavallo, pensando che si trattasse della sua sposa. Così costei fu condotta su per le scale, mentre la vera principessa dovette restare da basso. Ma alla finestra c’era il vecchio re, e la vide ferma in cortile, così bella, fine e delicata; allora andò nella sala reale e domandò alla promessa sposa chi fosse la fanciulla che l’accompagnava e che si trovava sotto in cortile.

“L’ho presa con me lungo la strada perché‚ mi tenesse compagnia; datele qualcosa da fare, che non resti inoperosa.” Ma il vecchio re non sapeva proprio che lavoro darle, perciò le disse: “Ho un ragazzetto che custodisce le oche; potrebbe aiutarlo.” Il ragazzo si chiamava Corradino e la vera sposa dovette aiutarlo a custodire le oche.

Ma ben presto la falsa sposa disse al giovane re: “Mio caro sposo, vi prego, fatemi un piacere!” - “Volentieri,” rispose quello. “Fate chiamare lo scorticatore a tagliare la testa al cavallo sul quale sono giunta fin qui: per strada mi ha fatta arrabbiare.” In realtà ella temeva che il cavallo rivelasse come aveva trattato la principessa. Le cose erano arrivate a tal punto che non vi fu più scampo: il fedele Falada dovette morire. Lo venne a sapere anche la vera principessa e promise di nascosto allo scorticatore di dargli una moneta d’oro se le avesse reso un piccolo servizio: in città c’era una grande porta buia attraverso la quale ella doveva passare mattina e sera con le sue oche; lo pregò di inchiodare sotto quella porta la testa di Falada, perché‚ potesse vederlo ancora qualche volta. Lo scorticatore promise di farlo, tagliò la testa e l’inchiodò sotto la porta buia.

La mattina di buon’ora, quando la principessa passò insieme a Corradino sotto la porta, disse:
“Oh, Falada, appeso lassù!”
E la testa rispose:
“Oh Reginella che cammini laggiù!
Lo sapesse tua madre, il suo cuore
si spezzerebbe dal gran dolore!”
Ella proseguì silenziosamente il suo cammino fuori dalla città, conducendo le oche al pascolo. E, giunta sul prato, si mise a sedere e si sciolse i capelli, che erano d’argento puro; e Corradino li guardava, e gli piacevano, così lucenti, e avrebbe voluto strappargliene qualcuno. Allora ella disse:
“Oh vento, assai forte tu devi soffiare,
il suo cappello lontan fai volare,
cosicché‚ a lungo lo debba cercare
in modo ch’io mi possa pettinare,
sistemare e agghindare.”
Allora si levò un vento così forte che portò via il cappello a Corradino, ed egli dovette rincorrerlo per i campi. Quando ritornò, ella aveva finito di pettinarsi, ed egli non pot‚ prenderle neanche un capello. Allora Corradino si arrabbiò e non le parlò più; così custodirono le oche fino a sera, poi tornarono a casa.

Il mattino dopo, mentre passavano sotto la porta buia, la fanciulla disse:
“Oh, Falada, appeso lassù!”
E Falada rispose:
“Oh Reginella che cammini laggiù!
Lo sapesse tua madre, il suo cuore
si spezzerebbe dal gran dolore!”
E quando fu in mezzo ai campi, tornò a sedere sul prato e incominciò a pettinarsi i capelli. Corradino corse per afferrarli, ma ella disse in fretta:
“Oh vento, assai forte tu devi soffiare,
il suo cappello lontan fai volare,
cosicché‚ a lungo lo debba cercare
in modo ch’io mi possa pettinare,
sistemare e agghindare.”
Allora il vento soffiò e gli portò lontano il cappello, sicché‚ egli dovette rincorrerlo. E, quando ritornò, ella si era pettinata da un pezzo ed egli non pot‚ prenderle neanche un capello; così custodirono le oche fino a sera.

Ma la sera, quando furono ritornati a casa, Corradino si presentò al vecchio re e gli disse: “Non voglio più custodire le oche con quella ragazza.” - “E perché‚ mai?” domandò il vecchio re. “Eh, mi fa arrabbiare tutto il giorno!” Allora il vecchio re gli ordinò di raccontare com’erano andate le cose. E Corradino disse: “Al mattino, quando passiamo con il branco sotto la porta buia, c’è appesa al muro una testa di cavallo, ed ella gli parla:
‘Oh, Falada, appeso lassù!’
E la testa risponde:
‘Oh Reginella che cammini laggiù!
Lo sapesse tua madre, il suo cuore
si spezzerebbe dal gran dolore!’”
E Corradino seguitò a raccontare ciò che avveniva quando si trovavano nel campo, e come egli dovesse rincorrere il suo cappello al vento.

Ma il vecchio re gli ordinò di condurre fuori le oche anche il giorno dopo, e quando fu mattina si mise egli stesso dietro alla porta buia e udì com’ella parlava alla testa di Falada; poi la seguì fino al campo, e si nascose in un cespuglio sul prato. Così pot‚ vedere con i propri occhi i due guardiani menare il branco di oche al pascolo; e, dopo un po’, vide la fanciulla sedersi e sciogliersi i capelli che risplendevano brillanti. E subito ella disse:
“Oh vento, assai forte tu devi soffiare,
il suo cappello lontan fai volare,
cosicché‚ a lungo lo debba cercare
in modo ch’io mi possa pettinare,
sistemare e agghindare.”
Ed ecco, una raffica di vento portò via il cappello a Corradino, che dovette correr lontano; e la fanciulla si pettinò tranquillamente e intrecciò i suoi ricci, mentre il vecchio re osservava ogni cosa con attenzione. Poi tornò indietro senza esser visto e, la sera, quando la guardiana delle oche rincasò, la chiamò da parte e le chiese perché‚ si comportasse in questo modo. “Non posso dirlo n‚ a voi n‚ a nessun altro: l’ho giurato sotto la volta del cielo, altrimenti avrei perso la vita.” Egli insistette senza darle pace. “Se a me non vuoi dir nulla,” disse infine il vecchio re, “confidati almeno con il forno.” - “Sì, lo farò,” rispose ella. Così si rannicchiò nel forno e liberò il proprio cuore dicendo com’erano andate le cose e come fosse stata ingannata dalla perfida fantesca. Ma il forno aveva un’apertura in alto e il vecchio re udì tutto quanto, parola per parola. Subito le fece indossare vesti regali e pareva un miracolo, tanto era bella. Il vecchio re chiamò suo figlio e gli rivelò che gli era toccata la sposa falsa: si trattava soltanto di una fantesca, mentre quella vera era la guardiana delle oche. Il giovane principe ne fu felice vedendo la sua bellezza e la sua virtù. Fu preparato un gran banchetto al quale furono invitati amici e conoscenti. A capotavola sedeva lo sposo con la principessa da un lato e la fantesca dall’altro; ma costei era abbagliata, e non riconobbe la principessa in tutto quello splendore. Quand’ebbero mangiato e bevuto ed erano tutti di buon’umore, il vecchio re pose un indovinello alla fantesca: cos’avrebbe meritato una che avesse ingannato il suo signore così e così? Le raccontò tutto per filo e per segno e chiese: “Qual è la condanna che si merita?” Allora la falsa sposa rispose: “Almeno di essere denudata e gettata in una botte foderata di chiodi aguzzi; vi si devono poi attaccare due cavalli bianchi che la trascinino su e giù per le strade fino a farla morire.” - “Tu sei quella!” esclamò il vecchio re. “Hai pronunciato tu stessa la tua condanna e sarà fatto ciò che hai detto.” Quando la condanna fu eseguita, il giovane re si unì in matrimonio alla vera sposa, ed entrambi regnarono pacifici e felici.
FINE





Il giovane gigante
tempo: 21'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 090



Un contadino aveva un figlio che era grande come un pollice e non cresceva mai; per anni non era cresciuto neanche di un filo. Un giorno il contadino volle recarsi nel campo ad arare e il piccolo gli disse: -Babbo, voglio venire anch'io-. -No- disse il padre -resta qui, là fuori non servi a nulla e potresti anche perderti.- Allora Pollicino incominciò a piangere e, per essere lasciato in pace, il padre dovette portarlo con s‚. Così se lo mise in tasca e quando fu nel campo lo tirò fuori e lo mise in un solco appena arato. Mentre il piccolo se ne stava là seduto, ecco arrivare un gran gigante attraverso le montagne. -Vedi là quel grande mostro?- disse il padre, che voleva spaventare il piccino perché‚ stesse buono. -Viene qui e ti porta via.- Ma il gigante aveva le gambe lunghe e arrivò al solco in due passi; ne tirò fuori il piccolo Pollicino e se ne andò con lui. Il padre se ne stava là senza poter proferir parola per lo spavento e credeva di avere ormai perduto il suo bambino e che non l'avrebbe più rivisto per tutta la vita. Ma il gigante lo prese con s‚ e lo allattò, sicché‚ Pollicino crebbe e divenne grande e grosso come i giganti. Quando furono trascorsi due anni, il vecchio andò con lui nel bosco e volle metterlo alla prova dicendo: -Strappati una bacchetta-. Il ragazzo era già così forte che sradicò da terra un alberello. Ma il gigante pensò che dovesse fare ancora meglio; lo prese nuovamente con s‚, lo allattò per altri due anni e quando lo condusse nel bosco per metterlo alla prova, il ragazzo fu in grado di sradicare un albero molto più grande. Ma al gigante non bastò ancora; lo allattò per altri due anni e, quando lo accompagnò nel bosco e gli disse: -Adesso strappati proprio una bella bacchetta- il giovane sradicò la quercia più grossa che si schiantò; ma per lui non fu che uno scherzo. Vedendo questo, il vecchio gigante disse: -Basta così, ormai ti sei perfezionato- e lo ricondusse al campo dove lo aveva preso. Suo padre stava arando proprio in quel momento; il giovane gigante gli andò incontro e disse: -Guardate, babbo, come sono diventato, sono vostro figlio!-. Il contadino si spaventò e disse: -No, tu non sei mio figlio, vattene via da me-. -Ma certo che sono vostro figlio! Lasciatemi arare: so farlo bene quanto voi.- -No, no tu non sei mio figlio e non sai neanche arare, vattene via!- Ma siccome aveva paura di quell'omone, lasciò stare l'aratro, si allontanò e si mise da parte sul margine del campo. Allora il giovane prese l'aratro e ci appoggiò soltanto una mano, ma con tanta forza che l'arnese sprofondò nel terreno. A quella vista, il contadino non pot‚ resistere e gli gridò: -Se vuoi arare, non devi schiacciare così forte, altrimenti farai un brutto lavoro!-. Ma il giovane staccò i cavalli, tirò egli stesso l'aratro e disse: -Va' pure a casa, babbo, e di' alla mamma di preparare un gran piatto colmo per il pranzo; io, intanto, arerò il campo-. Il contadino tornò a casa e ordinò il pranzo a sua moglie che preparò un bel piatto colmo. Il giovane, nel frattempo, arò da solo il campo, che era due giornate di terreno, poi si attaccò agli erpici e, con due alla volta, finì anche di erpicare. Quand'ebbe finito, andò nel bosco e sradicò due querce, se le mise sulle spalle e ci mise sopra gli erpici, uno davanti e l'altro dietro, e così anche i cavalli e portò tutto quanto a casa come se fosse stato un fascio di paglia. Quando entrò nel cortile, sua madre non lo riconobbe e domandò: -Chi è quell'omone spaventoso?-. Il contadino rispose: -E' nostro figlio-. Ma ella disse: -No, non può essere nostro figlio; uno così grosso non lo abbiamo mai avuto: il nostro era piccolino! Vattene, non ti vogliamo!-. Ma il giovane tacque, menò i suoi cavalli nella stalla e diede loro fieno e avena, tutto per bene. Quand'ebbe finito, andò nella stanza, si sedette sulla panca e disse: -Mamma, avrei voglia di mangiare, è pronto?-. Ella rispose di sì poiché‚ non osava contraddirlo, e portò due piatti grandi grandi e ben colmi, che a lei e a suo marito sarebbero bastati per otto giorni. Ma il giovane se li divorò da solo e chiese se non avesse altro da dargli. -No- diss'ella -è tutto ciò che abbiamo.- -Per me è stato solo un assaggio, ma mi occorre molto di più per sfamarmi.- Allora ella uscì e mise sul fuoco il calderone per il porco, ben pieno e quando fu pronto lo portò dentro. -Finalmente arriva ancora qualcosina- disse, e mangiò tutto, ma anche quello non bastò a cavargli la fame. Allora egli disse: -Babbo, vedo bene che a casa vostra non mi potrò sfamare; se mi procurerete un bastone di ferro che sia forte e che io non possa spezzare sulle mie ginocchia, me ne andrò via-. Il contadino se ne rallegrò; attaccò al carro i suoi due cavalli e si recò dal fabbro a prendere un bastone così grande e grosso che i due cavalli poterono trasportarlo a stento. Ma il giovane se lo mise sulle ginocchia e trac!, lo spezzò in due come se fosse stato un arboscello. Il padre attaccò quattro cavalli e andò a prendere un bastone così grande e grosso che ci volevano i quattro cavalli per trasportarlo. Ma il figlio spezzò anche quello in due pezzi sul ginocchio, lo gettò via e disse: -Babbo, questo non mi serve, devi attaccare degli altri cavalli e procurarmi un bastone più forte-. Allora il padre attaccò otto cavalli e andò a prenderne uno così grande e grosso che ci volevano gli otto cavalli per trasportarlo. Ma quando il figlio lo prese in mano, ne ruppe subito un pezzo da un lato e disse: -Babbo, vedo che non potete procurarmi il bastone di cui ho bisogno; me ne andrò così come sono-. Così se ne andò e si spacciò per un garzone fabbro. Giunse in un villaggio dove abitava un fabbro, un uomo avaro che non dava niente a nessuno e voleva avere tutto per s‚. Egli entrò nella fucina e gli chiese se non avesse bisogno di un garzone. -Sì- rispose il fabbro; lo guardò e pensò: -Questo è un uomo capace, lavorerà come si deve e si guadagnerà il pane". Gli chiese: -Quanto vuoi di salario?-. -Non voglio proprio nulla- rispose egli -soltanto ogni quindici giorni, quando vengono pagati gli altri garzoni, ti darò due botte e tu dovrai sopportarle. L'avaro ne fu ben contento, pensando di risparmiare molto denaro. Il mattino dopo, il garzone forestiero dovette battere per primo, ma quando il mastro portò la verga arroventata, al primo colpo il ferro andò in pezzi e l'incudine sprofondò nel terreno, tanto che non si pot‚ più tirarla fuori. Allora, l'avaro si arrabbiò e disse: -Ehi, non me ne faccio nulla di uno come te: batti con troppa forza; cosa vuoi per quell'unico colpo?-. Egli rispose: -Ti darò soltanto un colpettino e nient'altro-. Alzò il piede e gli diede una pedata che lo fece volare più alto di quattro carri di fieno. Poi prese dalla fucina la sbarra di ferro più grossa che trovò, per servirsene come bastone, e proseguì il suo cammino. Dopo un po' giunse a una fattoria e chiese al fattore se per caso avesse bisogno di un caposquadra. -Sì- rispose il fattore -ne ho bisogno: tu sembri un tipo in gamba, uno che sa cavarsela; quanto vuoi di salario all'anno?- Egli tornò a dire che non voleva salario, ma che ogni anno gli avrebbe dato tre botte e lui doveva sopportarle. Il fattore ne fu soddisfatto perché‚ anche lui era un uomo avaro. Il mattino dopo i servi dovevano andare nel bosco a far legna; erano già tutti alzati, soltanto il giovane era ancora a letto. Allora uno gli gridò: -Alzati, è ora; noi andiamo nel bosco a far legna, tu devi venire con noi-. -Ah- rispose egli, sgarbato e arrogante -andate pure, tanto ci arrivo prima di tutti voi insieme.- Allora quelli andarono dal fattore e gli raccontarono che il caposquadra era ancora a letto e non voleva andare a fare legna con loro. Il fattore disse che dovevano andare di nuovo a svegliarlo e ordinargli di attaccare i cavalli. Ma il caposquadra tornò a ripetere: -Andate pure, tanto ci arrivo prima di tutti voi insieme-. Rimase a letto ancora un paio d'ore, poi finalmente si alzò, ma prima andò nel granaio a prendersi una gran quantità di piselli, li fece cuocere e se li mangiò tranquillamente; poi attaccò i cavalli e andò nel bosco a far legna. Nei pressi del bosco c'era una gola che egli doveva attraversare; prima vi fece passare il carro, poi fermò i cavalli, andò dietro il carro, prese alberi e frasche ed eresse una gran barricata, in modo che nessun cavallo potesse passare. Quando arrivò al bosco, gli altri stavano appunto uscendone per tornarsene a casa con i loro carri carichi. Allora egli disse loro: -Andate pure, io arriverò prima di voi-. Non si addentrò molto nel bosco, sradicò subito due degli alberi più grossi, li caricò sul carro e prese la via del ritorno. Quando arrivò davanti alla barricata, gli altri erano ancora là e non potevano passare. -Vedete- disse -se foste rimasti con me, sareste comunque arrivati a casa presto e avreste potuto dormire un'ora in più.- Volle proseguire, ma i suoi quattro cavalli non riuscivano a farsi largo; allora egli li staccò, li mise in cima al carro e si mise a tirar da solo tutto quel carico e riuscì a passare così facilmente come se tirasse un carico di piume. Quando fu dall'altra parte, disse ai compagni: -Vedete, ho fatto più in fretta di voi-. E proseguì mentre gli altri dovettero fermarsi. Ma in cortile prese in mano un albero, lo mostrò al fattore e disse: -Non è un bel pezzo di legno?-. E il fattore disse a sua moglie: -Questo servo è in gamba; anche se dorme a lungo torna prima degli altri-. Il giovane servì il fattore per un anno; quando fu trascorso e gli altri servi si presero il loro salario, egli disse che era tempo anche per lui di ricevere ciò che gli spettava. Ma il fattore aveva paura delle botte che doveva buscarsi e lo pregò di risparmiarlo; piuttosto sarebbe diventato lui caposquadra e gli avrebbe lasciato fare il fattore. -No- disse il giovane -non voglio diventare fattore; sono caposquadra e voglio rimanerlo, ma voglio anche somministrarti ciò che è stato pattuito.- Il fattore voleva dargli tutto ciò che si poteva desiderare, ma non servì a nulla: il caposquadra rispondeva ogni volta di no. Allora il fattore non sapeva più a che santo votarsi e lo pregò di lasciargli quindici giorni di tempo, per poter riflettere. Il caposquadra acconsentì. Il fattore riunì tutti i suoi scrivani perché‚ ci pensassero e gli dessero un consiglio. Quelli meditarono a lungo e conclusero che si doveva accoppare il caposquadra. Il fattore avrebbe fatto trasportare delle grosse macine accanto al pozzo in cortile, poi doveva ordinare al caposquadra di scendere nel pozzo per pulirlo; una volta in fondo al pozzo gli avrebbero buttato le macine sulla testa. Al fattore piacque il consiglio, così tutto fu preparato e le macine più grosse furono poste vicino al pozzo. Quando il caposquadra vi si calò, rotolarono giù le pietre che picchiarono sul fondo tanto da far fuoriuscire l'acqua. Credevano in questo modo di avergli sfondato la testa, ma egli gridò: -Cacciate via i polli dal pozzo: lassù razzolano nella sabbia e mi gettano i grani negli occhi, che non ci vedo più-. Allora il fattore gridò: -Sciò, sciò!- e finse di far scappare i polli. Quando il caposquadra ebbe finito il lavoro, risalì e disse: -Guardate un po' che bel collare ho addosso!-. Ed erano le macine che portava intorno al collo. A quella vista il fattore tornò ad avere paura, poiché‚ il caposquadra pretendeva il suo compenso. Allora chiese altri quindici giorni di tempo e radunò nuovamente gli scrivani che gli consigliarono di mandare il caposquadra nel mulino incantato a macinarvi il grano di notte: nessuno ne era uscito vivo al mattino. La proposta piacque al fattore; così quella stessa sera mandò a chiamare il caposquadra e gli ordinò di portare al mulino otto staia di grano e di macinarle quella notte stessa: ne avevano bisogno. Il caposquadra andò nel granaio e si mise due staia nella tasca destra, due nella sinistra e le altre quattro le infilò in una bisaccia che portò per metà sulla schiena e per metà sul petto, e, così carico, si avviò verso il mulino incantato. Ma il mugnaio gli spiegò che di giorno poteva macinare benissimo, ma di notte no, perché‚ il mulino era incantato, e chi vi era entrato era stato trovato morto al mattino. Egli disse: -Io me la caverò, andatevene e mettetevi a letto-. Poi entrò nel mulino, ammucchiò il grano e verso le undici andò nella stanza del mugnaio a sedersi sulla panca. Dopo un po' che se ne stava là seduto, la porta si aprì all'improvviso, ed entrò una tavola grande grande, e sulla tavola, poiché‚ non vi era nessuno che serviva, si disposero da s‚ vino, arrosto e tanti buoni cibi. Poi si avvicinarono le sedie, ma non venne nessuno, finché‚ d'un tratto vide delle dita che maneggiavano coltelli e forchette e mettevano i cibi nei piatti; ma non riuscì a vedere nient'altro. Dato che aveva fame e vedeva i cibi, si mise a tavola anche lui e mangiò di gusto. Quando fu sazio e anche gli altri ebbero vuotato i loro piatti, tutte le candele furono spente all'improvviso, egli lo vide con chiarezza; quando fu buio pesto gli arrivò in faccia qualcosa come uno schiaffo. Allora disse: -Se capita ancora una volta, lo restituisco-. E quando ricevette il secondo schiaffo, colpì anche lui. Continuò così tutta la notte: non si lasciò spaventare e picchiò a destra e a manca con decisione. Ma allo spuntar del sole, tutto cessò. Quando il mugnaio si alzò, andò a cercarlo e si meravigliò di trovarlo ancora vivo. Egli disse: -Ho ricevuto delle sberle, ma ne ho anche date e ho mangiato a sazietà-. Il mugnaio si rallegrò e disse che ora il mulino era libero dall'incantesimo, e in premio gli avrebbe dato molto denaro. Ma egli disse: -Non voglio denaro, ne ho abbastanza-. Poi si caricò la sua farina sulle spalle, tornò a casa e disse al fattore che aveva eseguito l'ordine e che ora voleva il salario pattuito. All'udire queste parole, il fattore si spaventò ancora di più: era fuori di s‚ e camminava su e giù per la stanza con il sudore che gli gocciolava dalla fronte. Allora aprì la finestra per prendere una boccata d'aria fresca, ma, prima che se ne accorgesse, il caposquadra gli diede un calcio che lo scaraventò fuori dalla finestra, facendolo volare per aria, lontano lontano, finché‚ nessuno lo vide più. Allora il caposquadra disse alla moglie del fattore che la seconda botta toccava a lei. Ma ella disse: -Ah, no! Non resisterei!- e anche lei aprì la finestra perché‚ le gocce di sudore le colavano dalla fronte. Allora egli le diede un calcio, da far volare in aria anche lei e ancora più in alto di suo marito. L'uomo le gridò: -Vieni da me!-. Ma ella rispose: -Vieni tu da me, io non posso!-. E così rimasero sospesi in aria senza che l'uno potesse raggiungere l'altro; e se siano ancora là, non lo so. Il giovane gigante, invece, prese il suo bastone di ferro e proseguì il suo cammino.
FINE





Lo gnomo
tempo: 12'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 091



C'era una volta un re motto ricco che aveva tre figlie; esse andavano tutti i giorni a passeggio nel giardino del castello. Il re aveva una gran passione per tutti gli alberi belli, e uno gli piaceva in particolare, tanto che, se qualcuno ne coglieva una mela, egli lo malediva, che potesse sprofondare cento braccia sotto terra. Quando venne l'autunno, le mele sull'albero divennero rosse come sangue. Le tre fanciulle andavano tutti i giorni sotto l'albero e guardavano se il vento non avesse per caso buttato a terra qualche mela, ma non ne trovavano mai, e l'albero ne era così carico che sembrava dovesse spezzarsi, e i rami pendevano fino a terra. La più giovane ebbe una gran voglia di mangiarne e disse alle sorelle: -Nostro padre ci ama troppo per poterci maledire; credo che l'abbia fatto solo con gli estranei-. Così dicendo, la fanciulla colse una bella mela, corse davanti alle sorelle e disse: -Ah, assaggiate care sorelline! Non ho mai mangiato nulla di così buono-. Allora anche le altre due principesse assaggiarono la mela, e tutte e tre sprofondarono sotto terra senza che nessuno se ne accorgesse. A mezzogiorno il re volle chiamarle a tavola, ma non riuscì a trovarle da nessuna parte: le cercò a lungo nel castello e in giardino, ma invano. Egli se ne addolorò molto e rese noto in tutto il regno che chiunque gli avesse riportato le figlie ne avrebbe avuta una in isposa. Allora molti giovani partirono alla loro ricerca, facendo l'impossibile per trovarle: poiché‚ tutti amavano le tre fanciulle che erano così gentili con tutti e così belle. Partirono anche tre giovani cacciatori, e dopo aver camminato otto giorni, arrivarono a un gran castello dove c'erano delle sale bellissime e in una di queste sale c'era una tavola apparecchiata, coperta di cibi deliziosi, così caldi che fumavano ancora; ma in tutto il castello non si sentiva n‚ si vedeva anima viva. Aspettarono ancora mezza giornata e i cibi erano sempre caldi e fumanti; alla fine erano così affamati che si misero a tavola e mangiarono; e stabilirono di rimanere nel castello e di tirare a sorte, di modo che uno restasse a casa e gli altri due andassero a cercare le principesse. Così fecero, e per sorte toccò al maggiore rimanere al castello. Il giorno dopo i due più giovani andarono a cercare le principesse e il maggiore dovette restare a casa. A mezzogiorno arrivò un omino piccolo piccolo che chiese un pezzetto di pane; allora il giovane prese del pane che aveva trovato là, ne tagliò una fetta e fece per dargliela; come gliela porse, l'omino la lasciò cadere e lo pregò, per favore, di raccoglierla. Egli acconsentì, si chinò, e intanto l'omino prese un bastone, l'afferrò per i capelli e lo picchiò. Il giorno dopo rimase a casa il secondo, e non gli andò meglio. La sera, quando gli altri due rincasarono, il maggiore gli chiese: -Be', come ti è andata?-. -Oh, malissimo!- Allora si confidarono le loro disavventure, ma al minore non dissero nulla: non lo potevano soffrire e lo chiamavano sempre il Grullo. Il terzo giorno rimase a casa il più giovane; tornò l'omino e gli chiese un pezzetto di pane. Il giovane glielo diede ed egli lo lasciò cadere e lo pregò, per piacere, di ridarglielo. Allora il giovane disse all'omino: -Che cosa?! Non puoi raccoglierlo tu? Se non sai nemmeno darti da fare per il tuo pane quotidiano, non meriti neanche di mangiarlo-. Allora l'omino andò su tutte le furie e gli ordinò di darglielo; ma egli, senza perder tempo, prese il nostro omino e lo picchiò di santa ragione. L'omino strillava a più non posso e gridava: -Basta, basta! Lasciami stare, e ti dirò dove sono le principesse!-. All'udire queste parole, il giovane smise di picchiarlo e l'omino gli disse che era uno gnomo e che ce n'eran più di mille come lui; gli disse di seguirlo che gli avrebbe mostrato dove si trovavano le principesse. E gli indicò un pozzo profondo, dove però non c'era acqua. Sapeva bene, gli disse, che i suoi fratelli non erano sinceri con lui; se voleva liberare le principesse, doveva fare da solo. Anche gli altri due fratelli avrebbero liberato volentieri le principesse, ma non volevano esporsi a rischi e fatiche. Egli doveva prendere un gran cesto, entrarvi con il suo coltello da caccia e con un campanello e farsi calare giù. Sotto c'erano tre stanze, in ognuna delle quali c'era una principessa, costretta a spidocchiare un drago con molte teste: egli doveva mozzare le teste del drago. Detto questo, lo gnomo sparì. A sera ritornarono a casa gli altri due e gli domandarono come fosse andata. Egli disse: -Oh, mica male!-; non aveva visto nessuno fino a mezzogiorno, quand'era arrivato un omettino che gli aveva domandato un pezzetto di pane; lui glielo aveva dato, e l'omino l'aveva lasciato cadere e lo aveva pregato di raccoglierlo; e siccome egli aveva rifiutato, l'omino aveva incominciato a maltrattarlo; ma la cosa non gli era piaciuta e l'aveva picchiato, e allora l'omino gli aveva detto dove si trovavano le principesse. Gli altri due diventarono verdi e gialli dalla rabbia. Il mattino dopo si recarono al pozzo e tirarono a sorte chi dovesse entrare per primo nel cesto; toccò di nuovo al maggiore che dovette entrarvi e prendere il campanello. Disse: -Se suono dovete tirarmi su in fretta-. Era sceso da poco quando si sentì scampanellare e lo tirarono su; entrò nel cesto il secondo, che fece lo stesso; infine toccò al più giovane, che si fece calare fino in fondo. Come uscì dal cesto, prese il suo coltello da caccia, si fermò davanti alla prima porta e stette ad ascoltare: e sentì il drago russare forte. Aprì la porta piano piano: nella stanza era seduta la maggiore delle principesse, e aveva in grembo nove teste di drago e le spidocchiava. Allora egli prese il suo coltello, colpì con gran forza e le nove teste caddero. La principessa balzò in piedi, gli saltò al collo abbracciandolo e baciandolo, prese la sua collana d'oro rosso, e gliela mise al collo. Poi egli andò dalla seconda principessa, che doveva spidocchiare un drago con sette teste, e liberò anche lei; e così andò pure dalla più giovane, che doveva spidocchiare un drago con quattro teste. Allora tutte e tre quante domande si fecero! E non finivano mai di baciarsi e di abbracciarsi. Egli suonò forte, finché‚ lo sentirono in alto. Fece entrare le principesse nel cesto, l'una dopo l'altra, e le fece tirare su tutt'e tre. Ma quando toccò a lui, gli vennero in mente le parole dello gnomo, e cioè che i suoi compagni avevano cattive intenzioni nei suoi confronti. Allora prese un pietrone che era là per terra e lo mise nel cesto, e quando il cesto fu quasi a metà del pozzo, i fratelli malvagi tagliarono la fune, sicché‚ il cesto precipitò con la pietra, e credettero che egli fosse morto. Fuggirono poi con le tre principesse e si fecero promettere che avrebbero detto al padre di essere state liberate da loro due; andarono dal re e le chiesero in matrimonio. Nel frattempo il fratello più giovane vagava tutto triste per le tre stanze e pensava che avrebbe dovuto morire. Vide un flauto appeso alla parete e disse: -Che cosa ci fai lì appeso? Qui nessuno può essere allegro-. Guardò anche le teste del drago e disse: -Neanche voi potete aiutarmi-. E passeggiò a lungo su e giù, tanto che il pavimento divenne liscio. Alla fine gli venne un'altra idea, staccò il flauto dalla parete e suonò un'arietta: d'un tratto arrivarono tanti gnomi, e a ogni nota ne arrivava un altro; ed egli continuò a suonare finché‚ la stanza fu piena. Tutti gli chiesero che cosa desiderasse, ed egli rispose che voleva ritornare sulla terra, alla luce del giorno. Allora lo afferrarono per i capelli, quanti ne aveva in testa, e volarono con lui fuori dal pozzo. Come fu fuori dal pozzo, egli andò al castello regale, dove stavano per celebrare le nozze della maggiore delle principesse, ed entrò nella stanza dove si trovava il re con le sue tre figlie. Al vederlo le fanciulle svennero. Allora il re andò in collera e lo fece subito gettare in prigione, perché‚ credeva che avesse fatto loro del male. Ma quando le principesse tornarono in s‚, lo pregarono di rimetterlo in libertà. Il re volle sapere perché‚ ed esse risposero che non potevano dirlo, ma il padre disse loro di raccontarlo alla stufa. Poi uscì e si mise ad ascoltare dietro la porta e sentì tutto. Allora fece impiccare i due fratelli, mentre al più giovane diede la figlia minore. E io avevo un paio di scarpe di vetro, ma inciampai in una pietra: fecero "clinc!" e si spezzarono.
FINE





Il re del monte d'oro
tempo: 15'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 092



Un mercante aveva due figli, un maschietto e una femminuccia, che erano piccoli e non camminavano ancora. Egli mandò in mare due navi cariche di merci e lì c'erano tutti i suoi beni; e mentre sperava in un cospicuo guadagno, giunse la notizia che erano colate a picco. Invece di essere un riccone, egli era adesso un pover'uomo, e non gli restava altro che un campo fuori dalla città. Per dimenticare un po' i suoi guai, andò nel campo; e mentre passeggiava su e giù, si trovò accanto all'improvviso un omino nero, che gli domandò perché‚ fosse così triste e che cosa lo affliggesse tanto. Il mercante disse: “Se potessi aiutarmi, te lo direi.” - “Chissà,” rispose l'omino nero, “forse posso; parla!” Allora il mercante gli raccontò che tutta la sua ricchezza era andata persa in mare e che gli rimaneva soltanto quel campo. “Oh! Non preoccuparti per questo,” rispose l'omino. “Se mi prometti di portare qui fra dodici anni la cosa che a casa ti verrà fra le gambe per prima, avrai denaro a volontà.” Il mercante pensò: E' ben poca cosa: che mai altro può essere se non il mio cane? Non pensò al suo piccino, acconsentì e lasciò all'uomo una promessa scritta con tanto di sigillo; poi se ne andò a casa.

Quando giunse a casa, il suo bambino fu così contento che reggendosi alle sedie, gli andò incontro barcollando, e gli si aggrappò alle gambe. Allora il padre si spaventò e capì quale promessa avesse fatto, ma poiché‚ di denaro non ne vedeva, pensò che si fosse trattato di uno scherzo da parte dell'omino. Circa un mese più tardi andò in solaio per cercare del vecchio vasellame di stagno, che voleva vendere per ricavare qualche soldo; e vide per terra un gran mucchio di denaro. A quella vista si rallegrò, fece degli acquisti, divenne un mercante ancora più ricco di prima, e lasciò correre le acque per la loro china. Nel frattempo il bambino cresceva e divenne un giovane giudizioso. Ma più si avvicinavano i dodici anni, più il mercante si affliggeva, tanto che gli si leggeva in faccia il tormento. Così, un giorno il figlio gli domandò cosa avesse. Il padre non voleva dirlo, ma il ragazzo insistette tanto, finché‚ egli rivelò di averlo promesso a un omino nero, senza sapere cosa stesse facendo, e di aver ricevuto in cambio molto denaro. Aveva rilasciato una promessa scritta e sigillata, e allo scadere dei dodici anni doveva consegnarlo. Il figlio disse: “Babbo, non abbiate paura: tutto andrà bene, l'uomo nero non ha alcun potere su di me.”

Il figlio si fece benedire dal sacerdote e, quando venne il momento, andò nel campo con il padre; tracciò un cerchio e vi entrarono tutti e due. Allora venne l'omino nero e disse al vecchio: “Hai portato ciò che mi hai promesso?” Ma l'uomo taceva e il figlio domandò: “Che cosa vuoi tu qui?” Disse l'omino nero: “Devo parlare con tuo padre, non con te.” Il figlio rispose: “Tu hai adescato e ingannato mio padre, restituisci la promessa scritta.” - “No,” rispose l'omino nero, “non rinuncio al mio diritto.” Parlarono ancora a lungo insieme, e finirono col mettersi d'accordo: il figlio non apparteneva più al Nemico, ma neanche a suo padre; doveva salire su una barchetta, su un fiume che scorreva giù per la china; proprio il padre avrebbe scostato la barca con il piede, abbandonando il figlio alle acque. Così il giovane prese congedo dal padre, salì su una barchetta e il padre stesso dovette scostarla con il piede. La barchetta si capovolse, sicché‚ la chiglia venne a galla e il ponte finì sott'acqua; il padre credette che il figlio fosse morto, andò a casa e si mise in lutto.

Ma la barchetta non affondò, continuò tranquillamente il suo viaggio, e il giovane se ne stava là dentro al sicuro; la barchetta navigò a lungo, finché‚ si arenò su una riva sconosciuta. Allora il giovane scese a terra e vide un bel castello davanti a s‚, e vi si diresse subito, ma quando entrò si accorse che il castello era stregato; le stanze erano vuote meno l'ultima, nella quale si imbatté‚ in una serpe. Ma la serpe era una principessa stregata che si rallegrò al vederlo e gli disse: “Vieni, mio liberatore! Ti ho atteso per dodici anni; questo regno è stregato e tu devi liberarlo. Questa notte verranno dodici uomini neri carichi di catene che ti chiederanno cosa sei venuto a fare qui; tu sta' zitto e non dare loro risposta, lascia che facciano di te quello che vogliono: ti tormenteranno, ti picchieranno e ti trafiggeranno; tu lasciali fare e taci: a mezzanotte devono andarsene. La seconda notte ne verranno altri dodici; e la terza ventiquattro, che ti taglieranno la testa; ma a mezzanotte cessa il loro potere, e se tu hai resistito e non hai detto neanche una parola, allora sono libera. Verrò da te e porterò l'acqua della vita, ti fregherò con quella e tornerai vivo e sano come prima.” Egli disse: “Ti libererò volentieri-. E tutto si svolse com'ella aveva detto: gli uomini neri non poterono strappargli neanche una parola, e la terza notte la serpe si mutò in una bella principessa che venne con l'acqua della vita e lo risuscitò. Allora ella gli saltò al collo e lo baciò, e in tutto il castello vi fu grande gioia. Fu celebrato il loro matrimonio ed egli divenne re del monte d'oro. Vivevano felici insieme e la regina partorì un bel maschietto. Erano già passati otto anni, quando il giovane si ricordò di suo padre; il suo cuore si commosse e desiderò andarlo a trovare. La regina però non voleva lasciarlo partire e diceva: -So già che ciò sarà la mia disgrazia-. Ma egli non le dette pace, finché ella acconsentì. Quando si salutarono, ella gli diede un anello magico e disse: -Prendi questo anello e mettilo al dito; sarai subito trasportato dove desideri andare; ma devi promettermi di non desiderare che io venga da tuo padre-. Egli promise, si mise l'anello al dito e desiderò di trovarsi davanti alla città dove viveva suo padre. Ci fu immediatamente, ma quando arrivò davanti alla porta della città, le guardie non volevano lasciarlo entrare, poiché‚ le sue vesti erano sfarzose ma bizzarre. Allora egli andò su di un monte dove c'era un pastore che custodiva le pecore; scambiò gli abiti con lui, indossò il vecchio vestito da pecoraio e così entrò indisturbato in città. Quando giunse da suo padre, si fece riconoscere, ma il mercante disse che non voleva credere che egli fosse suo figlio; ne aveva avuto sì uno, ma era morto da un pezzo. Ma siccome vedeva che era un povero pastore bisognoso, gli avrebbe dato volentieri un piatto di minestra. Allora il pastore disse ai suoi genitori: -Io sono davvero vostro figlio: non sapete se sul mio corpo c'è qualche voglia dalla quale possiate riconoscermi?-. -Sì- rispose la madre -nostro figlio aveva una voglia di lampone sotto il braccio destro.- Allora egli rimboccò la manica della camicia, essi videro la voglia di lampone e non dubitarono più che fosse loro figlio. Poi egli raccontò che era il re del monte d'oro, che sua moglie era una principessa e che avevano un bel bambino di sette anni. Disse il padre: -Non lo crederò mai! Bel re davvero che se ne va in giro con un vestito da pecoraio!-. Allora il figlio andò in collera e, senza pensare alla sua promessa, girò l'anello e desiderò di avere con s‚ la moglie e il bambino. In un attimo essi comparvero, ma la regina piangeva e si lamentava, dicendo che egli non aveva mantenuto la sua parola e l'aveva resa infelice. Egli la placò e cercò di rabbonirla; ella finse di chetarsi, ma in realtà aveva intenzioni cattive. Egli la condusse fuori dalla città, nel campo, e le mostrò il fiume dove la barchetta era stata allontanata; poi disse: -Sono stanco; siediti, voglio dormire un po' sul tuo grembo-. Le mise la testa in grembo ed ella lo spidocchiò un poco, finché‚ egli si addormentò. Quando si fu addormentato, ella gli sfilò l'anello dal dito, ritrasse il piede che era sotto di lui e lasciò soltanto la pantofola. Quindi prese con s‚ il bambino e desiderò di ritornare nel suo regno. Quand'egli si svegliò, si ritrovò solo: la moglie e il bambino erano scomparsi, e così pure l'anello che portava al dito; soltanto la pantofola era ancora là, come segno. "Non puoi più ritornare a casa dai tuoi genitori" pensò. "Direbbero che sei uno stregone. Devi metterti in cammino e andare, finché‚ arrivi nel tuo regno." Così se ne andò finché‚ giunse a una montagna dove tre giganti si stavano dividendo l'eredità paterna. Quando lo videro passare lo chiamarono e dissero che gli ometti sono assennati: egli doveva perciò ripartire l'eredità fra di loro. Essa consisteva in una spada: se uno la prendeva in mano e diceva: -Giù tutte le teste, meno la mia- tutte le teste cadevano a terra. Poi c'era un mantello: chi lo indossava era invisibile. Infine un paio di stivali: chi li infilava, e desiderava di essere da qualche parte, vi era all'istante. Egli disse che dovevano dargli i tre oggetti, perché‚ potesse constatare se erano ancora in buono stato. Allora gli diedero il mantello; egli se lo mise addosso, desiderò di essere invisibile come una mosca e subito lo divenne. -Il mantello va bene- disse. -Adesso datemi la spada.- Essi dissero: -No, non te la diamo, perché‚ se tu dicessi: "giù tutte le teste, meno la mia" le nostre teste cadrebbero, e soltanto tu conserveresti la tua-. Ma poi gliela diedero lo stesso a condizione che la provasse su di un albero. Così fece, e constatò che anche la spada funzionava bene. Allora egli volle provare anche gli stivali, ma i giganti dissero: -No, non te li diamo, poiché‚ se tu li infilassi e desiderassi di essere in cima al monte, noi staremmo quaggiù a mani vuote-. -No- diss'egli -non lo farò.- Ed essi gli diedero anche gli stivali. Quand'egli ebbe tutti e tre gli oggetti desiderò di trovarsi sul monte d'oro, ed ecco che già si trovava laggiù; i giganti erano spariti e così fu divisa quell'eredità. Avvicinandosi al castello udì suon di flauti e violini, e la gente gli disse che sua moglie stava festeggiando le nozze con un altro principe. Allora egli indossò il mantello, e mutatosi in una mosca, andò a mettersi dietro alla sua sposa, invisibile a ognuno. Quando le mettevano nel piatto un pezzo di carne, egli lo prendeva e lo mangiava; e quando le versavano un bicchiere di vino, lo prendeva e lo beveva; per quanto continuassero a servirla, non aveva mai nulla nel piatto. Ella si vergognava, così si alzò e andò in camera sua a piangere, ed egli la seguì. Ella disse fra s‚: -E' il diavolo che mi sta addosso? Non è ancora venuto il mio liberatore?-. Allora egli le diede due belle sberle e disse: -Non è venuto il tuo liberatore? E' lui, perfida, che ti sta addosso! Ho meritato questo da te?-. Poi andò nella sala e annunciò che le nozze erano finite poiché‚ lui era ritornato. Allora fu schernito da re, principi e consiglieri che erano riuniti là. Ma egli non fece tante parole e domandò se si decidevano ad andarsene o no. Quelli volevano catturarlo, ma egli trasse la spada e disse: -Giù tutte le teste, meno la mia!-. Allora tutte le teste rotolarono per terra, ed egli fu di nuovo re del monte d'oro.
FINE





Il corvo
tempo: 16'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 093



C'era una volta una madre che aveva una bambina piccola e doveva ancora portarla in braccio. Un giorno la bambina era inquieta; la mamma poteva dire ciò che voleva, ma lei non si chetava mai. Allora la donna si spazientì e, poiché‚ c'erano dei corvi che volavano intorno alla casa, aprì la finestra e disse: -Vorrei che fossi un corvo e che volassi via, così sarei tranquilla-. Aveva appena pronunciato queste parole che la bimba si tramutò in corvo e volò via dalle sue braccia, fuori dalla finestra. Volò lontano, senza che nessuno potesse raggiungerla, e andò a rifugiarsi nel folto di un bosco, ove rimase un bel pezzo. Un giorno un uomo passava per il bosco, udì il corvo gridare e seguì la voce; quando si fu avvicinato il corvo disse: -Sono una principessa di stirpe reale, ma sono stata stregata, e tu puoi liberarmi-. -Che cosa debbo fare?- domandò l'uomo. -Va' in quella casa laggiù; troverai una vecchia che ti offrirà da mangiare e da bere. Tu però non prender nulla, poiché‚ la bevanda contiene del sonnifero e non potrai liberarmi. Nel giardino, dietro la casa, c'è un gran mucchio di torba: devi stare lassù ad aspettarmi. Verrò da te alle due del pomeriggio in una carrozza trainata da quattro cavalli bianchi; ma se tu dormi invece di vegliare, io non sarò liberata.- L'uomo promise che avrebbe fatto tutto ciò che ella aveva chiesto, ma il corvo disse: -Ah, so già che non mi libererai! Accetterai qualcosa da quella donna-. L'uomo tornò a promettere che non avrebbe toccato nulla, n‚ cibo n‚ bevanda. Ma quando entrò nella casa la vecchia gli si avvicinò e disse: -Oh, come siete sfinito! Venite a ristorarvi, mangiate e bevete-. -No- rispose l'uomo -non voglio n‚ bere n‚ mangiare.- Ma ella non gli dette pace e disse. -Se non volete mangiare, almeno bevete un sorso dal bicchiere: uno non fa numero-. Egli si lasciò persuadere e bevve un sorso. Il pomeriggio, verso le due, andò fuori in giardino, sul mucchio di torba, e voleva aspettare il corvo. Mentre se ne stava là si sentì all'improvviso molto stanco; non voleva sdraiarsi, ma non pot‚ farne a meno e dovette farlo per un poco; però non voleva addormentarsi. Ma non appena si fu sdraiato, gli si chiusero gli occhi, si addormentò e dormì d'un sonno così profondo che nulla al mondo avrebbe potuto svegliarlo. Alle due arrivò il corvo nella carrozza con i quattro cavalli bianchi, ma era già molto triste e diceva: -So già che dorme-. E, quando entrò in giardino, lo vide disteso sul mucchio di torba, addormentato. Quando fu davanti a lui, scese dalla carrozza, si mise a scuoterlo e a chiamarlo, ma egli non si svegliò. Finalmente, a forza di gridare, riuscì a svegliarlo e gli disse: -Vedo bene che per oggi non puoi liberarmi, ma domani tornerò di nuovo in una carrozza trainata da quattro sauri; ti supplico però di non prender nulla di ciò che ti offre la donna, n‚ da mangiare n‚ da bere-. -No, certamente- rispose egli. Ma il corvo disse: -Ah, so già che prenderai qualcosa!-. Il giorno dopo, verso mezzogiorno, venne la vecchia e gli chiese come mai non mangiasse né bevesse nulla. Egli rispose! -Non voglio n‚ mangiare n‚ bere-. Ma la vecchia gli portò delle vivande: gli mise il piatto sotto il naso, sicché‚ il profumo gli salì alle nari, e riuscì anche a convincerlo a bere un altro sorso. Alle due l'uomo andò in giardino sul mucchio di torba e voleva aspettare il corvo, ma si sentì di nuovo così stanco che le membra non lo reggevano più; non ci fu nulla da fare, dovette sdraiarsi e dormire un po'. Quando arrivò il corvo nella carrozza con i quattro sauri, era di nuovo molto triste e diceva: -So già che dorme-. Quando giunse davanti a lui, lo trovò profondamente addormentato; scese dalla carrozza, lo scosse e cercò di svegliarlo; fu più difficile del giorno precedente, ma alla fine vi riuscì. Allora il corvo disse: -Vedo bene che per oggi non puoi liberarmi; domani pomeriggio, alle due, tornerò ancora un'ultima volta; i miei cavalli e la mia carrozza saranno neri. Ma tu non devi accettare nulla dalla vecchia, n‚ da mangiare, n‚ da bere-. -No, certamente- diss'egli. Ma il corvo disse: -Ah, so già che prenderai qualcosa!-. Il giorno dopo venne la vecchia e chiese come mai non mangiasse n‚ bevesse nulla. Egli disse: -Non voglio n‚ mangiare n‚ bere-. Ma la vecchia disse che doveva almeno assaggiare qualcosa, era così buono! Voleva forse morire di fame? Così egli si lasciò persuadere e bevve ancora un sorso. Quando fu ora, andò in giardino sul mucchio di torba e aspettò la principessa; ma tornò a sentirsi così stanco che non pot‚ resistere, si sdraiò e dormì come un sasso. Alle due arrivò il corvo in una carrozza trainata da quattro cavalli neri, e anche la carrozza era nera e così tutto il resto. Ma era già molto triste e disse: -So già che dorme e che non può liberarmi-. Quando giunse da lui lo trovò profondamente addormentato. Lo scosse e lo chiamò, ma non pot‚ svegliarlo, continuava a dormire. Allora gli mise accanto un pane: poteva mangiarne quanto voleva senza vederlo diminuire; poi un pezzo di carne: anche di questa poteva mangiarne quanto voleva senza che scemasse; infine gli mise accanto una bottiglia di vino: poteva bere quanto voleva senza che il vino diminuisse. Poi si tolse l'anello d'oro che portava al dito e lo infilò in quello di lui: vi era inciso il suo nome. In ultimo gli mise accanto una lettera nella quale gli spiegava ciò che gli aveva dato e che non si poteva mai consumare; inoltre c'era scritto: -Vedo bene che qui non puoi liberarmi; ma se vuoi ancora farlo, vieni al castello d'oro di Stromberg; là potrai liberarmi, lo so di certo-. Dopo avergli dato tutte queste cose, salì in carrozza e andò al castello d'oro di Stromberg. Quando l'uomo si svegliò e si accorse di aver dormito, se ne afflisse motto e disse: -Certo è passata qui davanti e io non l'ho liberata-. Lo sguardo gli cadde sulle cose che aveva accanto, e lesse la lettera dove si diceva com'erano andate le cose. Allora egli si alzò e si mise in cammino per raggiungere il castello d'oro di Stromberg, ma non sapeva dove fosse. Già da un pezzo vagava per il mondo, quando giunse in una foresta buia, e per quindici giorni camminò senza trovare la via d'uscita. Si fece nuovamente sera, ed egli era così stanco che si sdraiò accanto a un cespuglio e si addormentò. Il giorno dopo proseguì il suo cammino e la sera, quando volle sdraiarsi nuovamente accanto a un cespuglio, udì urla e lamenti e non si pot‚ addormentare. E quando fu l'ora in cui si accendono i lumi, ne vide brillare uno, si alzò e andò verso quella luce. Giunse a una casa che pareva tanto piccola perché‚ c'era davanti un gran gigante. Egli pensò: "Se entri potresti forse rimetterci la vita, ma provaci lo stesso-. Si avvicinò e quando il gigante lo vide disse: -Vieni proprio a proposito, non ho mangiato nulla da un pezzo: ti ingoierò per cena!-. -Lascia stare- disse l'uomo -se vuoi mangiare, ho qualcosa che va bene per te.- -Se è così- disse il gigante -mi va bene.- Entrarono, si sedettero a tavola e l'uomo tirò fuori il pane, il vino e la carne che non finivano mai; così tutti e due mangiarono fino a saziarsi. Poi l'uomo disse al gigante: -Non sai dirmi dove si trova il castello d'oro di Stromberg?-. Il gigante rispose: -Andrò a vedere la mia carta geografica, sulla quale si trovano tutte le città, i villaggi e le case-.
Prese così la carta geografica che aveva in camera sua e cercò il castello; ma non c'era. -Non importa- disse -sopra, in un armadio, ho delle carte anche più grandi: vedrò se riesco a trovarlo là.- Andarono a vedere, ma inutilmente. L'uomo voleva proseguire il suo viaggio, ma il gigante lo pregò di aspettare ancora qualche giorno, finché‚ tornasse suo fratello, che era andato via per cercare qualcosa da mangiare. Anche lui aveva una carta geografica, avrebbero cercato ancora una volta insieme, e avrebbero trovato sicuramente il castello. Allora l'uomo aspettò e quando il fratello del gigante tornò disse che non lo sapeva con esattezza, ma comunque credeva che il castello d'oro di Stromberg si trovasse sulla carta. Tutti e tre mangiarono ancora una volta a sazietà, poi il secondo gigante disse: -Vado a vedere se c'è sulla mia carta-. Ma non c'era di nuovo. Allora disse che di sopra aveva una stanza piena di carte geografiche, e doveva andare a vedere là. Quando le ebbe portate di sotto, si misero di nuovo a cercare e finalmente trovarono il castello d'oro di Stromberg; ma era mille miglia lontano. -Come farò a raggiungerlo?- disse l'uomo. -Ho due ore di tempo- disse il gigante. -Ti porterò fin nelle vicinanze, ma poi devo tornare a casa ad allattare il nostro bambino.- Il gigante lo portò all'incirca a cento ore dal castello e disse: -Adesso devo tornare indietro, il resto della strada puoi farlo da te-. -Oh sì!- rispose l'uomo -posso benissimo!- Prima di congedarsi, l'uomo disse ancora: -Sfamiamoci per bene-. Mangiarono insieme, poi il gigante lo salutò e se ne tornò a casa. L'uomo invece andò avanti giorno e notte, finché‚ giunse al castello d'oro di Stromberg. Ma il castello era su di un monte di vetro, sul quale vide la fanciulla stregata in carrozza; egli voleva raggiungerla, ma ogni volta che ci provava scivolava in basso. Allora si rattristò molto e pensò fra s‚: -La cosa migliore che puoi fare è di costruirti una capanna qui; da mangiare e da bere non ti manca-. Così si costruì una capanna e ci restò per un anno intero; e tutti i giorni vedeva la principessa passare con la carrozza in cima al monte, ma non poteva salire fino a lei. Un giorno vide tre giganti che si azzuffavano e gridò loro: -Dio sia con voi!-. A quel grido essi si fermarono ma, non vedendo nessuno, ricominciarono a picchiarsi con gran ferocia. Egli tornò a gridare: -Dio sia con voi!-. Quelli si fermarono di nuovo, si guardarono intorno, ma siccome non vedevano nessuno, ripresero nuovamente a picchiarsi. Allora egli disse per la terza volta: -Dio sia con voi!- e pensò: "Devi proprio andate a vedere che intenzioni hanno quei tre". Andò da loro e domandò perché‚ si picchiassero. Allora uno disse di aver trovato un bastone: se con esso batteva su una porta, questa si spalancava; il secondo disse di aver trovato un mantello: se lo indossava, diventava invisibile; ma il terzo disse di aver catturato un cavallo con il quale si poteva andare sul monte di vetro. Allora l'uomo disse: -Voglio barattare con voi queste tre cose; di denaro veramente non ne ho, ma ho dell'altro che vale di più. Prima però devo fare una prova, per vedere se avete detto la verità-. Quelli lo fecero salire a cavallo, gli misero il mantello addosso e il bastone in mano; e quando egli ebbe tutto ciò, non poterono più vederlo. Allora egli li caricò di botte e gridò: -Adesso siete soddisfatti?- e cavalcò sul monte di vetro. Quando arrivò davanti al castello lo trovò chiuso; allora picchiò alla porta con il bastone, e subito la porta si spalancò. Egli entrò, salì le scale, e nella sala di sopra, trovò la fanciulla che aveva dinanzi a s‚ un calice d'oro colmo di vino; ella tuttavia non poteva vedere l'uomo, poiché‚ egli indossava il mantello. E quando le fu davanti, egli si tolse dal dito l'anello ch'ella gli aveva dato, e lo gettò nel calice che tintinnò. Allora ella esclamò: -E' il mio anello! Deve esserci, dunque, anche l'uomo che mi libererà!-. Lo cercarono in tutto il castello ma non lo trovarono, poiché‚ egli era uscito, si era seduto a cavallo e si era tolto il mantello. Quando uscirono dalla porta, lo videro e gridarono di gioia. Egli scese da cavallo e prese la principessa fra le braccia; ed ella lo baciò e disse: -Adesso mi hai davvero liberata!-. Poi festeggiarono le nozze e vissero felici insieme.
FINE





La figlia furba del contadino
tempo: 9'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 094



C'era una volta un povero contadino che non aveva terra, ma aveva soltanto una piccola casetta e un'unica figlia. La figlia disse: "Dovremmo pregare il re di darci un pezzetto di terra". Il re era venuto a sapere della loro povertà e donò loro qualche zolla erbosa; la fanciulla e il padre le zapparono per seminarci un po' di frumento e qualche altra granaglia. Quando ebbero zappato quasi tutto il campo, trovarono nella terra un mortaio d'oro puro. "Senti" disse il padre alla fanciulla "dato che il nostro re è stato così indulgente e ci ha regalato il campo dobbiamo dargli il mortaio." Ma la figlia non era d'accordo e disse: "Babbo, se abbiamo il mortaio e non il pestello, ci toccherà cercare anche il pestello; perciò è meglio tacere". Ma egli non volle ascoltarla, prese il mortaio, lo portò al re e disse che lo avevano trovato nella landa. Il re prese il mortaio e domandò se non avesse trovato altro. "No" rispose il contadino. Ma il re disse che doveva procurargli anche il pestello. Il contadino rispose che non lo avevano trovato, ma fu come se avesse parlato al vento. Fu gettato in prigione e avrebbe dovuto restarci finché non avesse reso il pestello. I servi dovevano portargli ogni giorno pane e acqua, quel che si mangia in prigione; e lo sentivano sempre gridare: "Ah, se avessi ascoltato mia figlia! Ah, se avessi ascoltato mia figlia!". Allora i servi andarono dal re e gli dissero che il prigioniero diceva sempre: "Ah, se avessi ascoltato mia figlia!" e non voleva né mangiare né bere. Allora il re ordinò ai servi di portargli il prigioniero e gli domandò perché continuasse a gridare: "Ah, se avessi ascoltato mia figlia!". "Cos'ha mai detto vostra figlia?" "Sì, ha detto di non portare il mortaio, altrimenti avrei dovuto procurare anche il pestello." "Se avete una figlia così saggia, fatela dunque venire." Ella dovette così presentarsi al re, che le domandò se fosse davvero tanto saggia, e disse che voleva proporle un indovinello: se l'avesse indovinato, l'avrebbe sposata. Ella rispose di sì, avrebbe provato a indovinare. Allora il re disse: "Vieni da me né vestita né nuda, né a cavallo né in carrozza, né sulla strada né fuori dalla strada: e se riuscirai a fare tutto questo ti sposerò". Ella se ne andò e si spogliò nuda come Dio l'aveva fatta, così non era vestita; prese poi una gran rete da pesca, vi si mise dentro e se l'avvolse attorno, così non era nuda; si fece prestare un asino, alla coda del quale legò la rete, ed esso doveva trascinarla, così non era né a cavallo né in carrozza; e l'asino dovette trascinarla sulla carreggiata in modo che toccasse terra soltanto con il dito grosso, così non era né sulla strada né fuori dalla strada.

Quando giunse dal re, questi le disse che aveva risolto l'indovinello. Liberò suo padre dalla prigione, la prese in moglie e le affidò tutto il patrimonio reale. Erano già trascorsi alcuni anni e, un giorno che il re passava la rivista, avvenne che davanti al castello si fermassero, con i loro carri, dei contadini che aveva venduto la legna: alcuni avevano dei buoi, altri dei cavalli. C'era un contadino che aveva tre cavalli e uno di questi partorì un puledrino, che corse via e andò a cacciarsi fra due buoi attaccati a un altro carro. Quando i contadini s'incontrarono, incominciarono a litigare, ad azzuffarsi e a vociare, poiché il padrone dei buoi voleva tenersi il puledro e diceva che l'avevano fatto i buoi, mentre l'altro diceva che l'avevano fatto i cavalli ed era suo.

La lite finì davanti al re, ed egli sentenziò che il puledro doveva rimanere dove si trovava; così toccò al padrone dei buoi, al quale tuttavia non apparteneva. L'altro se ne andò piangendo e lamentandosi per il suo puledro. Ma egli aveva sentito dire che la regina era tanto clemente, poiché anch'ella proveniva da una povera famiglia di contadini; perciò si recò da lei e la pregò di aiutarlo ad avere il suo puledro. Ella disse: "Sì, se mi promettete di non tradirmi, vi aiuterò. Domattina presto, quando il re è alla rivista, mettetevi in mezzo alla strada, dove egli deve passare, prendete una gran rete da pesca e fate finta di pescare; continuate a pescare e versate la rete, proprio come se fosse piena".E gli disse anche quel che doveva rispondere, se il re l'avesse interrogato. Così, il giorno dopo, il contadino era là che pescava all'asciutto. Quando il re passò lì davanti e lo vide, mandò subito il suo portaordini a chiedere che intenzioni avesse quel pazzo. Egli rispose: "Pesco". Ma l'altro gli domandò come potesse pescare visto che non c'era acqua. Disse il contadino: "Se due buoi possono fare un puledro, anch'io posso pescare all'asciutto". Il portaordini andò a riferire la risposta al re; allora questi fece chiamare il contadino e gli disse che quella non era farina del suo sacco; di chi era quella risposta? Doveva confessarlo subito. Ma il contadino non voleva parlare e continuava a dire: "Dio guardi!" e che ci aveva pensato lui. Allora lo misero su un fascio di paglia e lo picchiarono e lo tormentarono finché egli confessò di averla avuta dalla regina. Quando tornò a casa, il re disse alla moglie: "Perché sei così falsa con me? Non ti voglio più per moglie: ormai è finita, tornatene nella tua casetta di contadini, da dove sei venuta!". Tuttavia le permise di portare con sé la cosa più cara e più preziosa che avesse: questo era il suo congedo. Ella disse: "Sì, caro marito, se è ciò che vuoi, lo farò". E gli saltò al collo, lo baciò e disse che voleva prender commiato. Allora si fece portare un potente sonnifero per il brindisi d'addio: il re bevve un bel sorso, mentre lei lo toccò appena. Egli cadde subito in un sonno profondo e, quando la regina vide che dormiva, chiamò un servo, prese un bel lenzuolo di lino bianco e ve lo avvolse dentro; i servi dovettero trasportarlo in una carrozza che era davanti alla porta, poi ella lo condusse nella sua casetta. Lo mise nel suo lettino, ed egli continuò a dormire giorno e notte e, quando si svegliò, si guardò attorno e disse: "Ah, mio Dio, dove sono?". Chiamò i suoi servi, ma non ce n'era neanche uno. Finalmente la moglie si avvicinò al letto e disse: "Mio caro signore, mi avete ordinato di portare via dal castello ciò che mi era più caro e più prezioso, sicché ho deciso di prendere voi!". Il re disse: "Cara moglie, tu sei mia e io sono tuo". La condusse nuovamente al castello e volle che si ricelebrassero le nozze. E certo vivranno ancora oggi.
FINE





Il vecchio Ildebrando
tempo: 9'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 095



C'era una volta un contadino e una contadina; per la contadina il parroco del villaggio aveva un debole e desiderava trascorrere tutta una giornata da solo con lei a spassarsela; e la cosa piaceva anche a lei. Allora un giorno egli le disse: -Mia cara, mi è venuta un'idea, per poter finalmente trascorrere insieme un'intera giornata e divertirci. Sapete? Mercoledì vi mettete a letto e dite a vostro marito che siete ammalata, e vi lamentate e gemete per bene e continuate così fino a domenica, quando io faccio la predica. E io dirò che se qualcuno ha in casa un bambino ammalato, un marito ammalato, una moglie ammalata, un padre ammalato, una madre ammalata, una sorella ammalata, un fratello o chicchessia, e si reca in pellegrinaggio al monte Gallegallicchio, in Italia, dove per un soldo si può comprare una gran quantità di foglie d'alloro, il figlio ammalato, il marito ammalato, la moglie ammalata, il padre ammalato, la madre ammalata, la sorella ammalata, il fratello o chicchessia guarisce all'istante-. -Lo farò- disse la contadina. Così il mercoledì si mise a letto, e si lamentava e gemeva da non dirsi; e suo marito le portava tutto quello che poteva venirgli in mente, ma non serviva a nulla. Quando venne domenica, la contadina disse: -Sto così male, come se dovessi morire, ma desidero ancora una cosa, prima della fine: vorrei sentire la predica che il parroco fa stamane-. -Ah, mia cara!- disse il contadino -non farlo! Potresti star peggio se ti alzi. Guarda, ci andrò io a sentire la predica, farò bene attenzione e ti riferirò tutto quello che dirà il parroco.- -Be'- disse la contadina -allora vai pure, ascolta bene e riferiscimi tutto quello che sentirai.- Così il contadino andò a sentire la predica, e il parroco incominciò a predicare e disse che se qualcuno aveva in casa un bambino ammalato, un marito ammalato, una moglie ammalata, un padre ammalato, una madre ammalata, una sorella ammalata, un fratello o chicchessia, se si recava in pellegrinaggio al monte Gallegallicchio, in Italia, dove una gran quantità di foglie d'alloro costa solo un soldo, il bambino ammalato, il marito ammalato, la moglie ammalata, il padre ammalato, la madre ammalata, la sorella ammalata, il fratello o chicchessia sarebbe guarito all'istante. E chi voleva compiere quel viaggio, doveva andare da lui dopo la messa, ch'egli gli avrebbe dato il sacco per l'alloro e il soldo. Nessuno era più felice del contadino che, dopo la messa, si recò subito dal parroco; e questi gli consegnò il sacco per l'alloro e il soldo. Poi andò a casa e, già sull'uscio, gridò: -Evviva, cara moglie! E' come se tu fossi già guarita. Oggi il parroco ci ha detto che se qualcuno ha in casa un bambino ammalato, un marito ammalato, una moglie ammalata, un padre ammalato, una madre ammalata, una sorella ammalata, un fratello o chicchessia, e si reca in pellegrinaggio al monte Gallegallicchio, in Italia, dove una gran quantità di foglie d'alloro costa un soldo, il bambino ammalato, il marito ammalato, la moglie ammalata, il padre ammalato, la madre ammalata, la sorella ammalata, il fratello o chicchessia guarisce all'istante. Mi sono già fatto dare dal parroco il sacco per l'alloro e il soldo, e mi metterò subito in cammino perché‚ tu possa guarire in fretta-. E se ne andò. E se n'era appena andato che la contadina era già in piedi, e il parroco in casa. Ma per ora lasciamoli stare e seguiamo il contadino. Egli camminava in fretta per arrivare il più in fretta possibile al monte Gallegallicchio, e mentre camminava incontrò il suo compare. Il suo compare vendeva le uova, e stava proprio tornando dal mercato, dove le aveva vendute. -Sia lodato!- disse. -Dove andate, così di fretta, compare?- -Sempre sia lodato!- disse il contadino. -Mia moglie si è ammalata, e oggi ho sentito la predica del parroco. Diceva che se qualcuno ha in casa un bambino ammalato, un marito ammalato, una moglie ammalata, un padre ammalato, una madre ammalata, una sorella ammalata, un fratello o chicchessia, e si reca in pellegrinaggio al monte Gallegallicchio, in Italia, dove una gran quantità di foglie d'alloro costa un soldo, il bambino ammalato, il marito ammalato, la moglie ammalata, il padre ammalato, la madre ammalata, la sorella ammalata, il fratello o chicchessia guarisce all'istante. Così mi sono fatto dare dal parroco il sacco per l'alloro e il soldo e mi sono messo in cammino.- -Ma via, compare!- disse l'altro al contadino. -Siete così sciocco da credere a una cosa simile? Sapete di che si tratta? Il parroco vuole passare un'intera giornata da solo con vostra moglie e spassarsela; perciò hanno inventato questa storia, per non avervi più fra i piedi.- -Oh, Signore!- esclamò il contadino. -Vorrei proprio saper se è vero!- -Be'- disse il compare -è presto fatto: mettetevi nella mia gerla, io vi porto a casa, e là vedrete voi stesso.- Così fecero, e il compare mise il contadino nella gerla e lo portò a casa. Quando arrivarono a casa, c'era una grande allegria: la contadina aveva sgozzato quasi tutti i polli del suo cortile, e aveva fatto le frittelle, e il parroco era già là e aveva portato il suo violino. Il compare bussò alla porta e la contadina domandò chi fosse. -Sono io, comare!- egli rispose. -Vi prego, datemi alloggio per questa notte: non ho venduto le mie uova al mercato, e ora devo riportarmele a casa, ma sono tanto pesanti che non ce la faccio più, ed è già buio.- -Eh, compare!- rispose la contadina. -Arrivate proprio al momento sbagliato! Ma dato che non si può far diversamente, entrate e sedetevi sulla panca della stufa.- Così il compare si sedette sulla panca della stufa con la sua gerla. Ma il parroco e la contadina erano proprio ben allegri. Alla fine il parroco disse: -Sentite, mia cara, voi che sapete cantare così bene, cantatemi qualcosa-. -Ah- disse la contadina -adesso non so più cantare; quand'ero giovane, allora sì, ma adesso è finita.- -Oh- tornò a dire il parroco -cantate solo un pochino!- Allora la contadina si mise a cantare:-A Gallegallicchio ti ho fatto andare, quanto sia lieta non puoi immaginare!-Poi cantò il parroco:-Magari ci stesse un anno, perbacco. Non gli domanderei nemmeno il sacco! Alleluja!-Ora incominciò a cantare il compare (ma prima devo dirvi che il contadino si chiamava Ildebrando); allora cantò il compare:-Ildebrando, sì caro al mio cuore, su questo banco cosa far vuole? Alleluja!-Infine cantò il contadino nella gerla:-Questa canzone non tollero più, e dalla gerla scenderò giù.-Uscì dalla gerla e scacciò di casa il parroco a bastonate.
FINE





I tre uccelli
tempo: 10'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 096



Più di mille anni or sono nel nostro paese c'erano tanti piccoli re, e uno di essi abitava sul monte Keuter e gli piaceva molto andare a caccia. Una volta, mentre usciva dal castello con i suoi cacciatori, ai piedi del monte c'erano tre fanciulle che custodivano le mucche; e quando videro il re con tutta quella gente, la maggiore gridò alle altre due, indicando il re: -Ehi, ehi! Se non ottengo quello, non voglio nessuno!-. La seconda rispose, dall'altra parte del monte, indicando la persona che si trovava alla destra del re: -Ehi, ehi! Se non ottengo quello, non voglio nessuno!-. Allora la più giovane gridò, indicando la persona che si trovava alla sinistra del re: -Ehi, ehi! Se non ottengo quello, non voglio nessuno!-. E si trattava dei due ministri. Il re sentì tutto e, quando fu di ritorno dalla caccia, fece chiamare le tre fanciulle e chiese loro che cosa avessero detto il giorno prima ai piedi del monte. Esse non volevano dirlo, ma il re domandò alla maggiore se lo voleva per marito. Ella rispose di sì, e le sue sorelle sposarono i due ministri, poiché‚ erano tutt'e tre molto belle di viso, soprattutto la regina che aveva i capelli biondi come il lino. Ma le due sorelle non ebbero figli; e una volta che il re dovette partire, le fece chiamare per assistere la regina, che era incinta. Ella mise al mondo un maschietto con una stella rossa. Allora le due sorelle combinarono insieme di buttare in acqua quel bel bambino. Quando l'ebbero gettato nel fiume (credo che si trattasse del Weser), si alzò in volo un uccellino che cantò:-Preparato per la morte fino a cambio della sorte, fra i mazzi di gigli c'è un dei miei figli?-All'udirlo, le due sorelle si spaventarono e fuggirono. Quando il re tornò a casa, gli dissero che la regina aveva partorito un cane. E il re disse: -Quello che fa Dio, è ben fatto-. Ma nei pressi del fiume abitava un pescatore, che tirò fuori dall'acqua il bambino ancora vivo e, siccome sua moglie non aveva figli, lo allevarono loro. L'anno dopo, il re dovette nuovamente assentarsi, e la regina mise al mondo un altro maschietto; le due sorelle malvagie lo presero e lo buttarono nel fiume, e di nuovo si alzò in volo l'uccellino che cantò:-Preparato per la morte fino a cambio della sorte, fra i mazzi di gigli c'è un dei miei figli?-E quando il re tornò, le due sorelle gli dissero che la regina aveva di nuovo partorito un cane, ed egli ripeté‚: -Quello che fa Dio, è ben fatto-. Il pescatore tirò fuori dall'acqua anche questo bambino e lo allevò. Il re partì nuovamente e la regina partorì una bimba e le sorelle malvagie gettarono anche lei nel fiume. Di nuovo si alzò in volo l'uccellino che cantò:-Preparato per la morte fino a cambio della sorte, fra i mazzi di gigli c'è un dei miei figli?-Quando il re tornò a casa, gli dissero che la regina aveva partorito un gatto. Allora egli si arrabbiò e la fece gettare in carcere, dove rimase per lunghi anni. Nel frattempo i bambini erano cresciuti; una volta il maggiore andò a pescare con altri ragazzi, ma questi non lo volevano con loro e dicevano: -Vattene via, tu, figlio di nessuno!-. Egli ne fu molto addolorato e chiese al vecchio pescatore se fosse vero. Questi gli raccontò che una volta, pescando, l'aveva tirato fuori dall'acqua. Allora egli disse che voleva andare a cercare suo padre. Il pescatore lo pregò di rimanere ma egli non si lasciò convincere, e il pescatore finì col dargli il permesso. Egli si mise in cammino e camminò per giorni e giorni; finalmente arrivò a un gran fiume dove c'era una vecchia che pescava. -Buon giorno, nonnina!- disse il giovane. -Mille grazie!- -Credo che dovrai stare qui a lungo prima di prendere un pesce!- -E tu cercherai un bel po', prima di trovare tuo padre! Come fai ad attraversare il fiume?- disse la donna. -Già, lo sa Iddio!- Allora la vecchia se lo prese sulle spalle e lo portò sull'altra riva; ed egli cercò a lungo senza riuscire a trovare suo padre. Quando fu trascorso un anno, anche il secondo se ne andò a cercare il fratello; arrivò al fiume e tutto si svolse allo stesso modo. Ora a casa era rimasta solamente la fanciulla, e lamentava tanto la mancanza dei fratelli che finì anche lei col pregare il pescatore di lasciarla andare, poiché‚ voleva cercarli. Anche lei arrivò al grande fiume e disse alla vecchia: -Buon giorno, nonnina!-. -Mille grazie!- -Dio vi assista nella pesca!- All'udire queste parole, la vecchia divenne tutta gentile, la portò sull'altra riva, le diede una bacchetta e disse: -Continua sempre per questa strada, figlia mia, e quando passi vicino a un grosso cane nero, devi proseguire in silenzio e con coraggio, senza ridere e senza guardarlo. Poi arriverai a un grande castello aperto sulla cui soglia devi far cadere la bacchetta; e, andando sempre diritto, attraversa il castello ed esci dall'altra parte. Là c'è un vecchio pozzo e dal pozzo è cresciuto un grande albero al quale è appesa una gabbia con un uccello; prendila e prendi anche un bicchiere d'acqua dal pozzo e ritorna indietro per la stessa strada. Sulla soglia riprenditi la bacchetta e, quando passi nuovamente accanto al cane, picchialo sul muso, ma bada di colpirlo; infine torna da me-. La fanciulla trovò tutto come aveva detto la vecchia, e sulla via del ritorno trovò i due fratelli, che avevano girato mezzo mondo. Andarono insieme fino a dove si trovava il cane nero; ella lo colpì sul muso e quello divenne un bel principe, e li accompagnò al fiume. La vecchia era ancora là, e si rallegrò molto che fossero tornati tutti; li portò sull'altra riva e poi se ne andò anche lei poiché‚ ormai era libera dall'incanto. Gli altri invece andarono tutti dal vecchio pescatore ed erano tutti contenti di essersi ritrovati. La gabbia con l'uccello l'appesero al muro. Ma il secondo figlio non poteva stare fermo a casa; prese un arco e andò a caccia. Quando fu stanco, prese il suo flauto e suonò un'arietta. Ma anche il re era a caccia e l'udì; andò e quando incontrò il giovane disse: -Chi ti ha permesso di cacciare qui?-. -Oh, nessuno!- -Chi sei?- -Sono il figlio del pescatore.- -Quello non ha figli.- -Se non ci credi, vieni con me.- Il re andò e interrogò il pescatore che gli raccontò ogni cosa; e l'uccellino, alla parete, si mise a cantare:-La madre siede da sola, non c'è nessuno che la consola. Nobile Sire, potente Re, ecco i tuoi figli davanti a te! Due malvagie han tutto ordito, i bambini hanno rapito. Poi nell'acqua li han gettati, lui, per caso, li ha pescati.-Tutti inorridirono; allora il re portò con s‚ al castello l'uccello, il pescatore e i tre figli. Fece uscire di prigione la moglie che però era ammalata e consunta. Allora la figlia le diede da bere l'acqua del pozzo, ed ella ridiventò fresca e sana. Le due sorelle malvagie furono bruciate, e la figlia sposò il principe.
FINE





L'acqua della vita
tempo: 15'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 097



C'era una volta un re che era ammalato, e più nessuno ormai credeva che potesse vivere ancora. I suoi tre figli, che erano molto addolorati, scesero a piangere nel giardino del castello. Là incontrarono un vecchio che domandò loro il perché‚ di tanto dolore. Gli raccontarono che il padre era così ammalato che presto sarebbe morto, poiché‚ nulla poteva giovargli. Il vecchio disse: -Io conosco un rimedio: l'acqua della vita; se la beve, guarirà. Ma è difficile da trovare-. Il maggiore disse: -La troverò-. Andò dal padre ammalato e gli domandò il permesso di andare a cercare l'acqua della vita, poiché‚ solo quella poteva salvarlo. -No- rispose il re -è troppo pericoloso, piuttosto preferisco morire.- Ma il giovane lo pregò tanto, che alla fine egli acconsentì. In cuor suo però il principe pensava: "Se procuro l'acqua, divento il prediletto ed erediterò il regno". Così si mise in cammino e, dopo aver cavalcato per un po', vide sulla strada un nano che lo chiamò e gli disse: -Dove vai così di fretta?-. -Razza di omiciattolo- disse il principe con fare altezzoso -non hai bisogno di saperlo!- E proseguì. Ma il nano era andato in collera e gli aveva scagliato una maledizione. Infatti il principe finì in un burrone e più andava avanti, più si stringevano le montagne, e alla fine il sentiero si fece così stretto che egli non pot‚ più avanzare di un passo, n‚ gli era possibile voltare il cavallo o scendere di sella, e restò là imprigionato. Nel frattempo il padre ammalato lo attendeva, ma egli non tornava mai. Allora il secondo figlio disse: -Andrò io a cercare l'acqua-. E pensava tra s‚: "Mi sta proprio bene: se mio fratello è morto, il regno tocca a me". Il re da principio, non voleva lasciare andare neanche lui, ma finì col cedere. Il principe se ne andò per la stessa strada e incontrò anche lui il nano, che lo fermò e gli chiese: -Dove vai così di fretta?-. -Razza di omiciattolo- disse il principe -non hai bisogno di saperlo!- e, pieno di arroganza, proseguì il suo cammino. Ma il nano lo maledisse e anch'egli finì in un burrone, come l'altro fratello, senza poter andare n‚ avanti n‚ indietro. Questo succede a chi è superbo. Dato che neanche il secondo figlio tornava, il più giovane volle andare anche lui a cercare l'acqua, e il re dovette lasciarlo andare. Quando incontrò il nano, e questi gli domandò: -Dove vai così di fretta?- egli rispose: -Cerco l'acqua della vita, perché‚ mio padre è ammalato e sta per morire-. -Sai dove trovarla?- -No- rispose il principe. -Allora te lo dirò io, poiché‚ ti sei comportato bene con me. Zampilla da una fonte che si trova in un castello incantato; per potervi entrare, ti do una verga di ferro e due pagnottine. Con la verga batti tre volte al portone di ferro del castello, e si spalancherà. All'interno ci sono due leoni con le fauci aperte, ma se tu getti loro il pane si placheranno. Allora corri a prendere l'acqua della vita prima che scocchino le dodici, altrimenti il portone si richiude e tu resti imprigionato.- Il principe lo ringraziò, prese la verga e il pane, andò e trovò tutto quanto proprio come aveva detto il nano. Il portone si spalancò al terzo colpo di verga; dopo avere ammansito i leoni, egli entrò nel castello e giunse in una bella sala: là c'erano dei principi stregati, ed egli tolse loro gli anelli dal dito; poi c'erano anche un pane e una spada ed egli li prese e li portò via. Più avanti trovò una stanza dove c'era una bella fanciulla, che si rallegrò vedendolo, lo baciò e disse che egli l'aveva liberata e doveva avere tutto il suo regno e se fosse tornato entro un anno, avrebbero celebrato le nozze. Poi gli disse dove si trovava la fonte con l'acqua della vita; ma doveva sbrigarsi ad attingerla prima che scoccassero le dodici. Proseguì finché‚ giunse in una stanza dove si trovava un bel letto appena fatto; e, siccome era stanco, volle prima riposarsi un po'. Si distese e si addormentò; e quando si svegliò stavano suonando le undici e tre quarti. Allora si alzò in piedi tutto spaventato, corse alla fonte, riempì d'acqua un bicchiere che era lì vicino e si affrettò ad andarsene. Stava uscendo dal portone di ferro che suonavano le dodici; e il portone si chiuse con tanta violenza, che gli portò via un pezzo di calcagno. Ma egli era contento di essere riuscito a prendere l'acqua della vita; si mise in cammino verso casa e passò nuovamente accanto al nano. Questi, vedendo la spada e il pane, disse: -Hai guadagnato un bel tesoro! Con la spada puoi sconfiggere interi eserciti, e il pane non finisce mai-. Ma il principe non voleva tornare a casa dal padre senza i suoi fratelli, e domandò: -Caro nano, puoi dirmi dove sono i miei due fratelli? Sono andati alla ricerca dell'acqua della vita prima di me, e non hanno più fatto ritorno-. -Sono prigionieri fra due monti- rispose il nano. -Li ho stregati in questo modo a causa della loro superbia.- Allora il principe lo supplicò tanto, finché‚ il nano finì col liberarli, ma disse ancora: -Guardati da loro: hanno il cuore malvagio-. Quando giunsero i fratelli, egli si rallegrò e raccontò loro tutto ciò che gli era accaduto: aveva trovato l'acqua della vita e ne aveva riempito un bicchiere; aveva liberato una bella principessa, che lo avrebbe aspettato per un anno, poi sarebbero state celebrate le nozze ed egli avrebbe ottenuto un grande regno. Poi se ne andarono insieme a cavallo e capitarono in un paese dove c'erano guerra e carestia; il re credeva già di essere condannato a morire nella miseria. Allora il principe andò da lui e gli diede il pane con il quale nutrì e saziò l'intero regno; poi gli diede anche la spada con la quale il re pot‚ abbattere gli eserciti dei suoi nemici e pot‚ vivere in pace. Allora il principe riprese il suo pane e la sua spada, e i tre fratelli proseguirono il viaggio. Ma giunsero in altri due paesi dove regnavano guerra e carestia, e il principe diede, ogni volta, al re il suo pane e la sua spada, e così salvò i tre regni. Poi si imbarcarono su di una nave e presero il largo. Durante il viaggio, i due maggiori parlarono fra loro e dissero: -Il più giovane ha trovato l'acqua della vita, e noi no; così nostro padre gli darà il regno che spetta a noi, e così ci toglierà la nostra fortuna-. Allora pensarono di vendicarsi e si misero d'accordo sul modo di rovinarlo. Aspettarono che fosse addormentato profondamente e presero l'acqua della vita, vuotandogli il bicchiere e riempiendolo con amara acqua di mare. Quando arrivarono a casa, il più giovane portò il bicchiere al re ammalato, perché‚ bevesse e guarisse. Ma il re aveva appena bevuto un sorso dell'amara acqua di mare, che la sua condizione si aggravò. E, mentre si lamentava, arrivarono i due fratelli maggiori e accusarono il più giovane dicendo che aveva voluto avvelenare il padre; essi invece gli avevano portato la vera acqua della vita: e gliela porsero. L'aveva appena assaggiata, che subito egli sentì il suo male sparire, e tornò a essere forte e sano come in gioventù. Poi i due fratelli andarono dal minore, lo derisero e dissero: -Hai trovato l'acqua della vita? La fatica è stata tua, mentre la ricompensa è nostra; avresti dovuto tenere gli occhi aperti: te l'abbiamo presa sul mare, mentre dormivi. Fra un anno uno di noi due si prenderà la tua bella principessa; ma guardati bene dal parlare con il babbo, tanto non ti crederebbe, e se dici una sola parola perderai anche la vita; se taci, invece, ti faremo grazia-. Ma il vecchio re era in collera con il figlio minore, e credeva che avesse cercato di ucciderlo. Perciò radunò la corte e sentenziò che doveva essere ucciso segretamente con un colpo di fucile. Un giorno il principe parti per la caccia senza sospettare nulla, e il cacciatore del re dovette accompagnarlo. Quando furono soli nel bosco, il cacciatore aveva un'aria così triste che il principe gli disse: -Che hai, mio caro?-. Il cacciatore rispose: -Non posso dirlo, ma devo farlo-. Disse il principe: -Orsù, dimmi cosa c'è; ti perdonerò-. -Ah!- disse il cacciatore. -Devo uccidervi: me l'ha ordinato il re!- Allora il principe si spaventò e disse: -Caro cacciatore, lasciami vivere, io ti do le mie vesti regali, tu, in cambio, dammi il tuo brutto vestito-. Il cacciatore disse: -Lo farò volentieri, non avrei potuto sparare contro di voi-. Allora il cacciatore prese i vestiti del principe, il principe quelli del cacciatore, e si addentrò nel bosco. Dopo qualche tempo, giunsero al vecchio re tre carri carichi d'oro e di pietre preziose per il figlio minore: li mandavano i tre re ai quali il principe aveva prestato il pane per sfamare il popolo e la spada per sconfiggere i nemici. Il re ne fu addolorato e pensò che suo figlio poteva forse esser stato innocente, e disse ai suoi: -Ah, se fosse ancora vivo! Come mi dispiace di averlo fatto uccidere!-. -Allora ho fatto bene!- disse il cacciatore. -Mi è mancato il coraggio di ucciderlo- e raccontò al re com'erano andate le cose. Il re si rallegrò e fece bandire in tutti i regni che suo figlio poteva tornare e che sarebbe stato il benvenuto. La principessa intanto aveva fatto costruire davanti al suo castello una strada tutta splendente d'oro e aveva detto ai suoi domestici: il cavaliere che l'avesse percorsa tutta diritta verso di lei era il vero sposo, e dovevano lasciarlo entrare; chi invece avesse cavalcato a lato della strada non era quello vero, e non dovevano lasciarlo entrare. Quando il tempo fu quasi trascorso, il maggiore pensò di affrettarsi e di andare dalla principessa presentandosi come il suo liberatore; così l'avrebbe avuta in moglie e ne avrebbe ottenuto il regno. Partì dunque a cavallo, ma quando giunse davanti al castello e vide la bella strada dorata, pensò: "Sarebbe un peccato, passarci sopra a cavallo!". Così deviò verso destra e cavalcò a lato della strada. Ma quando arrivò davanti al portone, gli dissero che egli non era il vero sposo e che doveva andarsene. Poco dopo si mise in viaggio il secondo principe, e quando arrivò alla strada d'oro, e il cavallo ci aveva già messo un piede, pensò: "Sarebbe un peccato, potrebbe rovinarsi!". Così deviò verso sinistra e cavalcò a lato della strada. Ma quando giunse davanti al portone, gli dissero che egli non era il vero sposo e che doveva andarsene. Quando l'anno fu trascorso, il terzo principe, pensò di lasciare il bosco e di recarsi dall'amata, per dimenticare il suo dolore presso di lei. Perciò si mise in cammino e pensò sempre a lei, e avrebbe già voluto esserci; e la strada d'oro non la vide neanche. Il suo cavallo ci passò proprio in mezzo; e quando egli arrivò al portone gli aprirono, e la principessa lo accolse con gioia e lo chiamò suo liberatore e signore del regno. Così si celebrarono le nozze con gran gioia. Dopo le nozze, ella gli raccontò che suo padre lo invitava a recarsi presso di lui e che lo aveva perdonato. Allora egli andò e gli raccontò tutto: che i fratelli lo avevano ingannato e che egli aveva taciuto. Il vecchio re voleva punirli, ma essi si erano messi in mare e avevano preso il largo; e non tornarono mai più.
FINE





Il dottor Satutto
tempo: 5'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 098



C'era una volta un povero contadino chiamato Gambero, che aveva portato con due buoi un carico di legna in città e l'aveva venduta per due scudi a un dottore. Mentre veniva pagato il dottore sedeva a tavola, e il contadino vide che mangiava e beveva così bene che c'era da lasciarci il cuore, e avrebbe fatto volentieri il dottore anche lui. Così rimase là ancora un pochino e poi chiese se anche lui poteva diventarlo. -Oh, sì!- rispose il dottore -è presto fatto. Prima di tutto devi comprare un abbecedario, cioè un libro con un gallo sul frontespizio; poi vendi il carro con i buoi e con il ricavato comprati dei vestiti e tutto ciò che occorre a un dottore; infine fatti dipingere un'insegna con le parole: "Io sono il dottor Satutto- e falla appendere in alto, sopra all'uscio di casa tua.- Il contadino fece tutto come gli era stato consigliato. Non aveva incominciato da molto a fare il dottore, quando rubarono del denaro a un gran signore. Questi sentì parlare del dottore Satutto, che abitava nel tal villaggio, e che doveva sapere dov'era finito il denaro. Allora il signore fece attaccare la carrozza, si recò al villaggio e gli chiese se egli fosse il dottor Satutto. Sì, lo era. Allora doveva accompagnarlo e ritrovare il denaro rubato. Sì, disse, ma doveva venire anche sua moglie, la Ghita. Il signore acconsentì, li fece salire in carrozza e partirono insieme. Quando arrivarono al palazzo nobile la tavola era pronta, e il dottore doveva prima pranzare con loro. Sì, disse, ma anche sua moglie, la Ghita; e sedette a tavola con lei. Quando arrivò il primo servitore con un vassoio colmo di cibo, il contadino diede di gomito a sua moglie e disse: -Ghita, questo è il primo-. E intendeva dire che era quello che portava il primo piatto. Il servitore invece pensò ch'egli avesse voluto dire: "E' il primo ladro- e siccome lo era davvero, ebbe paura e disse ai suoi compagni, fuori: -Il dottore sa tutto, ci va male: ha detto che io ero il primo!-. Il secondo non voleva entrare, ma vi fu costretto. Quando entrò con il vassoio, il contadino diede di gomito a sua moglie e disse: -Ghita, questo è il secondo-. Anche il secondo ebbe paura e si affrettò a uscire. Al terzo le cose non andarono meglio; il contadino disse nuovamente: -Ghita, questo è il terzo-. Il quarto dovette portare un piatto coperto; e il padrone di casa disse al dottore che doveva dar prova della sua arte e indovinare cosa c'era sotto; erano gamberi. Il contadino guardò il piatto e, non sapendo che dire, esclamò: -Ah, povero Gambero!-. All'udirlo, il signore gridò: -Guarda, lo sa! Allora sa anche chi ha il denaro!-. Ma il servo ebbe una gran paura e ammiccò al dottore che uscisse un momento. Fuori, gli confessarono tutti e quattro di aver rubato il denaro: erano ben contenti di restituirlo e di dargli anche una grossa somma in aggiunta, se egli non li tradiva: ne andava della loro vita. Poi lo condussero dov'era nascosto il denaro. Il dottore acconsentì, rientrò e disse: -Signore, adesso voglio cercare nel mio libro dov'è nascosto il denaro-. Ma il quinto servo si rannicchiò nella stufa, per sentire se il dottore ne sapesse di più. Questi aprì il suo abbecedario e lo sfogliò qua e là, cercando il gallo. Siccome non lo trovò subito, disse: -Eppure sei qui dentro e devi uscire!-. Quello che era nella stufa credette che stesse parlando con lui, saltò fuori pieno di paura e gridò: -Quest'uomo sa tutto!-. Il dottor Satutto mostrò al padrone di casa dove si trovava il denaro, senza però dire chi l'aveva rubato; fu ricompensato da ambo le parti con molto denaro, e divenne un uomo famoso.
FINE





Lo spirito nella bottiglia
tempo: 11'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 099



C’era una volta un povero taglialegna che lavorava dal mattino fino a notte tarda. Quand’ebbe finalmente racimolato un po’ di denaro, disse a suo figlio: “Sei il mio unico figlio: il denaro che ho guadagnato con il sudore della mia fronte voglio impiegarlo per la tua istruzione; se impari qualcosa per bene, puoi mantenermi da vecchio, quando le mie membra si saranno indurite e dovrò starmene a casa.” Così il giovane andò all’Università e studiò assiduamente, tanto da meritarsi le lodi dei maestri, e rimase là per qualche tempo. Aveva già frequentato un paio di corsi, ma non si era ancora perfezionato in tutto, che già quel poco denaro guadagnato dal padre era sfumato, ed egli dovette fare ritorno a casa. “Ah!” disse il padre tristemente, “non ho più nulla da darti, e in tempi così difficili non posso neanche guadagnare un centesimo in più del pane quotidiano.” - “Caro babbo,” rispose il figlio, “non crucciatevi tanto: se questa è la volontà di Dio, sarà per il mio meglio; mi adatterò. Rimarrò qui e verrò con voi nel bosco ad accatastare e a tagliar legna.” - “Ma figlio mio,” disse il padre, “faresti troppa fatica; non sei abituato ai lavori pesanti, non resisteresti; e poi ho soltanto un’ascia e non ho denaro per comprarne un’altra.” - “Andate dal vicino,” rispose il figlio, “vi impresterà la sua ascia finché‚ non avrò i soldi per comprarmene una.”

Allora il padre andò dal vicino, si fece prestare l’ascia e il mattino dopo, all’alba, andarono insieme nel bosco. Il figlio aiutava il padre ed era tutto allegro e brioso. Quando il sole fu a picco, il padre disse: “Riposiamoci e mangiamo: dopo riprenderemo con maggior vigore.” Il figlio prese il suo pane e disse: “Riposatevi pure, babbo, io non sono stanco; andrò un poco in giro per il bosco in cerca di nidi.” - “Oh che sciocchino!” disse il padre. “Cosa vuoi mai andartene in giro a zonzo? Poi ti stanchi e non puoi più alzare il braccio; resta qui e siediti accanto a me.”

Ma il figlio se ne andò nel bosco, mangiò il suo pane ed era tutto allegro, e guardava tra il verde dei rami, se mai scorgesse qualche nido. Così se ne andò di qua e di là finché‚ giunse a una grossa quercia dall’aria minacciosa, che certo doveva avere molti secoli, e cinque uomini insieme non avrebbero potuto circondarla. Si fermò a guardarla e pensò che qualche uccello doveva pur averci fatto il nido. D’un tratto gli parve di avere udito una voce umana. Tese l’orecchio, e sentì come un cupo grido: “Lasciami uscire, lasciami uscire!” Si guardò attorno, ma non vide nessuno; e gli sembrava che la voce uscisse da sotto terra. Allora gridò: “Dove sei?” La voce rispose: “Sono qua sotto, fra le radici della quercia. Fammi uscire, fammi uscire!” Lo studente si mise a rimuovere la terra sotto l’albero e a cercare fra le radici, finché‚ vi trovò una bottiglietta. L’alzò, e mettendola controluce, vide una cosetta simile a una rana, che saltava su e giù. “Lasciami uscire, lasciami uscire!” gridò di nuovo; e lo studente, che non pensava a nulla di male, tolse il tappo alla bottiglia. Subito ne uscì uno spirito che incominciò a crescere, e crebbe così in fretta che in un attimo davanti allo studente stava un orrendo mostro, grande come metà dell’albero. “Sai,” gridò con voce da far paura, “qual è la ricompensa che ti spetta per avermi liberato?” - “No,” rispose lo studente senza paura. “Come faccio a saperlo?” - “Allora te lo dirò io!” gridò lo spirito. “Devo romperti il collo!” - “Avresti dovuto dirmelo prima,” rispose lo studente, “e ti avrei lasciato dov’eri. Ma la mia testa rimarrà dove si trova; devi domandare ad altri.” - “Ma che altri!” gridò lo spirito. “Devi avere la tua ricompensa! Pensi forse che io sia stato rinchiuso tanto tempo per grazia? No, era per punizione. Io sono il potentissimo Mercurio; a chi mi libera, devo rompere il collo.” - “Piano,” rispose lo studente, “non così in fretta! Prima devo sapere se sei davvero stato in quella bottiglietta e se sei proprio lo spirito vero; se sei capace di rientrarci, allora ti crederò e potrai fare di me quel che vorrai.” - “Oh!” disse lo spirito superbamente, “niente di più facile!” Rimpicciolì, e si fece così sottile e piccino come era stato all’inizio, in modo da poter passare attraverso il collo della bottiglia. Ma vi era appena entrato che lo studente rimise il tappo, gettò la bottiglia al suo posto fra le radici della pianta, e così lo spirito fu ingannato.

Lo studente voleva ritornare da suo padre, ma lo spirito gridò con voce lamentosa: “Ah! Lasciami uscire, lasciami uscire!” - “No,” rispose lo studente, “non una seconda volta. Chi ha attentato alla mia vita, se l’acchiappo, non lo rimetto in libertà.” - “Liberami,” gridò lo spirito, “e ti ricompenserò per il resto della tua vita.” - “No,” rispose lo studente, “mi inganni come la prima volta.” - “Stai sprecando la tua fortuna,” disse lo spirito, “non ti farò niente, e ti ricompenserò invece, riccamente.” Lo studente pensò: “Voglio tentare; forse mantiene la promessa e non mi farà del male.” Tolse il tappo e lo spirito uscì come la prima volta, s’ingrandì e diventò come un gigante. Porse allo studente uno straccetto simile a un cerotto e disse: “Se con un capo tocchi una ferita, guarisce subito; e se con l’altro tocchi ferro o acciaio, lo tramuti in argento.” - “Devo prima provare!” disse lo studente; andò a un albero e ne scalfi la corteccia con l’ascia, poi la strofinò con un capo del cerotto: subito la ferita si richiuse e guarì. “E’ proprio vero!” disse allo spirito. “Adesso possiamo separarci.” Lo spirito lo ringraziò per averlo liberato, e lo studente ringraziò lo spirito per il suo dono e tornò dal padre.

“Dov’eri finito?” domandò il padre. “Hai dimenticato il lavoro: io l’avevo detto subito che non avresti combinato nulla!” - “State tranquillo babbo, rimedierò.” - “Sì, rimediare!” disse il padre in collera. “Ci vuol altro!” - “Fate attenzione, babbo, voglio buttare giù con un solo colpo quell’albero, da farlo schiantare.” Prese il cerotto, lo passò sull’ascia e menò un gran colpo; ma siccome il ferro si era mutato in argento, il taglio si ripiegò. “Babbo, guardate un po’ che cattiva ascia mi avete dato; si è piegata tutta!” Allora il padre si spaventò e disse: “Ah, cos’hai fatto! Adesso devo pagare l’ascia e non so come fare: questo è il vantaggio che ho dal tuo lavoro!” - “Non arrabbiatevi” rispose il figlio “l’ascia la pagherò io.” - “Oh, sciocco!” gridò il padre “e con che cosa vorresti pagarla? Non hai niente all’infuori di quello che ti do io; hai soltanto grilli da studente nella testa, ma quanto a tagliar la legna, non ne capisci niente!”

Dopo un po’ lo studente disse: “Babbo, non posso più lavorare, smettiamo.” - “Come!” rispose il padre. “Pensi forse ch’io voglia starmene con le mani in mano, come te? Devo lavorare ancora, tu vattene se vuoi.” - “Babbo, è la prima volta che vengo nel bosco, e non so trovare la strada da solo: venite con me.” Poiché‚ la rabbia gli era sbollita, il padre si lasciò infine convincere e andò a casa con lui. Allora disse al figlio: “Va’ a vendere l’ascia guasta e guarda un po’ quel che ne ricavi; il resto dovrò guadagnarlo io per poterla pagare.” Il figlio prese l’ascia e la portò in città da un orefice; questi la saggiò, la mise su di una bilancia e disse: “Vale quattrocento scudi, ma non ne ho abbastanza in contanti.” Lo studente disse: “Datemi quello che avete; del resto vi faccio credito.” L’orefice gli diede trecento scudi e restò in debito di cento. Poi lo studente andò a casa e disse: “Babbo, ho il denaro: andate a chiedere al vicino quanto vuole per l’ascia.” - “Lo so già,” rispose il vecchio, “uno scudo e sei soldi.” - “Allora dategli due scudi e dodici soldi; è il doppio e mi pare che basti. Guardate, ho denaro in abbondanza!” Diede al padre cento scudi e disse: “Non ve ne mancherà mai, vivete comodamente.” - “Dio mio,” disse il vecchio, “come hai fatto ad avere tutta quella ricchezza?” Allora il figlio gli raccontò com’erano andate le cose, e quale ricca preda avesse fatto nel bosco, confidando nella sua fortuna. Con il resto del denaro, tornò all’Università e continuò a studiare; e siccome con il suo cerotto poteva risanare tutte le ferite, divenne il dottore più famoso del mondo.
FINE





Il fuligginoso fratello del diavolo
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 100



Un soldato in congedo non aveva di che vivere e non sapeva che pesci prendere. Andò nel bosco e, dopo aver camminato per un po’, incontrò un omino che era il diavolo. L’omino gli disse: “Che cos’hai? Hai un’aria così triste!” Allora il soldato rispose: “Ho fame e non ho denaro.” Disse il diavolo: “Se vuoi entrare al mio servizio e diventare mio servo, ne avrai abbastanza per tutta la vita. Devi servirmi per sette anni, poi sarai libero, ma a una condizione: non puoi lavarti n’ pettinarti, non devi soffiarti il naso, n’ tagliarti unghie e capelli, non devi asciugarti gli occhi.” Il soldato disse: “E sia se così dev’essere!” E se n’andò con l’omino che lo condusse dritto all’inferno. Poi gli disse quali erano i suoi compiti: doveva attizzare il fuoco sotto i paioli dov’erano i dannati, tenere pulita la casa, portare la spazzatura dietro la porta e badare che fosse tutto in ordine. Ma se avesse guardato anche una sola volta nei paioli, gli sarebbe andata male. Il soldato disse: “Va bene, provvederò a tutto.” Il vecchio diavolo tornò a uscire, e il soldato incominciò il suo servizio: accese il fuoco, scopò e portò la spazzatura dietro la porta. Quando il vecchio diavolo ritornò, si mostrò soddisfatto e uscì per la seconda volta. Il soldato si guardò bene attorno: tutt’in giro c’erano i paioli, e sotto era acceso un bel fuoco e si sentiva bollire e sfrigolare. Avrebbe dato l’anima per guardarci dentro, ma gli era stato vietato così severamente! Alla fine non pot‚ più trattenersi, si avvicinò e sollevò un pochino il coperchio del primo paiolo, guardandoci dentro. Ci vide seduto dentro il suo antico furiere. “Ah, merlo!” disse, “sei qui? Sono stato nelle tue mani, adesso sei tu nelle mie!” Lasciò cadere in fretta il coperchio, attizzò il fuoco e aggiunse dell’altra legna. Poi andò al secondo paiolo, sollevò un poco il coperchio e diede un’occhiatina: dentro c’era il suo alfiere. “Ah, merlo!” disse, “sei qui? Sono stato nelle tue mani, adesso sei tu nelle mie!” Chiuse di nuovo il coperchio e aggiunse un altro ceppo, che lo scaldasse per bene. Adesso volle vedere chi c’era nel terzo paiolo: c’era addirittura il suo generale. “Ah, merlo!” disse, “sei qui? Sono stato nelle tue mani, adesso sei tu nelle mie!” Prese il soffietto e fece divampare il fuoco dell’inferno proprio sotto quel paiolo. Così prestò servizio per sette anni; non si lavò, non si pettinò, non si soffiò il naso, non si tagliò n’ unghie n’ capelli e non si asciugò gli occhi, e i sette anni passarono così in fretta che gli sembrò non fossero trascorsi più di sei mesi. Quando fu trascorso tutto quel tempo, venne il diavolo e disse: “Bene, che cosa hai fatto?” - “Ho attizzato il fuoco sotto i paioli, ho spazzato e portato la spazzatura dietro la porta.” - “Però hai anche guardato dentro ai paioli. Per tua fortuna hai aggiunto altra legna, altrimenti eri perduto. Adesso il tuo servizio è finito; vuoi tornare a casa?” - “Sì,” rispose il soldato, “vorrei vedere che cosa fa mio padre.” Disse il diavolo: “Perché‚ tu abbia il compenso che ti sei meritato, va’ a riempirti lo zaino di spazzatura, e portatela a casa. Devi andare senza lavarti, senza pettinarti, con i capelli e la barba lunga, con le unghie non tagliate e gli occhi cisposi; e se ti chiedono da dove vieni, devi dire: ‘Dall’inferno.’ E se ti chiedono chi sei, devi dire: ‘Il fuligginoso fratello del diavolo e il re di me stesso.’” Il soldato tacque e fece quello che gli aveva detto di fare il diavolo, ma non era affatto soddisfatto della sua ricompensa.

Quando ritornò sulla terra e si trovò nel bosco, tolse lo zaino dalla schiena e voleva vuotarlo. Ma quando lo aprì, la spazzatura era diventata oro puro. Al vederlo, egli fu tutto contento ed entrò in città. Davanti all’osteria c’era l’oste, e vedendolo venire si spaventò perché‚ aveva un aspetto orrendo, peggio di uno spaventapasseri. Lo chiamò e gli disse: “Da dove vieni?” - “Dall’inferno.” - “Chi sei?” - “Il fuligginoso fratello del diavolo e il re di me stesso.” L’oste non voleva lasciarlo entrare ma, quando gli mostrò l’oro, andò ad aprirgli egli stesso la porta. Il soldato si fece dare la stanza migliore, si fece servire di tutto punto, mangiò e bevve a sazietà, ma non si lavò, n‚ si pettinò come gli aveva detto di fare il diavolo; infine si mise a letto. Ma l’oste continuava ad avere davanti agli occhi quello zaino pieno d’oro, e non ebbe pace finché, durante la notte, entrò di soppiatto e glielo rubò.

Il mattino dopo, quando il soldato si alzò, voleva pagare l’oste e proseguire il cammino, ma lo zaino era sparito. Subito si dominò e pensò: “Della tua sfortuna non hai colpa.” E se ne tornò dritto all’inferno dove si lagnò con il vecchio diavolo della sua sventura e gli chiese aiuto. Il diavolo disse: “Ti laverò, ti pettinerò e ti soffierò il naso, ti taglierò unghie e capelli e ti pulirò gli occhi.” Quand’ebbe finito, tornò a dargli lo zaino pieno di spazzatura e disse: “Vai e di’ all’oste di ridarti l’oro, altrimenti vengo io a prenderlo e lo faccio lavorare al tuo posto.” Il soldato tornò su e disse all’oste: “Tu hai rubato il mio oro: se non me lo restituisci, finirai all’inferno al mio posto, e avrai l’aspetto orribile che avevo io.” Allora l’oste gli diede l’oro e n’aggiunse dell’altro ancora, pregandolo di tacere; così egli divenne un uomo ricco.

Si mise in cammino per tornare da suo padre, si comprò un brutto camiciotto di tela e se n’andò in giro a suonare, poiché‚ all’inferno, stando con il diavolo, aveva imparato. Nel paese c’era un vecchio re, ed egli dovette suonare alla sua presenza; il re ne fu così contento, che gli promise in moglie la figlia maggiore. Ma quando costei udì che doveva sposare un uomo qualsiasi, con un camiciotto bianco, disse: “Piuttosto mi butterei in fondo a un pozzo.” Allora il re gli diede la più giovane, che acconsentì per amore del padre. Così il fuligginoso fratello del diavolo sposò la principessa e alla morte del vecchio re ereditò anche il regno.
FINE





La giubba verde del diavolo
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 101



C'erano una volta tre fratelli che allontanavano sempre il più piccolo di loro; quando vollero andarsene per il mondo, gli dissero: -Non abbiamo bisogno di te, vattene da solo-. Così lo abbandonarono ed egli dovette procedere solo; giunse in una gran brughiera ed era molto affamato. Nella brughiera c'era un cerchio d'alberi: vi si sedette sotto e si mise a piangere. D'un tratto udì un rumore e, quando si guardò attorno, vide venire il diavolo con una giubba verde e un piede di cavallo. -Che cos'hai, perché‚ piangi?- disse. Allora egli gli confidò la sua pena e disse: -I miei fratelli mi hanno scacciato-. Disse il diavolo: -Voglio aiutarti: indossa questa giubba verde, ha delle tasche che sono sempre piene di denaro; puoi prenderne fin che vuoi. In compenso però voglio che per sette anni tu non ti lavi, non ti pettini n‚ preghi. Se muori in questi setti anni, sei mio; ma se rimani in vita, sarai libero e ricco fino alla fine dei tuoi giorni-. Il giovane finì coll'accettare, per via del bisogno in cui si trovava; così indossò la giubba verde che il diavolo si era tolta di dosso, e quando infilò la mano in tasca la trovò piena di denaro. Così se ne andò in giro per il mondo con la giubba verde. Il primo anno andò bene: tutto ciò che desiderava lo pagava con il suo denaro, ed era ancora considerato come un essere umano. Ma già il secondo anno le cose andarono peggio: i capelli gli erano cresciuti tanto che nessuno più lo riconosceva; inoltre nessuno voleva dargli alloggio per via del suo aspetto orrendo. E, più passava il tempo, peggiore diventava. Ma ovunque egli dava del denaro ai poveri, perché‚ pregassero per lui, che non morisse entro i sette anni e cadesse così nelle mani del diavolo. Nel quarto anno giunse a un'osteria dove l'oste non voleva accoglierlo. Ma egli tirò fuori di tasca una manciata di denaro e pagò in anticipo, così ottenne finalmente una stanza. La sera udì piangere forte nella stanza attigua, aprì la porta e scorse un vecchio che piangeva disperatamente e gli disse di andarsene poiché‚ non poteva aiutarlo di certo. Ma il giovane gli domandò che cosa mai lo affliggesse tanto, e il vecchio disse che non aveva più soldi; era in debito con l'oste che l'avrebbe trattenuto finché‚ non avesse pagato. Allora il giovane dalla giubba verde disse: -Se è tutto qui, di denaro io ne ho a sufficienza: pagherò per voi-. E liberò l'uomo dai suoi debiti. Il vecchio aveva tre belle figlie e gli disse di scegliersene una in moglie come ricompensa. Ma quando giunsero a casa e la maggiore lo vide, si mise a gridare all'idea di sposare un essere così orrendo, che non aveva più aspetto umano e sembrava un orso. Anche la seconda fuggì via e preferì andarsene per il mondo. La terza invece disse: -Caro babbo, se gli avete promesso una sposa, ed egli vi ha aiutato nel momento del bisogno, vi ubbidirò-. Allora il giovane dalla giubba verde si tolse dal dito un anello, lo spezzò, ne diede metà alla fanciulla e tenne per s‚ l'altra; e nella prima scrisse il proprio nome, nell'altra il nome di lei, pregandola di serbare con cura la metà dell'anello. Rimase ancora un po' di tempo con lei, e infine disse: -Ora debbo prender congedo, rimarrò lontano per tre anni, siimi fedele in questo periodo di tempo; quando tornerò celebreremo le nostre nozze. Se invece non torno sei libera, perché‚ io sarò morto, ma tu prega Dio che mi tenga in vita-. In quei tre anni le due sorelle maggiori della sposa si fecero beffe di lei e le dicevano che avrebbe avuto un orso per marito al posto di un uomo normale. Ma la fanciulla taceva e pensava che qualunque cosa succedesse doveva ubbidire al padre. Il giovane dalla giubba verde, invece, se ne andò in giro per il mondo, mise spesso le mani in tasca e comprò per la sua sposa le cose più belle che gli capitavano sotto gli occhi. Non fece nulla di male, anzi fece del bene dove poteva e dette del denaro ai poveri affinché‚ pregassero per lui. Allora Dio gli fece la grazia e, trascorsi i tre anni, egli era ancora vivo e sano. Quando il tempo fu trascorso si recò nuovamente nella brughiera e si sedette sotto quel cerchio di alberi. Si udì un forte sibilo, ed ecco arrivare il diavolo tutto arrabbiato e brontolante; gli buttò la sua vecchia giubba e rivolle indietro quella verde. Il giovane se la tolse con gioia, la porse al diavolo ed era ricco e libero per sempre. Poi se ne andò a casa, si ripulì per bene e si mise in cammino per recarsi dalla sua sposa. Quando giunse al portone d'ingresso, incontrò il padre; lo salutò e disse di essere lo sposo, ma quello non lo riconobbe e non voleva credergli. Allora egli salì dalla sposa, ma anch'ella non voleva credergli. Infine egli le domandò se avesse ancora la metà dell'anello. Ella rispose di sì e andò a prenderla; anch'egli prese la sua, l'accostò all'altra e si vide che le due parti combaciavano perfettamente: egli non poteva che essere il suo sposo E quand'ella vide che era un bell'uomo, si rallegrò, lo amò e celebrarono il matrimonio. Le due sorelle, invece, erano così furiose di aver perso quella fortuna, che lo stesso giorno del matrimonio l'una si annegò, mentre l'altra si impiccò. La sera, bussarono alla porta e si sentì un brontolio; quando lo sposo andò ad aprire, ecco il diavolo in giubba verde, che disse -Vedi, adesso ho due anime in cambio della tua!-.
FINE





La pappa dolce
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 103



C'era una volta una povera fanciulla pia, che viveva sola con sua madre; e non avevano più nulla da mangiare. Allora la fanciulla andò nel bosco e incontrò una vecchia che già conosceva la sua povertà, e che le regalò un pentolino. Doveva dirgli: -Cuoci la pappa, pentolino!- e il pentolino cuoceva una buona pappa dolce di miglio; e quando diceva: -Fermati, pentolino!- il pentolino smetteva di cuocere. La fanciulla lo portò a casa a sua madre: la loro miseria e la loro fame erano ormai finite, ed esse mangiavano pappa dolce ogni volta che volevano. Un giorno che la fanciulla era uscita, la madre disse: -Cuoci la pappa, pentolino!-. Quello fa la pappa ed ella mangia a sazietà; ora vuole che il pentolino la smetta, ma non sa la parola magica. Così quello continua a cuocere la pappa, e la pappa trabocca e cresce e riempie la cucina e l'intera casa, e l'altra casa ancora e poi la strada, come se volesse saziare tutto il mondo, ed è un bel guaio e nessuno sa come cavarsela. Infine, quando non restava una sola casa intatta, ritorna a casa la fanciulla e dice: -Fermati, pentolino!- e il pentolino si ferma e smette di fare la pappa; e chi volle tornare in città, dovette farsi strada mangiando.
FINE





I fedeli animali
tempo: 10'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 104



C'era una volta un uomo che aveva poco denaro, e con quel poco che gli rimaneva se ne andò in giro per il mondo. Giunse in un villaggio dove i fanciulli correvano tutti insieme, gridando e facendo chiasso. -Che cosa state facendo, ragazzi?- domandò l'uomo. -Abbiamo preso un topo- risposero quelli. -Ora lo facciamo ballare, guardate che divertimento! Come saltella!- Ma all'uomo il povero animaletto faceva pena, perciò disse: -Lasciate andare il topo, ragazzi, in cambio vi darò del denaro-. Egli diede loro dei soldi e quelli liberarono il topo che corse, più in fretta che pot‚, a rifugiarsi in un buco. L'uomo proseguì il suo cammino e giunse in un altro villaggio dove dei ragazzi avevano preso una scimmia e la costringevano a ballare e a fare capriole; ridevano e non davano pace all'animale. Anche a essi l'uomo diede del denaro perché‚ liberassero la scimmia. Infine egli giunse in un terzo villaggio dove dei ragazzi facevano ballare un orso e, quando l'animale brontolava, essi si divertivano ancora di più. Anche questa volta l'uomo lo fece liberare e l'orso, felice di potersene andare, trotterellò via. Ma l'uomo aveva ormai speso tutto quel poco denaro che gli restava e non aveva più un centesimo in tasca. Allora disse fra s‚: -Il re ha tanto denaro che non usa nella sua camera del tesoro; non puoi morire di fame, perciò ne prenderai un po' del suo e quando ne guadagnerai dell'altro, lo rimetterai a posto-. Si introdusse allora nella camera del tesoro e prese un po' di denaro, ma nell'uscire fu sorpreso dai fedeli del re che lo accusarono di essere un ladro e lo condussero davanti alla corte. Così fu condannato a essere rinchiuso in una cassa che doveva essere gettata in mare. Il coperchio della cassa era pieno di buchi perché‚ potesse entrarvi aria, e gli diedero pure una brocca d'acqua e una forma di pane. Mentre navigava sull'acqua, pieno di paura, udì la serratura cigolare, stridere e scricchiolare; di colpo la serratura cedette, il coperchio si sollevò, ed ecco apparire il topo, la scimmia e l'orso: erano stati loro ad aprire la cassa, volevano soccorrerlo poiché‚ li aveva aiutati. Ora però non sapevano che cosa fare e si consigliarono l'un l'altro. In quella arrivò galleggiando sull'acqua una pietra bianca che sembrava un uovo rotondo. Allora l'orso disse: -Viene proprio a proposito: è una pietra magica, colui al quale appartiene può desiderare qualsiasi cosa-. Allora l'uomo afferrò la pietra e quando l'ebbe in mano desiderò un castello con giardino e scuderia e, non appena ebbe formulato il desiderio, subito si trovò nel castello con giardino e scuderia, e ogni cosa era così splendida che non finiva più di meravigliarsi. Dopo qualche tempo, passarono di lì dei mercanti. -Guardate un po'- esclamarono -che splendido castello; l'ultima volta che siamo passati per di qua c'era soltanto della sabbia.- Siccome erano curiosi, entrarono e chiesero all'uomo come avesse fatto a costruire tutto così in fretta. Egli rispose: -Non è stata opera mia, ma della mia pietra magica-. -Di che pietra si tratta?- domandarono quelli. Allora egli andò a prenderla e la mostrò ai mercanti. Questi avrebbero desiderato molto averla, e domandarono se non potevano acquistarla, e gli offrirono in cambio tutte le loro merci pregiate. L'uomo si fece sedurre dalla bellezza di quelle cose e, siccome il cuore umano è incostante, pensò che le merci pregiate valessero di più della sua pietra magica, sicché‚ la diede loro. Ma non appena l'ebbe consegnata, cessò anche la sua fortuna, ed egli si ritrovò sul fiume nella cassa chiusa con una brocca d'acqua e una forma di pane. I fedeli animali, il topo, la scimmia e l'orso, vedendo la sua disgrazia vennero di nuovo in suo soccorso, ma non poterono neppure aprire la serratura, poiché‚ era molto più solida della prima volta. Allora l'orso disse: -Dobbiamo riuscire a recuperare la pietra magica, o tutto è perduto-. Dato che i mercanti vivevano ancora nel castello, gli animali vi si recarono insieme e, quando giunsero nelle vicinanze, l'orso disse: -Tu, topo, vai e guarda attraverso il buco della serratura quello che si può fare; sei piccolo e nessuno ti noterà-.
Il topo era d'accordo, ma ben presto tornò e disse: -Niente da fare: ho guardato dentro, ma la pietra è appesa a una cordicella rossa sotto uno specchio e d'ambo le parti ci sono due grossi gatti con occhi di fuoco che la sorvegliano-. Allora gli altri dissero: -Vai di nuovo dentro e aspetta che il padrone sia a letto e dorma poi, passando da un buco, introduciti nel suo letto, pizzicagli il naso e strappagli i capelli-. Il topo andò di nuovo dentro e fece come gli altri gli avevano detto. Il padrone si svegliò, si fregò il naso, stizzito, e disse: -I gatti non combinano nulla; lasciano che i topi mi strappino i capelli!-. E li cacciò via tutti e due, sicché‚ il topo l'ebbe vinta. La notte seguente, quando il padrone si fu addormentato di nuovo, il topo si introdusse nel castello e rosicchiò la cordicella rossa alla quale era appesa la pietra, finché‚ non la divise a metà e la pietra cadde a terra; poi la trascinò fin sulla porta.
Ma ecco che il compito si fece difficile per il povero piccolo topo, sicché‚ disse alla scimmia, che già era all'erta: -Prendila tu la pietra con le tue zampe, e portala fuori!-. La cosa era facile per la scimmia; così prese la pietra e insieme al topo arrivò fino al fiume. Giunti là, la scimmia disse: -Come facciamo adesso a raggiungere la cassa?-. L'orso rispose: -E' presto fatto: io vado in acqua e nuoto; tu, scimmia, siediti sulla mia schiena, aggrappati forte con le zampe e prendi la pietra in bocca; tu, topolino, ti puoi mettere nel mio orecchio destro-. Così fecero e scesero sul fiume a nuoto. Dopo un po', non sentendo più parlare, l'orso incominciò a chiacchierare e disse: -Senti un po', scimmia, non siamo forse dei bravi camerati?-. Ma la scimmia non rispondeva e continuava a tacere. -Ehi!- esclamò l'orso -non vuoi rispondermi? Chi non risponde è un cattivo compagno!- All'udire queste parole, la scimmia aprì la bocca, la pietra cadde in acqua ed ella disse: -Non potevo rispondere, avevo la pietra in bocca! Adesso è andata a fondo e la colpa è tua!-. -Sta' tranquilla- disse l'orso -troveremo una soluzione.- Allora si consultarono e decisero di chiamare le rane, i rospi e tutti gli insetti che vivono in acqua; dissero loro: -Sta sopraggiungendo un terribile nemico; procurateci tante pietre: vi costruiremo una muraglia e vi difenderemo-. Gli animali si spaventarono e portarono pietre da ogni dove; finalmente venne su dal fondo un vecchio rospo grasso con in bocca la pietra magica dalla cordicella rossa. Vedendola, l'orso disse tutto contento: -Ecco ciò che volevamo-. Tolse la pietra al rospo, disse agli animali che era tutto a posto e prese congedo. Poi i tre raggiunsero l'uomo nella cassa e aprirono il coperchio aiutandosi con la pietra. Erano arrivati giusto in tempo, perché‚ egli aveva già mangiato il pane e bevuto l'acqua ed era mezzo morto. Ma come ebbe in mano la pietra, egli desiderò di essere nuovamente fresco e sano nel suo bel castello con giardino e scuderia. Là visse felice e i tre animali rimasero con lui e se la passarono bene per tutta la vita.
FINE





Storie della serpe
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 105



1.

Un bambino sedeva per terra davanti alla porta di casa e aveva accanto a s‚ una scodellina di latte e pezzi di pane, e mangiava. In quella arrivò una serpe strisciando, ficcò la sua testolina nella scodella e mangiò con lui. Il giorno dopo tornò ancora e così ogni giorno per un certo periodo di tempo. Il bambino la lasciava fare, ma vedendo che la serpe beveva sempre solo il latte e non toccava i pezzetti di pane, prese il suo cucchiaino, la batté‚ un poco sul capo e disse: -Su, mangia anche il pane!-. In quel periodo il bambino era diventato bello ed era cresciuto. Un giorno la madre se ne stava dietro di lui e, vedendo la serpe, corse fuori e l'ammazzò. Da quel momento il bambino incominciò a dimagrire e infine morì.

2.

Un'orfanella sedeva presso il muro di cinta e filava, quando vide venire una serpe. Allora stese accanto a s‚ uno scialle di seta azzurra; piace tanto alle serpi e non vanno che su quello. Appena la serpe lo vide, tornò indietro, riapparve portando una piccola coroncina d'oro; la mise sullo scialle e se ne andò. La fanciulla prese la corona, che brillava ed era di sottile filigrana d'oro. Poco dopo la serpe tornò per la seconda volta, ma non vedendo più la corona, strisciò fino al muro e per il dolore vi picchiò contro la testina finché‚ ne ebbe la forza, e poi giacque morta. Se la fanciulla avesse lasciato stare la corona, la serpe avrebbe portato fuori dalla tana anche altri tesori.

3.

La serpe grida: -Uuh, uuh!-. Il bimbo dice: -Vieni fuori!-. La serpe esce e il bimbo chiede notizie della sorellina: -Non hai visto delle calzette rosse?-. La serpe risponde: -No, non le ho viste; e tu? Uuh, uuh!-.
FINE





Il povero garzone e la gattina
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 106



Tre garzoni servivano in un mulino dove viveva un vecchio mugnaio senza moglie e senza figli. Dopo aver trascorso alcuni anni insieme, un giorno il mugnaio disse: -Andate, e chi mi porterà a casa il miglior cavallo avrà il mulino-. Il terzo garzone era un servitorello che gli altri ritenevano uno sciocco e non volevano che avesse il mulino; del resto egli stesso non lo desiderava. Partirono tutti e tre insieme e, quando furono fuori dal villaggio, gli altri due dissero a quello sciocco di Gianni: -Puoi anche rimanere qui, tanto in vita tua non troverai mai un cavallo-. Ma Gianni andò lo stesso con loro e, quando fu notte, giunsero a una grotta dove si coricarono per dormire. I due furbi aspettarono che Gianni si fosse addormentato, poi uscirono dalla grotta e scapparono lasciando Gianni da solo, e pensavano di esser stati astuti: sì, ma vi andrà male! Quando sorse il sole e Gianni si svegliò, si trovò in fondo a una grotta; si guardò attorno ed esclamò: -Ah, Dio! Dove sono mai!-. Si alzò, risalì la grotta, andò nel bosco e pensò: "Come farò mai a trovare un cavallo!". Mentre se ne andava così, assorto nei suoi pensieri, incontrò una gattina pezzata che disse: -Dove vai, Gianni?-. -Ah, tu non puoi proprio aiutarmi!- rispose. -So bene quello che vuoi- disse la gattina -vuoi un bel cavallo. Vieni con me; se mi servirai per sette anni, te ne darò uno, più bello di quanti tu ne abbia mai visti in vita tua.- Così la gatta lo condusse nel suo piccolo castello incantato, dove egli doveva servirla e spaccare la legna tutti i giorni: per questo gli fu data un'ascia d'argento, cunei e sega d'argento e la mazza era di rame. E così spaccava la legna e se ne stava in casa, gli davano da mangiare e da bere, ma non vedeva nessuno all'infuori della gatta pezzata. Una volta ella gli disse: -Va' a falciare il mio prato e fai seccare l'erba- e gli diede una falce d'argento e una pietra per affilarla che era d'oro, e gli ordinò di consegnare tutto per bene. Gianni andò e fece come gli era stato ordinato; quand'ebbe finito riportò a casa la falce, la cote e il fieno, domandò se non credeva che fosse ormai giunto il tempo di dargli il suo compenso. -No- rispose la gatta -prima devi farmi un'altra cosa: qui c'è della legna d'argento, un'ascia, una squadra e ciò che occorre, tutto d'argento: costruiscimi una piccola casetta.- Allora Gianni costruì la casetta, poi disse che aveva fatto tutto ma non aveva ancora il cavallo. I sette anni erano trascorsi come se fossero stati sei mesi. La gatta gli chiese se voleva vedere i suoi cavalli. -Sì- rispose Gianni. Allora aprì la casetta e come dischiuse la porta, ecco là dodici cavalli dall'aspetto superbo. Erano lustri come specchi e il cuore del giovane gli balzò in petto dalla gioia. Poi la gatta gli diede da mangiare e da bere e disse: -Va' pure a casa, il cavallo per adesso non te lo do; fra tre giorni vengo io a portartelo-. Così Gianni andò a casa ed ella gli mostrò la strada per il mulino. Ma la gatta non gli aveva dato neppure un vestito nuovo, ed egli dovette tenersi il vecchio camiciotto cencioso, che aveva portato con s‚ e che gli era diventato troppo corto in quei sette anni. Quando giunse a casa, erano ritornati anche gli altri due garzoni; tutti e due avevano portato un cavallo, ma uno era cieco e l'altro zoppo. Gli domandarono: -Gianni, dov'è il tuo cavallo?-. -Arriverà fra tre giorni.- Si misero a ridere e dissero: -Sì, dove vuoi trovarlo tu un cavallo, Gianni! Chissà che bella roba!-. Gianni entrò nella stanza, ma il mugnaio gli disse che non poteva sedersi a tavola: era troppo cencioso e lacero, c'era da vergognarsi se entrava qualcuno. Così gli diedero due bocconi di cibo e lo fecero andare fuori a mangiarseli; e la sera, quando andarono a dormire, gli altri due non vollero dargli un letto, ed egli finì coll'andare nella stia delle oche e coricarsi su di un po' di paglia. La mattina dopo, quando si sveglia, sono già trascorsi i tre giorni, e arriva una carrozza trainata da sei cavalli, ah, così lucidi che era uno splendore! e un servo ne conduceva un settimo, per il povero garzone. Ma dalla carrozza scese una splendida principessa che entrò nel mulino: era la piccola gattina pezzata, che il povero Gianni aveva servito per sette anni. Domandò al mugnaio dove fosse il garzone, il servitorello. Il mugnaio rispose: -Non possiamo più lasciarlo venire al mulino, è troppo cencioso; è nella stia delle oche-. Allora la principessa disse di andare subito a chiamarlo. Così fecero, ed egli dovette tenere insieme i brandelli del suo camiciotto per coprirsi. Allora il servo tirò fuori degli abiti sfarzosi, e dovette lavarlo e vestirlo; e quando fu in ordine, nessun re poteva sembrare più bello. Poi la fanciulla volle vedere i cavalli che avevano portato gli altri due garzoni: uno era cieco e l'altro zoppo. Allora ella ordinò al servo di portare il settimo cavallo, e quando il mugnaio lo vide, disse che nel suo cortile non ve n'era mai stato uno simile. -Questo è per il terzo garzone- diss'ella. -Allora avrà il mulino- disse il mugnaio, ma la principessa rispose che lì c'era il cavallo e che poteva tenersi anche il mulino; poi prende il suo fedele Giovanni, lo fa sedere nella carrozza e se ne va con lui. Vanno nella casetta ch'egli ha costruito con gli arnesi d'argento: è un grande castello e tutto dentro è fatto d'oro e d'argento. Là si sposarono, ed egli fu ricco, così ricco che non gli mancò mai nulla per tutta la vita. Perciò nessuno deve dire che uno sciocco non può fare fortuna.
FINE





Le cornacchie
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 107



Un onesto soldato aveva guadagnato del denaro e lo aveva messo da parte, perché‚ era scrupoloso e non lo scialava, come gli altri, all'osteria. Due suoi camerati avevano il cuore cattivo e volevano portargli via il suo denaro; in apparenza, tuttavia, si comportavano molto amichevolmente. Un giorno gli dissero: -Ascolta, che cosa stiamo a fare qui in città, chiusi come se fossimo prigionieri? E per giunta uno come te, che a casa potrebbe guadagnare a dovere e vivere contento-. Insistettero così a lungo con questi discorsi, finché‚ egli acconsentì e scappò con loro. Ma gli altri due non avevano altro intento che di rubargli il denaro fuori città. Quand'ebbero percorso un tratto di strada, i due camerati dissero: -Dobbiamo prendere la strada verso destra se vogliamo arrivare al confine-. -Ma neanche per idea!- rispose l'altro -di qui si torna dritti in città: dobbiamo proseguire a sinistra.- -Che cosa? Vuoi forse fare il prepotente?- gridarono gli altri due, gli si scagliarono addosso, lo picchiarono finché‚ egli cadde a terra e gli presero i soldi di tasca. Ma non era ancora abbastanza: gli cavarono gli occhi, lo trascinarono alla forca e ve lo legarono stretto. Lo abbandonarono là e se ne tornarono in città con il denaro rubato. Il povero cieco non sapeva in quale luogo triste si trovasse; tastò attorno a s‚ e capì di essere seduto sotto una trave di legno. Allora pensò che si trattasse di una croce e disse: -E' stato bello da parte vostra avermi almeno legato sotto una croce: Dio è con me- e incominciò a pregare. Quando stava per imbrunire, udì un frullar d'ali: erano tre cornacchie che si posarono sulla forca. Ne udì una che diceva: -Sorelle, che novità ci portate? Ah, se la gente sapesse quello che sappiamo noi! La principessa è malata, e il vecchio re l'ha promessa in isposa a colui che la guarisce. Ma questo non lo può nessuno poiché‚ la principessa ridiventerà sana solo se il rospo che si trova nello stagno verrà ridotto in cenere ed ella la berrà-. La seconda cornacchia disse: -Ah, se la gente sapesse quello che sappiamo noi! Questa notte verrà dal cielo una rugiada salutare e portentosa, e chi è cieco e si strofina gli occhi con essa, riacquista la vista-. La terza disse: -Ah, se la gente sapesse quello che sappiamo noi! Il rospo può essere di aiuto a una sola persona e anche la rugiada è rimedio per pochi, ma in città c'è grande pericolo: tutti i pozzi sono prosciugati e nessuno sa che se si toglie la grossa pietra quadrata che si trova sulla piazza del mercato, e vi si scava sotto, ne sgorgherà dell'ottima acqua-. Quando le cornacchie ebbero pronunciato queste parole, egli le udì volar via con un frullar d'ali. Piano piano si liberò dalle corde, poi si chinò, raccolse qualche erbetta e si strofinò gli occhi con la rugiada che vi era caduta sopra. Subito tornò a vederci, e siccome in cielo c'erano la luna e le stelle, vide che si trovava presso la forca. Cercò allora un vaso di terracotta e raccolse quanto più pot‚ della preziosa rugiada; poi andò allo stagno, rimosse un po' l'acqua, tirò fuori il rospo e, dopo averlo ridotto in cenere, si recò alla corte del re. Là fece bere la cenere alla principessa, e quand'ella guarì la domandò in moglie, come era stato promesso. Ma siccome era vestito miseramente, egli non piacque al re, sicché‚ questi fece sapere che colui che volesse avere sua figlia in isposa doveva prima procurare acqua alla città; così credeva di essersi liberato di lui. Ma egli andò alla piazza del mercato e disse alla gente di sollevare la pietra quadrata e di cercare l'acqua scavandovi sotto. Così fecero e presto trovarono una bella sorgente che dava acqua in abbondanza. Il re non pot‚ più rifiutargli la figlia, ed essi si sposarono e vissero insieme felici. Un giorno, mentre se ne andava a passeggio per i campi, incontrò i due camerati di un tempo che erano stati tanto sleali con lui. Essi non lo riconobbero, mentre egli li identificò subito, andò da loro e disse: -Vedete, sono il vostro camerata di un tempo, al quale avete cavato gli occhi in modo così infame; ma il buon Dio, per fortuna, me li ha fatti ricrescere-. Allora essi si prostrarono ai suoi piedi e chiesero grazia; e siccome egli era di buon cuore, ne ebbe pietà, li prese con s‚ e diede loro vestiti e nutrimento. Indi raccontò come gli erano andate le cose e come fosse arrivato a tanta fortuna. Appresa ogni cosa, gli altri due non si davano pace e vollero anch'essi trascorrere una notte sotto la forca per vedere se sentivano qualcosa di interessante. Quando si trovarono sotto al patibolo, udirono un frullar d'ali sopra le loro teste: erano le tre cornacchie. La prima disse alle altre: -Ascoltate, sorelle, deve averci ascoltate qualcuno, poiché‚ la principessa è guarita, il rospo è sparito dallo stagno, un cieco è tornato a vederci e in città hanno scavato di fresco un pozzo; venite e cerchiamo, forse troveremo colui che ci ha ascoltate!-. Le tre cornacchie scesero a volo e trovarono i due soldati; prima che questi potessero difendersi, si posarono sulle loro teste e cavarono loro gli occhi a forza di beccate, poi continuarono a beccarli finché‚ li uccisero. Così i due rimasero distesi sotto la forca. Non vedendoli tornare da due giorni, il loro vecchio camerata si chiese dove fossero andati a finire e si mise a cercarli. Ma non trovò altro che le loro ossa, le portò via dalla forca e le mise in una fossa.
FINE





Gian Porcospino
tempo: 14'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 108



C’era una volta un ricco contadino che non aveva figli. Spesso, quando si recava in città con gli altri contadini, questi lo canzonavano e gli domandavano perché‚ non avesse figli. Un giorno si arrabbiò e quando arrivò a casa disse: “Voglio avere un figlio, fosse anche un porcospino.” Ed ecco, sua moglie mise al mondo un bambino, mezzo porcospino e mezzo uomo, e quando lo vide inorridì e disse: “Vedi, ci hai gettato un maleficio!” Disse l’uomo: “Che cosa ci vuoi fare? Dobbiamo battezzarlo lo stesso, ma non possiamo prendere un compare.” La donna rispose: “E non possiamo chiamarlo che Gian Porcospino.” Dopo il battesimo, il parroco disse: “Con questi aculei non può entrare in un letto normale.” Così sistemarono un po’ di paglia dietro la stufa e ci misero Gian Porcospino. Egli non poteva neanche essere allattato dalla madre, perché‚ l’avrebbe punta con quegli aculei. Così se ne stette dietro la stufa per otto anni, e suo padre non ne poteva più e si augurava solo che morisse; ma egli non morì e se ne stava là disteso. Ora avvenne che ci fu un mercato in città, e il contadino volle andarci, perciò domandò alla moglie che cosa dovesse portarle. “Un po’ di carne e qualche panino, quel che occorre in casa,” disse lei. Poi chiese alla serva, che voleva un paio di pantofole e delle calze con lo sprone. Infine chiese: “E tu, Gian Porcospino, cosa vuoi?” - “Babbino,” disse questi, “portami una cornamusa.” Quando il contadino tornò a casa, diede alla moglie ciò che aveva comprato, carne e panini; poi diede alla serva le pantofole e le calze con lo sprone, infine andò dietro la stufa e diede la cornamusa a Gian Porcospino. E quando questi ebbe la cornamusa, disse: “Babbino, andate alla fucina e fatemi ferrare il mio gallo, così partirò e non tornerò mai più.” Il padre era felice di potersene liberare; gli fece ferrare il gallo e, quando fu pronto, Gian Porcospino gli salì in groppa, portando con s‚ anche asini e porci che voleva custodire nel bosco. Nel bosco il gallo dovette volare con lui su un albero alto, ed egli rimase lassù a custodire asini e porci. Egli rimase molti anni lassù mentre il suo branco si ingrossava e suo padre non sapeva più nulla di lui. Sull’albero, egli suonava la sua cornamusa, e la musica era bellissima. Un giorno un re che si era perduto passò di là e udì la musica; se ne meravigliò e mandò un suo servo a vedere da dove venisse. Quello si guardò attorno ma vide soltanto un animaletto seduto in cima a un albero; sembrava un gallo, con un porcospino in groppa che suonava. Allora il re ordinò al servo di domandargli perché‚ se ne stesse là seduto, e se sapesse dove passava la strada per il suo regno. Allora Gian Porcospino scese dall’albero e disse che gli avrebbe indicato il cammino se il re gli prometteva per iscritto la prima cosa che a corte gli fosse venuta incontro al suo arrivo. Il re pensò: “Puoi farlo benissimo, tanto Gian Porcospino non capisce nulla e tu puoi scrivere quello che vuoi.” Così prese penna e inchiostro e scrisse qualcosa e, quando ebbe finito, Gian Porcospino gli indicò la strada ed egli arrivò felicemente a casa. Ma sua figlia, vedendolo da lontano, piena di gioia gli corse incontro e lo baciò. Egli pensò a Gian Porcospino e le raccontò quel che gli era successo: che aveva dovuto promettere per iscritto a uno strano animale ciò che a casa gli fosse venuto incontro per primo; l’animale stava in groppa a un galletto e suonava molto bene; ma egli aveva scritto che non gli avrebbe dato nulla perché‚, tanto, Gian Porcospino non sapeva leggere. La principessa ne fu felice e disse che era ben fatto, perché‚ non ci sarebbe andata in nessun caso.

Ma Gian Porcospino custodiva gli asini e i porci, era sempre allegro e sedeva sull’albero a suonare la cornamusa. Ora avvenne che un altro re arrivò in carrozza con i suoi servi e alfieri; si era perduto e non sapeva tornare a casa, poiché‚ il bosco era tanto grande. Udì subito la bella musica da lontano e disse al suo alfiere di andare a vedere cos’era e di dove veniva la musica. Questi andò sotto l’albero e vide il gallo con Gian Porcospino in groppa. Gli domandò che cosa stesse facendo lassù. “Custodisco asini e maiali; ma voi, cosa volete?” L’alfiere rispose che si erano persi e che non potevano più tornare nel loro regno, e s’egli voleva indicare loro il cammino. Allora Gian Porcospino scese dall’albero con il gallo e disse al vecchio re che gli avrebbe indicato la strada se gli avesse concesso la prima cosa che gli fosse venuta incontro davanti al suo castello. Il re rispose di sì e firmò la promessa a Gian Porcospino. Allora questi lo precedette in groppa al suo gallo, gli mostrò la strada, e il re fece ritorno felicemente nel suo regno. Quando giunse a corte, la gioia fu grande. Il re aveva un’unica figlia, molto bella; lei gli venne incontro, gli saltò al collo, lo baciò, felice che il vecchio padre fosse tornato. Gli chiese dove fosse stato così a lungo in giro per il mondo, ed egli le raccontò di essersi perso e che forse non avrebbe più fatto ritorno; ma mentre attraversava un gran bosco, un essere mezzo porcospino e mezzo uomo, che stava in cima a un albero in groppa a un gallo, e suonava molto bene, lo aveva aiutato e gli aveva mostrato il cammino; in cambio però egli aveva dovuto promettergli la prima cosa che gli fosse venuta incontro a corte, e questa era lei, e ora egli era tanto afflitto. Ma lei gli promise che, all’arrivo di Gian Porcospino, lo avrebbe seguito volentieri per amore del suo vecchio padre.

Ma Gian Porcospino custodiva i suoi porci, e i porci mettevano al mondo altri porci e diventarono tanti che tutto il bosco n’era pieno. Allora Gian Porcospino mandò a dire a suo padre di sgombrare tutti i porcili del villaggio e di fare spazio, poiché‚ egli sarebbe arrivato con un branco tale di porci che, se avessero voluto, tutti avrebbero potuto macellare. All’udire questa notizia, il padre si rattristò perché‚ pensava che Gian Porcospino fosse morto da un pezzo. Gian Porcospino, invece, salì in groppa al suo gallo, menò i porci fino al villaggio e li fece macellare. Ah, fu una strage il cui rumore si poteva udire a due ore di distanza! Poi Gian Porcospino disse: “Babbino, andate nella fucina a far ferrare ancora una volta il mio gallo; poi me ne vado e non torno più in vita mia.” Allora il padre fece ferrare il gallo ed era felice che Gian Porcospino non volesse più tornare.

Gian Porcospino se n’andò nel primo regno; il re aveva ordinato che, se arrivava uno in groppa a un gallo e con una cornamusa, gli sparassero tutti contro, lo battessero e lo ferissero, perché‚ non entrasse nel castello. Così quando arrivò Gian Porcospino, gli si gettarono addosso con le baionette; ma egli spronò il suo gallo, e volò oltre la porta, fino alla finestra del re; vi si posò e gli gridò di dargli ciò che aveva promesso, altrimenti avrebbe ucciso lui e sua figlia. Allora il re pregò la figlia di andare da Gian Porcospino, per salvare la sua vita e quella del padre. Lei si vestì di bianco, e il padre le diede una carrozza con sei cavalli, valletti sfarzosi, denaro e beni. Lei salì in carrozza e Gian Porcospino vi si sedette accanto con il gallo e la cornamusa; poi presero congedo e partirono, e il re pensava che non l’avrebbe mai più rivista. Invece andò in modo ben diverso. Quando furono a qualche distanza dalla città, Gian Porcospino la svestì e la punse con i suoi aculei finché‚ fu tutta sanguinante e disse: “Questa è la ricompensa per la vostra slealtà; vattene, non ti voglio.” Così la cacciò e la rimandò a casa, e lei fu disonorata per tutta la vita.

Gian Porcospino invece proseguì sul suo gallo e con la sua cornamusa verso il secondo regno, dove si trovava l’altro re al quale aveva indicato la strada. Questi aveva ordinato, se arrivasse uno come Gian Porcospino, di presentargli le armi, lasciarlo entrare liberamente, gridare evviva e introdurlo nel castello. Quando la principessa lo vide, inorridì perché‚ il suo aspetto era davvero bizzarro; ma pensò che non c’era nient’altro da fare, l’aveva promesso a suo padre. Così diede il benvenuto a Gian Porcospino, egli dovette accompagnarla alla tavola regale, e lei sedette al suo fianco, mangiarono e bevvero insieme. Alla sera, quando fu ora di andare a dormire, lei aveva molta paura dei suoi aculei, ma egli le disse di non temere, non le avrebbe fatto alcun male; e disse al vecchio re di mandare quattro uomini che facessero la guardia davanti alla porta della loro camera e accendessero un gran fuoco: entrato in camera per mettersi a letto, egli sarebbe sgusciato fuori dalla sua pelle di porcospino e l’avrebbe lasciata davanti al letto; allora i quattro uomini dovevano raccoglierla in fretta, gettarla nel fuoco e aspettare che il fuoco l’avesse distrutta. Quando la campana suonò le undici, egli entrò in camera, si tolse la pelle di porcospino e la lasciò per terra davanti al letto; allora vennero gli uomini, la presero in fretta e la gettarono nel fuoco; e quando il fuoco l’ebbe distrutta, egli fu libero dall’incantesimo, e giaceva nel letto ormai del tutto uomo; però era nero come il carbone, come se lo avessero bruciato. Il re mandò a chiamare il suo medico, che lo lavò con dei buoni unguenti e lo profumò; ed egli divenne un giovane signore, bianco e bello. Quando lo vide, la principessa ne fu felice; si alzarono contenti, mangiarono e bevvero, si festeggiarono le loro nozze e Gian Porcospino ottenne il regno dal vecchio re.

Quando fu trascorso qualche anno, andò con la sua sposa dal padre e gli disse che era suo figlio; ma il padre rispose che non ne aveva: glien’era nato solo uno che aveva gli aculei come un porcospino, e se n’era andato in giro per il mondo. Allora egli si fece riconoscere e il vecchio padre si rallegrò e lo seguì nel suo regno.
FINE





La camicina da morto
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 109



Una madre aveva un bambino di sette anni, così bello e grazioso che non lo si poteva guardare senza volergli bene, ed ella lo amava più di ogni altra cosa al mondo. Ora avvenne ch'egli si ammalò all'improvviso, e il buon Dio lo chiamò a s‚; la madre non poteva consolarsi e piangeva giorno e notte. Era stato sepolto da poco quando il bimbo, di notte, prese a mostrarsi proprio là dove se ne stava a giocare quand'era vivo; se la madre piangeva, piangeva anche lui, e quando veniva il mattino spariva. Ma poiché‚ la madre non cessava di piangere, una notte egli le apparve con la bianca camicina da morto con la quale era stato messo nella bara, e con la coroncina in testa; si sedette ai suoi piedi, sul letto, e disse: -Ah, mamma, non pianger più, altrimenti non posso addormentarmi nella bara: la mia camicina da morto è sempre bagnata delle tue lacrime che vi cadono tutte sopra-. All'udire queste parole la madre si spaventò e non pianse più. E la notte dopo il bambino tornò con una candelina in mano e disse: -Vedi? La mia camicina è quasi asciutta, e io riposo nella mia tomba-. Allora la madre offrì il suo dolore a Dio, lo sopportò con pazienza e in silenzio, e il bimbo non tornò, ma dormì nel suo lettino sotto terra.
FINE





L'ebreo nello spineto
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 110



Un contadino aveva un servo fedele e zelante, al suo servizio già da tre anni senza che egli gli avesse mai dato il suo salario. Finalmente il servo pensò che non intendeva lavorare per niente, andò dal padrone e disse: -Vi ho servito tutto questo tempo con solerzia e lealtà, perciò confido in voi perché‚ mi diate ciò che mi spetta di diritto-. Ma il contadino era uno spilorcio, e sapeva che il servo era d'animo semplice; così prese tre centesimi e gliene diede uno per anno: questa era la sua paga. Il servo pensava di avere in mano un grosso capitale e pensò: "Perché‚ vorresti ancora crucciarti; adesso puoi aver cura di te e andare in giro per il mondo a fartela bene". Così mise il suo bel capitale in uno zaino e se ne andò allegramente per monti e valli. Una volta giunse in un campo saltando e cantando e gli apparve un ometto che gli domandò la causa della sua gioia. -Perché‚ mai dovrei essere triste? Ho salute e denaro in abbondanza, non ho certo bisogno di preoccuparmi. Ho con me tutto ciò che ho guadagnato e risparmiato prestando servizio per tre anni.- -A quanto ammonta il tuo tesoro?- chiese l'omino. -Tre bei centesimi- rispose il servo. -Regalami i tuoi tre centesimi: sono un pover'uomo.- Il servo aveva buon cuore e provò compassione per l'omino, così gli diede i soldi. L'omino disse: -Dato che il tuo cuore è buono, ti concedo tre desideri, uno per centesimo: avrai quel che desideri-. Il servo ne fu soddisfatto e pensò che preferiva della roba al denaro; poi disse: -Per prima cosa desidero un archibugio che colpisca tutto quello che prendo di mira; in secondo luogo un violino, e quando suono tutti quelli che sentono devono ballare; e in terzo luogo, se domando qualcosa, che nessuno possa rifiutarla-. L'omino disse: -Avrai tutte queste cose!-. Gli diede violino e archibugio, e poi se ne andò per la sua strada. Il servo, che già si riteneva fortunato prima, pensava ora di esserlo dieci volte di più. Poco dopo incontrò un vecchio ebreo che se ne stava ai piedi di un albero in cima al quale, sul ramo più alto, c'era una piccola allodola che cantava, cantava. -Bontà divina!- esclamò l'ebreo -cosa può mai fare una simile bestiola! Non so che darei per averla!- -Se è tutto qui- disse il servo -sarà facile farla cadere.- Prese la mira e centrò l'uccello che cadde dall'albero. -Andate a raccoglierlo- disse poi. Ma l'uccello era caduto in uno spineto ai piedi dell'albero. Allora l'ebreo si fece strada nello spineto e, quando vi fu in mezzo, il servo tirò fuori il suo violino e si mise a suonare. Subito l'ebreo si mise a ballare senza posa, e prese a saltare sempre più in fretta e sempre più alto. Ma le spine gli laceravano le vesti, sicché‚ qua e là pendevano dei brandelli, lo graffiavano e lo ferivano da fargli sanguinare tutto il corpo. -Per l'amor di Dio!- gridò l'ebreo. -Smetta vossignoria con quel violino, che ho mai fatto di male?- Ma l'allegro servitore pensò: "Hai scorticato la gente a sufficienza: ora avrai altrettanto" e si mise a suonare un'altra danza. Allora l'ebreo si mise a pregarlo e gli promise del denaro se smetteva di suonare. Ma i soldi non bastavano mai al servo che continuò a suonare finché‚ l'ebreo non gli promise cento bei fiorini che teneva nella borsa e che aveva appena estorti a un poveraccio. Quando il servo vide tutto quel denaro, disse: -Così va bene-. Prese la borsa e ritirò il violino; poi continuò per la sua strada allegro e tranquillo. L'ebreo uscì dallo spineto mezzo nudo e malandato, si mise a pensare a come poteva vendicarsi e gridò al violinista quante ingiurie sapeva. Poi corse da un giudice e si lamentò dicendo di essere stato derubato del suo oro da un furfante che, per giunta, l'aveva ridotto da far pietà; colui portava un fucile sulla schiena e un violino a tracolla. Allora il giudice inviò messi e sbirri a cercarlo, ed egli fu ben presto rintracciato e condotto a giudizio. Allora l'ebreo lo accusò di avergli rubato il denaro, ma il servo disse: -Non è vero, il denaro me lo hai dato tu perché‚ smettessi di suonare-. Ma il giudice andò per le spicce e condannò il servo alla forca. Questi era già salito sulla scala a pioli, e aveva la corda al collo, quando disse: -Signor giudice, vogliate concedermi un'ultima preghiera!-. -Ti sia concessa- rispose il giudice -purché‚ tu non chieda la grazia.- -No, non si tratta della grazia- rispose il servo. -Vi prego di lasciarmi suonare per l'ultima volta il mio violino.- Allora l'ebreo si mise a gridare: -Per amor di Dio, non permetteteglielo! Non permetteteglielo!-. Ma il giudice disse: -Gli spetta e così sia-. Del resto non poteva rifiutare, proprio per quel dono che era stato concesso al servo. L'ebreo gridò: -Ahimè! Legatemi stretto!-. Il servo prese il violino e al primo colpo di archetto tutti si misero a dondolare e a traballare, giudice, scrivani e uscieri, e nessuno poté legare l'ebreo; al secondo colpo d'archetto, il boia lasciò andare il servo e si mise a ballare; quando si mise a suonare ballarono tutti insieme: il giudice e l'ebreo davanti e tutta la gente che si era radunata sul mercato per assistere. All'inizio era divertente, ma poi, siccome il violino e la danza non cessavano, presero a strillare miseramente e lo pregarono di smettere, ma egli continuò finché‚ il giudice non gli concesse la grazia e gli promise di lasciargli anche i cento fiorini. Poi disse ancora all'ebreo: -Furfante, confessa donde ti viene il denaro, o continuo a suonare solo per te!-. -L'ho rubato, l'ho rubato! Tu, invece, l'hai guadagnato onestamente- gridò l'ebreo, e tutti udirono. Allora il servo smise di suonare, mentre l'infame fu impiccato al suo posto.
FINE





Il cacciatore provetto
tempo: 15'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 111



C'era una volta un ragazzo che aveva imparato il mestiere del fabbro e disse al padre che voleva andare per il mondo e mettersi alla prova. "Sì" disse il padre "va' pure" e gli diede un po' di denaro per il viaggio. Così egli se ne andò girando qua e là. Dopo un po' di tempo, il suo mestiere non gli riusciva più e non gli andava più a genio; aveva voglia, invece, di imparare a cacciare. Per strada incontrò un cacciatore vestito di verde, che gli domandò da dove venisse e dove andasse. Il ragazzo rispose ch'egli era garzone di fucina, ma il mestiere non gli piaceva più e aveva voglia di imparare a cacciare: voleva prenderlo come garzone? "Oh sì, se vuoi venire con me." Così il ragazzo lo seguì, rimase al suo servizio per qualche anno e imparò l'arte della caccia. Poi volle di nuovo mettersi alla prova, e il cacciatore non gli diede altro compenso che un archibugio; esso aveva però la virtù di colpir senza fallo ogni volta che sparava. Egli se ne andò e giunse in un gran bosco, e in un giorno non ne poté vedere la fine. A sera salì su di un albero alto per mettersi al riparo dalle bestie feroci. Verso mezzanotte gli parve di veder brillare una luce lontano; guardò attraverso i rami e osservò con attenzione dove fosse. Poi prese il suo cappello e lo buttò giù verso il lume, per avere, quando fosse sceso, un segno che gli indicasse il cammino. Scese dall'albero, andò difilato al suo cappello, se lo rimise in testa e proseguì dritto davanti a sé. Più camminava e più grande si faceva la luce e, quando vi giunse, vide che era un gran fuoco; accanto c'erano seduti tre giganti che facevano arrostire un bue allo spiedo. Uno disse: "Devo assaggiare la carne per vedere se è quasi cotta". Ne staccò un pezzo e stava per metterselo in bocca, quando il cacciatore con un colpo glielo fece cadere di mano. "Ma guarda un po'" disse il gigante "il vento mi porta via la carne!" e ne prese un altro pezzo. Stava per addentarlo, quando il cacciatore glielo portò via con un altro colpo; allora il gigante diede uno schiaffo a quello che gli era seduto accanto e gridò incollerito: "Perché mi porti via il mio pezzo di carne?". "Non ti ho portato via nulla" rispose quello. "Dev'essere stato un colpo di archibugio." Il gigante prese un terzo pezzo, ma non poté tenerlo in mano, poiché il cacciatore glielo fece volar via di nuovo sparando. Allora i giganti dissero: "Dev'essere un buon tiratore se sa portare via il boccone di bocca; un tipo del genere potrebbe esserci utile". E gridarono forte: "Vieni fuori, archibugiere, siediti accanto al fuoco e mangia a tua voglia; non ti faremo niente; ma se non vieni e ti prendiamo con la forza, sei perduto". Allora il giovane si avvicinò e disse che era un cacciatore provetto e qualsiasi cosa prendesse di mira con il suo archibugio la colpiva senza mai sbagliare. I giganti gli dissero che se fosse andato con loro, si sarebbe trovato bene; e gli raccontarono che davanti al bosco c'era un gran fiume, al di là del quale c'era una torre in cui si trovava un bella principessa, che essi volevano rapire. "Sì" diss'egli "è presto fatto." Gli altri soggiunsero: "C'è ancora una cosa: là c'è un cagnolino che si mette ad abbaiare se qualcuno si avvicina, e subito a corte si svegliano tutti; per questo non possiamo entrare. Avrai il coraggio di uccidere il cagnolino?". "Sì" rispose egli "sarà un gioco per me." Poi salì su una barca e attraversò il fiume, ed era quasi a riva quando giunse di corsa il cagnolino; stava per mettersi ad abbaiare, ma il cacciatore prese il suo archibugio, gli sparò e l'uccise. A quella vista i giganti si rallegrarono e credevano di avere già la principessa in loro potere. Ma il cacciatore disse loro di fermarsi là fuori finché non li chiamasse. Poi entrò nel castello dove regnava un silenzio di tomba e tutti dormivano. Quando aprì la prima stanza, ecco appesa alla parete una sciabola d'argento puro, con una stella d'oro sopra e il nome del re; accanto vi era una tavola sulla quale c'era una lettera sigillata. Egli l'aprì e lesse che con quella sciabola uno poteva uccidere chiunque gli comparisse davanti. Allora il giovane la staccò dalla parete, se la mise al fianco e proseguì; giunse nella stanza dove dormiva la principessa, ed era così bella ch'egli si fermò a guardarla e trattenne il respiro. Si guardò attorno e vide che sotto il letto c'era un paio di pantofole: su quella destra c'era il nome del padre con una stella, su quella sinistra il nome di lei con una stella. Ella aveva al collo un grande scialle di seta trapunto d'oro. Allora il cacciatore prese un paio di forbici, tagliò il lembo di destra e lo mise nel suo zaino, poi ci mise anche la pantofola destra, quella che portava il nome del re. La fanciulla continuava a dormire, ben chiusa nella sua camicia; allora egli tagliò anche un pezzetto della camicia e lo mise insieme al resto, ma fece tutto questo senza sfiorarla. Poi se ne andò, lasciandola dormire; quando giunse alla porta, i giganti erano là fuori che lo aspettavano e pensavano che avesse portato la principessa. Ma egli gridò che entrassero e che la fanciulla era già nelle sue mani; non poteva, tuttavia, aprire loro la porta, ma c'era un buco attraverso il quale dovevano passare. Si avvicinò il primo, e il cacciatore avvolse i capelli del gigante intorno alla sua mano, tirò dentro la testa e la mozzò con un colpo di sciabola; poi lo tirò dentro del tutto. Poi chiamò il secondo e tagliò la testa anche a lui, e così pure al terzo; ed era felice di aver liberato la bella fanciulla dai suoi nemici. Tagliò loro le tre lingue e se le mise nello zaino. Poi pensò: "Andrò a casa da mio padre e gli mostrerò quel che ho fatto, poi me ne andrò in giro per il mondo: la fortuna che Dio mi destina, non mi mancherà". Ma nel castello, quando il re si svegliò, vide i tre giganti che giacevano a terra morti. Andò nella camera di sua figlia, la svegliò e le domandò chi fosse stato a ucciderli. Ella disse: "Caro babbo, non lo so: dormivo". Ma quando si alzò volle infilare le pantofole, la destra era sparita; e quando guardò il suo scialle, vide che era tagliato e che mancava il lembo destro; e quando guardò la sua camicia, ne mancava un pezzettino. Il re radunò tutta la corte, i soldati e tutti gli altri, e domandò chi avesse liberato sua figlia e ucciso i giganti. Ora egli aveva un capitano che aveva un occhio solo ed era bruttissimo; questi disse di essere stato lui. Allora il vecchio re disse che se aveva compiuto quell'impresa, doveva anche sposare sua figlia. Ma la fanciulla disse: "Caro babbo, piuttosto che sposare costui, preferisco andarmene per il mondo, fin dove mi portano le gambe". Il re le disse che se non voleva sposarlo doveva togliersi le vesti regali, mettersi un vestito da contadina e andarsene da un vasaio a vendere stoviglie di terra. Ella si tolse così le vesti regali, andò da un vasaio e prese a credito delle stoviglie, con la promessa di pagarlo alla sera, quando le avesse vendute. Il re le disse di mettersi a vendere in un angolo, poi ordinò che dei carri vi passassero in mezzo e mandassero tutto in mille pezzi. Quando la principessa ebbe disposto la merce sulla strada, arrivarono i carri che ruppero tutto. Ella si mise a piangere e disse: "Ah, Dio, come farò a pagare il vasaio!". Ma in questo modo il re aveva voluto costringerla a sposare il capitano, e invece ella tornò dal vasaio e gli domandò se volesse ancora farle credito. Questi rispose di no, prima doveva pagare la roba dell'altra volta. Allora ella andò dal padre, piangendo e disperandosi e disse che voleva andarsene per il mondo. Egli le disse di andare nel bosco: le avrebbe fatto costruire una casetta dove sarebbe stata tutta la vita e avrebbe fatto da mangiare a chiunque, senza mai prendere denaro. Così le fece costruire la casina nel bosco, sulla porta era appesa un'insegna che diceva: "Oggi gratis, domani a pagamento". Ella vi stette a lungo e in giro si sparse la voce che nel bosco c'era una fanciulla che dava da mangiare gratis, come diceva un'insegna fuori dalla porta. Lo venne a sapere anche il cacciatore e pensò: "E' proprio quel che ci vuole per te che sei povero e non hai denaro". Prese il suo archibugio e lo zaino in cui c'era ancora tutto quello che aveva preso nel castello come prova, andò nel bosco e trovò anche lui la casina con l'insegna: "Oggi gratis, domani a pagamento". Egli aveva al fianco anche la spada con la quale aveva tagliato la testa ai tre giganti; così entrò nella casina e si fece dare qualcosa da mangiare. E si beava alla vista di quella fanciulla, bella come il sole. Ella gli domandò da dove venisse e dove andasse, ed egli rispose: "Giro per il mondo". Allora ella gli domandò dove avesse preso quella spada, sulla quale c'era il nome di suo padre. Egli le domandò se fosse la figlia del re, ed ella rispose di sì. "Con questa spada" diss'egli "ho tagliato le teste ai tre giganti." E come prova prese dallo zaino le lingue e le mostrò anche la pantofola, il lembo dello scialle e il pezzo di camicia. Piena di gioia, ella disse che era il suo liberatore. Poi andarono insieme dal vecchio re; la fanciulla lo condusse nella sua camera e gli disse che il cacciatore era colui che l'aveva davvero liberata dai giganti. E quando il vecchio re vide tutte le prove, non poté più dubitare e disse che era d'accordo e che la fanciulla doveva diventare sua moglie; ed ella ne fu ben contenta. Poi lo vestirono come se fosse stato un nobile forestiero, e il re fece imbandire un grande banchetto. A tavola il capitano sedette a sinistra della principessa, mentre il cacciatore sedette a destra, e il capitano pensava che fosse un nobile forestiero venuto in visita. Quand'ebbero mangiato e bevuto, il vecchio re disse al capitano che doveva risolvere un quesito: se uno diceva di avere ucciso tre giganti e gli chiedevano dov'erano le lingue, e poi doveva constatare che nelle teste non ce n'era neanche una, come era possibile? Il capitano disse: "Non ne avranno avute". "Come!" disse il re. "Ogni animale ha la sua lingua." E chiese ancora quale castigo meritasse quel tale. Il capitano rispose: "Merita di essere fatto a pezzi". Allora il re disse che aveva pronunciato il suo verdetto: il capitano fu messo in prigione e fatto a pezzi, mentre la principessa sposò il cacciatore. Poi egli andò a prendere il padre e la madre, che vissero felici con lui, ed ebbe il regno alla morte del vecchio re.
FINE





La trebbia venuta dal cielo
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 112



Una volta un contadino andò ad arare con una coppia di buoi. Quando giunse al campo, le corna delle due bestie incominciarono a crescere e crebbero tanto che quando volle tornare a casa erano così grandi che egli non pot‚ farle passare dal portone. Per fortuna, in quella passava di lì un macellaio, e il contadino gli lasciò i buoi, e si misero d'accordo in questo modo: il contadino doveva portare al macellaio una misura di ravizzone, e il macellaio doveva sborsare uno scudo per ogni seme. Questo si chiama un buon affare! Il contadino andò a casa, portando sulla schiena una misura di ravizzone; ma, per strada, perse un granello dal sacco. Il macellaio lo pagò secondo l'accordo: se il contadino non avesse perso quel seme, avrebbe avuto uno scudo in più. Nel frattempo, mentre tornava indietro, dal seme era cresciuto un albero che arrivava fino al cielo. Il contadino pensò: "Non perdere l'occasione di vedere che cosa fanno gli angeli lassù: per una volta li avrai sotto gli occhi!". Allora egli salì sull'albero e vide che gli angeli trebbiavano l'avena e si mise a guardare; mentre guardava si accorse che l'albero incominciava a vacillare; guardò giù e vide che uno stava per abbatterlo. "Se cadessi, sarebbe un bel guaio!" pensò e, trovandosi in difficoltà, non seppe far di meglio che prendere la pula dell'avena, che là era a mucchi, e farsene una corda. Prese inoltre una zappa e una trebbia, che erano in cielo, e si calò con la fune. Ma giù, a terra, finì in un buco profondo profondo, e fu una vera fortuna che avesse la zappa, poiché‚ così si scavò degli scalini per risalite, e portò con s‚ la trebbia come prova.
FINE





Il principe e la principessa
tempo: 21'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 113



C'era una volta un re che aveva un bambino, e le stelle dicevano che a sedici anni sarebbe stato ucciso da un cervo. Quando li ebbe compiuti, un giorno andò a caccia con i suoi cacciatori. Nel bosco il principe si allontanò dagli altri e scorse all'improvviso un grande cervo: prese la mira, ma non riuscì a colpirlo; il cervo a forza di correre uscì finalmente dal bosco, ed ecco, al posto del cervo, apparire d'un tratto un uomo grande e grosso, che disse: -Finalmente ti ho trovato. A inseguirti con le scarpe di vetro, ne ho già consumate sei paia, senza che potessi raggiungerti-. Se lo prese con s‚ e lo portò al di là di un gran fiume, fino a un grande castello, e il principe dovette sedersi a tavola e mangiare con lui. Dopo aver mangiato il re disse: -Io ho tre figlie; devi vegliare la maggiore per una notte, dalle nove di sera alle sei del mattino. Ogni volta che battono le ore verrò e ti chiamerò, e se mi rispondi sempre avrai mia figlia in isposa-. Quando i due giovani salirono in camera da letto, c'era là un san Cristoforo di pietra e la principessa gli disse: -Mio padre verrà alle nove, e poi a tutte le ore fino allo scoccare delle tre; se chiama dategli voi risposta al posto del principe-. Il san Cristoforo annuì con il capo veloce veloce, poi sempre più adagio, finché‚ si fermò. Il mattino seguente il re disse al principe: -Te la sei cavata bene, ma non posso darti mia figlia; devi vegliare per una notte la seconda, poi rifletterò se puoi avere la maggiore in isposa. Io verrò sempre quando suonano le ore e, se ti chiamo, devi rispondermi; ma se ti chiamo e tu non rispondi, scorrerà il tuo sangue-. I due giovani salirono in camera da letto; là c'era un san Cristoforo di pietra ancora più grande e la principessa gli disse: -Se mio padre chiama, rispondi tu-. Il grande san Cristoforo di pietra annuì con il capo veloce veloce, poi sempre più adagio, finché‚ si fermò. E il principe si coricò sulla soglia, mise la mano sotto la testa e si addormentò. Il mattino seguente il re gli disse: -Te la sei cavata davvero bene, ma non posso darti mia figlia; devi vegliare per una notte la più giovane, poi rifletterò se puoi avere la seconda in isposa. Ma io verrò a tutte le ore, e se ti chiamo, rispondimi; ma se ti chiamo e tu non rispondi, scorrerà il tuo sangue-. I giovani salirono insieme in camera da letto, e là c'era un san Cristoforo ancora più grande e grosso degli altri due. La principessa gli disse: -Se mio padre chiama, rispondi tu-. Allora il san Cristoforo di pietra, grande e grosso com'era, annuì con il capo per mezz'ora, finché‚ si fermò. Il mattino seguente il re disse: -Hai vegliato davvero bene, ma non posso ancora darti mia figlia. Io ho un grande bosco: se riesci ad abbatterlo fra le sei di questa mattina e le sei di sera, ci penserò su-.
E gli diede una scure di vetro, un cuneo di vetro e un maglio di vetro. Quando il principe giunse nel bosco, diede un colpo e la scure si spezzò in due; prese il cuneo e vi batté‚ con il maglio, ed eccolo ridotto in polvere. Egli era disperato e credeva di dover morire; si mise a sedere e pianse. A mezzogiorno il re disse: -Una di voi ragazze gli porti qualcosa da mangiare-. -No- risposero le due maggiori -noi non gli porteremo nulla; può portargli qualcosa quella che egli ha vegliato per ultima.- Così la più giovane dovette andare a portargli qualcosa da mangiare. Quando giunse nel bosco gli domandò come andava. Oh, rispose egli, andava malissimo. Allora ella gli disse di avvicinarsi e di mangiare qualche boccone. Ma egli rispose di no, non poteva, tanto doveva morire e non voleva più mangiare. Ma ella lo convinse a provare con molte buone parole; e il principe si avvicinò e mangiò. Quand'ebbe mangiato qualcosa ella gli disse: -Ti spidocchierò un poco, così cambierai idea-. E, mentre lo spidocchiava, egli sentì una grande stanchezza e si addormentò. Ella prese allora il suo fazzoletto, vi fece un nodo, lo batté‚ tre volte per terra e disse: -Fuori, miei piccoli operai!-. Subito apparvero tanti piccoli gnomi e domandarono che cosa ordinasse la principessa. Ella disse: -In tre ore questo bosco deve essere abbattuto e la legna accatastata-. Allora gli gnomi se ne andarono di qua e di là e radunarono tutti i loro parenti, perché‚ li aiutassero nel lavoro. Incominciarono subito e tre ore dopo tutto era finito; poi tornarono dalla principessa e glielo dissero. Allora ella tornò a prendere il suo fazzoletto bianco e disse: -A casa, miei piccoli operai!-. E tutti scomparvero. Quando il principe si svegliò era tutto contento, ed ella disse: -Quando suonano le sei, vieni a casa-. Egli ubbidì e il re gli domandò: -Hai abbattuto il bosco?-. -Sì- rispose il principe. A tavola, il re disse: -Non posso ancora darti mia figlia in moglie-. Prima doveva fargli un altro lavoro. Il principe domandò che cosa fosse. -Ho un grande stagno- disse il re. -Domattina devi andarci e pulirlo in modo che sia lustro come uno specchio e ci sia dentro ogni sorta di pesci.- Il mattino seguente gli diede una pala di vetro e disse: -Alle sei lo stagno deve essere pronto-. Il principe se ne andò e, quando giunse allo stagno e affondò la pala nel fango, quella si spezzò; allora egli vi affondò la zappa e anche quella si spezzò. Allora si fece tristissimo. A mezzogiorno la più giovane gli portò qualcosa da mangiare e gli domandò come andava. Il principe disse che andava malissimo e che ci avrebbe rimesso la testa: -Gli arnesi sono andati di nuovo in pezzi-. Oh, doveva venire a mangiare qualcosa, diss'ella: -Poi cambierai idea-. No diss'egli, non poteva mangiare, era troppo triste. Ma ella lo pregò con tante buone parole che egli fini col mangiare. Poi si mise a spidocchiarlo ed egli si addormentò. Di nuovo ella prese un fazzoletto, vi fece un nodo e con il nodo picchiò tre volte per terra e disse: -Fuori, miei piccoli operai!-. Subito comparvero tanti gnomi e domandarono che cosa desiderasse. In tre ore dovevano pulire tutto lo stagno, che fosse lustro da potercisi specchiare e ci fosse dentro ogni sorta di pesci. Allora gli omini andarono a chiamare tutti i loro parenti perché‚ li aiutassero, e in due ore avevano finito. Allora tornarono e le dissero: -Abbiamo fatto quello che ci hai ordinato-. La principessa prese il fazzoletto, lo batté‚ tre volte per terra e disse: -A casa, miei piccoli operai!-. E tutti scomparvero. Quando il principe si svegliò, lo stagno era pronto. Anche la principessa se ne andò e gli disse di tornare a casa allo scoccare delle sei. Quand'egli arrivò a casa, il re gli domandò: -Lo stagno è pronto?-. -Sì- rispose il principe, era già pronto. A tavola, il re disse: -Hai sì messo a posto lo stagno, ma non posso ancora darti mia figlia; prima devi farmi un'altra cosa-. -Che cosa, dunque- domandò il principe. Il re aveva un grande monte, tutto coperto di spini, doveva toglierli tutti, e in cima doveva costruire un grande castello, il più bello che si potesse immaginare, e dentro doveva esserci tutto ciò che occorreva. Quando si alzò il mattino seguente, il re gli diede una scure di vetro e una barella di vetro, e disse che alle sei tutto doveva essere finito. Quando egli diede il primo colpo di scure nello spineto, la scure andò in frantumi e le schegge volarono intorno, e non pot‚ neanche usare la barella. Egli era molto afflitto e attese la sua amata, se per caso veniva a toglierlo dai guai. A mezzogiorno ella arrivò e gli portò qualcosa da mangiare; allora egli le andò incontro, le raccontò ogni cosa, mangiò, si lasciò spidocchiare e si addormentò. Allora ella prese il fazzoletto con il nodo, lo batté‚ per terra e disse: -Fuori, miei piccoli operai!-. Comparvero di nuovo tanti piccoli gnomi e le chiesero che cosa desiderasse. Ella disse: -In tre ore dovete togliere tutte le spine e in cima al monte dovete costruire un castello, il più bello che si possa immaginare, e dentro deve esserci tutto ciò che occorre-. Gli gnomi andarono a radunare i loro parenti perché‚ li aiutassero e, allo scadere delle tre ore, tutto era finito. Andarono a dirlo alla principessa ed ella prese il fazzoletto, lo batté‚ tre volte a terra e disse: -A casa, miei piccoli operai!-. E tutti scomparvero subito. Quando il principe si svegliò e vide tutto, era felice come un uccello che si libra nell'aria. Allo scoccare delle sei andarono a casa insieme. Disse il re: -Il castello è finito?-. -Sì- rispose il principe. A tavola il re disse: -Non posso darti la mia figlia minore se prima non si sposano le due più grandi-. Il principe e la principessa erano disperati, e il principe non sapeva proprio più cosa fare. Di notte andò dalla principessa e fuggì con lei. Dopo aver fatto un tratto di strada, la principessa si guardò attorno e vide il padre che li inseguiva. -Oh- disse -come faremo? Mio padre ci insegue e vuole prenderci! Ti trasformerò in un rosaio, e io diventerò una rosa e mi riparerò in mezzo al cespuglio.- Quando il padre arrivò, trovò un rosaio con una rosa; stava per coglierla, ma le spine gli punsero le dita, sicché‚ dovette tornare a casa. Sua moglie gli domandò perché‚ non avesse portato con s‚ la figlia. Egli le raccontò che stava per raggiungerla quando, d'un tratto, l'aveva persa di vista e aveva trovato un rosaio con una rosa. La regina disse: -Se avessi colto la rosa, ti sarebbe venuto dietro anche il rosaio-. Allora il re usci di nuovo per prendere la rosa. Ma nel frattempo i due giovani erano già lontani e il re li inseguiva. La fanciulla si guardò nuovamente attorno, vide venire il padre e disse: -Ah, come faremo? Ti trasformerò in una chiesa, e io sarò il pastore; mi metterò sul pulpito e predicherò-. Quando il re arrivò, trovò una chiesa e, sul pulpito, un pastore che predicava; egli ascoltò la predica e ritornò a casa. La regina gli domandò perché‚ non avesse portato con s‚ la figlia, ed egli disse: -L'ho inseguita a lungo e, quando credevo di averla raggiunta, c'era una chiesa e, sul pulpito, un pastore che predicava-. -Avresti dovuto portare con te il pastore- disse la regina -e ti sarebbe venuta dietro la chiesa: se mando te, non serve a niente; devo andarci io.- Aveva già fatto un tratto di strada e vedeva i due giovani da lontano, quando la principessa si guardò attorno, vide venire la madre e disse: -Miseri noi! Sta arrivando mia madre: ti trasformerò in stagno e io in pesce-. Quando la madre arrivò c'era un grande stagno, e in mezzo c'era un pesce che saltava allegramente qua e là, facendo capolino fuori dall'acqua. Ella voleva prendere il pesce, ma non riusciva ad acchiapparlo. Allora si arrabbiò e bevve tutto lo stagno per prendere il pesce ma si sentì così male che dovette rigettare e rigettò tutto lo stagno. Allora disse: -Vedo che non c'è via di scampo- e li pregò di tornare da lei. Essi ci andarono e la regina diede alla figlia tre noci e disse: -Ti serviranno in caso di necessità-. I due giovani se ne andarono e dopo dieci ore di cammino giunsero al castello del principe, accanto al quale vi era un villaggio. Quando vi giunsero il principe disse: -Resta qui, mia cara, andrò al castello e poi verrò a prenderti con i servi in carrozza-. Quando arrivò al castello tutti erano felici che il principe fosse tornato. Egli raccontò che giù nel villaggio aveva una sposa, e sarebbero andati a prenderla in carrozza. Attaccarono subito i cavalli e molti servi salirono sulla carrozza. Quando il principe volle salirvi, sua madre gli diede un bacio, ed egli scordò tutto quello che era successo e anche quello che voleva fare. Allora la madre ordinò che staccassero i cavalli e rientrarono tutti in casa. Ma la fanciulla era là nel villaggio e, aspetta aspetta, credeva ch'egli venisse a prenderla; e invece non veniva nessuno. Allora la principessa entrò a servizio al mulino che apparteneva al castello, e tutti i pomeriggi doveva lavare le stoviglie nel fiume. Una volta la regina scese dal castello, e, passeggiando lungo il fiume, vide la bella fanciulla e disse: -Che bella fanciulla! Come mi piace!-. Chiese notizie a tutti, ma nessuno la conosceva. La fanciulla servì fedelmente il mugnaio per lungo tempo. Intanto la regina aveva cercato una sposa per il figlio. La sposa veniva da molto lontano e, quando arrivò, dovevano sposarsi subito.
Venne molta gente a vedere le nozze, e la fanciulla pregò il mugnaio che lasciasse andare anche lei. Il mugnaio disse: -Va' pure-. Prima di andare ella aprì una delle tre noci, e vi trovò una bella veste; l'indossò, andò in chiesa e si fermò all'altare. D'un tratto giunsero lo sposo e la sposa e si sedettero davanti all'altare. Il pastore stava per benedirli quando la sposa guardò di lato e vide la fanciulla; allora si alzò e disse che non voleva sposarsi se prima non aveva anche lei un vestito così bello come quello della dama. Allora ritornarono a casa e fecero chiedere alla dama se voleva vendere il suo vestito. No, non lo vendeva, ma era possibile guadagnarselo. Le chiesero che cosa dovevano fare. Ella rispose che, se avesse potuto dormire una notte davanti alla porta del principe, le avrebbe dato la veste. La sposa disse che si, poteva farlo. I servi dovettero dare al principe un sonnifero, mentre ella si coricò sulla soglia e si lamentò tutta la notte: per lui aveva fatto abbattere il bosco, ripulire lo stagno, costruire il castello; lo aveva trasformato in rosaio, poi in chiesa e infine in stagno, ed egli l'aveva dimenticata così presto! Il principe non senti nulla, ma i servi si erano svegliati, avevano ascoltato tutto e non sapevano che cosa ciò significasse. Il mattino seguente, quando si alzarono, la sposa indossò il vestito e andò in chiesa con lo sposo. Nel frattempo la bella fanciulla spezzò la seconda noce, e dentro c'era un'altra veste, ancora più bella; indossò anche questa, andò in chiesa e si fermò di fronte all'altare, e tutto andò come la volta precedente. La fanciulla trascorse così un'altra notte coricata davanti alla camera del principe, e i servi dovevano dargli un altro sonnifero; invece andarono e gli diedero qualcosa perché‚ stesse sveglio. Egli si mise a letto e la fanciulla del mulino, sulla soglia, continuò a lamentarsi dicendo quello che aveva fatto. Il principe sentì ogni cosa e si rattristò molto, e gli tornò in mente tutto ciò che era accaduto. Voleva andare da lei, ma sua madre aveva chiuso la porta. Il mattino seguente andò subito dalla sua diletta e le raccontò tutto quello che gli era successo e la pregò di non essere in collera con lui per averla dimenticata così a lungo. Allora la principessa spezzò la terza noce, nella quale c'era una veste ancora più bella; l'indossò e andò in chiesa con il suo sposo. E arrivarono tanti bambini a portare fiori e a stendere nastri variopinti ai loro piedi; gli sposi furono poi benedetti e festeggiarono le loro nozze con allegria; la perfida madre e la fidanzata dovettero invece andarsene. E a chi per ultimo l'ha raccontata, ancora la bocca non s'è freddata.
FINE





Il saggio piccolo sarto
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 114



C'era una volta una principessa molto superba: ogni volta che si presentava un pretendente, ella gli proponeva un indovinello, e se egli non sapeva risolverlo lo scacciava deridendolo. Fece sapere, inoltre, che colui che avesse indovinato l'avrebbe sposata; e poteva presentarsi chi voleva. Ora si trovarono insieme anche tre sarti: i due più vecchi pensavano che avevano azzeccato tanti bei punti e quindi avrebbero azzeccato sicuramente anche questa; il terzo invece era uno sbarbatello buono a nulla, che non conosceva neanche il proprio mestiere. E gli altri due gli dissero: -Resta pure a casa, tanto non andrai molto lontano con quel poco sale che hai in zucca!-. Ma il piccolo sarto non si lasciò confondere e disse che scommetteva la testa che se la sarebbe cavata; e se ne andò, come se fosse il padrone del mondo. Si presentarono tutti e tre alla principessa e le dissero che doveva proporre il suo indovinello: erano proprio i tipi giusti, con un ingegno così fino che lo si poteva infilare in un ago. La principessa disse: -Ho in testa capelli di due diverse specie, di che colore sono?-. -Se è tutto qui- disse il primo -saranno bianchi e neri come il cumino e il sale-. La principessa esclamò. -Sbagliato! risponda il secondo-. Il secondo disse: -Se non è bianco e nero, è rosso e bruno, come l'abito da festa di mio padre-. -Sbagliato!- esclamò la principessa. -Risponda il terzo, vedo che lo sa di sicuro.- Allora il piccolo sarto si fece avanti e disse: -La principessa ha in testa un capello d'argento e uno d'oro, e questi sono i due colori-. All'udirlo, la principessa impallidì e stava quasi per cadere dallo spavento, perché‚ il piccolo sarto aveva indovinato, ed ella era convinta che nessuno al mondo ci sarebbe riuscito. Quando tornò in s‚ disse: -Con ciò non mi hai ancora conquistata; devi fare un'altra cosa: giù nella stalla c'è un orso e tu devi trascorrere la notte con lui. Domani, quando mi alzo, se sei ancora vivo mi sposerai-. Ma pensava di sbarazzarsi così del piccolo sarto, perché‚ l'orso non aveva ancora lasciato vivo nessuno che gli fosse capitato fra le zampe. Il piccolo sarto rispose allegramente: -Farò anche questo!-. Quando venne la sera, il nostro piccolo sarto fu condotto giù dall'orso. L'orso voleva subito scagliarsi su di lui e dargli il benvenuto con la zampa. -Piano, piano!- disse il piccolo sarto -ti calmerò io.- Come se non avesse alcun timore, trasse di tasca delle noci, le ruppe con i denti e mangiò il gheriglio. Al vederlo anche l'orso ebbe voglia di noci. Il piccolo sarto mise la mano in tasca e gliene porse una manciata: ma non erano noci, bensì sassi. L'orso se li mise in bocca ma, per quanto mordesse, non riusciva a romperli. "Ehi" pensava "che razza di tonto che sei! Non sei neanche capace di rompere delle noci!" e disse al piccolo sarto: -Per favore, rompile tu-. -Vedi che tipo sei!- disse il piccolo sarto -hai una bocca enorme e non sai rompere una piccola noce!- Prese la pietra, ma in fretta si mise in bocca una noce e crac! eccola spezzata in due. -Devo provare ancora una volta- disse l'orso -vedendoti, mi pare che dovrei riuscirci anch'io.- Allora il piccolo sarto tornò a dargli le pietre e l'orso si mise a darci dentro con tutte le sue forze. Ma non credere certo che le abbia aperte! Poi il piccolo sarto tirò fuori un violino da sotto la giubba e suonò un'arietta. All'udirlo, l'orso non pot‚ resistere e si mise a ballare e dopo aver ballato un po' ci prese tanto gusto che disse al piccolo sarto: -Senti, è difficile suonare il violino?-. -Oh, niente affatto: vedi, ci metto sopra le dita della sinistra, e con la destra ci passo l'archetto; e allegria! trallallera, trallallà!- -Potresti insegnarmelo?- domandò l'orso. -Mi piacerebbe sapere suonare così, per poter ballare ogni volta che ne ho voglia.- -Di tutto cuore- rispose il piccolo sarto -ma se vuoi imparare, devi prima mostrarmi le zampe: sono terribilmente grandi, devo prima tagliarti un po' le unghie.- Allora prese una morsa e l'orso ci mise sopra le zampe, ma il piccolo sarto l'avvitò e disse: -Adesso aspetta che venga con le forbici!-. Lo lasciò brontolare finché‚ ne ebbe voglia, si sdraiò in un angolo, su di un fascio di paglia e si addormentò. Quella sera la principessa, sentendo l'orso brontolare così forte, pensò che brontolasse per la gioia e che avesse ucciso il piccolo sarto. Così al mattino si alzò tutta contenta, ma quando guardò verso la stalla vide il piccolo sarto vispo e arzillo come un pesce. Ormai ella non poteva più far nulla perché‚ aveva promesso pubblicamente; il re fece venire una carrozza, ed ella dovette andare in chiesa con il piccolo sarto per sposarsi. Quando furono saliti in carrozza, gli altri due sarti, che erano cattivi e gli invidiavano la fortuna, andarono nella stalla e liberarono l'orso. L'animale, pieno di rabbia, si mise a correre dietro la carrozza. La principessa lo udì sbuffare, ebbe paura e disse: -Ah, l'orso ci insegue e vuole catturarti!-. Ma il piccolo sarto si mise in fretta a testa in giù, sporse le gambe dalla finestra e gridò: -Vedi la morsa? Se non te ne vai, ci torni dentro-. A quella vista l'orso si voltò e corse via. Il nostro piccolo sarto se ne andò invece tranquillamente in chiesa, sposò la principessa e visse con le felice come un'allodola. Chi non ci crede, paghi uno scudo.
FINE





La luce del sole lo rivelerà
tempo: 4'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 115



Un garzone sarto girava per il mondo in cerca di lavoro, ma non riusciva a trovarne ed era così povero che non aveva più un soldo in tasca. Un giorno incontrò per strada un ebreo e, pensando che avesse molto denaro in tasca, scacciò Dio dal suo cuore, si precipitò su di lui e disse: -Dammi il tuo denaro o ti ammazzo!-. L'ebreo rispose: -Fatemi grazia della vita, denaro non ne ho; avrò forse otto centesimi in tutto-. Ma il sarto disse: -Sì che ne hai di denaro, e deve venir fuori!-. Allora gli usò violenza e lo picchiò tanto che lo ridusse in fin di vita. E quando fu per morire, l'ebreo disse queste ultime parole: -La luce del sole lo rivelerà!- e morì. Il sarto gli frugò in tasca, cercando il denaro, ma non trovò altro che gli otto centesimi, come aveva detto l'ebreo. Allora se lo caricò sulle spalle, lo portò dietro un cespuglio e se ne andò per la sua strada. Dopo aver girato per molto tempo, giunse in una città, si mise al lavoro da un padrone che aveva una bella figlia; se ne innamorò, la sposò, e vissero insieme felici. Dopo molto tempo, quando erano già nati due bambini, i suoceri morirono e il governo della casa toccò agli sposi. Un mattino, l'uomo era seduto al tavolo davanti alla finestra, e la moglie gli portò il caffè; quand'egli lo versò nel piattino e si preparava a berlo, il sole vi batté‚ sopra, e si rifletté‚ qua e là sulla parete, formando dei cerchi. Il sarto alzò gli occhi e disse: -Sì, vorrebbe rivelarlo ma non può!-. La moglie disse: -Oh, caro marito, cosa c'è? Cosa intendi dire?-. Egli rispose: -Non posso dirlo-. Ma ella replicò: -Se mi vuoi bene, devi dirmelo- e gli disse tante belle parole, disse che nessuno l'avrebbe saputo e non gli dette pace. Allora egli le raccontò che molti anni prima, quando girava il mondo tutto lacero e senza denaro, aveva ucciso un ebreo, e l'ebreo, poco prima di morire, aveva detto queste parole: -La luce del sole lo rivelerà!-. E ora il sole avrebbe proprio voluto rivelarlo, brillando sulla parete in tanti cerchi, ma non ci riusciva. Poi egli la pregò di non dirlo a nessuno, poiché‚ ne andava della sua vita, ed ella glielo promise. Ma quand'egli si mise a lavorare, la donna andò dalla sua comare e le raccontò la storia; però che non lo dicesse a nessuno! Non erano passati tre giorni, che tutta la città lo sapeva, e il sarto comparve in giudizio e fu condannato. Così la luce del sole lo rivelò.
FINE





La luce azzurra
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 116



C'era una volta un re che aveva un soldato al suo servizio, e quando questi invecchiò e non pot‚ più lavorare, lo mandò via senza dargli nulla. Il soldato non sapeva come campare; se ne andò tutto triste e camminò per tutto il giorno, finché‚ a sera giunse in un bosco. Vi entrò e poco dopo vide una luce che lo guidò, e giunse a una casa dove abitava una strega. Egli la pregò di dargli un giaciglio per la notte, qualcosa da mangiare e da bere; ella rifiutò, ma poi disse: -Ti ospiterò per misericordia, però tu domani devi vangare il mio giardino-. Il soldato promise di farlo e così fu alloggiato. Il giorno dopo vangò il giardino della strega e lavorò fino a sera. Ella voleva mandarlo via, ma egli disse: -Sono tanto stanco, lasciami rimanere ancora una notte!-. La strega non voleva, ma poi finì coll'accettare: il giorno dopo, però, il soldato doveva spaccarle un carro pieno di legna. Così il secondo giorno il soldato spaccò la legna, e alla sera aveva lavorato tanto che non se la sentì nuovamente di andarsene e le chiese asilo per la terza volta. Il giorno dopo egli doveva, però, ripescare dal pozzo la luce azzurra. La strega lo portò così al pozzo, lo legò a una lunga corda, ed egli vi si calò.
Quando fu sul fondo, trovò la luce azzurra e fece segno alla vecchia per risalire. La strega lo tirò su, ma quando egli fu vicino all'orlo, così vicino che poteva toccarlo con la mano, ella volle prendergli la luce azzurra per poi lasciarlo ricadere sul fondo. Ma egli si accorse delle sue cattive intenzioni e disse: -No, non ti do la luce azzurra se prima non ho toccato terra con tutti e due i piedi-. Allora la strega s'infuriò, lo lasciò cadere nel pozzo con la luce e se ne andò. Il soldato era tutto triste, là sotto in quel pantano umido al buio, e pensava già alla sua fine. Per caso gli venne fra le mani la sua pipa, ancora mezzo piena, e pensò: "Sarà il tuo ultimo piacere!". L'accese alla luce azzurra e si mise a fumare. Quando il fumo si sparse un poco nel pozzo, apparve d'un tratto un omino nero che gli chiese: -Padrone, cosa comandi?-. Il soldato rispose: -Cosa devo comandarti?-. L'omino replicò: -Devo fare tutto quello che vuoi-. -Allora, prima di tutto, aiutami a uscire dal pozzo!- L'omino nero lo prese per mano e lo condusse fuori, portando con s‚ la luce azzurra. Poi il soldato disse: -Adesso ammazzami la strega-. Dopo aver fatto anche questo, l'omino gli mostrò l'oro e i tesori della vecchia, e il soldato li prese caricandoseli sulle spalle. Poi l'omino disse: -Se hai bisogno di me, non hai che da accendere la pipa alla luce azzurra-. Il soldato si recò quindi in città, nella migliore locanda, si fece fare bei vestiti, e ordinò all'oste di arredargli una camera il più sfarzosamente possibile. Quando fu pronta, il soldato chiamò l'omino nero e disse: -Il re mi ha cacciato facendomi patire la fame, poiché‚ non potevo più servirlo; questa sera portami qui la principessa: mi farà da serva ed eseguirà i miei ordini-. L'omino disse: -E' cosa rischiosa-. Tuttavia andò a prendere la principessa; la sollevò dal suo letto mentre dormiva, la portò al soldato, ed ella dovette obbedirgli e fare ciò che egli le ordinava. Al mattino, prima che il gallo cantasse, l'omino la riportò indietro. Quando la principessa si alzò, disse al padre: -Questa notte ho fatto un sogno strano: mi è parso di esser stata portata via e di aver servito un soldato, cui dovevo fare da serva-. Allora il re disse: -Fa' un buchino nella tasca e riempila di ceci: il sogno potrebbe essere vero, e in questo caso i ceci usciranno e lasceranno una traccia sulla strada-. La fanciulla seguì il consiglio, ma l'omino aveva udito le parole del re e, quando si fece sera e il soldato gli ordinò di andare a prendere di nuovo la principessa, egli sparse ceci per tutta la città, e quei pochi che caddero dalla tasca della principessa non lasciarono nessun segno. L'indomani, la gente mondò ceci per tutto il giorno. La principessa tornò a raccontare al padre ciò che le era successo, e il re disse: -Tieni con te una scarpa, e nascondila là dove ti trovi-. L'omino nero udì ogni cosa e, quando il soldato gli ordinò di andare a prendere di nuovo la principessa, gli disse: -Questa volta non posso più esserti di aiuto: ti andrà male se ti scoprono-. Ma il soldato non sentì ragione. -Allora domani mattino presto dovrai fuggire, quando l'avrò riportata a casa- disse l'omino. La principessa tenne con s‚ una scarpa e la nascose nel letto del soldato. La mattina seguente, quand'ella si trovò nuovamente presso il padre, questi fece cercare la scarpa di sua figlia per tutta la città, e la trovarono dal soldato. Egli, benché‚ avesse lasciato la stanza, fu presto raggiunto e gettato in prigione. Così ora giaceva in catene e, per giunta, nella fuga precipitosa aveva dimenticato il meglio, la luce azzurra e l'oro, e non aveva in tasca che un ducato. Mentre, tutto triste, se ne stava alla finestra della prigione, vide passare uno dei suoi camerati, lo chiamò e disse: -Se mi vai a prendere il fagottino che ho lasciato alla locanda, ti darò un ducato-. Quello andò e in cambio di un ducato gli portò la luce azzurra e l'oro. Il prigioniero accese la sua pipa e chiamò l'omino nero che disse: -Non temere! Va' tranquillamente dal giudice, e accada quello che vuole; bada solo di prendere con te la luce azzurra-. Il soldato fu sottoposto a giudizio e condannato a morte. Quando lo condussero fuori, chiese al re un'ultima grazia. -Quale?- domandò il re. -Di fare ancora una pipata per via.- -Puoi farne anche tre se vuoi- rispose il re. Allora il soldato tirò fuori la sua pipa e l'accese alla luce azzurra, ed ecco subito comparire l'omino nero. -Uccidi tutti quanti- disse il soldato -e il re fallo in tre pezzi.- Allora l'omino incominciò a far fuori la gente intorno, sicché‚ il re chiese grazia e per avere salva la vita diede al soldato il regno e sua figlia in isposa.
FINE





Il bambino capriccioso
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 117



C'era una volta un bambino capriccioso che non faceva mai quello che voleva la mamma. Per questo il buon Dio ne era scontento e lo fece ammalare, tanto che nessun medico pot‚ salvarlo e presto egli giacque sul letto di morte. Quando fu adagiato nella fossa e coperto di terra, d'un tratto spuntò fuori il suo braccino e si tese in alto; lo misero dentro e tornarono a coprirlo di terra fresca, ma era inutile: il braccino continuava a tornare fuori. Allora la madre stessa dovette andare alla tomba, e batterlo sul braccino con una verga; quando l'ebbe fatto il braccino si ritrasse e il bimbo ebbe finalmente pace sotto terra.
FINE





I tre cerusici
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 118



Tre cerusici giravano il mondo, convinti di conoscere la loro arte alla perfezione, e giunsero in una locanda dove volevano pernottare. L'oste domandò da dove venissero e dove andassero. -Giriamo per il mondo esercitando la nostra arte.- -Fatemi un po' vedere quel che sapete fare- disse l'oste. Il primo disse che si sarebbe tagliato la mano e che il mattino dopo l'avrebbe riattaccata; il secondo disse che si sarebbe strappato il cuore e al mattino l'avrebbe rimesso al suo posto; il terzo disse che si sarebbe cavato gli occhi e che al mattino li avrebbe risanati. Ma essi avevano un unguento, e bastava spalmarlo sulle ferite perché‚ si rimarginassero; e portavano sempre con s‚ la fialetta che lo conteneva. Tagliarono dunque mano, cuore e occhi, come avevano detto, li misero su di un piatto e lo diedero all'oste; e l'oste lo diede a una ragazza perché‚ lo chiudesse nell'armadio, e lo serbasse con cura. Ma la ragazza se la intendeva di nascosto con un soldato. Quando l'oste, i tre cerusici e tutti quanti in casa si furono addormentati, il soldato venne e volle da mangiare. La fanciulla aprì l'armadio e gli prese qualcosa, e per la gran gioia dimenticò di chiudere la porta dell'armadio; si sedette a tavola accanto all'innamorato e chiacchierarono insieme. Mentre sedeva là tutta contenta, senza aspettarsi guai, entrò il gatto di soppiatto, trovò l'armadio aperto, prese la mano, il cuore e gli occhi dei tre cerusici e scappò via. Quando il soldato ebbe finito di mangiare e la ragazza volle sparecchiare e riporre le stoviglie nell'armadio, si accorse che il piatto datole dall'oste in custodia era scomparso. Spaventata, disse all'amante: -Ah, povera me, che farò mai?! La mano è sparita, e così pure il cuore e gli occhi! Che mai sarà di me domattina!-. -Sta' tranquilla- disse il soldato -ti aiuterò io. Dammi solo un coltello affilato: alla forca è appeso un ladro, gli taglierò la mano; sai che mano era?- -La destra.- La fanciulla gli diede un coltello affilato, ed egli andò, tagliò la mano a quel povero peccatore e gliela portò. Poi afferrò il gatto e gli cavò gli occhi; ora mancava soltanto il cuore. -Non avete forse macellato e conservato la carne del porco in cantina?- -Sì- rispose la fanciulla. -Benissimo- disse il soldato; scese in cantina, prese un cuore di porco e lo diede alla fanciulla. Ella mise tutto quanto nel piatto, lo ripose nell'armadio e, quando l'innamorato se ne andò, si mise a letto tranquilla. Al mattino, quando i tre cerusici si alzarono, dissero alla fanciulla che andasse a prendere il piatto in cui erano la mano, il cuore e gli occhi. Ella andò a prenderlo nell'armadio, e il primo si mise la mano del ladro, la spalmò con il suo unguento e la mano gli si attaccò subito. Il secondo si mise gli occhi del gatto, e il terzo il cuore di porco. L'oste se ne stava là ad ammirare la loro arte, e disse di non aver mai visto una cosa simile: ne avrebbe fatto grandi elogi e li avrebbe raccomandati a tutti. Poi essi pagarono il conto e proseguirono il cammino. Mentre camminavano, quello con il cuore di porco non restava con loro, ma correva in ogni angolo a grufolare come fanno i maiali. Gli altri volevano trattenerlo per le falde della giubba, ma non serviva a nulla: egli si liberava e correva là dove c'erano le peggiori immondizie. Anche il secondo si comportava in modo strano, si fregava gli occhi e diceva all'altro: -Camerata, che cosa mi succede? Questi non sono i miei occhi, non vedo niente; ho bisogno di qualcuno che mi guidi perché‚ non cada-. Così a fatica proseguirono il cammino fino a sera, quando giunsero a un'altra locanda. Vi entrarono insieme e in un angolo c'era un ricco signore seduto davanti a un tavolo, e contava dei denaro. Quello con la mano del ladro gli girò attorno, sussultò un paio di volte, e infine, quando il signore si voltò, cacciò la mano nel mucchio e prese una manciata di denaro. Uno dei due cerusici lo vide e disse: -Camerata, che fai? Non si deve rubare, vergognati!-. -Ah- diss'egli -non posso farci niente: è un sussulto che ho nella mano e che mi costringe a rubare, anche se non voglio.- Poi si coricarono per dormire, e quando furono distesi a letto era così buio che non ci si vedeva a un palmo dal naso. D'un tratto, quello con gli occhi da gatto si svegliò, destò gli altri e disse: -Fratelli, guardate un po': non vedete come corrono quei topolini bianchi laggiù?-. Gli altri due si levarono ma non riuscirono a vedere nulla. Allora egli disse: -Qui c'è qualcosa che non va: non abbiamo avuto ciò che ci apparteneva; dobbiamo tornare dall'oste che ci ha ingannati-. Così il mattino dopo tornarono alla locanda e dissero all'oste che non avevano riavuto la loro roba: uno aveva la mano da ladro, il secondo gli occhi di un gatto, e il terzo un cuore di porco. L'oste disse che la colpa era certamente della ragazza e voleva chiamarla; ma quella, avendo visto venire i tre cerusici, era fuggita dalla porticina sul retro e non tornò più. Allora i tre dissero all'oste di dare loro molto denaro, altrimenti avrebbero dato fuoco alla casa. Egli diede loro tutto quello che aveva e che riuscì a racimolare, e con quel denaro i tre se ne andarono via. Bastò loro per tutta la vita, ma avrebbero preferito avere la roba loro.
FINE





I sette svevi
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 119



C'erano una volta sette svevi: il primo era il signor Schulz, il secondo Jackli, il terzo Marli, il quarto Jergli, il quinto Michal, il sesto Hans, il settimo Veitli; e tutti e sette intendevano girare il mondo in cerca di avventure e di grandi imprese. Ma per andare sicuri e ben armati, pensarono bene di farsi fare uno spiedo, uno solo ma ben forte e lungo. Lo impugnarono tutti e sette insieme: davanti camminava il più audace e il più forte, e questi doveva essere il signor Schulz, poi venivano gli altri in fila, e l'ultimo era Veitli. Un giorno di luglio avevano fatto molta strada, e ne avevano ancora tanta da percorrere per arrivare al villaggio dove volevano passare la notte, quando su di un prato, all'ora del tramonto, uno scarabeo gigante o un calabrone passò in volo dietro un cespuglio, non lontano da loro, e ronzò minacciosamente. Il signor Schulz si spaventò tanto che per poco non lasciò cadere lo spiedo e, per la paura, il sudore gli corse per tutto il corpo. -Ascoltate! Ascoltate!- gridò ai suoi compagni. -Dio mio, sento un tamburo!- Jackli, che teneva lo spiedo dietro di lui, e che fiutò non so quale odore, disse: -Sta succedendo senza dubbio qualcosa, perché‚ sento odore di polvere di miccia!-. A queste parole il signor Schulz prese la fuga e in men che non si dica saltò una siepe; ma siccome cadde proprio sui denti di un rastrello rimasto lì dopo la fienagione, il manico lo colpì in faccia e gli diede una bella botta. -Povero me! Povero me!- gridò il signor Schulz. -Prendimi prigioniero! Mi arrendo! Mi arrendo!- Gli altri sei si avvicinarono saltellando e gridarono uno dopo l'altro: -Se ti arrendi tu, mi arrendo anch'io! Se ti arrendi tu, mi arrendo anch'io!-. Infine, poiché‚ non c'era nessun nemico che volesse legarli e portarli via, si accorsero di aver preso un abbaglio; e perché‚ la storia non si diffondesse, e per non essere dileggiati e scherniti dalla gente, giurarono di tenere la bocca chiusa, finché‚ uno di loro non l'avesse aperta. Poi proseguirono il loro cammino. Ma il secondo pericolo che incontrarono non si può paragonare al primo.
Qualche giorno dopo, la strada li condusse attraverso un campo incolto; là c'era una lepre che dormiva al sole, con le orecchie dritte e i grandi occhi vitrei sbarrati. Alla vista di quella belva terribile si spaventarono tutti e tennero consiglio su quale fosse la soluzione meno pericolosa. Infatti se fuggivano c'era da temere che il mostro li avrebbe rincorsi e ingoiati in un boccone. Così dissero: -Dobbiamo sostenere una grande e pericolosa battaglia, la fortuna aiuta gli audaci!-. Impugnarono tutti e sette lo spiedo, il signor Schulz davanti e Veitli per ultimo. Il signor Schulz voleva tenere fermo lo spiedo, ma Veitli, in coda, si era fatto ardito, volle attaccare e gridò:-Animo Svevi, combatter dovete oppure zoppi qui resterete!-Ma Hans seppe pungerlo sul vivo e disse:-Ah! Diamine! Hai proprio un bel dire, tu, che sei sempre l'ultimo ad agire!-Michal gridò:-Certo nessun dubbio c'è! E' proprio il demonio davanti a te!-Poi toccò a Jergli, che disse:-Se lui non è, fratellastro o madre sarebbe, su ciò nessun dubbio sussisterebbe!-Marli ebbe una bella idea e disse a Veitli:-Coraggio Veitli, guidaci tu! Io dietro a tutti resto quaggiù.-Ma Veitli non gli diede retta e Jackli disse:-Schulz dovrà essere il condottiero, è un grande onore di cui va fiero!-Allora il signor Schulz si fece coraggio e disse solennemente:-Orsù con valore si vada a pugnare, ciascuno il coraggio or deve mostrare!-E tutti insieme si scagliarono sul drago. Il signor Schulz si fece il segno di croce e invocò Dio in suo aiuto; ma poiché‚ tutto questo non servì a nulla ed egli si avvicinava sempre di più al nemico, si mise a gridare, pieno di paura: -Auh! Auh! Auh! Auh!-. A quell'urlo la lepre si svegliò, si spaventò e corse via. Quando il signor Schulz la vide abbandonare il campo, gridò, pieno di gioia:-Del mostro, Veitli, raccontaci un po', di' come in lepre si trasformò.-La combriccola degli svevi andò in cerca di altre avventure e giunse sulle rive della Mosella, un fiume muscoso, calmo e profondo; non vi sono molti ponti che lo attraversano, e spesso bisogna farsi traghettare con una barca. Poiché‚ i sette svevi non lo sapevano, chiamarono un uomo che lavorava al di là del fiume e gli domandarono come si potesse passare dall'altra parte. A causa della distanza, e anche per via del loro dialetto, l'uomo non capì che cosa volessero e domandò nel suo trevirese: -"Wat? Wat?"- (Cosa? cosa?). Il signor Schulz capì: -"Wade, wade"- (Guada, guada); e, siccome era il primo, si avviò per entrare nella Mosella. Non tardò molto a sprofondare nella melma e le onde lo travolsero; ma il vento portò il suo cappello sull'altra riva, e una rana vi si fermò vicina e gracidò: -Cra, cra, cra-. Gli altri sei, dall'altra parte l'udirono e dissero: -Il nostro compagno, il signor Schulz, ci chiama; se lui ha potuto passare a guado, perché‚ non farlo anche noi?-. Allora tutti quanti, lesti, saltarono in acqua e affogarono, e fu così che una rana ne uccise sei, e della combriccola sveva nessuno fece ritorno.
FINE





I tre garzoni
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 120



C'erano una volta tre garzoni che avevano deciso di viaggiare insieme e di lavorare sempre nella stessa città. Ma, dopo un po' di tempo, il lavoro cessò, sicché‚ essi si ridussero in miseria e non avevano di che vivere. Allora uno disse: -Cosa dobbiamo fare? Non possiamo più rimanere insieme; la prossima sarà l'ultima città nella quale ci recheremo: se anche lì non avremo lavoro ci accorderemo con l'albergatore e ognuno di noi gli scriverà dov'è andato, sicché‚ si possa avere notizie l'uno dell'altro; poi ci separeremo-. A tutti questa parve la miglior soluzione. Mentre stavano parlando, venne loro incontro un uomo sontuosamente vestito e domandò chi fossero. -Siamo garzoni e cerchiamo lavoro; per ora siamo rimasti insieme, ma se lavoro non ne troviamo più, ci separeremo.- -Non temete- disse l'uomo -se farete quello che vi dico, non vi mancherà n‚ denaro n‚ lavoro; diventerete gran signori e andrete in carrozza.- Uno disse: -Lo faremo se ciò non comprometterà l'anima nostra e la salvezza eterna-. -No- rispose l'uomo -con voi io non c'entro.- Ma l'altro gli aveva guardato i piedi e, scorgendo un piede di cavallo e un piede umano, non voleva avere a che fare con lui. Il diavolo però disse: -State tranquilli, non si tratta di voi, ma dell'anima di un altro, che è già mia per metà; ora bisogna solo completare l'opera-. Essi si tranquillizzarono e acconsentirono, e il diavolo disse loro quel che voleva: il primo doveva rispondere a ogni domanda: -Tutti e tre insieme-; il secondo: -Per denaro-; il terzo: -Ed era giusto-. Dovevano sempre parlare uno dopo l'altro, ma senza dire una parola di più; se non avessero ubbidito. tutto il denaro sarebbe subito sparito; se ubbidivano, invece, avrebbero avuto le tasche sempre piene. Per cominciare, diede subito loro tanto denaro quanto potevano portarne, e ordinò che andassero in città, in una locanda così e così. Entrarono e l'oste andò loro incontro e chiese: -Volete mangiare qualcosa?-. Il primo rispose: -Tutti e tre insieme-. -Sì- disse l'oste -lo credo bene.- Il secondo: -Per denaro- -Si capisce!- disse l'oste. Il terzo: -Ed era giusto-. -Certo che era giusto!- disse l'oste. Mangiarono e bevvero molto bene e furono serviti con cura. Dopo pranzo venne il momento di pagare, e l'oste porse il conto al primo, che disse: -Tutti e tre insieme-. E il secondo: -Per denaro-. E il terzo: -Ed era giusto-. -Certo che è giusto- disse l'oste. -Tutti e tre dovete pagare, gratis non posso dare nulla.- Ma essi gli diedero più di quello che aveva chiesto. Gli altri clienti guardavano e dicevano: -Devono essere pazzi-. -Sì, lo sono- disse l'oste -non hanno tutti i venerdì.- I tre garzoni rimasero nella locanda per qualche tempo e non dicevano altro che -Tutti e tre insieme-, -per denaro-, -ed era giusto-. Ma vedevano e sapevano tutto quello che succedeva là dentro. Un giorno giunse un ricco mercante, carico di denaro, e disse: -Signor oste, prenda in consegna il mio denaro: quei tre matti potrebbero rubarmelo-. L'oste ubbidì; e mentre portava la valigia in camera sua, sentì che era piena d'oro. Poi diede ai tre garzoni giaciglio a pianterreno, mentre il mercante andò di sopra in una camera separata. Quando fu mezzanotte, e l'oste pensava che tutti dormissero, entrò con sua moglie; avevano un'ascia e ammazzarono il ricco mercante; e dopo aver compiuto l'assassinio, tornarono a coricarsi. Quando si fece giorno, ci fu un gran baccano: il mercante giaceva morto nel letto, in una pozza di sangue. I clienti accorsero tutti insieme, ma l'oste disse: -Sono stati i tre garzoni pazzi-. I clienti confermarono e dissero: -Non può esser stato nessun altro-. L'oste li fece chiamare e chiese loro: -Avete ucciso voi il mercante?-. -Tutti e tre insieme- disse il primo; e il secondo: -Per denaro-. E il terzo: -Ed era giusto-. -Sentite?- esclamò l'oste -lo confessano loro stessi.- Così furono condotti in prigione per essere giudicati. Vedendo che le cose si mettevano male, si spaventarono; ma durante la notte venne il diavolo e disse: -Resistete ancora un giorno e non lasciatevi sfuggire la fortuna; non vi torceranno un capello-. Il mattino seguente comparvero a giudizio, e il giudice disse: -Siete voi gli assassini?-. -Tutti e tre insieme.- -Perché‚ avete ucciso il mercante?- -Per denaro.- -Sciagurati!- disse il giudice -non avete avuto paura del peccato?- -Ed era giusto.- -Hanno confessato e si intestardiscono ancora!- disse il giudice. -Conduceteli subito al patibolo.- Così furono condotti fuori e l'oste dovette fare cerchio con l'altra gente. Quando gli aiutanti del boia li presero e li condussero sul palco dove si trovava il carnefice con la spada sguainata, arrivò all'improvviso una carrozza trainata da quattro cavalli rosso sangue: correva così velocemente che i sassi sprizzavano fuoco, mentre dal finestrino qualcuno agitava un panno bianco. Il carnefice disse: -Arriva la grazia-. E dalla carrozza gridarono: -Grazia! grazia!-. Ne scese il diavolo con l'aspetto di un gran signore, vestito sontuosamente e disse: -Voi tre siete innocenti, adesso potete parlare: dite quello che avete visto e sentito-. Allora il più vecchio disse: -Noi non abbiamo ucciso il mercante; l'assassino è là tra la gente-. E indicò l'oste. -Se volete una prova, andate nella sua cantina: là sono appesi molti altri, assassinati da lui.- Allora il giudice mandò gli aiutanti del boia, e le cose stavano proprio come aveva detto il garzone. Quando lo riferirono al giudice, questi ordinò che l'oste fosse condotto sul palco e gli fosse mozzata la testa. Allora il diavolo disse ai tre: "Io ho l'anima che volevo, voi invece siete liberi e avete denaro per tutta la vita."
FINE





Il principe senza paura
tempo: 14'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 121



C'era una volta un principe che non voleva più stare a casa di suo padre; e poiché‚ non aveva paura di nulla, pensò: "Me ne andrò per il mondo in modo da non annoiarmi, e vedrò ogni sorta di cose". Così prese congedo dai suoi genitori e se ne andò, camminando da mane a sera, senza badare dove lo portasse la strada. Gli accadde di arrivare alla casa di un gigante e, poiché‚ era stanco, si sedette davanti alla porta a riposare. E, mentre il suo sguardo vagava qua e là, vide per terra, nel cortile del gigante, dei giochi: qualche palla enorme e dei grossi birilli. Dopo un po', gli venne voglia di giocare, raddrizzò i birilli e si mise a tirare le palle; quando i birilli cadevano, gridava, strillava e si divertiva. Il gigante udì il rumore, si affacciò alla finestra e scorse un uomo non più alto degli altri, che tuttavia giocava con i suoi birilli. Allora gli gridò: -Vermiciattolo, chi ti ha dato la forza per giocare con i miei birilli?-. Il principe alzò gli occhi, vide il gigante e disse: -Babbeo, credi forse di essere l'unico a possedere delle braccia robuste? Io so far tutto quel che mi piace!-. Il gigante scese, lo guardò tutto meravigliato e disse: -Uomo, se sei di tal fatta, va' a prendermi una mela dell'albero della vita-. -Che cosa vuoi farne?- domandò il principe -Non è per me- rispose il gigante -è la mia fidanzata che la vuole; ho già girato dappertutto, ma non riesco a trovare l'albero.- -Mi basterà mettermi in cammino- rispose il principe -e sicuramente troverò l'albero; e mi parrebbe proprio strano se non riuscissi a cogliere la mela!- Il gigante disse: -Non è così facile come credi. Il giardino in cui si trova la pianta è circondato da una cancellata di ferro e davanti a essa vi sono, accovacciate l'una accanto all'altra, delle bestie feroci, che fanno la guardia e non lasciano entrare nessuno-. -Vedrai se non mi lasceranno entrare!- disse il principe. -Ma se anche arrivi nel giardino e vedi la mela sull'albero, non è ancora tua: davanti c'è un anello e bisogna infilarci la mano, se si vuole raggiungere e cogliere la mela, e questo non è ancora riuscito a nessuno.- -Oh, è riservato a me- disse il principe -io ci riuscirò!- Prese congedo dal gigante e se ne andò per monti e valli, per campi e boschi, finché‚ trovò il giardino incantato. Le belve erano accovacciate all'intorno, ma stavano a testa bassa e dormivano. Al suo arrivo non si svegliarono, ed egli le scavalcò, salì sulla cancellata e giunse felicemente nel giardino. In mezzo vi scorse l'albero della vita con le mele rosse che luccicavano fra i rami. Il principe si arrampicò sul tronco, e mentre stava per cogliere una mela vide un anello pendere davanti al frutto, ma pot‚ introdurvi la mano senza fatica, e staccare la mela. L'anello però si strinse al suo braccio, ed egli sentì una gran forza pervaderlo all'improvviso, tanto che pensò di poter dominare ogni cosa; in realtà questa forza gliela dava l'anello. Quando ridiscese dall'albero, non volle arrampicarsi sulla cancellata, ma afferrò il gran portone, lo scrollò e quello si spalancò con uno schianto. Egli uscì, e il leone, che era disteso là davanti, si svegliò e lo seguì di corsa, non feroce e selvaggio, ma con umiltà, come se il principe fosse il suo signore, e non lo abbandonò più. Il principe portò al gigante la mela che gli aveva promesso. -Vedi- disse -l'ho colta senza fatica.- Il gigante si rallegrò di avere ottenuto così in fretta ciò che aveva tanto desiderato, corse dalla sua fidanzata e le diede la mela. Ella era una fanciulla bella e accorta e, non vedendo l'anello al suo braccio, disse: -Non credo che tu abbia colto la mela, se prima non vedo l'anello al tuo braccio-. -Oh- disse il gigante -non ho che da andare a prenderlo a casa.- E pensava di portarlo via con la forza a quell'omino debole, se non voleva darglielo spontaneamente. Tornò a casa e pretese che il principe gli desse l'anello, ma quello non voleva. -Dov'è la mela, deve esserci anche l'anello- disse il gigante. -Se non me lo dai, dovrai lottare con me!- Lottarono a lungo, ma il gigante non pot‚ nuocere al principe, divenuto fortissimo grazie alla virtù magica dell'anello. Allora il gigante escogitò un'astuzia e gli disse: -La lotta ci ha fatto venire caldo: bagnamoci nel fiume e rinfreschiamoci, prima di ricominciare-. Il principe, che non conosceva la slealtà, andò con lui al fiume, si tolse i vestiti, e anche l'anello dal braccio, e si tuffò nell'acqua. Subito il gigante afferrò l'anello e corse via; ma il leone, che seguiva sempre il suo padrone, si accorse del furto, l'inseguì e glielo strappò. Allora il gigante andò su tutte le furie, tornò al fiume e, mentre il principe era occupato a rivestirsi, lo agguantò e gli cavò gli occhi. Il povero principe adesso era cieco e non sapeva che fare. Il gigante gli si avvicinò di nuovo con intenzioni cattive. In silenzio, prese il cieco per mano, come qualcuno che volesse guidarlo, e lo condusse in cima a un'alta rupe. Poi lo abbandonò e pensò: "Se fa ancora due passi, si uccide cadendo, e io posso prendergli l'anello". Ma il fedele leone non aveva abbandonato il suo padrone; lo trattenne per il vestito e, a poco a poco, lo fece tornare indietro. Quando il gigante tornò per derubare il morto, lo trovò vivo e vegeto. -Possibile che non si riesca a mandare in malora un essere umano così misero!- disse furioso fra s‚ e s‚; prese nuovamente il principe per mano, e lo ricondusse all'abisso per un'altra via. Ma il leone si accorse del proposito malvagio e, fedelmente, salvò il suo padrone anche da quel pericolo. Quando giunsero sull'orlo del precipizio, il gigante abbandonò la mano del cieco per lasciarlo solo; allora il leone gli si scagliò addosso con tutta la sua forza, sicché‚ il mostro precipitò nell'abisso e si sfracellò. Poi l'animale allontanò di nuovo il suo padrone da quel luogo, e lo condusse a un albero, vicino al quale scorreva un limpido ruscello. Il principe si mise a sedere, mentre il leone si distese e gli spruzzò l'acqua in viso. Qualche goccia si posò sui suoi occhi e li bagnò, e il principe si accorse che la vista gli tornava, poiché‚ aveva scorto una luce e poteva distinguere qualcosa accanto a s‚. Era un uccellino che passò accanto al suo viso e urtò contro il tronco dell'albero, proprio come se fosse cieco. Allora si lasciò cadere nell'acqua, vi si bagnò, poi si alzò in volo e volò sicuro rasente agli alberi, proprio come se avesse riacquistato la vista. Il principe comprese che si trattava di un segno divino, si chinò sull'acqua e vi bagnò il volto. E quando si drizzò, aveva di nuovo i suoi occhi, chiari e limpidi come non erano mai stati. Il principe ringraziò Dio per quel miracolo e continuò a girare il mondo con il suo leone. Un giorno giunse davanti a un castello incantato. Sulla porta c'era una fanciulla di bella persona e di viso leggiadro, ma tutta nera. Gli rivolse la parola e disse: -Ah, se tu potessi liberarmi dal maleficio che qui mi tiene in suo potere!-. -Che cosa devo fare per liberarti?- domandò il principe. La fanciulla rispose: -Devi passare tre notti nel salone del castello incantato, senza che nel tuo cuore entri la paura. Se sopporterai senza un lamento le torture che ti faranno, sarò libera; non potranno comunque toglierti la vita-. Disse il principe: -Tenterò con l'aiuto di Dio: non temo nulla a questo mondo-. Così entrò allegramente nel castello, si sedette nel salone e attese che si facesse notte. Tutto tacque fino a mezzanotte, poi scoppiò un gran baccano e da tutti gli angoli sbucarono dei piccoli diavoli. Fecero finta di non vederlo, sedettero in mezzo alla stanza, accesero un fuoco e si misero a giocare. Quando uno perdeva diceva: -Non è giusto: c'è qui qualcuno che non è dei nostri, e la colpa è sua se perdo!-. -Aspetta, che vengo, tu, là dietro la stufa!- diceva un altro. Le urla erano sempre più forti, e nessuno avrebbe potuto ascoltarle senza aver paura. Il principe tuttavia non ne ebbe affatto. Alla fine i diavoli saltarono in piedi e gli si scagliarono addosso; ed erano tanti che egli non pot‚ difendersi.Lo trascinarono a terra, lo pizzicarono, lo punzecchiarono, lo picchiarono e lo torturarono, ma egli sopportò tutto senza avere paura e senza un lamento. Verso mattina sparirono, ed egli era così spossato da non potersi muovere. Ma allo spuntar del giorno venne da lui la fanciulla nera. Teneva in mano una bottiglietta in cui era l'acqua della vita; lo lavò con quell'acqua, e subito ogni dolore sparì, ed egli si sentì fresco e sano. Ella gli disse: -Hai superato felicemente una notte, ma ne hai ancora due davanti a te-. Poi se ne andò, e mentre si allontanava, egli notò che i suoi piedi erano diventati bianchi. La notte seguente tornarono i diavoli, e ricominciarono il loro gioco; ma ben presto si scagliarono sul principe e lo picchiarono con violenza, molto più crudelmente della prima notte, sicché‚ il suo corpo era pieno di ferite. Ma poiché‚ egli sopportò tutto in silenzio, dovettero lasciarlo; e quando spuntò l'aurora, comparve nuovamente la fanciulla che lo risanò con l'acqua della vita. Quand'ella se ne andò, egli vide con gioia che era diventata tutta bianca, meno la punta delle dita. Ora egli doveva superare solamente una notte, ma era la peggiore. I diavoli tornarono. -Sei ancora qui?- gridarono. -Ti tortureremo da mozzarti il fiato.- Lo punsero e lo picchiarono, lo gettarono di qua e di là e gli tirarono braccia e gambe, come se volessero squartarlo. Ma egli non diede un lamento e non ebbe paura, e si consolava pensando che tutto ciò sarebbe passato e che la fanciulla sarebbe stata liberata dal maleficio. Ma quando i diavoli sparirono, egli giaceva immobile e privo di sensi; non pot‚ neanche alzare gli occhi per vedere la fanciulla che entrava e lo bagnava con l'acqua della vita. E d'un tratto scomparve ogni dolore, ed egli si sentì fresco e sano come se si fosse appena svegliato dal sonno. E quando aprì gli occhi, vide accanto a s‚ la fanciulla, bianca come la neve e bella come il sole. -Alzati!- diss'ella -e brandisci per tre volte la tua spada sulla scala, così tutto sarà libero.- E quand'egli l'ebbe fatto, tutto il castello fu sciolto dall'incantesimo e la fanciulla era una ricca principessa. Entrarono i servi e dissero che nel salone la tavola era preparata e il pranzo già servito. Si sedettero, mangiarono e bevvero insieme, e la sera furono celebrate le nozze in grande esultanza.
FINE





L'insalata magica
tempo: 17'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 122



C'era una volta un giovane cacciatore dall'indole allegra e vivace. Un giorno si recò nel bosco alla posta e, mentre camminava fischiettando con una foglia, incontrò una brutta vecchietta, che gli rivolse la parola e disse: -Buon giorno, cacciatore! Tu sei di buon umore, ma io soffro la fame e la sete: fammi la carità-. Il cacciatore ebbe pietà della povera vecchina, così mise la mano in tasca e le diede quello che aveva. Poi fece per proseguire, ma la vecchia lo trattenne e disse: -Caro cacciatore, ascolta quello che ti dico; voglio farti un regalo per il tuo buon cuore: continua dritto per la tua strada, dopo un po' arriverai a un albero, sul quale ci saranno nove uccelli che si azzufferanno per un mantello. Allora prendi la mira e spara nel mucchio: lasceranno cadere il mantello, ma anche uno degli uccelli sarà colpito e cadrà a terra. Prendi il mantello, è magico: se te lo getti sulle spalle e desideri di trovarti in qualche luogo, in un baleno ci sarai. L'uccello morto, invece, devi aprirlo, togliergli il cuore e ingoiarlo intero; ogni mattina, alzandoti, troverai una moneta d'oro sotto il guanciale, e ciò grazie all'uccello-. Il cacciatore ringraziò l'indovina e pensò fra s‚: "Belle cose, se solo si avverassero!-. Ma dopo aver fatto un cento passi, udì delle strida e dei cinguettii fra i rami, sopra la sua testa; alzò gli occhi e vide un mucchio d'uccelli che si disputavano un panno con i becchi e con le zampe, e strillavano, tiravano e si azzuffavano, come se ciascuno lo volesse per s‚ solo. -Che strano!- disse il cacciatore -è proprio come ha detto la nonnina.- Si tolse di spalla il fucile, prese la mira e sparò nel mucchio, facendo volare le piume all'intorno. Subito gli uccelli presero la fuga levando alte strida, uno però cadde a terra morto, e scese pure il mantello. Allora il cacciatore fece quello che gli aveva ordinato la vecchia, aprì l'uccello, cercò il cuore, lo ingoiò e si portò a casa il mantello. Il mattino dopo, quando si svegliò, gli venne in mente la promessa, e volle vedere se si era avverata. Alzò il cuscino, ed ecco una moneta d'oro sfavillante; il mattino dopo ne trovò un'altra, e così via ogni giorno, al risveglio. Raccolse un bel gruzzolo d'oro, e alla fine pensò: "A che mi serve tutto quest'oro, se resto a casa? Me ne andrò a girare il mondo". Prese congedo dai suoi genitori, si mise a tracolla il carniere e il fucile, e se ne andò. Un giorno gli accadde di attraversare un fitto bosco, e quando terminò, ecco davanti a lui, in una pianura, uno splendido castello. A una finestra era affacciata una vecchia con una bellissima fanciulla, e guardava giù. La vecchia però era una strega, e disse alla fanciulla: -Dal bosco sta arrivando uno che ha in corpo un gran tesoro; perciò dobbiamo abbindolarlo, mia cara, quella è roba che si addice più a noi che a lui. Ha in un corpo un cuore d'uccello, e per questo ogni mattina c'è una moneta d'oro sotto il suo guanciale-. E le raccontò tutta la faccenda e che parte ella dovesse fare; poi alla fine le disse, facendole gli occhiacci: -Se non mi ubbidisci, guai a te!-. Il cacciatore avvicinandosi, scorse la fanciulla e pensò: "Ho girato tanto che voglio riposarmi in questo bel castello; denaro ne ho in abbondanza". Ma, in realtà, egli aveva gettato gli occhi su quella bellezza. Entrò nella casa e fu accolto con cordialità e gentilmente ospitato. Non tardò molto a innamorarsi della figlia della strega, tanto che non pensava più ad altro, vedeva soltanto i suoi occhi e faceva tutto ciò ch'ella desiderava. Allora la vecchia disse: -Adesso dobbiamo prendere il cuore dell'uccello, non si accorgerà neppure che gli manca-. Preparò un decotto e, quando fu pronto, lo mise in un bicchiere e lo diede alla fanciulla, che dovette portarlo al cacciatore. Ella disse: -Orsù, mio caro, bevi alla mia salute!-. Egli prese il bicchiere, e non appena ebbe ingoiato il decotto, vomitò il cuore dell'uccello. La fanciulla dovette portarlo via di nascosto, e inghiottirlo lei stessa, poiché‚ la vecchia lo voleva. Da quel giorno egli non trovò più sotto il guanciale la moneta d'oro, che si trovava invece sotto il cuscino della fanciulla, dove la vecchia la prendeva ogni mattina. Ma egli era così follemente innamorato, che pensava solo a passare il suo tempo con lei. Allora la vecchia strega disse: -Il cuore d'uccello l'abbiamo, ma dobbiamo ancora prendergli il mantello magico-. La fanciulla rispose: -Quello lasciamoglielo! Ha già perso la sua ricchezza-. La vecchia s'infuriò e disse: -Un mantello come quello è una cosa straordinaria, che si trova raramente a questo mondo: perciò devo assolutamente averlo-. Disse alla fanciulla quel che doveva fare e aggiunse che se non avesse obbedito, sarebbe stata punita. Allora la fanciulla, assecondando la vecchia, si mise alla finestra e guardò lontano, fingendo una gran tristezza. Il cacciatore le domandò: -Perché‚ sei così triste?-. -Ah, tesoro mio!- ella rispose -là di fronte c'è il monte dei granati, dove crescono le pietre più preziose. Le desidero tanto che, se ci penso, divento tutta triste. Ma chi può andare a prenderle? Soltanto gli uccelli che volano possono arrivarci, non certo un uomo!- -Se il tuo dolore è tutto qui- disse il cacciatore -si fa in fretta a scacciarlo.- La prese sotto il suo mantello e desiderò di essere sul monte dei granati; e all'istante vi si trovarono tutti e due. Le pietre preziose brillavano da ogni parte, ch'era una gioia vederle, ed essi raccolsero le più belle e le più preziose. Ma la vecchia, con le sue arti, aveva fatto in modo che al cacciatore si appesantissero le palpebre, sicché‚ questi disse alla fanciulla: -Sediamoci un poco a riposare, sono così stanco che non mi reggo più in piedi-. Si sedettero ed egli le posò la testa in grembo e si addormentò. Quando fu addormentato, ella gli tolse il mantello dalle spalle, se lo mise, raccolse i granati e le gemme e desiderò di essere a casa. Ma quando il cacciatore si svegliò, vide che la sua diletta lo aveva ingannato e lo aveva abbandonato su quel monte selvaggio. -Ah!- esclamò -quanta perfidia c'è a questo mondo!- e se ne stette là triste e addolorato senza sapere che fare. Ma la montagna apparteneva a dei feroci, terribili giganti, che abitavano lassù, facendone di tutti i colori. Mentre il cacciatore se ne stava seduto là, ne vide tre avvicinarsi a grandi passi. Allora pensò: "L'unico modo per salvarmi è fingere di dormire" e, in fretta, si sdraiò per terra, come se fosse immerso in un sonno profondo. I giganti si avvicinarono, e il primo gli diede una pedata e disse: -Che razza di vermiciattolo se ne sta qui a guardarsi la pancia?-. Il secondo disse: -Calpestalo!-. Ma il terzo disse, superbamente: -Non ne vale la pena! Lasciatelo stare, tanto se sale in cima al monte le nubi lo afferrano e lo portano via-. Così dicendo se ne andarono, ma il cacciatore aveva prestato attenzione alle loro parole e, come si furono allontanati, si arrampicò sulla cima del monte. Poco dopo, si avvicinò una nube, librandosi nell'aria, lo afferrò, lo portò via, vagò qua e là per il cielo, poi si abbassò su un grande orto circondato da mura, sicché‚ egli si posò dolcemente fra i cavoli e gli ortaggi. Il cacciatore si guardò attorno e disse: -Se solo avessi qualcosa da mangiare! Ho tanta fame che sarà difficile proseguire; ma qui non vedo n‚ mele, n‚ pere, n‚ altri frutti: non vi sono che ortaggi-. Alla fine pensò: "In mancanza d'altro, mangerò dell'insalata: mi rinfrescherà e mi irrobustirà". Si cercò un bel cespo d'insalata e si mise a mangiare, ma non appena ebbe inghiottito un paio di bocconi, si sentì molto strano, gli pareva di essere cambiato, e vide con spavento che si era trasformato in un asino. Tuttavia, poiché‚ aveva ancora tanta fame, e l'insalata fresca gli piaceva tanto, continuò a mangiarla avidamente, finché‚ giunse a un'altra specie d'insalata, e come ne ebbe mangiata qualche foglia, sentì un nuovo mutamento e riacquistò fortunatamente il suo aspetto umano. Allora il cacciatore si sdraiò e fece una bella dormita. Il mattino dopo, al risveglio, colse un cespo di insalata cattiva e uno di quella buona e pensò: "Mi serviranno a tornare in possesso di ciò che era mio, e a punire l'infedeltà". Li mise nel carniere, scavalcò il muro e si avviò alla ricerca del castello della sua amata. Dopo aver girato un paio di giorni, ebbe la fortuna di trovarlo. Si scurì in fretta il viso, che neanche sua madre lo avrebbe riconosciuto, entrò nel castello e chiese ospitalità. -Sono così stanco- disse -che non posso proseguire.- La strega gli domandò: -Campagnolo, chi siete, e che mestiere fate?-. Egli rispose: -Sono un messaggero del re, che mi ha mandato a cercare l'insalata migliore che vi sia al mondo. Ho avuto la fortuna di trovarla e ce l'ho con me; il sole però scotta troppo e rischia di farmi appassire le foglie più tenere, perciò non so se la porterò più lontano-. La vecchia, sentendo parlare dell'insalata tanto buona, ebbe voglia di assaggiarla e disse: -Caro campagnolo, lasciatemi mangiare un po' di quell'insalata straordinaria-. -Perché‚ no?- rispose egli -ne ho presi due cespi, ve ne darò uno.- Aprì il carniere e le porse quello cattivo. La vecchia non pensò a un tranello, e la nuova pietanza le faceva venire l'acquolina in bocca, tanto che andò di persona in cucina a prepararla. Quando fu pronta, non pot‚ aspettare che fosse in tavola, ma ne prese subito qualche foglia, e se la mise in bocca. Ma non appena l'ebbe inghiottita, perse l'aspetto umano e corse giù in cortile, trasformata in asina. In cucina, intanto, arrivò la serva, vide l'insalata pronta e volle portarla in tavola, ma per strada, secondo la sua vecchia abitudine, fu presa dalla voglia di assaggiarla e ne mangiò due foglie. Quelle mostrarono all'istante il loro potere magico: diventò un'asina anche la serva e corse fuori dalla vecchia, mentre il piatto d'insalata cadde a terra. Nel frattempo il messaggero se ne stava con la bella fanciulla e, siccome non veniva mai nessuno con l'insalata, e anche lei ne aveva voglia, ella disse: -Chissà che fine ha fatto l'insalata!-. Il cacciatore pensò: -Avrà già prodotto il suo effetto!" e disse: -Andrò in cucina a vedere-. Quando scese, vide le due asine che correvano in cortile, e l'insalata per terra. -Bene, bene- disse -quelle due hanno avuto ciò che meritavano!- Raccolse le foglie avanzate, le mise nel piatto e le portò alla fanciulla. -Vi porto io stesso questa delizia- disse -perché‚ non dobbiate aspettare ancora.- Ella ne mangiò e subito perse il suo aspetto umano come le altre due, e corse in cortile, trasformata in asina. Poi il cacciatore si lavò la faccia, perché‚ le trasformate potessero riconoscerlo, scese in cortile e disse: -Adesso riceverete la ricompensa per la vostra infedeltà-. Le legò tutte e tre a una corda, e le condusse via, finché‚ giunse a un mulino, e bussò alla finestra del mugnaio. -Che cosa c'è?- domandò il mugnaio. Egli rispose: -Ho qui tre bestiacce. Se volete prenderle voi, procurar loro lo strame e il foraggio, e trattarle come vi dico io, vi pagherò quel che volete-. -Perché‚ no?- disse il mugnaio. -Ma come devo trattarle?- Allora il cacciatore disse che l'asina vecchia, cioè la strega, doveva bastonarla tre volte al giorno e non darle mai da mangiare; quella un po' più giovane, cioè la serva, doveva bastonarla una volta al giorno e darle tre razioni di foraggio; quella più giovane di tutte, cioè la fanciulla, non doveva bastonarla mai, e doveva darle tre razioni di foraggio al giorno, perché‚ non poteva sopportare che la bastonassero. Poi tornò al castello e trovò tutto ciò che gli occorreva. Dopo qualche giorno arrivò il mugnaio e disse che, a ricevere solo bastonate e neanche una razione di foraggio, la vecchia asina era morta. -Le altre due- proseguì -non sono morte, e ricevono ogni giorno da mangiare, ma sono così tristi, che non andranno avanti per molto.- Allora il cacciatore s'impietosì, scordò la sua collera e disse al mugnaio di riportarle indietro. Quando giunsero al castello, diede loro da mangiare l'insalata buona, sicché‚ ridiventarono esseri umani. La bella fanciulla cadde allora in ginocchio davanti a lui e disse: -Ah, amor mio! Perdonatemi il male che vi ho fatto: mia madre mi ci ha costretta, ma l'ho fatto contro la mia volontà, perché‚ io vi amo con tutto il cuore. Il vostro mantello magico è appeso in un armadio, e prenderò qualcosa per vomitare il cuore d'uccello-. Allora egli cambiò idea e disse: -Tienilo pure, è lo stesso, perché‚ diventerai la mia sposa fedele-. Così furono celebrate le nozze ed essi vissero felici insieme fino alla morte.
FINE





La vecchia nel bosco
tempo: 6'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 123



C'era una volta una povera servetta che attraversava un gran bosco con i suoi padroni; e quando vi si trovarono in mezzo, dal fitto della boscaglia sbucarono dei briganti e uccisero tutti quelli che trovarono. Così perirono tutti quanti, meno la fanciulla, che era saltata fuori dalla carrozza e si era nascosta dietro un albero. Quando i briganti se ne furono andati con il bottino, ella si avvicinò e vide quella grande sventura. Allora si mise a piangere amaramente e disse: "Misera me, che farò mai? Non so come fare a uscire dal bosco, qui non ci sono case, e io morirò certo di fame!". Andò qua e là cercando una via, ma non riuscì a trovarla. Quando fu sera, si sedette sotto un albero, si raccomandò a Dio e pensò di rimanere là e di non muoversi più, qualunque cosa accadesse. Dopo un po', venne in volo un piccolo colombo tutto bianco che portava nel becco una piccola chiave d'oro. Gliela mise in mano e disse: "Vedi laggiù quel grande albero? Ha una piccola serratura; aprila con la chiavetta: troverai cibo a sufficienza e non patirai più la fame". Ella si avvicinò all'albero, lo aprì e trovò una scodellina di latte e pane bianco da inzuppare; così poté mangiare a sazietà. Quando si fu sfamata, disse: "Questa è l'ora in cui i polli, a casa, vanno a dormire. Io sono così stanca! Potessi coricarmi anch'io nel mio letto!". Allora ritornò il colombo, portando nel becco un'altra chiavetta d'oro e disse: "Apri quell'albero laggiù, e troverai un letto". Ella lo aprì e trovò un bel lettino bianco; pregò il buon Dio di proteggerla durante la notte, si coricò e si addormentò. Al mattino tornò il colombo per la terza volta, portò un'altra chiavetta e disse: "Apri quell'albero laggiù: troverai dei vestiti". Quando ella aprì, trovò dei vestiti ornati di oro e pietre preziose, così belli che neanche la figlia del reli aveva. Così visse per qualche tempo, e tutti i giorni veniva il colombo e le procurava tutto il necessario; ed era una vita tranquilla e felice.

Un giorno però il colombo venne e disse: "Vorresti farmi un piacere?". "Con tutto il cuore" rispose la fanciulla. Allora il colombo disse: "Ti condurrò a una casetta; entrerai e in mezzo, accanto al focolare, ci sarà una vecchia seduta che ti dirà: 'Buon giorno'. Ma tu guardati bene dal darle risposta, qualunque cosa faccia, e prosegui alla sua destra: c'è una porta, aprila e ti troverai in una stanza dove sul tavolo ci saranno ammucchiati anelli d'ogni tipo; ve ne saranno di splendidi con gemme scintillanti, ma tu lasciali stare, cercane uno liscio che dev'essere là in mezzo e portamelo più in fretta che puoi".

La fanciulla andò così alla casetta ed entrò; là c'era una vecchia che fece tanto d'occhi al vederla e disse: "Buon giorno, bimba mia". Ma ella non le diede risposta e andò verso la porta. "Ehi, dove vai?" gridò quella e l'afferrò per la sottana, cercando di trattenerla. "Questa è casa mia, e nessuno può entrarci se io non voglio!" Ma la fanciulla continuava a tacere, si liberò e andò difilata nella stanza. Là, sul tavolo, c'era una grande quantità di anelli che splendevano e luccicavano sotto i suoi occhi; ella li sparpagliò cercando quello liscio, ma non riusciva a trovarlo. Mentre cercava vide la vecchia che tentava di andarsene di soppiatto, con una gabbietta in mano. Allora la fanciulla le si avvicinò, le prese di mano la gabbia, e come la sollevò e vi guardò dentro, vide un uccello che aveva l'anello liscio nel becco. Lo prese e, tutta felice, corse via pensando che il colombo sarebbe venuto a prenderselo; e invece non veniva mai. La fanciulla si appoggiò a un albero per aspettarlo; ed ecco le parve che l'albero diventasse morbido e flessuoso, e chinasse i suoi rami. E, d'un tratto, i rami la strinsero, ed erano due braccia; e quando ella si guardò attorno, l'albero era un bell'uomo, che l'abbracciava e la baciava teneramente e diceva: "Tu mi hai liberato dall'incantesimo: la vecchia è una strega che mi aveva trasformato in un albero, e tutti i giorni ero per qualche ora un colombo bianco; e finché‚ ella possedeva l'anello, non potevo riacquistare il mio aspetto umano". Anche i suoi servi e i suoi cavalli furono liberati dall'incantesimo, non erano più degli alberi e gli stavano accanto. Poi se ne andarono tutti insieme nel suo regno, poiché‚ egli era il figlio di un re; si sposarono e vissero felici.
FINE





I tre fratelli
tempo: 5'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 124



C'era una volta un uomo che aveva tre figli e non possedeva altri beni che la casa in cui abitava. Ognuno dei figli avrebbe voluto avere la casa alla sua morte, ma egli li amava tutti allo stesso modo e non sapeva come fare per non fare torto a nessuno; venderla non voleva perché‚ era la casa dei suoi padri: altrimenti avrebbe diviso il denaro fra di loro. Finalmente gli venne un'idea e disse ai figli: -Andate in giro per il mondo e mettetevi alla prova; ognuno di voi impari un mestiere e, quando tornerete, chi farà il miglior capolavoro avrà la casa-. I figli furono d'accordo; e il maggiore volle fare il maniscalco, il secondo il barbiere e il terzo il maestro di scherma. Stabilirono quando sarebbero tornati tutti a casa e se ne andarono. Il caso volle che tutti e tre trovassero ottimi maestri, presso i quali impararono proprio bene. Il maniscalco doveva ferrare i cavalli del re e pensava: "Sicuramente avrai la casa". Il barbiere radeva solamente dei gran signori e pensava anche lui che la casa sarebbe stata sua. Il maestro di scherma si buscò parecchi colpi, ma stringeva i denti senza perdersi d'animo, perché‚ pensava: "Se hai paura di un fendente, non avrai mai la casa". Quando fu trascorso il tempo stabilito, ritornarono tutti e tre a casa; ma, non sapendo trovare l'occasione più propizia per dare prova della loro arte, si riunirono e tennero consiglio. Mentre se ne stavano là seduti, arrivò all'improvviso una lepre di corsa attraverso il campo. -Ehi!- disse il barbiere -viene giusto a proposito!- Prese la catinella e il sapone, agitò la schiuma finché‚ la lepre fu ben vicina, poi di corsa l'insaponò e le fece una barbetta a punta, senza tagliarla per nulla n‚ torcere un pelo. -Mi piace!- disse il padre -se gli altri non fanno qualcosa di speciale, la casa è tua.- Poco dopo, arrivò un signore in carrozza, e il cavallo andava di gran carriera. -Adesso state a vedere, babbo, che cosa sono capace di fare- disse il maniscalco; corse dietro alla carrozza, tolse i quattro ferri al cavallo, mentre continuava a galoppare, e gliene mise quattro nuovi. -Sei in gamba- disse il padre -sai fare bene il tuo mestiere come tuo fratello; non so a chi devo dare la casa.- Allora il terzo figlio disse: -Babbo, lasciate che provi anch'io- e, siccome incominciava a piovere, sguainò la spada e la brandì menando colpi di traverso sopra la sua testa, in modo da non prendersi nemmeno una goccia; e quando la pioggia si fece più fitta e finì con lo scrosciare come se la rovesciassero a secchiate dal cielo, egli brandì la spada sempre più in fretta e rimase asciutto come se fosse al coperto. Al vederlo, il padre rimase di stucco e disse: -Tu hai fatto il miglior capolavoro, la casa è tua-. Gli altri due fratelli si accontentarono, come avevano promesso; e poiché‚ si volevano molto bene, rimasero tutti e tre insieme nella casa, esercitando il loro mestiere; e lo conoscevano così a fondo, abili com'erano, che guadagnarono molto denaro. Così vissero felici insieme fino a tarda età e, quando uno di loro si ammalò e morì, gli altri due ne furono tanto addolorati che si ammalarono e morirono anch'essi. Allora, poiché‚ erano stati così abili e si erano voluti tanto bene, furono sepolti insieme nella stessa tomba.
FINE





Il diavolo e sua nonna
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 125



Una volta vi fu una grande guerra e il re diede ai soldati una paga così misera, che non bastava loro per vivere. Allora tre soldati si misero insieme e pensarono di scappare. Uno disse: -Se ci prendono, però, c'impiccano: come faremo?-. L'altro rispose: -Là c'è un grosso campo di grano; se vi entriamo e ci nascondiamo, non ci trova nessuno: l'esercito non può entrare là in mezzo-. Così si acquattarono nel grano, e vi rimasero due giorni e due notti, e avevano tanta fame che credevano di morire, poiché‚ uscire non potevano. Allora dissero: -A cosa ci serve essere scappati, se qui ci tocca morire miseramente!-. In quella giunse a volo nell'aria un drago di fuoco, li vide distesi laggiù e chiese: -Che cosa fate lì in mezzo al grano?-. Essi risposero: -Siamo tre soldati e abbiamo disertato perché‚ non potevamo più vivere con la nostra paga nell'esercito; adesso però siamo costretti a morire qui di fame, perché‚ l'esercito è accampato qui attorno e non possiamo fuggire-. -Se volete servirmi per sette anni- disse il drago -vi condurrò attraverso le schiere, senza che nessuno possa acchiapparvi.- -Non abbiamo scelta, accettiamo!- risposero quelli. Allora il drago li afferrò con gli artigli, li prese sotto le sue ali e li portò a volo per l'aria al di sopra dell'esercito, e li rimise a terra al sicuro. Ma il drago non era altri che il diavolo; diede loro un piccolo frustino, con il quale, schioccandolo, avrebbero avuto denaro a volontà. -Con questo- disse -potrete vivere da gran signori e andare in carrozza; ma, in capo a sette anni, sarete miei- e presentò loro un libro sul quale tutti e tre dovettero firmare. -Tuttavia, vi proporrò prima un indovinello- diss'egli. -Se lo saprete indovinare, sarete liberi e io non avrò più alcun potere su di voi.- Il drago volò via, ed essi proseguirono con il loro frustino; avevano denaro in abbondanza, si vestivano da gran signori e giravano il mondo. Dovunque si trovassero, vivevano spassandosela, viaggiavano con cavalli e carrozza, mangiavano, bevevano, e i sette anni trascorsero in fretta. Quando il tempo volse al termine, a due di loro venne una gran paura ed erano tutti tristi, mentre il terzo la prese alla leggera e disse: -Fratelli, non temete, forse potremo risolvere l'indovinello-. Mentre se ne stavano là seduti, arrivò una vecchia che domandò perché‚ fossero tanto afflitti -Ah, cosa ve ne importa! Tanto non potete aiutarci!- -Chi lo sa- rispose ella -raccontatemi le vostre pene.- Allora essi le raccontarono che avevano servito il diavolo per quasi sette anni, ed egli aveva procurato loro oro a palate. Ma avevano dovuto vendergli l'anima, e sarebbero caduti in suo potere se, al temine dei setti anni, non avessero saputo sciogliere un indovinello. La vecchia disse: -Se volete che vi aiuti, bisogna che uno di voi vada nel bosco, e arrivi davanti a un dirupo che sembra una casetta-. I due afflitti pensarono: "Tanto non servirà a nulla!" e rimasero fuori dal bosco. Il terzo invece, quello allegro, si mise in cammino e trovò tutto quanto come aveva detto la vecchia. Nella casetta c'era una vecchia decrepita, che era la nonna del diavolo, e gli domandò di dove venisse e che cosa volesse. Egli le raccontò ogni cosa e siccome era proprio un brav'uomo, ella ne ebbe pietà. Sollevò una grossa pietra e disse: -Nasconditi qua sotto e sta' zitto. Quando viene il drago gli chiederò l'indovinello-. A mezzanotte giunse a volo il drago e volle cenare. La nonna gli preparò la tavola, portò da bere e da mangiare, ed egli era tutto contento, e mangiarono e bevvero insieme. Chiacchierando, ella gli domandò com'era andata quel giorno, e quante anime aveva acchiappato. -Ci sono tre soldati, che sono miei di sicuro- egli rispose. -Sì, tre soldati!- diss'ella -quelli, non so cos'abbiano in corpo, possono ancora sfuggirti.- Il diavolo disse, beffardo: -Sono certamente miei: proporrò loro un indovinello che non sapranno mai risolvere!-. -Che indovinello?- chiese la vecchia. -Te lo dirò: nel gran mare del Nord c'è un gattomammone morto, sarà il loro arrosto; la costola di una balena sarà il loro cucchiaio d'argento; e un vecchio zoccolo di cavallo sarà il loro bicchiere da vino.- Poi il diavolo se ne andò a dormire e la vecchia nonna sollevò la pietra e fece uscire il soldato. -Hai fatto bene attenzione?- -Sì- diss'egli -ora saprò trarmi d'impaccio.- Poi dovette andarsene di soppiatto, uscendo dalla finestra perché‚ il diavolo non lo vedesse, e raggiunse così in tutta fretta i suoi compagni. Quando arrivò da loro, raccontò ciò che aveva udito, e disse che ora potevano indovinare ciò che nessuno avrebbe mai saputo. Ne furono tutti felici e contenti e si misero a schioccare la frusta per procurarsi un bel po' di denaro. Quando furono trascorsi i sette anni, arrivò il diavolo con il libro, mostrò loro le firme e disse: -Voglio portarvi all'inferno con me: là farete un pranzo e se saprete indovinare che arrosto vi daranno da mangiare, sarete liberi e potrete tenervi anche il frustino-. Allora il primo soldato disse: -Nel gran mare del Nord c'è un gattomammone morto: l'arrosto sarà quello-. Il diavolo s'irritò, fece: -Ehm! ehm!- e domandò al secondo: -Quale sarà il vostro cucchiaio?-. -Il nostro cucchiaio d'argento sarà la costola di una balena- rispose quello. Il diavolo fece una brutta faccia, brontolò di nuovo tre volte: -Ehm! ehm! ehm!- e disse al terzo: -Quale sarà il vostro bicchiere da vino?-. -Il nostro bicchiere da vino sarà un vecchio zoccolo di cavallo.- Allora il diavolo volò via, li lasciò in pace e non ebbe più alcun potere su di loro; ma i tre soldati tennero il frustino, ne trassero denaro a volontà e vissero allegramente fino alla morte.
FINE





Fernando fedele e Fernando infedele
tempo: 12'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 126



C'era una volta un uomo e una donna che, finché‚ furono ricchi, non ebbero figli, ma quando diventarono poveri, misero al mondo un maschietto. Ma non riuscivano a trovare un compare; allora l'uomo disse che sarebbe andato nel paese vicino, per vedere se là poteva trovarlo. Per strada, incontrò un pover'uomo che gli domandò dove stesse andando; egli rispose che andava a vedere se trovava un padrino: egli era povero e perciò non trovava nessuno che volesse fargli da compare. -Oh- disse il pover'uomo -voi siete povero e io pure: vi farò io da compare. Ma sono così povero che non posso regalare nulla al bambino; andate e dite alla comare di portarlo in chiesa.- Quando arrivarono in chiesa, il pover'uomo era già là, e chiamò il bambino Fernando fedele. Uscendo di chiesa, il poveretto disse: -Ora andate a casa: io non posso darvi nulla, e anche voi non dovete darmi nulla-. Ma alla comare diede una chiave e la pregò di darla, appena a casa, al padre, che la serbasse finché‚ il bambino avesse quattordici anni; poi il ragazzo doveva andare nella brughiera, e là doveva esserci un castello che si sarebbe aperto con quella chiave, e tutto quello che c'era dentro era suo. Quando il bimbo ebbe sette anni, e si era già fatto grandicello, andò una volta a giocare con altri ragazzi, e tutti avevano ricevuto dei doni dal padrino, uno più dell'altro, ma lui non poteva dire nulla, allora si mise a piangere, andò a casa e disse al padre: -Non ho ricevuto proprio nulla dal padrino?-. -Oh sì- rispose il padre -ti ha dato una chiave: se c'è un castello nella brughiera, va' ad aprirlo.- Allora egli andò, ma non c'era proprio nessun castello. Dopo sette anni, quando ne ha quattordici, torna laggiù, ed ecco un castello. Lo apre, e dentro c'è soltanto un cavallo bianco. Il ragazzo è così felice di avere un cavallo, che vi salta in groppa e ritorna al galoppo da suo padre. -Adesso ho anch'io un cavallo, e mi metterò in viaggio!- dice. Così se ne va, e strada facendo, vede sulla strada una penna da scrivere. Dapprima vuole raccoglierla, ma poi pensa: "Oh, lasciala stare! una penna da scrivere la trovi ovunque se ne hai bisogno". Mentre si allontana sente una voce che gli grida: -Fernando fedele, prendila con te!-. Egli si volta ma non vede nessuno, allora torna indietro e raccoglie la penna. Dopo aver cavalcato un po', passa vicino a un fiume, e sulla riva c'è un pesce che boccheggia. Allora egli dice: -Aspetta, caro pesce, ti aiuterò a tornare in acqua-. Lo prende per la coda e lo getta nel fiume. Allora il pesce sporge la testa dall'acqua e dice: -Tu mi hai aiutato e io ti darò un flauto: in caso di bisogno, suonalo, e io ti aiuterò; e se qualcosa ti cadesse nell'acqua, suona il flauto e io te la riporterò-. Il giovane prosegue e incontra un uomo che gli domanda dove vuole andare. -Oh, al villaggio più vicino.- -Come vi chiamate?- -Fernando fedele.- -Ma guarda, abbiamo quasi lo stesso nome: io mi chiamo Fernando infedele.- E tutti e due se ne vanno alla locanda del villaggio vicino. Ma il guaio era che Fernando infedele sapeva tutto quello che un altro pensava e voleva fare; lo sapeva per ogni sorta di male arti. Nella locanda c'era una bella fanciulla, con un viso ridente e di belle maniere. Ella s'innamorò di Fernando fedele, perché‚ era bello; e gli chiese dove volesse andare. Oh, voleva girare il mondo. Ma lei gli disse che gli conveniva rimanere: in quel paese c'era un re che avrebbe preso volentieri un domestico o un battistrada; egli avrebbe dovuto entrare a servizio dal re. Ma Fernando fedele rispose che non poteva andare a offrirsi così. Allora la fanciulla disse: -Oh, lo farò io!-. Andò subito dal re e gli disse che conosceva un domestico di bell'aspetto. IL re ne fu contento, lo mandò a chiamare e voleva farne il suo domestico. Ma il giovane preferiva essere battistrada, perché‚ dov'era il suo cavallo, doveva esserci anche lui; e il re gli fece fare il battistrada. Quando Fernando infedele venne a saperlo, disse alla fanciulla: -Come, aiuti lui e non me?-. -Oh- diss'ella -aiuterò anche te.- E pensava: -Devi tenertelo amico, perché‚ di lui non ci si può fidare". Così va dal re e glielo offre come domestico, e il re ne è contento. Al mattino, mentre Fernando infedele lo vestiva, il re sospirava sempre: -Ah, se avessi qui con me la mia sposa!-. Ma Fernando infedele detestava Fernando fedele e, un giorno che il re riprese a lamentarsi in quel modo, disse: -Avete il battistrada: mandatelo a prenderla; e se non lo fa, tagliategli la testa-. Allora il re mandò a chiamare Fernando fedele e gli disse che aveva una promessa sposa così e così: doveva portargliela altrimenti sarebbe morto. Fernando fedele andò nella stalla dal suo cavallo bianco, e piangeva e si lamentava: -Ah, povero me!-. Allora udì una voce dietro di lui: -Fernando fedele, perché‚ piangi?-. Egli si voltò ma non vide nessuno e continuò a lamentarsi: -Oh, mio caro cavallino, adesso devo lasciarti, devo morire!-. Solo allora si accorse che era il suo cavallino bianco a interrogarlo: -Sei tu, cavallino mio? Sai parlare?-. E aggiunse: -Devo andare in un posto così e così a prendere la promessa sposa: non sai dirmi cosa devo fare?-. Il cavallino bianco rispose: -Vai dal re e digli che porterai la sposa se egli ti darà ciò che desideri: riuscirai se ti darà una nave piena di carne e una colma di pane. Sul mare a sono dei gran giganti e se tu non portassi loro della carne, ti farebbero a pezzi; e ci sono dei brutti uccelli che ti caverebbero gli occhi se tu non avessi del pane per loro-. Allora il re ordinò a tutti i beccai del paese di macellare, e a tutti i fornai di cuocere il pane, in modo da riempire le due navi. Quando furono piene, il cavallino bianco disse a Fernando fedele: -Adesso saltami in groppa e imbarcati con me; quando verranno i giganti, dirai:"Adesso l'ira conviene scordare, e senza indugio venite a mangiare!"E quando verranno gli uccelli dirai ancora:"A voi qualcosa ho voluto portare, or senza indugio venite a beccare!"Allora non ti faranno nulla, e quando arriverai al castello, i giganti ti aiuteranno: sali al castello e prendi due giganti con te, là ci sarà la principessa addormentata; tu però non svegliarla: i giganti devono sollevarla con il letto e portarla sulla nave-. E ogni cosa andò come aveva detto il cavallino bianco: Fernando fedele diede ai giganti e agli uccelli quello che aveva portato; i giganti si rabbonirono e portarono la principessa con il suo letto al re. Ma quando arrivò dal re, ella disse che non poteva vivere se non aveva le sue carte, che erano rimaste nel castello. Su suggerimento di Fernando infedele, chiamarono così Fernando fedele, e il re gli ordinò di andare a prendere le carte nel castello, altrimenti sarebbe morto. Allora egli tornò di nuovo nella stalla e pianse e disse: -Oh, mio caro cavallino, devo partire nuovamente, come faremo?-. Allora il cavallino disse che dovevano caricare ancora la nave. Tutto andò come la volta precedente e giganti e uccelli furono saziati e ammansiti dalla carne. Quando giunsero al castello il cavallo gli disse di entrare: le carte erano sul tavolo, nella camera della principessa. Fernando fedele va e le prende. Quando sono in mare, a Fernando fedele cade la penna in acqua, e il cavallo gli dice: -Adesso non posso aiutarti-. Allora gli viene in mente il flauto, incomincia a suonare ed ecco arrivare il pesce con la penna in bocca e gliela porge. Ed egli porta le carte al castello dove si stavano celebrando le nozze. Ma alla regina il re non piaceva perché‚ non aveva naso, e invece le piaceva molto Fernando fedele. Una volta che i signori della corte erano riuniti, la regina disse che si intendeva di magia: se qualcuno voleva provare, lei poteva tagliargli la testa e rimettergliela a posto.
Ma nessuno voleva essere il primo e dovette offrirsi Fernando fedele, sempre per consiglio di Fernando infedele: la regina gli tagliò la testa e gliela rimise a posto, e il taglio guarì subito, sicché‚ sembrava che avesse un filo rosso intorno al collo. Allora il re le disse: -Bimba mia, dove l'hai imparato?-. -Sì- rispose la regina -conosco l'arte: devo provare anche con te?- -Oh sì- disse il marito. Ma lei gli tagliò la testa e non gliela rimise a posto, fingendo di non riuscirci e che la testa non volesse attaccarsi bene. Così il re fu sotterrato e la regina sposò Fernando fedele. Ma questi cavalcava sempre sul suo cavallo bianco, e una volta il cavallo gli disse di andare in un'altra prateria che gli indicò, e di farne tre volte il giro al galoppo.
Quando l'ebbe fatto, il cavallo si drizzò sulle zampe di dietro e si trasformò in un principe.
FINE





Il forno
tempo: 14'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 127



Al tempo in cui il desiderio serviva ancora a qualcosa, un principe fu stregato da una vecchia maga, che lo chiuse in un grande forno nel bosco. Così trascorsero molti anni senza che nessuno potesse aiutarlo. Un giorno capitò nel bosco una principessa che si era smarrita e non riusciva più a trovare il regno di suo padre: aveva errato qua e là per nove giorni, e infine era venuta a trovarsi davanti alla cassa di ferro. Allora egli le domandò: -Donde vieni, e dove vai?-. Ella rispose: -Ho perduto la strada che va al regno di mio padre e non posso tornare a casa-. Allora la voce dal forno disse: -Ti aiuterò a tornare a casa in fretta, se ti impegni a fare quel che ti domando. Io sono figlio di un re più potente di tuo padre, e ti sposerò-. Ella inorridì e pensò: "Buon Dio, che me ne faccio di questo forno?". Ma poiché‚ desiderava tornare a casa dal padre, s'impegnò a fare quel che egli voleva. Il principe disse: -Devi ritornare qui con un coltello, e fare un buco nel ferro-. Poi le diede un compagno che le camminò a fianco in silenzio, e la portò a casa in due ore. Al castello la gioia fu grande quando tornò la principessa, e il vecchio re l'abbracciò e la baciò. Ma ella era molto afflitta e disse: -Caro babbo, cosa mi è successo! Non sarei tornata a casa dal grande bosco selvaggio, se non mi fossi fermata vicino a un forno; ho dovuto impegnami con lui a ritornare, per liberarlo e sposarlo-. Il vecchio re inorridì ed era vicino a svenire perché‚ aveva quell'unica figlia. Così decisero di mandare al suo posto la figlia del mugnaio, che era bella. La condussero nel bosco, le diedero un coltello e le dissero di raschiare il forno. Ella raschiò per ventiquattr'ore, ma non riuscì a staccarne neanche un po'. Al sorgere del giorno, si udì gridare dal forno: -Mi sembra che fuori incominci ad albeggiare-. Ella rispose: -Sembra anche a me, mi pare di sentire il mulino di mio padre-. -Allora tu sei la figlia di un mugnaio: vattene subito e fa' venire la principessa.- Allora ella se ne andò e disse al vecchio re che quel tale nel bosco non voleva lei ma sua figlia. Il vecchio re ne fu atterrito e la principessa pianse. Ma c'era la figlia di un porcaro, che era ancora più bella della mugnaia; pensarono di darle una moneta d'oro, perché‚ andasse al posto della principessa. Così la condussero nel bosco e dovette anche lei raschiare per ventiquattr'ore, senza ottenere alcun risultato. Quando si fece giorno, si udì gridare dal forno: -Mi sembra che fuori incominci ad albeggiare-. Ella rispose: -Sembra anche a me, mi pare di sentire la cornetta di mio padre-. -Allora sei la figlia di un porcaro: vattene subito e fa' venire la principessa; e dille che avrà ciò che le ho promesso; ma se non viene, nel suo regno tutto quanto rovinerà e si sfascerà, e non rimarrà pietra su pietra.- All'udire queste parole, la principessa si mise a piangere: non vi era altra soluzione, doveva mantenere la promessa. Prese congedo dal padre, si mise in tasca un coltello e andò nel bosco. Come arrivò si mise a raschiare, il ferro cedette e, dopo due ore, aveva già fatto un piccolo buco. Allora diede un'occhiata dentro e scorse un bellissimo giovane; ah, le piaceva proprio tutto scintillante d'oro! Ella continuò a raschiare e allargò il buco tanto da farvelo uscire. Allora egli disse: -Tu sei mia e io sono tuo; sei la mia sposa e mi hai liberato-. Ella però lo pregò di lasciarla andare ancora una volta da suo padre; il principe glielo permise purché‚ non dicesse più di tre parole e poi tornasse da lui. Ella andò a casa ma disse più di tre parole: subito il forno scomparve e fu portato lontano, oltre monti di vetro e spade taglienti. Il principe però era sciolto dall'incanto e non era più prigioniero. Ella si congedò dal padre, prese del denaro, ma non tanto, tornò nel bosco e cercò il forno, ma non riuscì più a trovarlo. Lo cercò per nove giorni e aveva tanta fame che non sapeva proprio come fare, poiché‚ non aveva più nulla da mangiare. Quando fu sera, salì su di un alberello, e pensava di passarci la notte perché‚ aveva paura delle bestie feroci. Quando fu quasi mezzanotte, vide un lumicino lontano lontano e pensò: "Ah, là sarei certo salva! ". Scese dall'albero e si incamminò verso quella luce, e intanto pregava. Giunse a una vecchia casetta, tutt'intorno era cresciuta dell'erba, e davanti c'era un mucchietto di legna. "Ah, dove sei capitata!" pensò. Guardò attraverso la finestra e dentro non vide altro che rospi grandi e piccoli; ma c'era una tavola preparata con del vino e un bell'arrosto invitante, e piatti e bicchieri erano d'argento. Allora si fece coraggio e bussò. Subito la regina rospo gridò:-Oh Donzelletta verde e piccina, dalla zampa secca sparuta cagnolina, ehi proprio tu, stammi a sentire chi c'è là fuori mi devi dire!-Si fece avanti una rospina e aprì la porta. Quando la fanciulla entrò, tutte le diedero il benvenuto e le dissero di sedersi. Le domandarono: -Donde venite? Dove andate?-. Ella raccontò tutto quel che le era accaduto, e che non avendo obbedito all'ordine di dire soltanto tre parole, il forno era scomparso insieme al principe: ora voleva cercarlo e andare per monti e valli finché‚ non l'avesse trovato. Allora la vecchia regina disse:-Oh Donzelletta verde e piccina, dalla zampa secca sparuta cagnolina, ehi proprio tu, stammi ad ascoltare proprio la scatola mi devi portare!-La bestiola andò e le portò la scatola. Poi diedero da mangiare e da bere alla principessa, la condussero a un bel letto già pronto, che pareva di seta e di velluto, ella vi si coricò e dormì beatamente. Quando si fece giorno, si alzò; la vecchia regina prese tre spilli dalla grande scatola e glieli diede, perché‚ li portasse con s‚; ne avrebbe avuto bisogno per oltrepassare un alto monte di vetro, tre spade taglienti e un gran fiume; se ci fosse riuscita, avrebbe ritrovato il suo sposo. Così le diede tre oggetti che doveva serbare con cura, cioè tre grossi spilli, una ruota d'aratro e tre noci. Ella se ne andò e quando giunse al monte di vetro, che era tutto liscio, piantò i tre spilli dietro ai piedi, poi proseguì e arrivò dall'altra parte, e là li nascose in un luogo che tenne a mente. Poi giunse alle tre spade taglienti, saltò sulla ruota e le oltrepassò. Infine arrivò a un gran fiume, e dopo averlo attraversato, a un grande, bellissimo castello. Entrò e chiese lavoro: era una povera fanciulla e desiderava prender servizio. Ma sapeva che là c'era il principe che ella aveva liberato dal forno nel gran bosco. Così fu presa come serva per un misero salario. Ora il principe aveva già un'altra al suo fianco e la voleva sposare, pensando che la principessa fosse morta da un pezzo. La sera, quand'ebbe finito di rigovernare, ella mise la mano in tasca e trovò le tre noci che le aveva dato la vecchia regina rospo. Ne spaccò una con i denti e voleva mangiare il gheriglio; ma guarda! c'era dentro un magnifico abito regale. Quando la fidanzata lo seppe, venne e le offrì di comprarlo: non era un abito che si addiceva a una serva. Ella disse che no, non voleva venderlo; tuttavia se le avesse concesso di dormire una notte nella camera dello sposo, glielo avrebbe dato. L'altra glielo permise, perché‚ non aveva mai avuto una veste così bella. Quando fu sera, disse al suo fidanzato: -Quella folle vuole dormire in camera tua-. -Se sei contenta tu, lo sono anch'io- diss'egli. Ma ella gli diede da bere del vino, in cui aveva messo un sonnifero. Così i due passarono la notte nella stessa camera, ed egli dormì così profondamente, ch'ella non pot‚ svegliarlo. Pianse però tutta la notte, gridando: -Ti ho liberato dal bosco selvaggio e dal forno, per te ho oltrepassato un monte di vetro, tre spade taglienti e un gran fiume; e adesso che ti ho trovato, non vuoi ascoltarmi-. I servi, seduti davanti alla porta della stanza, la udirono piangere tutta la notte, e al mattino dopo lo dissero al loro signore. La sera dopo, quand'ebbe rigovernato, spaccò la seconda noce, e dentro c'era un abito ancora più bello; quando la fidanzata lo vide, volle comprare anche questo. Ma la fanciulla non voleva denaro, e la pregò invece di poter passare un'altra notte nella camera del principe. Ma la fidanzata gli diede di nuovo un sonnifero ed egli dormì profondamente senza poter udire nulla. La serva pianse tutta la notte e gridò: -Ti ho liberato dal bosco selvaggio e dal forno, per te ho oltrepassato un monte di vetro, tre spade taglienti e un gran fiume; e adesso che ti ho trovato, non vuoi ascoltarmi-. I servi, seduti davanti alla porta della stanza, la udirono piangere tutta la notte, e al mattino dopo lo dissero al loro signore. E la terza sera, quand'ebbe rigovernato, ella spaccò anche la terza noce, e dentro c'era un abito splendido, tutto d'oro. Quando la fidanzata lo vide, volle averlo, e la fanciulla glielo diede a condizione di poter dormire per la terza volta nella camera del principe. Ma il principe stette in guardia, e rovesciò in terra il sonnifero. E quando ella si mise a piangere e a gridare: -Amor mio, ti ho liberato dal bosco selvaggio e dal forno- il principe balzò in piedi e disse: -Tu sei mia e io sono tuo-. E quella stessa notte salì in carrozza con lei, e alla falsa sposa portarono via le vesti, perché‚ non potesse alzarsi. Quando giunsero al gran fiume, lo attraversarono in barca, davanti alle tre spade taglienti salirono sulla ruota d'aratro, e sul monte di vetro usarono i tre spilli. Così giunsero finalmente alla vecchia casetta; ma, come vi entrarono, si mutò in un gran castello: i rospi, liberati dall'incantesimo, erano principi e principesse, ed erano in grande festa. Si celebrarono le nozze, ed essi rimasero nel castello, che era molto più grande di quello della sposa. Ma poiché‚ il vecchio re si doleva di dover vivere solo, andarono a prenderlo, e così ebbero due regni e vissero insieme felici.
FINE





La filatrice pigra
tempo: 5'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 128



In un villaggio vivevano due sposi, e la donna era così pigra che non aveva mai voglia di lavorare, e quel che il marito le dava da filare, non lo finiva mai, e se anche lo filava, non lo passava all'aspo, ma lasciava tutto quanto avvolto sul rocchetto. Un giorno che il marito la rimproverava, ella lo rimbeccò dicendo: -Come faccio ad annaspare se non ho aspo? Va' nel bosco e fammene uno-. -Se è tutto qui- disse l'uomo -andrò nel bosco e prenderò il legno per fare l'aspo.- Allora la donna temette che, trovato il legno, ne facesse un aspo, ed ella fosse poi costretta ad annaspare e a filare di nuovo. Rifletté‚ un poco e le venne in mente una bella idea: corse di nascosto dietro al marito, e quando egli si fu arrampicato su di un albero per scegliere e tagliare il legno, si acquattò in un cespuglio, dove il marito non poteva vederla, e gridò:-A tagliar legna per aspo, si muore; chi se ne serve è preso da malore.-L'uomo tese l'orecchio, posò un attimo la scure e stette a pensare che cosa ciò potesse voler dire. -Mah- disse infine -cosa vuoi che sia stato! Ti hanno fischiato le orecchie, è inutile spaventarsi!- Prese di nuovo la scure e stava per menare il colpo, quando da sotto gridarono di nuovo:-A tagliar legna per aspo, si muore; chi se ne serve è preso da malore.-Egli si fermò, ebbe una gran paura e si mise a rimuginare. Ma dopo un po' tornò a farsi coraggio, afferrò la scure per la terza volta e fece per menare il colpo. Ma per la terza volta si senti gridar forte:-A tagliar legna per aspo, si muore; chi se ne serve è preso da malore.-Allora egli ne ebbe abbastanza, tutta la voglia gli era passata; scese in fretta dall'albero e s'incamminò verso casa. La moglie corse più veloce che pot‚ per un altro sentiero, per arrivare a casa prima di lui. E quando egli entrò nella stanza, disse, con un aria innocente come se niente fosse: -Be', mi hai portato del buon legno per l'aspo?-. -No- rispose egli -ho capito che annaspare non va bene.- Le raccontò quel che gli era successo nel bosco e, da quel giorno in poi, la lasciò in pace con l'aspo. Ben presto, però, l'uomo prese a seccarsi del disordine che c'era in casa. -Moglie- disse -è una vergogna che quel filato rimanga sul rocchetto.- -Sai?- diss'ella. -Dato che non riusciamo ad avere un aspo, mettiti in solaio, e io starò sotto: ti butterò su il rocchetto e tu lo butterai giù: così faremo la matassa.- -Sì, va bene- rispose il marito. Così fecero e, quand'ebbero finito, egli disse: -Adesso che la matassa è fatta, bisogna anche farla cuocere-. La donna ebbe di nuovo timore ma disse: -Sì, la faremo bollire domattina presto- e pensava intanto a un'altra astuzia. Si alzò di buon mattino, accese il fuoco, appese il paiolo, ma al posto del filo ci mise dentro un mucchio di stoppa e lo fece bollire. Poi andò dal marito, che era ancora a letto, e gli disse: -Io devo uscire, tu nel frattempo alzati e cura il filo che è sul fuoco, nel paiolo; ma devi farlo per tempo, fa' attenzione: se il gallo canta e tu non ci badi, il filo diventa stoppa-. L'uomo non perse tempo, si alzò in fretta e andò in cucina. Ma quando si avvicinò al paiolo e vi guardò dentro, non vide altro che un mucchio di stoppa. Allora se ne stette ben zitto senza fiatare, pensando di essersi sbagliato e che la colpa fosse sua, e da allora in poi non parlò più di filo n‚ di filare alla moglie, che ne fu ben felice.
FINE





I quattro fratelli ingegnosi
tempo: 10'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 129



C'era una volta un pover'uomo che aveva quattro figli; quando furono cresciuti disse loro: -Cari figlioli, ora dovete andarvene per il mondo, io non ho nulla da darvi; mettetevi in cammino e andate in terra straniera, imparate un mestiere e cercate di industriarvi-. I quattro fratelli presero così il bastone del viandante, dissero addio al padre e lasciarono insieme la città. Quand'ebbero fatto un tratto di strada, giunsero a un crocicchio che portava in quattro paesi diversi. Il maggiore allora disse: -Dobbiamo separarci, ma fra quattro anni esatti ci ritroveremo qui e, nel frattempo, tenteremo di far fortuna-. Così ognuno andò per la sua strada, e il maggiore incontrò un uomo che gli chiese dove stesse andando e che intenzioni avesse. -Voglio imparare un mestiere- rispose il giovane. Allora l'uomo disse: -Vieni con me, e impara a fare il ladro-. -No- rispose -non è più considerato un mestiere onesto, e alla fine della canzone si diventa pendagli da forca.- -Oh- disse l'uomo -della forca non devi avere paura: ti insegnerò solo a prendere ciò che nessun altro può acchiappare e dove nessuno può scoprirti.- Così il giovane si lasciò convincere e con l'aiuto di quell'uomo divenne un ladro esperto e così abile che più nulla era al sicuro, qualsiasi cosa volesse. Anche il secondo fratello incontrò un uomo che gli rivolse la stessa domanda, cioè che cosa volesse fare. -Non lo so ancora- rispose. -Allora vieni con me e diventa astronomo: non c'è nulla di meglio, niente ti è nascosto.- Egli accettò e diventò un astronomo così abile che, quando si fu perfezionato e volle proseguire per la sua strada, il maestro gli diede un cannocchiale e disse: -Con questo puoi vedere cosa succede sulla terra e nel cielo, e niente ti può restar celato-. Il terzo fratello incontrò un cacciatore che lo prese con s‚ e lo istruì così bene nell'arte della caccia da farne un cacciatore provetto. Nel prendere commiato il maestro gli diede uno schioppo e disse: -Questo non sbaglia mai: ciò che prendi di mira lo colpisci senz'altro-. Anche il fratello minore incontrò un uomo che gli rivolse la parola e gli chiese che cosa intendesse fare. -Non ti andrebbe di fare il sarto?- -Ah, no- disse il giovane -non mi piace l'idea di star gobbo da mane a sera, di andar su e giù con l'ago e il ferro da stiro.- -macché‚- rispose l'uomo -da me imparerai un'arte ben diversa.- Così il giovane si lasciò persuadere, seguì l'uomo e ne imparò l'arte dal principio. Nel prender congedo, il maestro gli diede un ago e disse: -Con questo puoi ricucire tutto quel che ti capita, sia tenero come un uovo o duro come l'acciaio; e ridiventerà d'un sol pezzo, che non si potrà più vedere la cucitura-. Quando fu trascorso il tempo stabilito, i quattro fratelli si trovarono insieme al crocicchio; si abbracciarono e si baciarono e tornarono a casa dal padre. Essi gli raccontarono com'era andata, e che ognuno aveva imparato il proprio mestiere. Se ne stavano appunto davanti alla casa, sotto un grande albero, e il padre disse: -Voglio mettervi alla prova e vedere quel che sapete fare-. Poi alzò gli occhi e disse al secondo figlio: -Lassù in cima a quest'albero c'è un nido di fringuelli: dimmi un po' quante uova ci sono-. L'astronomo prese il suo cannocchiale, guardò in alto e disse: -Ce ne sono cinque-. -Ora- disse il padre al maggiore -portale giù, senza disturbare l'uccello che sta covando.- Il ladro ingegnoso salì, tolse le uova sotto il ventre dell'uccellino, che non se ne accorse affatto e restò tranquillamente a covare. Egli le portò al padre che le prese, le mise sulla tavola, una per angolo e la quinta nel mezzo, e disse al cacciatore: -Colpisci le uova con un solo colpo e spezzale a metà-. Il cacciatore prese la mira con lo schioppo e colpì le uova proprio come voleva il padre, tutt'e cinque con un solo colpo. -Adesso tocca a te- disse il padre al quarto figlio. -Devi ricucire le uova e anche gli uccellini che ci sono dentro, in modo che il colpo di schioppo non nuoccia loro.- Il sarto prese il suo ago e le cucì, come gli era stato ordinato. Quand'ebbe finito, il ladro dovette riportarle nel nido sull'albero e rimetterle sotto l'uccello, senza che se ne accorgesse. L'uccellino finì di covarle, e dopo qualche giorno uscirono fuori i piccoli, e avevano una piccola riga rossa attorno al collo, là dove il sarto li aveva ricuciti. -Sì- disse il vecchio ai suoi figli -avete impiegato bene il vostro tempo e imparato a dovere. Non posso dire chi di voi sia da preferirsi: lo si vedrà quando avrete l'occasione di usare la vostra arte.- Non molto tempo dopo il paese fu in subbuglio, perché‚ la principessa era stata rapita da un drago. Il re si tormentava giorno e notte e rese noto che, chiunque l'avesse riportata, l'avrebbe avuta in sposa. I quattro fratelli dissero: -Sarebbe un'occasione per farci conoscere- e decisero di andare a liberare la principessa. -Dove sia, lo saprò subito- disse l'astronomo; guardò nel suo cannocchiale e disse: -La vedo: è su uno scoglio nel mare, lontano da qui, e accanto a lei c'è il drago a farle la guardia-. Allora andò dal re, chiese una nave per s‚ e i suoi fratelli e si mise in mare con loro finché‚ giunsero allo scoglio. Là c'era la principessa e il drago le giaceva in grembo e dormiva. Il cacciatore disse: -Non posso sparargli, ucciderei anche la bella fanciulla-. -Allora proverò io- disse il ladro, e tolse la principessa di sotto al drago, ma così piano e con tanta abilità, che il mostro non si accorse di nulla e continuò a russare. Tutti contenti, la portarono di corsa sulla nave e presero il largo. Ma ecco arrivare il drago che al risveglio non aveva più trovato la principessa, e li inseguiva sbuffando furibondo per l'aria. Si librava proprio sopra di loro, e stava per calare sulla nave, quando il cacciatore puntò lo schioppo e lo colpì al cuore, uccidendolo. Il mostro piombò giù, ma era così grosso che nel cadere sfasciò tutta la nave, ed essi si tenevano a galla, in mare aperto, aggrappati a qualche tavola. Ma il sarto, senza perder tempo, prese il suo ago miracoloso, cucì insieme le tavole a punti lunghi, ci si accomodò sopra e raccolse tutti i pezzi della nave. Poi ricucì anche questi, con tanta destrezza che ben presto la nave fu nuovamente pronta a far vela, ed essi poterono tornare felicemente a casa. La gioia fu grande quando i quattro fratelli ricondussero la figlia al re, e questi disse loro: -Uno di voi quattro l'avrà in isposa, ma decidete voi chi debba essere-. Allora essi si misero a litigare, e l'astronomo diceva: -Se io non avessi visto la principessa, tutte le vostre arti sarebbero state inutili: è dunque mia-. Il ladro diceva: -A che serviva vederla, se non l'avessi tolta di sotto al drago? E' dunque mia-.
Il cacciatore diceva: -Ma sareste stati tutti sbranati dal mostro insieme alla principessa, se io non lo avessi ucciso: è dunque mia-. Il sarto diceva: -E se io, con la mia arte, non vi avessi ricucito la nave, sareste annegati tutti miseramente: è dunque mia-. Allora il re sentenziò: -Avete tutti ugual diritto, e poiché‚ non potete avere tutti la fanciulla, non l'avrà nessuno; in premio darò invece a ciascuno la metà di un regno-. I fratelli dissero: -E' meglio così, piuttosto che essere in contrasto-. Il re diede loro un mezzo regno per ciascuno, ed essi vissero felici con il padre.
FINE





Occhietto, Duocchietti, Treocchietti
tempo: 16'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 130



C'era una volta una donna che aveva tre figlie: la maggiore si chiamava Occhietto, perché‚ aveva un occhio solo in mezzo alla fronte; la seconda, Duocchietti, perché‚ aveva due occhi come tutti gli altri; e la terza, Treocchietti, perché‚ aveva tre occhi, e il terzo proprio in mezzo alla fronte. Ma poiché‚ Duocchietti era proprio come tutti gli altri, la madre e le sorelle non la potevano soffrire, e le dicevano: -Con quei due occhi, non sei meglio della gente comune! Non hai niente da spartire con noi-. E la spingevano di qua e di là, le gettavano dei brutti vestiti, le davano da mangiare soltanto gli avanzi, e le facevano ogni sorta di angherie. Un giorno ella dovette andare nei campi a custodire la capra, ma aveva ancora tanta fame perché‚ le sorelle le avevano dato troppo poco da mangiare. Si sedette sul ciglio di un campo e si mise a piangere e piangeva tanto che dai suoi occhi sgorgavano due ruscelletti. Quando alzò gli occhi, vide una donna accanto a s‚ che le chiese: -Duocchietti, perché‚ piangi?-. Ella rispose: -Non devo piangere? Perché‚ ho due occhi come tutti gli altri, le mie sorelle e mia madre non mi possono soffrire, mi cacciano di qua e di là, mi buttano i loro vecchi vestiti e mi danno da mangiare solo gli avanzi. Oggi non mi hanno dato quasi nulla, e ho ancora tanta fame-. La maga disse: -Duocchietti, asciugati gli occhi: ti dirò una cosa in modo che tu non debba più patire la fame. Devi solamente dire alla capra:"Bela, caprettina, pronta, tavolina!"e ti troverai davanti una tavolina bell'e pronta, coperta di cibi prelibati, e potrai mangiare finché‚ ne hai voglia. E quando sei sazia e la tavolina non ti occorre più, devi soltanto dire:"Bela, caprettina, basta, tavolina!"e la tavolina sparirà-. Ciò detto, la maga se ne andò, mentre Duocchietti pensava: "Proverò subito se è vero quel che ha detto, perché‚ ho proprio tanta fame!", e disse:-Bela, caprettina, pronta, tavolina!-Aveva appena pronunciato queste parole, che comparve una tavolina sulla quale era stesa una tovaglietta candida, e sopra c'era un piatto con coltello, forchetta e cucchiaio, e tutt'intorno le vivande più squisite, che erano ancora calde, come se fossero state appena portate dalla cucina. Allora Duocchietti disse la preghiera più corta che conosceva: -Signore, che tu sia sempre nostro ospite, amen!- si servì e mangiò di gusto. E quando fu sazia, disse, come le aveva insegnato la maga:-Bela, caprettina, basta, tavolina!-E subito la tavolina sparì con tutto quel che c'era sopra. "E' un bel modo di far cucina" pensò Duocchietti, ed era tutta allegra e contenta. La sera riportò a casa la capra e non toccò neppure la piccola ciotola di terra con il cibo che le sorelle le avevano messo da parte. Il giorno seguente uscì di nuovo con la sua capra e lasciò stare anche quei due bocconi che le avevano dato. La prima e la seconda volta le sorelle non se ne accorsero neanche, ma siccome si ripeteva ogni volta, lo notarono e dissero: -Qui c'è qualcosa di strano: Duocchietti non tocca più cibo, eppure una volta divorava tutto quanto le davamo: deve aver trovato un altro sistema-. E per scoprire la verità, Occhietto dovette accompagnarla quando andava al pascolo, e doveva badare a quel che faceva, e se qualcuno le portava da mangiare e da bere. Quando Duocchietti si mise in cammino con la capra, Occhietto le si avvicinò e disse: -Verrò nei campi con te, a vedere se la capra è ben custodita e se la fai pascolare-. Ma l'altra capì le sue intenzioni, condusse la capra fra l'erba alta e disse: -Vieni, Occhietto, sediamoci un po', ti canterò qualcosa-. Occhietto si sedette ed era stanca per il cammino cui non era abituata e per il gran caldo; e Duocchietti continuava a cantare:-Occhietto, vegli tu? Occhietto, dormi tu?-Allora Occhietto chiuse il suo unico occhio e si addormentò. E quando l'altra vide che dormiva sodo e non poteva rivelare nulla disse:-Bela, caprettina, pronta, tavolina!-Si sedette, mangiò e bevve a sazietà, poi tornò a dire:-Bela, caprettina, basta, tavolina!-e sparì tutto quanto. Poi svegliò Occhietto e disse: -Occhietto, vuoi custodire la capra e dormi! Nel frattempo la capra avrebbe potuto correre in capo al mondo! Vieni, torniamo a casa-. Tornarono a casa e Duocchietti lasciò di nuovo stare la sua scodellina; e Occhietto non pot‚ dire alla madre perché‚ la sorella non volesse mangiare, e disse: -Mi sono addormentata là fuori!-. Il giorno dopo la madre disse a Treocchietti: -Accompagnala tu, e fa' attenzione se Duocchietti mangia fuori e se qualcuno le porta da mangiare e da bere: perché‚ mangiare e bere deve pure in qualche modo!-. Allora Treocchietti si avvicinò alla sorella e disse: -Verrò con te a vedere se custodisci bene la capra e se la fai pascolare-. Ma l'altra capì la sua intenzione, condusse la capra fra l'erba alta e disse: -Sediamoci un po', Treocchietti, ti canterò qualcosa-. Treocchietti si sedette ed era stanca per il cammino e il gran caldo; la sorella intonò di nuovo la sua canzoncina e cantò:-Treocchietti, vegli tu?-Ma invece di cantare:-Treocchietti, dormi tu?-cantò per distrazione:-Duocchietti, dormi tu?-e continuò a cantare:-Treocchietti, vegli tu? Duocchietti, dormi tu?-Allora a Treocchietti si chiusero i due occhi, ma il terzo, cui la canzoncina non si era rivolta, non si addormentò. Però Treocchietti lo chiuse astutamente, come se dormisse anche quello, e invece sbirciava e poteva vedere tutto quanto. E quando Duocchietti pensò che la sorella dormisse, disse le sue paroline magiche:-Bela, caprettina, pronta, tavolina!-Mangiò e bevve a volontà, e fece poi sparire ogni cosa:-Bela, caprettina, basta, tavolina!-e Treocchietti aveva visto tutto. Allora Duocchietti le si avvicinò e disse: -Ehi, Treocchietti, ti sei addormentata? La custodisci bene la capra! Vieni, andiamo a casa-. E quando rincasarono, Duocchietti non mangiò neanche questa volta, ma Treocchietti disse alla madre: -Ora so, finalmente, perché‚ quella superba non mangia! Quando è fuori, dice alla capra:"Bela, caprettina, pronta, tavolina!"e le compare davanti una tavolina, coperta di cibi squisiti, migliori di quelli che mangiamo noi; e quando è sazia dice:"Bela, caprettina, basta, tavolina!"e ogni cosa scompare. L'ho vista proprio bene: mi aveva addormentato due occhi con una canzoncina, ma quello sulla fronte è rimasto sveglio, per fortuna-. Allora la madre, furiosa, gridò: -Vuoi stare meglio di noi? Ti passerà la voglia-. Andò a prendere un coltellaccio e lo piantò nel cuore della capra, che cadde a terra morta. A quella vista, Duocchietti uscì disperata, si sedette sul ciglio del campo e pianse lacrime amare. Ma, d'un tratto, ecco nuovamente la maga accanto a lei, che disse: -Duocchietti, perché‚ piangi?-. -Non devo piangere?- ella rispose. -Mia madre ha ucciso la capra, che ogni giorno mi preparava una così bella tavola, quando dicevo la vostra canzoncina: adesso devo tornare a patire la fame.- La maga disse: -Duocchietti, voglio darti un buon consiglio: prega le tue sorelle di darti le interiora della capra e sotterrale davanti all'uscio di casa: sarà la tua fortuna-. Poi sparì e Duocchietti andò a casa e disse alle sorelle: -Care sorelle, datemi qualcosa della mia capra! Non pretendo niente di buono: datemi soltanto le interiora-. Quelle si misero a ridere e dissero: -Se non vuoi altro, quelle te le possiamo proprio dare-. Ed ella prese le interiora e, la sera, le sotterrò di nascosto davanti all'uscio di casa, secondo il consiglio della maga. Il mattino dopo, quando tutti si svegliarono e si affacciarono all'uscio, ecco un albero magnifico, stupefacente, che aveva le foglie d'argento e in mezzo pendevano dei frutti d'oro, e nulla al mondo era più bello a vedersi e più prezioso. Ma non sapevano come avesse fatto a spuntare quell'albero, in una notte; soltanto Duocchietti s'accorse che era cresciuto dalle interiora della capra, perché‚ era proprio là dov'essa le aveva sotterrate. Allora la madre disse a Occhietto: -Sali sull'albero, bimba mia, e coglici i frutti-. Occhietto salì, ma quando volle prendere una delle mele d'oro, il ramo le sfuggì di mano, e tornò a sfuggirle ogni volta che provava, sicché‚ non riuscì a cogliere neanche una mela, per quanto si desse da fare. Allora la madre disse: -Treocchietti, sali tu sull'albero: con quei tre occhi puoi guardarti intorno meglio di Occhietto-. Occhietto scivolò giù e salì Treocchietti; ma non se la cavò meglio e, per quanto aguzzasse la vista, le mele d'oro continuavano a ritrarsi. Alla fine la madre perse la pazienza e s'arrampicò lei, ma di frutti non ne colse più delle figlie, e continuava a gesticolare nel vuoto. Allora Duocchietti disse: -Voglio salire io, forse mi riesce più in fretta-. Le sorelle esclamarono: -Cosa vuoi fare tu con i tuoi due occhi!- Ma ella salì sull'albero e, davanti a lei, le mele non si ritrassero anzi pareva proprio che venissero incontro alla sua mano, sicché‚ ella pot‚ coglierle una dopo l'altra e ne portò giù un grembiule pieno. La madre gliele prese; e invece di trattarla meglio, come avrebbero dovuto, la madre e le sorelle divennero gelose di Duocchietti, perché‚ solo lei poteva cogliere i frutti, e la maltrattarono ancora di più. Un giorno, che si trovavano tutt'e tre accanto all'albero, ecco arrivare un giovane cavaliere. -Svelta, Duocchietti- esclamarono le due sorelle -nasconditi qua sotto, perché‚ non dobbiamo vergognarci di te- e spinsero a forza la poverina sotto una botte vuota che era vicino all'albero, e vi cacciarono sotto anche le mele d'oro ch'ella aveva colto. Mentre il cavaliere si avvicinava, videro che era molto bello; egli ammirò lo splendido albero d'oro e d'argento e disse alle due sorelle: -A chi appartiene questo bell'albero? Chi me ne desse un ramo, potrebbe chiedermi in cambio qualunque cosa-. Occhietto e Treocchietti risposero che l'albero apparteneva a loro, e che gliene avrebbero staccato volentieri un ramo. Si dettero un gran da fare, ma senza riuscire a venirne a capo, perché‚ i rami e i frutti si ritraevano ogni volta davanti a loro. Allora il cavaliere disse: -Strano che l'albero vi appartenga e non possiate staccarne un ramo!- Quelle insistettero dicendo che l'albero era proprio loro. Ma mentre parlavano, Duocchietti fece rotolare fuori dalla botte alcune mele d'oro, che rotolarono ai piedi del cavaliere, poiché‚ era indispettita che Occhietto e Treocchietti non dicessero la verità. Vedendo le mele, il cavaliere si stupì e domandò da dove venissero. Occhietto e Treocchietti risposero che avevano un'altra sorella, ma non doveva farsi vedere, perché‚ aveva soltanto due occhi come la gente comune. Ma il cavaliere volle vederla e gridò: -Duocchietti, vieni fuori!-. Allora ella sbucò fuori dalla botte, piena di speranza, e il cavaliere si meravigliò della sua grande bellezza e disse: -Sicuramente tu saprai staccarmi un ramo dell'albero-. -Sì- rispose la fanciulla -io posso farlo perché‚ l'albero appartiene a me.- Salì e staccò senza fatica un ramo con le foglie d'argento e i frutti d'oro e lo porse al cavaliere. Allora egli disse: -Duocchietti, cosa devo darti in cambio?-. -Ah- rispose la fanciulla -patisco la fame, la sete e ogni sorta di stenti da mane a sera: se voleste portarmi via con voi e liberarmi, sarei felice.- Allora il cavaliere la mise sul suo cavallo e la portò al castello di suo padre; là le diede dei bei vestiti, da mangiare e da bere a sazietà; e poiché‚ l'amava tanto la sposò, e le nozze si festeggiarono con grande gioia. Quando Duocchietti fu portata via dal bel cavaliere, le sue sorelle le invidiarono molto la sua fortuna. -Almeno ci resta l'albero meraviglioso- pensavano -e se anche non possiamo coglierne i frutti, tutti si fermeranno qui davanti, e verranno da noi per cantarne le lodi: chissà che la fortuna non possa arriderci ancora!- Ma il mattino dopo, l'albero era sparito e, con esso, erano svanite anche le loro speranze. Duocchietti visse a lungo felice. Un giorno vennero al castello due povere donne e le chiesero l'elemosina. Ella le guardò in volto e riconobbe le sue sorelle Occhietto e Treocchietti, divenute così povere che erano costrette ad andare di porta in porta a elemosinare il pane. Ma Duocchietti le accolse benevolmente, fece loro del bene ed ebbe cura di loro, sicché‚ le due sorelle si pentirono di cuore del male che le avevano fatto in gioventù.
FINE





La bella Caterinella e Pum Pum Fracassino
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 131



-Buon giorno, babbo Berlicchio.- -Mille grazie, Pim Pum Fracassino.- -Me la dareste la vostra figlia?- -Oh sì, se mamma Pastora, fratello Spocchione, sorella Caciottina e la bella Caterinella sono contenti, si può anche fare.--Dov'è mai andata la mamma Pastora?- -A munger la vacca già di buon'ora.--Buon giorno, mamma Pastora.- -Mille grazie, Pim Pum Fracassino.- -Me la dareste la vostra figlia?- -Oh sì, se babbo Berlicchio, fratello Spocchione, sorella Caciottina e la bella Caterinella sono contenti, si può anche fare.--E dov'è quello senza cervello?- -A spaccar legna da buon fratello.--Buon giorno, fratello Spocchione.- -Mille grazie, Pim Pum Fracassino.- -Me la dareste la vostra sorella?-.

-Oh sì, se babbo Berlicchio, mamma Pastora, sorella Caciottina e la bella Caterinella sono contenti, si può anche fare.--E la sorella dove si è cacciata?- -E' giù nell'orto che taglia insalata.--Buon giorno, sorella Caciottina.- -Mille grazie, Pim Pum Fracassino.- -Me la dareste la vostra sorella?-.

-Oh sì, se babbo Berlicchio, mamma Pastora, fratello Spocchione e la bella Caterinella sono contenti, si può anche fare.--Caterinella, sai dove sta?- -Conta e riconta la dote che ha.--Buon giorno, bella Caterinella.- -Mille grazie, Pim Pum Fracassino.- -Vorresti diventare la mia innamorata?-.

-Oh sì, se babbo Berlicchio, mamma Pastora, fratello Spocchione, sorella Caciottina sono contenti, si può anche fare.- -Bella Caterinella, quanto hai di dote?- -Quattordici centesimi in contanti, tre soldi e mezzo di debiti, mezzo chilo di mele secche, una manciata di prugne secche, e una di radici e non soltanto quella, sono o non sono una Damigella?Pim Pum Fracassino, che mestiere fai? Forse il sarto?- -Ancora meglio!- -Il calzolaio?- -Ancora meglio!- -Il contadino?- -Ancora meglio!- -Il falegname?- -Ancora meglio!- -Il fabbro?- -Ancora meglio!- -Il mugnaio?- -Ancora meglio!- -Fai forse le scope?- -Sì, proprio così, non è forse un bel mestiere?-.
FINE





La volpe e il cavallo
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 132



Un contadino aveva un cavallo fedele che era diventato vecchio e non poteva più servirlo; perciò il padrone non voleva più mantenerlo e gli disse: -Ormai non mi puoi più essere utile, ma se hai ancora tanta forza da portami qui un leone, ti terrò: adesso però vattene dalla mia stalla- e lo scacciò in aperta campagna. Il cavallo era triste e se ne andò verso il bosco, per cercare riparo dalla pioggia. E incontrò la volpe che gli disse: -Perché‚ te ne vai in giro da solo con la testa bassa?-. -Ah- rispose il cavallo -fedeltà e avarizia non abitano nella stessa casa: il mio padrone ha dimenticato tutto quello che ho fatto per lui in questi anni, e siccome non riesco più a fare il solco diritto, non mi vuol più dare da mangiare e mi ha scacciato. Ha sì detto che se avrò la forza di portargli un leone mi terrà; ma sa bene che non posso.- La volpe disse: -Ti aiuterò io: mettiti lungo disteso come se fossi morto, e non muoverti-. Il cavallo fece come gli aveva detto la volpe, mentre questa andò dal leone, che aveva la sua tana là vicino, e disse: -Là fuori c'è un cavallo morto; vieni con me e mangerai a volontà-. Il leone andò e quando si trovarono dov'era il cavallo, la volpe disse: -Qui però non hai tutte le tue comodità; sai che facciamo? Legherò la sua coda alla tua zampa, così lo puoi trascinare nella tua tana e mangiartelo in santa pace-. Al leone piacque il consiglio e stette là fermo, perché‚ la volpe potesse legare bene il cavallo. Ma la volpe con la coda del cavallo gli legò insieme le zampe, attorcigliò e strinse tutto così bene e con tanta forza, che non c'era verso che si spezzasse. Quand'ebbe finito il lavoro, gridò al cavallo, battendogli sulla spalla: -Tira, cavallino bianco, tira!-. Allora il cavallo salto su e trascinò il leone con s‚. Il leone si mise a ruggire che gli uccelli del bosco volarono via per lo spavento; ma il cavallo lo lasciò ruggire, lo tirò e lo trascinò per i campi, fino alla porta del suo padrone. Quando il padrone lo vide, cambiò parere e disse al cavallo: -Rimarrai con me e te la passerai bene-. E lasciò che mangiasse a sazietà fino alla morte.
FINE





Le scarpe logorate dal ballo
tempo: 10'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 133



C'era una volta un re che aveva dodici figlie, una più bella dell'altra. I loro dodici letti erano insieme in una sola stanza, e, quando andavano a dormire, la porta veniva chiusa con il catenaccio. Tuttavia, ogni mattino, le loro scarpe erano logore a forza di ballare, e nessuno sapeva dove andassero e come facessero a uscire. Allora il re pubblicò un bando: chi fosse riuscito a scoprire dove le principesse ballavano di notte, ne avrebbe avuta una in isposa, e sarebbe diventato re dopo la sua morte; ma chi si fosse presentato, e dopo tre giorni e tre notti non avesse scoperto nulla, ci avrebbe rimesso la vita. Non passò molto tempo che si presentò un principe; fu bene accolto e la sera fu condotto in una stanza che si trovava di fronte a quella dove dormivano le dodici principesse. Là era preparato il suo letto, ed egli doveva fare bene attenzione a dove andassero a ballare; e perché‚ non potessero fare nulla di nascosto, o uscire da un'altra parte, la porta della sala fu lasciata aperta. Ma il principe si addormentò e al mattino, quando si svegliò, tutt'e dodici erano state a ballare, perché‚ le scarpe erano là con le suole bucate. La seconda e la terza notte trascorsero come la prima, e così gli mozzarono la testa. Dopo di lui ne arrivarono molti altri che tentarono l'impresa, ma ci rimisero tutti la vita. Ora avvenne che un povero soldato, che era stato ferito e non poteva più prestar servizio, si trovò sulla strada che menava alla città dove abitava il re.
Lì incontrò una vecchia che gli chiese dove andasse. -Non lo so bene neanch'io- rispose il soldato -ma mi piacerebbe diventar re e scoprire dove le principesse consumino le scarpe.- -Non è poi così difficile- disse la vecchia -non bere il vino che ti portano la sera, e fingi di essere profondamente addormentato.- Poi gli diede una mantellina e disse: -Quando l'avrai addosso, sarai invisibile, e così potrai seguire furtivamente le dodici fanciulle-. Dopo aver ricevuto questo buon consiglio, il soldato prese la cosa sul serio; si fece coraggio, andò dal re e si presentò come pretendente. Fu accolto bene come gli altri, e gli fecero indossare vesti regali. La sera, quando fu ora di coricarsi, lo condussero nella sua stanza, e quando stava per andare a letto, la maggiore delle principesse venne a portargli un bicchiere di vino. Ma egli si era legato una spugna sotto il mento, vi lasciò colare il vino e non ne bevve una goccia. Poi si coricò e dopo un po' si mise a russare come se dormisse profondamente. Le dodici principesse l'udirono, si misero a ridere e la maggiore disse: -Avrebbe anche potuto risparmiare la sua vita!-. Poi si alzarono, aprirono armadi, casse e cassoni e ne tirarono fuori vesti sfarzose; si agghindarono davanti allo specchio, e saltavano dalla gioia pensando al ballo. Soltanto la più giovane disse: -Non so, voi siete felici, ma io sento qualcosa di strano: sicuramente ci succederà una disgrazia-. -Sei un'oca che ha sempre paura di tutto!- esclamò la maggiore. -Hai forse già scordato quanti principi sono stati qui inutilmente? Al soldato non avrei neanche avuto bisogno di dare qualcosa per dormire: tanto non si sarebbe svegliato comunque.- Quando furono tutte pronte dettero un'occhiata al soldato, ma egli non si era mosso, ed esse credettero di essere proprio al sicuro. Allora la maggiore si avvicinò al suo letto e vi picchiò sopra: subito il letto sprofondò e si aprì una botola. Il soldato le vide scendere l'una dopo l'altra, e la maggiore in testa. Non c'era tempo da perdere: si alzò, mise la mantellina, e discese anch'egli, dietro alla minore. A metà scala, le pestò un poco la veste, ed ella si spaventò e gridò: -C'è qualcosa che non va: mi trattengono per la veste!-. -Non esser così sciocca- disse la maggiore -ti sei impigliata a un uncino.- Scesero fino in fondo e, quando furono là sotto, si trovarono in uno splendido viale, dove tutte le foglie erano d'argento, luccicavano e sfavillavano. Il soldato pensò: "Devi procurarti una prova". E spezzò un ramo; allora si udì un grande boato provenire dall'albero. La più giovane tornò a gridare: -C'è qualcosa che non va: avete udito il rumore? Non era ancora mai successo!-. La maggiore rispose: -Sono spari in segno di gioia, perché‚ presto avremo liberato i nostri principi-. Poi giunsero in un viale dove tutte le foglie erano d'oro, e infine in un terzo dove erano di puro diamante; in ognuno il soldato spezzò un ramo, e ogni volta si udì un boato che fece trasalire la più giovane delle sorelle; ma la maggiore continuava a dire che erano spari in segno di allegria. Poi proseguirono finché‚ arrivarono a un grosso fiume, dove si trovavano dodici navicelle, e in ognuna c'era un bel principe: avevano aspettato le dodici principesse, e ciascuno ne prese una con s‚, mentre il soldato si sedette accanto alla minore. Il principe disse: -Mi sento più forte che mai, eppure la barca oggi è molto più pesante, e io devo remare con tutte le mie forze-. -L'unica ragione possibile è il gran caldo- rispose la più giovane -anch'io sono accaldata!- Sull'altra riva c'era un bel castello tutto illuminato, dal quale proveniva un'allegra musica di tamburi e di trombe. Remarono fin laggiù, vi entrarono e ogni principe danzò con la sua amata. Anche il soldato ballò con loro, invisibile; e se una teneva in mano un bicchiere di vino, quando lo portava alla bocca egli lo vuotava; la minore si spaventò anche stavolta, ma la maggiore la faceva sempre tacere. Ballarono fino alle tre del mattino, quando le scarpe furono logore, ed essi dovettero smettere. I principi riaccompagnarono le fanciulle oltre il fiume, e il soldato questa volta si mise davanti, accanto alla maggiore. Giunte a riva, esse si accomiatarono dai loro principi e promisero di tornare la notte seguente. Quando arrivarono alla scala, il soldato corse avanti e si mise nel suo letto, e quando le dodici principesse giunsero stanche, camminando a passettini, egli russava di nuovo forte, sicché‚ esse dissero: -Quanto a lui, possiamo stare tranquille-. Poi si tolsero i bei vestiti, li portarono via, misero le scarpe logore sotto il letto e si coricarono. Il mattino dopo, il soldato non volle dire nulla, perché‚ intendeva assistere di nuovo a quella strana faccenda; così andò con loro anche la seconda e la terza notte. E tutto andò come la prima, e ogni volta ballarono fino a romper le scarpe. La terza notte, però, egli si portò via un bicchiere come prova. Quando venne il momento di dare una risposta, egli prese con s‚ i tre rami e il bicchiere e andò dal re, mentre le dodici fanciulle se ne stavano dietro la porta ad ascoltare quel che avrebbe detto. Quando il re domandò: -Dove hanno logorato le scarpe le mie dodici figlie?- egli rispose: -Ballando con dodici principi in un castello sotterraneo-. E gli raccontò ogni cosa, mostrando le prove. Allora il re mandò a chiamare le figlie e domandò se il soldato avesse detto la verità, ed esse, vedendo che erano state scoperte e che negare non serviva a nulla, confessarono ogni cosa. Poi il re domandò quale volesse in moglie. Egli rispose: -Dato che non sono più giovane, datemi la maggiore-. Così le nozze furono celebrate quello stesso giorno, e gli fu promesso il regno alla morte del re. I principi invece furono nuovamente stregati per tanti giorni, quante erano le notti in cui avevano danzato con le dodici principesse.
FINE





I sei servi
tempo: 17'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 134



Un tempo viveva una vecchia regina che era una maga, e aveva una figlia che era la più bella fanciulla del mondo. Ma la vecchia non pensava ad altro che ad attirare gli uomini per mandarli in rovina; e se arrivava un pretendente, diceva che chi voleva sua figlia doveva prima eseguire un compito o morire. Molti si cimentavano, abbagliati dalla bellezza della fanciulla, ma non realizzavano ciò che la vecchia imponeva loro, e allora non c'era grazia: dovevano inginocchiarsi e gli mozzavano la testa. Ora avvenne che un principe aveva sentito parlare anche lui della grande bellezza della fanciulla, e disse al padre: -Caro babbo, lasciatemi andare, voglio chiedere la sua mano-. -Mai e poi mai!- rispose il padre. -Se parti, vai incontro alla morte.- Allora il principe si mise a letto, ammalato mortalmente, e stette così per sette anni, senza che nessun medico potesse aiutarlo. Quando il padre vide che non aveva più speranza, gli disse pieno di tristezza: -Va' dunque, e tenta la sorte: io non so come aiutarti altrimenti-. All'udire queste parole, il figlio si alzò, sano come un pesce, e si mise allegramente in cammino. Gli capitò di passare per una prateria e da lontano vide qualcosa che giaceva a terra; avvicinandosi, pot‚ capire che era la pancia di un uomo coricato; ma sembrava un monticello. L'uomo grasso, vedendo il cavaliere, si alzò e disse: -Se vi occorre qualcuno, prendetemi al vostro servizio-. Ma il principe rispose: -Che cosa me ne faccio di un uomo così grasso?-. -Oh!- disse l'altro -questo non è nulla! Se mi allargo del tutto, sono tremila volte più grasso.- -Se è così- disse il principe -forse puoi essermi utile: vieni con me.- Così il Grassone lo seguì; dopo un po' trovarono un tale sdraiato per terra con l'orecchio sull'erba. -Che cosa fai?- gli domandò il principe. -Ascolto- rispose l'uomo. -E cosa ascolti?- -Quel che sta succedendo nel mondo, perché‚ io sento tutto, persino l'erba che cresce.- Il principe domandò: -Dimmi un po', che cosa senti alla corte della vecchia regina, che ha una bella figlia?-. E quello rispose: -Sento fischiare la spada che taglia la testa a un pretendente-. Il principe disse: -Puoi essermi utile: vieni con me-. Proseguirono, e d'un tratto videro per terra due piedi e un tratto di gambe, ma non riuscirono a vederne la fine; dopo aver percorso un bel tratto, arrivarono al corpo, e infine la testa. -Ehi!- esclamò il principe -che razza di spilungone!- -Oh- rispose l'altro -questo non è nulla! Se mi distendo bene sono tremila volte più lungo e supero la montagna più alta della terra. Vi servirò volentieri se mi volete.- -Vieni- disse il principe -puoi essermi utile.- Proseguirono e trovarono un tale seduto sul ciglio della strada, con gli occhi bendati. Il principe disse: -Sei cieco, o hai la vista debole, che non sopporti la luce?-. -No- rispose l'uomo -non posso togliermi la benda, perché‚ qualsiasi cosa io guardi, si spezza, tanta è la forza del mio sguardo. Se può esservi utile, vi servirò volentieri.- -Vieni con me- disse il principe -puoi essermi d'aiuto.- Proseguirono e incontrarono un uomo che, sotto il sole a picco, rabbrividiva e tremava tutto per il freddo. -Come mai hai tanto freddo con un sole così caldo?- domandò il principe. -Ah- rispose l'uomo -più fa caldo e più io sento freddo, e il gelo mi penetra nelle ossa; e più fa freddo, più sento caldo: in mezzo al ghiaccio non resisto per il caldo, e in mezzo al fuoco non resisto per il freddo.- -Sei un tipo strano!- disse il principe. -Ma se mi vuoi servire, vieni con me.- Proseguirono e videro un uomo che allungava il collo, girava gli occhi all'intorno e guardava al di là dei monti. Disse il principe: -Che cosa guardi con tanto ardore?-. L'uomo rispose: -Ho una vista così acuta, che posso vedere oltre campi e boschi, monti e valli, per tutto il mondo-. Il principe disse: -Se vuoi, vieni con me: mi manca uno come te-. Poi il principe si recò, con i suoi sei servi, nella città dove viveva la bella e pericolosa fanciulla; andò dalla vecchia regina e disse: -Se volete darmi vostra figlia, farò quel che mi ordinate-. -Sì- rispose la maga -ti darò tre incarichi: se li eseguirai tutti e tre, sarai signore e sposo di mia figlia.- -Qual è il primo?- chiese il principe. -Devi riportarmi l'anello che ho lasciato cadere nel mar Rosso.- Allora il principe tornò dai suoi servi e disse: -Il primo compito non è facile: bisogna ripescare un anello nel mar Rosso. Consigliatemi voi-. Allora quello con la vista acuta disse: -Guarderò dov'è-. Guardò in fondo al mare e disse: -E' là, accanto a una pietra-. -Lo tirerei fuori, se solo lo vedessi- disse lo Spilungone. -Oh, ti aiuterò io!- esclamò il Grassone. Si coricò con la bocca sull'acqua: le onde vi entrarono ed egli bevve tutto il mare, che rimase asciutto come un prato. Allora lo Spilungone si piegò un poco e prese l'anello con la mano. Tutto felice, il principe lo portò alla vecchia. Ella lo osservò e disse meravigliata: -Sì, è proprio quello. Il primo compito l'hai eseguito, ma adesso viene il secondo. Vedi, là su quel prato davanti al mio castello pascolano trecento buoi ben pasciuti; devi mangiarli tutti con il pelo, le corna e le ossa; e giù in cantina ci sono trecento botti di vino, devi bertele tutte; ma se avanza il pelo di un bue o una gocciolina di vino, pagherai con la vita-. Il principe disse: -Non posso invitare qualche ospite? Senza compagnia non c'è gusto a mangiare-. La vecchia rise malignamente e disse: -Per aver compagnia puoi invitarne uno, ma non di più-. Allora il principe andò dai suoi servi e disse al Grassone: -Oggi sarai mio ospite, e una volta tanto mangerai a sazietà-. Allora il Grassone si allargò tutto e mangiò i trecento buoi senza lasciarne neanche un pelo e domandò se non c'era altro dopo la colazione; il vino lo bevve direttamente dalle botti, senza bisogno di bicchiere, e l'ultima goccia se la leccò sul dito. Al termine del pasto, il principe andò dalla vecchia e le disse che il compito era stato eseguito. Ella si meravigliò e disse: -A tanto non era mai arrivato nessuno, ma resta ancora il terzo compito-. E pensava: "Non mi sfuggirai, e non riuscirai a salvarti la testa!". -Stasera- disse -ti porto mia figlia in camera, la lascerò fra le tue braccia; ma bada di non addormentarti! Io verrò allo scoccare delle dodici, e se lei non è più fra le tue braccia, tu sei perduto.- "Oh" pensò il principe "il compito è semplice, terrò gli occhi bene aperti." Tuttavia chiamò i suoi servitori, raccontò loro ciò che aveva detto la vecchia e disse: -Chissà quale astuzia c'è sotto! E' bene essere prudenti: fate la guardia e badate che la fanciulla non esca dalla camera-. Quando si fece notte, la vecchia arrivò con sua figlia e la spinse fra le braccia del principe; poi lo Spilungone si acciambellò intorno a loro e il Grassone si mise davanti alla porta, sicché‚ non poteva entrare anima viva. Se ne stavano là tutt'e due e la fanciulla non diceva una parola; ma, attraverso la finestra, la luna le illuminava il volto, ed egli poteva vedere la sua meravigliosa bellezza. Il principe non faceva altro che guardarla, innamorato e pieno di gioia, e i suoi occhi non erano mai stanchi. Durò così fino alle undici; allora la vecchia gettò un incantesimo su tutti quanti, sicché‚ si addormentarono, senza potersi difendere; e, in quello stesso istante, la fanciulla sparì. Dormirono sodo fino a mezzanotte meno un quarto; allora l'incantesimo cessò ed essi si svegliarono. -Oh che disgrazia, che sciagura!- esclamò il principe -adesso sono perduto!- Anche i servi fedeli incominciarono a lamentarsi, ma Orecchiofino disse: -State zitti! Voglio ascoltare-. Ascoltò un istante, poi disse: -Si trova dentro una rupe a trecento ore da qui, e piange il suo destino. Tu puoi farcela, Spilungone: se ti rizzi, ci sei con due passi-. -Sì- rispose lo Spilungone -però deve venire anche Occhiodifolgore per spazzare via la rupe.- Così si caricò sulle spalle quello con gli occhi bendati, e in un baleno si trovarono davanti alla rupe incantata. Lo Spilungone tolse subito la benda dagli occhi del compagno; questi si guardò attorno e la rupe andò in mille pezzi. Allora lo Spilungone prese in braccio la fanciulla, in un attimo la portò a casa, tornò a prendere anche l'amico e, prima che scoccassero le dodici, erano di nuovo tutti là, allegri e contenti come prima. Allo scoccar delle dodici, arrivò piano piano la vecchia maga con un'aria beffarda, come se volesse dire: -Adesso è mio!- ed era convinta che la figlia fosse dentro la rupe a trecento ore di distanza. Ma quando la vide fra le braccia del principe, inorridì e disse: -Ecco uno che ne sa più di me-. Ma non pot‚ replicar nulla e dovette dargli sua figlia. Tuttavia le disse all'orecchio: -E' una vergogna per te essere stata vinta da dei servi, senza poterti scegliere uno sposo secondo la tua inclinazione!-. Ora la fanciulla, che aveva il cuore orgoglioso, piena d'ira, fece ammucchiare, il giorno dopo, trecento cataste di legna e disse al principe che i tre compiti erano stati eseguiti, ma che lei non l'avrebbe sposato se prima qualcuno non si fosse messo in mezzo alla legna e avesse sopportato il fuoco. Pensava infatti che, per quanto devoti, nessuno dei servi si sarebbe lasciato bruciare per lui, e per amor suo ci sarebbe andato il principe, e così lei sarebbe stata libera. Allora i servi dissero: -Abbiamo fatto tutti qualcosa, soltanto il Freddoloso non ha ancora fatto nulla!-. Lo presero, lo misero in mezzo alla catasta e vi appiccarono il fuoco. Il fuoco divampò e arse per tre giorni, finché‚ consumò tutta la legna; e, quando le fiamme si spensero, il Freddoloso era là, in mezzo alla cenere, tremante come una foglia, e diceva: -Non ho mai sofferto tanto il freddo in vita mia! Se durava ancora, mi sarei assiderato-. Adesso non c'era proprio più scampo: la bella fanciulla doveva sposare il principe. Ma quando andarono in chiesa, la vecchia disse: -Non posso tollerare questa vergogna!- e li fece inseguire dai suoi soldati, che dovevano annientare chiunque si trovasse loro davanti, e riportarle la figlia. Ma Orecchiofino era stato in ascolto e aveva sentito tutto ciò che la vecchia aveva detto. Lo disse al Grassone che vomitò un paio di volte dietro la carrozza; ed ecco formarsi un grande lago, dove i soldati furono sommersi e annegarono. Non vedendoli tornare, la maga mandò i suoi corazzieri, ma Orecchiofino, sentendoli arrivare, tolse la benda dagli occhi di Occhiodifolgore; questi fissò un istante i nemici, che andarono in pezzi come se fossero stati di vetro. Così proseguirono indisturbati, e quando gli sposi ebbero ricevuto la benedizione in chiesa, i sei servitori si congedarono e dissero: -Vogliamo tentare la fortuna in giro per il mondo-. A una mezz'ora dal castello c'era un villaggio, davanti al quale un porcaro custodiva il suo branco; quando vi giunsero, il principe disse alla moglie: -Sai chi sono davvero? Non sono un principe, ma un porcaro, e quello laggiù con il branco è mio padre, e adesso dobbiamo aiutarlo anche noi a custodire i maiali-. Poi scesero insieme alla locanda, e il principe ordinò di nascosto ai padroni di portare via alla sposa le vesti regali durante la notte. Al mattino, quando la principessa si svegliò non aveva più niente da mettersi, e l'ostessa le diede un vecchio vestito e un paio di vecchie calze di lana, con l'aria di farle un gran regalo e disse: -Se non fosse per vostro marito, non vi avrei dato nulla-. Allora ella credette che fosse davvero un porcaro, custodiva il branco con lui e pensava: "Me lo sono meritato con il mio orgoglio! ". Durò così per otto giorni, ed ella non ne poteva più, perché‚ i piedi le si erano coperti di piaghe. Allora arrivò della gente che le chiese se davvero sapeva chi era suo marito. -Sì- rispose -è un porcaro; è appena uscito per vendere un po' di nastri.- Ma quelli dissero: -Venite, vi condurremo da lui-. La condussero al castello, e quando ella entrò nella sala, suo marito era là in abiti regali. Ma ella non lo riconobbe finché‚ il principe non la prese fra le braccia, la baciò e disse: -Io ho tanto sofferto per te, e anche tu hai dovuto soffrire per me- Allora furono festeggiate le nozze, e chi l'ha raccontato, vorrebbe esserci stato.
FINE





La sposa bianca e quella nera
tempo: 10'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 135



Un giorno una donna andò nei campi a tagliare il fieno con la figlia e la figliastra. Andò loro incontro il buon Dio, con l'aspetto di un mendicante, e domandò: -Dove passa la strada che conduce al villaggio?-. -Cercatevela da solo!- rispose la madre, e la figlia soggiunse: -Se avete paura di non trovarla, prendetevi una guida!-. Ma la figliastra disse: -Ti condurrò io, pover'uomo: vieni con me-. Allora il buon Dio si adirò con la madre e la figlia, volse loro le spalle e le maledì, che diventassero nere come la notte, e brutte come il peccato. Con la povera figliastra, invece, fu misericordioso, la seguì, e quando furono vicini al villaggio, la benedì e disse: -Scegli tre cose e te le concederò-. Allora la fanciulla disse: -Desidero diventare bella come il sole-. E subito fu bianca e bella come il giorno. -Poi vorrei un borsellino che non si vuoti mai.- Il buon Dio le diede anche il borsellino, ma disse: -Non dimenticare il meglio, figlia mia!-. Ella disse: -Come terza cosa, desidererei andare in Paradiso dopo la mia morte-. Le fu promesso anche questo, e il buon Dio si allontanò. Quando la matrigna tornò a casa con la figlia e vide che erano diventate tutt'e due brutte e nere come il carbone, mentre la figliastra era bianca e bella, la cattiveria si inasprì nel suo cuore, e non pensava ad altro che a farle del male. Ma la figliastra aveva un fratello di nome Reginaldo; ella lo amava molto e gli raccontò tutto quanto le era successo. Un giorno Reginaldo le disse: -Cara sorella, voglio farti un ritratto, per averti sempre davanti agli occhi; perché‚ il mio amore per te è così grande, che vorrei sempre guardarti-. La fanciulla rispose: -Purché‚ tu non lo faccia vedere a nessuno-. Egli fece dunque il ritratto alla sorella, e lo appese in camera sua, nel castello del re, dov'era cocchiere. E tutti i giorni si fermava davanti al ritratto, e ringraziava Dio per la fortuna della sua cara sorella. Il re presso il quale egli serviva aveva da poco perduto la moglie; ed ella era stata così bella che non si poteva trovare un'altra che lo fosse altrettanto, e il re era molto afflitto. Nel frattempo i servitori di corte avevano notato che il cocchiere si fermava ogni giorno davanti al bel ritratto, ne furono invidiosi e lo riferirono al re. Questi si fece portare il ritratto e vide che assomigliava in tutto alla moglie morta, anzi era ancora più bello, sicché‚ se ne innamorò perdutamente. Domandò al cocchiere chi fosse, e quando questi disse che si trattava di sua sorella, il re decise di non volere altra sposa all'infuori di lei. Diede al giovane carrozza, cavalli e splendide vesti d'oro, e lo mandò a prendere la sua sposa. Quando Reginaldo giunse con il messaggio, la sorella ne fu felice; la ragazza nera, invece, andò su tutte le furie per la gelosia e disse alla madre: -A che servono tutte le vostre arti, se non potete procurarmi una simile fortuna!-. Allora la vecchia disse: -Sta' tranquilla che te la procurerò-. E con le sue stregonerie annebbiò gli occhi al cocchiere, che divenne mezzo cieco, e tappò le orecchie alla fanciulla bianca, che divenne quasi sorda. Poi salirono in carrozza, prima la sposa nelle splendide vesti regali, poi la matrigna con sua figlia; e Reginaldo sedeva a cassetta per guidare. Quand'ebbero percorso un tratto di strada, il cocchiere gridò:-Dolce e cara sorellina, chiudi bene la mantellina, la pioggia non deve bagnarti, n‚ il vento impolverarti, quando il re t'accoglierà, tutta bella ti vedrà!-La sposa domandò: -Cosa dice il mio caro fratello?-. -Ah- rispose la vecchia -ha detto che dovresti toglierti la veste d'oro e darla a tua sorella.- Allora ella se la tolse e la porse alla ragazza nera, che le diede in cambio una brutta palandrana grigia. Proseguirono e, dopo un po', il fratello tornò a gridare-Dolce e cara sorellina, chiudi bene la mantellina, la pioggia non deve bagnarti, n‚ il vento impolverarti, quando il re t'accoglierà, tutta bella ti vedrà!-La sposa domandò: -Cosa dice il mio caro fratello?- -Ah- rispose la vecchia -dice che dovresti toglierti la cuffia d'oro e darla a tua sorella.- Ed ella si tolse la cuffia, la diede alla ragazza nera e restò a capo scoperto. Proseguirono e, dopo un po', il fratello tornò a gridare:-Dolce e cara sorellina, chiudi bene la mantellina, la pioggia non deve bagnarti, n‚ il vento impolverarti, quando il re t'accoglierà, tutta bella ti vedrà!-La sposa domandò: -Cosa dice il mio caro fratello?-. -Ah- rispose la vecchia -ti ha detto di guardare fuori dalla carrozza.- In quel momento stavano passando sopra un fiume profondo, e come la sposa si alzò per guardare fuori, le altre due la spinsero, sicché‚ ella precipitò in acqua. Andò a fondo e, nello stesso istante, venne a galla un'anitra bianca come la neve, che nuotò giù per il fiume. Il fratello non si era accorto di nulla, e continuò a guidare finché‚ giunsero a corte. Allora portò al re la fanciulla nera, come se fosse stata sua sorella, e pensava che lo fosse davvero, poiché‚ aveva gli occhi annebbiati, ma vedeva luccicare le vesti d'oro. Quando scorse la spaventosa bruttezza di colei che credeva la sua sposa, il re andò su tutte le furie e ordinò che il cocchiere fosse gettato in una fossa piena di vipere e serpenti. Ma la vecchia strega seppe raggirare e abbagliare così bene il re con le sue arti, che egli tenne con s‚ la madre e la figlia, finì col trovare costei tollerabile e la sposò davvero. Una sera, che la sposa nera sedeva sulle ginocchia del re un'anitra bianca arrivò in cucina, nuotando per lo scolo dell'acquaio, e disse allo sguattero:-Presto, accendi il fuoco. Vicino ad esso mi voglio asciugare e ben bene riscaldare!-Lo sguattero ubbidì e le accese il fuoco nel camino; allora l'anitra si avvicinò e andò a sedervisi accanto, si scrollò e si lisciò le penne col becco. Mentre se ne stava là a riposarsi, domandò -Reginaldo, cosa sta facendo?-Lo sguattero rispose:-E' nel fosso dei tormenti, circondato dai serpenti!-L'anitra domandò ancora:-Che fa la strega nera?-Lo sguattero rispose:-In braccio a Sua Maestà, al calduccio se ne sta!-Disse l'anitra:-Oh Dio, pietà di me!-e uscì a nuoto dallo scolo dell'acquaio. La sera seguente tornò e fece le stesse domande, e così pure la terza sera. Lo sguattero non riuscì a tenersi quel peso sul cuore, andò dal re e gli raccontò ogni cosa. La sera dopo il re andò in cucina, e quando l'anitra introdusse la testa nell'acquaio, prese la spada e le tagliò il collo. E subito l'anitra divenne la più bella fanciulla del mondo, ed era del tutto simile al ritratto che il fratello aveva dipinto. Il re era pieno di gioia, e siccome la fanciulla era tutta bagnata, le fece portare delle vesti sontuose Quand'ella le ebbe indossate, gli raccontò com'era caduta nel fiume; e, per prima cosa, lo pregò di liberare il fratello dalla fossa dei serpenti. Dopo aver esaudito la sua preghiera, il re andò nella stanza dov'era la vecchia strega e domandò: -Che cosa merita colei che fa delle cose così e così?- e le raccontò quel che era successo. Ella era abbagliata, non si accorse di nulla e disse -Merita che la spoglino e la mettano in una botte foderata di chiodi; e alla botte si attacchi un cavallo che la trascini dappertutto-. Così questo fu il destino suo e della sua figlia nera. Il re invece sposò la bella fanciulla, e ricompensò il fratello fedele con ricchezze e onori.
FINE





L'uomo selvaggio
tempo: 9'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 136



C'era una volta un uomo selvaggio perché‚ era stato stregato, e vagava negli orti dei contadini e nelle messi danneggiando tutto. I contadini allora si lamentarono con il signore di quelle terre e dissero che non avrebbero potuto pagare il loro tributo. Il signore riunì tutti i suoi cacciatori e disse che colui che avesse catturato il selvaggio avrebbe avuto una grossa ricompensa. Si fece avanti un vecchio cacciatore che disse che lui avrebbe catturato il selvaggio: chiese di portare con s‚ una fiasca di acquavite, una di vino e una di birra, e le pose sulle rive di uno stagno dove tutti i giorni il selvaggio veniva a bagnarsi. Mentre stava nascosto dietro un albero venne il selvaggio e bevve dalle fiasche, si leccò le labbra e si guardò attorno per vedere se trovava ancora qualcosa. Ma intanto s'era ubriacato e, coricatosi per terra, si addormentò. Il cacciatore allora gli si avvicinò e gli legò le mani e i piedi; poi lo svegliò, lo fece alzare e disse: -Uomo selvaggio, se vieni con me, avrai da bere tutti i giorni-. Lo condusse con s‚ al castello del signore e lo mise in una cella. Il signore invitò tutta la nobiltà a vedere che razza di bestia il suo cacciatore avesse preso. Uno dei bambini del signore giocava con una palla; la lasciò cadere nella cella e disse: -Uomo selvaggio, ridammi la palla-. Ma il selvaggio rispose: -La palla devi venire a prendertela da te-. -Ma io- disse il bambino -non ho la chiave.- -Allora fai in modo di arrivare di nascosto alla borsa di tua madre e rubale la chiave.- Così il bambino riuscì ad aprire la gabbia e l'uomo selvaggio scappò fuori. Il bambino si mise a gridare: -Uomo selvaggio, rimani qui, altrimenti le prendo!-. Allora l'uomo selvaggio prese il bambino sulle spalle e fuggì nella foresta con lui. Così il selvaggio era fuggito e il bambino perduto! L'uomo selvaggio fece indossare al bambino un vecchio camiciotto e lo mandò dal giardiniere di corte dell'imperatore a chiedere se aveva bisogno di un apprendista giardiniere. Quello rispose che era tanto sporco che gli altri non avrebbero voluto dormire con lui. Egli disse che avrebbe dormito nella paglia. E ogni giorno di mattino presto andava nel giardino tutto lieto. Un giorno venne l'uomo selvaggio e gli disse: -Ora lavati e pettinati-. Poi l'uomo selvaggio rese il giardino tanto bello come nemmeno il giardiniere era mai riuscito a fare. E la principessa cercava tutte le mattine il bel ragazzo, finché‚ un giorno chiese al giardiniere che l'apprendista le portasse un mazzo di fiori. Ella chiese al ragazzo da quanto tempo fosse lì, ma egli rispose che non lo sapeva. Allora lei gli diede un pane cavo pieno di ducati. Quando se ne fu andato, il ragazzo diede il denaro al suo padrone dicendo: -Che cosa devo farmene? Prendetelo piuttosto voi-. Poi gli toccò di nuovo di portare un mazzo di fiori alla principessa, ed ella gli diede un'anitra piena di ducati, che di nuovo egli consegnò al suo padrone. E ancora un'altra volta ella gli diede un'oca piena di ducati, che il ragazzo consegnò al suo padrone. La principessa pensava che egli avesse il denaro, ed egli invece non aveva niente. Allora lei lo sposò in segreto. Ma i genitori di lei si arrabbiarono molto e la mandarono in cantina a guadagnarsi il pane filando. Il ragazzo andò in cucina ad aiutare il cuoco a fare il pane, e ogni tanto rubava un pezzo di carne e lo portava a sua moglie. In quel tempo ci fu in Inghilterra una grande guerra e anche l'imperatore dovette andarci con tutti i nobili signori; il giovane allora disse che voleva andarci anche lui se avevano ancora un cavallo nella stalla. Gli risposero che ne avevano ancora uno che aveva solo tre zampe, ma che per lui andava bene. Egli montò a cavallo e partì su quelle tre zampe zoppicon zoppiconi. Gli venne incontro l'uomo selvaggio e lo condusse a un gran monte dov'era schierato un reggimento di mille soldati con i loro ufficiali, e gli diede una bella divisa e gli procurò uno splendido cavallo. Quando partì con la sua gente per la guerra in Inghilterra, l'imperatore lo trovo così simpatico che gli chiese se voleva essere suo aiutante in battaglia. Egli vinse la battaglia e sconfisse tutti. Quando l'imperatore volle ringraziarlo e gli chiese che signore fosse, egli rispose: -Non chiedetemelo perché‚ non lo so-. E ripartì dall'Inghilterra a cavallo con il suo esercito; ma ecco che gli venne incontro l'uomo selvaggio che richiuse tutti i soldati nella montagna, ed egli se ne tornò a casa sul suo cavallo a tre zampe. E la gente diceva: -Da dove vien fuori questo zoppicone sul cavallo a tre zampe?- e chiedeva: -Ti sei nascosto dietro l'angolo a dormire?-. -Sì- diceva lui -se non ci fossi andato io, non sarebbe andata mica bene in Inghilterra!- E quelli dicevano: -Sta' zitto, ragazzo, altrimenti il signore ti liscia il groppone-. Quando ci fu una seconda guerra, egli di nuovo vinse tutti. Ma riportò una ferita in un braccio, e l'imperatore prese la sua sciarpa e gli fasciò la ferita; e voleva forzarlo a rimanere con lui. -Presso di voi non posso restare- disse il ragazzo -e chi io sia non dovete chiederlo.- E gli venne di nuovo incontro l'uomo selvaggio, che di nuovo nascose il suo esercito dentro la montagna, e il ragazzo montò di nuovo il suo cavallo a tre zampe e se ne tornò a casa. La gente rideva e diceva: -Da dove torna lo Zoppicone? Dove ti sei nascosto a dormire?-. Ed egli rispondeva: -Non ho dormito, e l'Inghilterra è tutta conquistata e adesso ci sarà una vera pace-. L'imperatore un giorno raccontava dei bravi cavalieri che lo avevano aiutato nella guerra. Allora il giovanotto disse all'imperatore: -Se io non fossi stato con voi, non sarebbe andata così bene-. L'imperatore voleva picchiarlo, ma quello disse: -Se non volete credere a me, vi mostrerò il mio braccio-. E quando mostrò il braccio e l'imperatore vide la ferita, fu tutto meravigliato e disse: -Forse sei Dio stesso, o un angelo che Dio mi ha mandato-. Lo pregò di perdonarlo per essere stato con lui così villano e gli fece dono di tutti i suoi beni imperiali. Allora l'uomo selvaggio fu liberato dall'incantesimo e si rivelò un grande re: raccontò tutta la sua storia e la montagna si rivelò un castello regale, e il ragazzo ne prese possesso con la sua sposa e vissero contenti fino alla morte.
FINE





Le tre principesse nere
tempo: 5'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 137



Una volta una città in oriente era assediata dai nemici, che non volevano togliere l'assedio se prima non venivano dati loro seicento scudi. Allora la città proclamò che colui che avesse potuto procurarli sarebbe diventato borgomastro. Ora c'era un povero pescatore, che pescava in riva al mare con suo figlio; giunsero i nemici, fecero prigioniero il figlio, e in cambio diedero al padre seicento scudi. Il padre andò a darli ai capi della città, i nemici si ritirarono e il pescatore divenne borgomastro. Allora fu stabilito che chi non avesse detto -signor Borgomastro- sarebbe stato impiccato. Il figlio sfuggì ai nemici e arrivò in un grande bosco, su di un'alta montagna. La montagna si aprì ed egli entrò in un grande castello incantato, dove sedie, tavole e panche erano tutte parate a lutto. Arrivarono tre principesse che erano tutte nere, con solo un po' di bianco sul viso. Gli dissero che non doveva avere paura: non gli avrebbero fatto nulla, ed egli poteva liberarle. Egli disse che sì, le avrebbe liberate ben volentieri se avesse saputo cosa fare. Allora dissero che per un anno non doveva parlare con loro n‚ guardarle; se desiderava qualcosa doveva dirlo; se potevano rispondergli l'avrebbero fatto. Dopo aver trascorso là un po' di tempo, egli disse che desiderava andare da suo padre. Le fanciulle risposero che poteva andare, doveva prendere una certa borsa piena di denaro, indossare un certo vestito, ed essere di ritorno entro otto giorni. Egli si sentì sollevare e subito si trovò in quella città dell'oriente. Ma nella capanna suo padre non c'era più, ed egli domandò alla gente che fine avesse fatto il povero pescatore. Allora gli dissero che non doveva dire così, altrimenti sarebbe finito sulla forca. Egli andò da suo padre e disse: -Pescatore, come avete fatto ad arrivare fin qui?-. Il padre rispose: -Non dovete dire così: se i capi della città se ne accorgono, vi impiccheranno-. Ma egli non volle smetterla e fu condotto alla forca. Quando è là, dice: -Oh, miei Signori, datemi il permesso di andare ancora una volta nella vecchia capanna del pescatore-. Là indossa il suo vecchio camiciotto, torna dai signori e dice: -Lo vedete ora? Non sono forse il figlio del povero pescatore? Fino a oggi ho guadagnato il pane per i miei genitori-. Allora lo riconobbero e gli chiesero perdono e se lo portarono a casa, dov'egli raccontò tutto quel che gli era accaduto: ch'era arrivato in un gran bosco, su di un'alta montagna, e la montagna si era aperta, ed egli era entrato in un castello incantato, dove tutto era parato a lutto, ed erano venute tre principesse, che erano tutte nere, salvo un po' di bianco sul viso. Gli avevano detto che non doveva avere paura, e che poteva liberarle. Allora sua madre disse che doveva esserci sotto qualcosa di brutto: egli doveva prendere una candela benedetta e far gocciolare la cera bollente sul viso delle principesse. Egli tornò al castello e aveva una gran paura; fece gocciolare la cera sul viso delle principesse mentre dormivano, ed esse diventarono mezze bianche. Allora saltarono in piedi tutt'e tre e dissero: -Cane maledetto, il nostro sangue griderà vendetta sopra di te! Non è nato nessun altro al mondo che possa liberarci, n‚ nascerà mai più. Ma noi abbiamo ancora tre fratelli, sono legati da sette catene, e ti faranno a pezzi!-. Si udì uno strepito in tutto il castello, ed egli ebbe appena il tempo di saltare dalla finestra, rompendosi una gamba. Il castello sprofondò, la montagna si chiuse, e nessuno seppe più dov'era stato.
FINE





Knoist e i suoi tre figli
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 138



Tra Werrel e Soist abitava un uomo che si chiamava Knoist, e aveva tre figli: uno era cieco, l'altro zoppo e il terzo tutto nudo. Un giorno andarono per i campi e videro una lepre. Il cieco le sparò, lo zoppo la prese e quello nudo la mise in tasca. Poi giunsero in riva a un gran fiume e videro tre navicelle una correva, l'altra colava a picco e la terza non aveva il fondo. Salirono tutt'e tre in quella senza fondo e giunsero a un gran bosco, dove c'era un grande albero, e nell'albero c'era una gran cappella, e nella cappella c'era un sagrestano di carpine e un prete di bossolo che davano l'acqua santa a suon di bastonate. Felice è l'uom che campa, facendo a meno dell'acqua santa!
FINE





La ragazza di Brakel
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 139



Una ragazza di Brakel andò una volta alla cappella di sant'Anna sotto il castello dei giganti e, siccome desiderava tanto maritarsi, e credeva che nella cappella non ci fosse nessuno, si mise a cantare:-Oh sant'Anna ognor venerata, fa' che in breve io sia maritata! Sai cosa voglio io: il mio vicino di bell'aspetto è proprio il mio diletto!-Ma dietro l'altare c'era il sagrestano, che sentì tutto e si mise a gridare con voce terribile: -Non l'avrai! Non l'avrai!-. Ma la fanciulla pensò che, a gridare, fosse stata Maria Bambina, che stava accanto a sua madre. Allora andò in collera e gridò: -Perepepè, brutta pettegolina, chiudi il becco e lascia parlare la mamma!-.
FINE
Donnette
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 140



“Dove vai?” - “Vado a Cogozzo.” - “Io vado a Cogozzo, tu vai a Cogozzo: bene, bene, andiamo insieme.”

“Hai anche tu il marito? Come si chiama?” - “Tito.” - “Mio marito Tito, tuo marito Tito; io vado a Cogozzo, tu vai a Cogozzo: bene, bene, andiamo insieme.”

“Hai anche tu un bambino? Come si chiama?” - “Pino.” - “Il mio bambino Pino, il tuo bambino Pino; mio marito Tito, tuo marito Tito; io vado a Cogozzo, tu vai a Cogozzo: bene, bene, andiamo insieme.”

“E tu ce l’hai la cuna?” - “Si chiama Sbattéiluna.” - “La mia cuna Sbattéiluna, la tua cuna Sbattéiluna; il mio bambino Pino, il tuo bambino Pino; mio marito Tito, tuo marito Tito; io vado a Cogozzo, tu vai a Cogozzo: bene, bene, andiamo insieme.”

“Ce l’hai il servitorello?” - “Si chiama Vabelbello.” - “Il mio Vabelbello, il tuo Vabelbello; la mia cuna Sbattéiluna, la tua cuna Sbattéiluna; il mio bambino Pino, il tuo bambino Pino; mio marito Tito, tuo marito Tito; io vado a Cogozzo, tu vai a Cogozzo: bene, bene, andiamo insieme.”
FINE





L'agnellino e il pesciolino
tempo: 4'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 141



C’era una volta un fratellino e una sorellina che si volevano molto bene. Ma la loro mamma era morta ed essi avevano una matrigna che li odiava e faceva loro, di nascosto, tutto il male che poteva. Un giorno essi giocavano con altri bambini su di un prato davanti a casa, e accanto al prato c’era uno stagno che arrivava a lambire un lato della casa. I bambini giocavano a rincorrersi, e ogni tanto riprendevano la conta:

“Lasciami, lasciami, ti lascerò,
all’uccellino io poi ti darò,
e lui la paglia mi cercherà,
che alla vacchina io poi darò,
e lei il suo latte mi darà,
che al fornaio io poi darò,
e lui la torta mi farà,
che al gattino io poi darò,
e lui i topini mi cercherà,
che nel camino io poi appenderò
e affetterò.”

Cantando formavano un cerchio, e quello a cui toccava la parola ‘affetterò’ doveva scappare, e gli altri lo rincorrevano e lo acchiappavano. Mentre si rincorrevano, così allegri, la matrigna li stava a guardare dalla finestra, irritata. E siccome conosceva l’arte della stregoneria, trasformò i due bimbi: il fratellino divenne un pesce e la sorellina un agnello. Il pesciolino nuotava su e giù per lo stagno ed era triste; l’agnellino andava su e giù per il prato ed era triste, non mangiava e non toccava neanche un filo d’erba. Andò avanti così per molto tempo, finché‚ un giorno giunsero al castello dei forestieri. La perfida matrigna pensò: ‘Ecco una buona occasione!’ Chiamò il cuoco e gli disse: “Va’, prendi l’agnello che è nel prato e ammazzalo, altrimenti non abbiamo nient’altro per gli ospiti.” Il cuoco andò a prendere l’agnellino, lo portò in cucina e gli legò le zampette, mentre quello sopportava tutto con pazienza. Ma quando il cuoco tirò fuori il suo coltello e lo affilò sulla pietra della soglia per trafiggerlo, vide un pesciolino che nuotava su e giù davanti allo scolo dell’acquaio e lo guardava. Era il fratellino: quando aveva visto il cuoco che portava via l’agnellino, l’aveva accompagnato nuotando nello stagno fino a casa. Allora l’agnellino gridò:

“Oh fratellino nell’acqua profonda
ignori la pena che il cuor mi circonda!
La lama del cuoco è già affilata:
presto da essa verrò trapassata!”

Il pesciolino rispose:

“Oh sorellina in alto, lassù, ignori la pena
che soffro quaggiù nell’acqua fonda
che mi circonda.”

Quando il cuoco udì che l’agnellino sapeva parlare e che rivolgeva al pesciolino parole così tristi, si spaventò e pensò che non fosse un agnellino vero, ma che l’avesse stregato la malvagia padrona. Allora disse: “Sta’ tranquillo, non ti ucciderò.” Prese un’altra bestia e la cucinò per gli ospiti, mentre l’agnellino lo portò da una buona contadina, e le raccontò quel che aveva visto e sentito. Ma la contadina era proprio la balia della bimba, sospettò subito chi potesse essere quell’agnellino, e lo portò da una maga. Costei benedisse l’agnellino e il pesciolino che riacquistarono l’aspetto umano. Poi li condusse tutt’e due in un gran bosco dove c’era una piccola casetta; e là essi vissero felici e contenti.
FINE





Il monte Simeli
tempo: 6'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 142



C'era una volta due fratelli, uno ricco e l'altro povero. Ma il ricco non dava niente al povero e questi doveva provvedere con fatica al proprio sostentamento, commerciando in granaglie; e spesso gli andava così male, che non aveva il pane per sua moglie e i suoi bambini. Un giorno, mentre stava attraversando il bosco con il suo carro, scorse da un lato una grande montagna brulla; e poiché‚ non l'aveva mai vista, si fermò e l'osservò meravigliato. Mentre se ne stava là fermo vide venire dodici omoni dall'aspetto selvaggio e, credendo che fossero briganti, spinse il suo carro nella macchia, salì su di un albero e stette a vedere cosa succedeva. I dodici uomini andarono davanti alla montagna e gridarono: -Monte Semsi, monte Semsi, apriti!-. Subito il monte brullo si aprì nel mezzo, i dodici entrarono e, quando furono dentro, il monte si richiuse. Ma dopo poco si riaprì e gli uomini uscirono, portando dei sacchi pesanti sulla schiena; e quando si trovarono tutti quanti di nuovo alla luce del giorno, dissero: -Monte Semsi, monte Semsi, chiuditi!-. Allora il monte si richiuse, senza che si potesse più vedere alcun passaggio, e i dodici se ne andarono. Quando furono scomparsi, il pover'uomo scese dall'albero, curioso di sapere quale segreto si celasse in quel monte. Andò là davanti e disse: -Monte Semsi, monte Semsi, apriti!- e il monte si aprì anche davanti a lui. Egli entrò, e il monte era tutta una caverna piena d'oro e d'argento, e dietro c'erano dei grandi mucchi di perle e sfavillanti pietre preziose, ammucchiate come il grano. Il povero non sapeva proprio cosa dovesse fare e se potesse prendere un po' di quei tesori. Infine si riempì le tasche d'oro, ma lasciò stare le perle e le pietre preziose. Quando uscì fuori, tornò a dire: -Monte Semsi, monte Semsi, chiuditi!-. Subito il monte si chiuse, ed egli se ne andò a casa con il suo carro. Ora egli non doveva più preoccuparsi: con quell'oro poteva procurare il pane e anche il vino per la moglie e i figli; viveva felice e contento, dando ai poveri e facendo del bene a tutti. Quando il denaro finì, andò dal fratello, si fece prestare uno staio e ne prese dell'altro; ma i grandi tesori non li toccò. Quando volle prenderne per la terza volta, tornò dal fratello a farsi prestare lo staio. Ma quello già da un pezzo invidiava la sua ricchezza e gli agi di cui godeva in casa, e non riusciva a capire di dove venisse quella fortuna, n‚ cosa facesse suo fratello con lo staio. Allora escogitò un'astuzia e spalmò il fondo dello staio di pece; e quando gli fu restituito, c'era rimasta attaccata una moneta d'oro. Subito andò dal fratello e gli domandò: -Che cosa hai misurato con lo staio?-. -Grano e orzo- rispose l'altro. Allora gli mostrò la moneta d'oro e lo minacciò di citarlo in giudizio se non diceva la verità. Perciò il fratello gli raccontò com'erano andate le cose. Il ricco fece subito attaccare un carro, andò nel bosco, e meditava di portar via ben altri tesori. Quando giunse davanti al monte, gridò: -Monte Semsi, monte Semsi, apriti!-. Il monte si aprì, ed egli entrò. Tutte le ricchezze erano davanti a lui, e per un bel po' egli non seppe cosa prender per primo; alla fine raccolse le gemme, quante poteva portarne, e si apprestò a uscire. Tornò indietro, ma siccome non aveva altro in mente che i tesori, aveva dimenticato il nome del monte e gridò: -Monte Simeli, monte Simeli, apriti!-. Ma, non essendo il nome giusto, il monte non si aprì e rimase chiuso. Allora s'impaurì, ma più ci pensava, più gli si confondevano le idee, e tutti i tesori non gli servivano a nulla. La sera il monte si aprì, entrarono i dodici briganti, e vedendolo, si misero a ridere e dissero: -Merlo, finalmente ti abbiamo pescato! Pensavi forse che non ci fossimo accorti che eri entrato due volte? Non riuscivamo a prenderti, ma una terza volta non uscirai di qui!-. Allora egli gridò: -Non ero io, era mio fratello!-. Ma ebbe un bel chieder grazia! Checché‚ dicesse, gli mozzarono la testa.
FINE





Il giramondo
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 143



C’era una volta una povera donna con un figlio che aveva tanta voglia di andare in giro per il mondo. Un giorno la madre gli disse: “Come farai? Noi non abbiamo denaro che tu possa portare con te!” Il figlio disse: “Mi arrangerò; dirò sempre: non molto, non molto, non molto.”

Girò il mondo per un po’ di tempo, dicendo sempre: “Non molto, non molto, non molto.” Incontrò un gruppo di pescatori e disse: “Dio vi assista! Non molto, non molto, non molto.” - “Perché‚ dici ‘non molto’, mascalzone?” E quando tirarono le reti, non avevano davvero preso molto pesce. Allora lo presero a bastonate e dissero: “Non hai mai visto come si fa a trebbiare?” - “Che cosa devo dire, allora?” chiese il giovane. “Devi dire: ‘Piglia tanto! Piglia tanto!’”

Egli continua a girare per un po’ di tempo e dice: “Piglia tanto! Piglia tanto!” finché‚ arriva a una forca, dove stanno per impiccare un malfattore. Allora dice: “Buon giorno, piglia tanto! piglia tanto!” - “Perché‚ dici ‘piglia tanto’, mascalzone? Ce ne vogliono ancora di canaglie a questo mondo? Non basta questo?” E lo picchiarono di nuovo. “Cosa devo dire, allora?” - “Devi dire: ‘Dio conforti la pover’anima!’”

Il ragazzo continua a girare il mondo per un po’ e dice: “Dio conforti la pover’anima!” Arriva a un fosso dove c’è uno scorticatore che ammazza un cavallo. Il giovane dice: “Buon giorno, Dio conforti la pover’anima!” - “Cosa dici, farabutto?” e gli dà in testa la mazza, da lasciarlo intontito. “Cosa devo dire, allora?” - “Devi dire: ‘Che tu possa finire in un fosso, carogna!’”

Egli se ne va e continua a dire: “Che tu possa finire in un fosso, carogna! Che tu possa finire in un fosso, carogna!” Vede arrivare una carrozza piena di gente e dice: “Buon giorno, che tu possa finire in un fosso, carogna!” Allora la carrozza cade in un fosso, e il cocchiere si mette a frustare il ragazzo che deve tornare da sua madre. E in tutta la sua vita non andò più a girare il mondo.
FINE





L'asinello
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 144



C'era una volta un re e una regina, che erano ricchi e avevano tutto quel che desideravano, ma non avevano figli. La regina se ne doleva giorno e notte e diceva: -Sono come un campo dove non cresce nulla-. Finalmente Dio la esaudì: quando però il piccolo venne al mondo, non aveva l'aspetto di un bimbo, ma di un asinello. Quando la madre lo vide, prese a piangere e a lamentarsi più che mai: avrebbe preferito non avere figli, piuttosto che avere un asino! E disse che bisognava buttarlo in acqua perché‚ lo mangiassero i pesci. Ma il re disse: -No, Dio ce l'ha dato, e sarà mio figlio e il mio erede; dopo la mia morte salirà al trono e porterà la corona regale-. Così l'asinello fu allevato, diventò grande e gli crebbero anche le orecchie, belle lunghe e diritte. Ed era d'indole allegra, saltava, giocava e aveva una particolare inclinazione per la musica, sicché‚ andò da un famoso musicista e disse: -Insegnami la tua arte, ch'io possa suonare il liuto come te-. -Ah, caro principino- rispose il musicista -vi sarà difficile, le vostre dita non sono proprio fatte per questo, sono troppo grosse; temo che le corde non reggano.- Ma non vi fu scusa che tenesse, l'asinello voleva suonare il liuto ad ogni costo, era ostinato e diligente e finì coll'imparare a suonarlo come il suo maestro. Un giorno, mentre andava a spasso soprappensiero, giunse a una fonte; vi guardò dentro e nell'acqua, chiara come uno specchio, vide riflessa la propria immagine di asinello.
Ne fu così avvilito che se ne andò per il mondo, seguito soltanto da un compagno fedele. Andarono di qua e di là, finché‚ giunsero in un regno, governato da un vecchio re, che aveva un'unica figlia, bellissima. L'asinello disse: -Ci fermeremo qui-. Bussò alla porta e gridò: -Qui fuori c'è un ospite: aprite che possa entrare-. Ma siccome non aprirono, si sedette, prese il liuto e si mise a suonarlo dolcemente con le zampe. Il guardiano fece tanto d'occhi, corse dal re e disse: -Là fuori, davanti alla porta, c'è un asinello che suona il liuto da maestro!-. -Fa' entrare il musicista- disse il re. Ma quando l'asinello entrò, tutti si misero a ridere di quel suonatore di liuto. Ora l'asinello avrebbe dovuto mangiare con i servi, ma si sdegnò e disse: -Non sono un volgare animale da stalla, ma un asinello nobile-. Allora gli dissero: -Se è così, mettiti con i soldati-. -No- rispose egli -voglio sedere vicino al re.- Il re si mise a ridere e disse allegramente: -E sia come vuoi, asinello, vieni qui con me-. Poi gli domandò: -Asinello, ti piace mia figlia?-. L'asinello volse la testa verso di lei, la guardò, annuì e rispose: -Moltissimo! Non ho mai visto fanciulla tanto bella-. -Bene, allora siediti anche vicino a lei- disse il re. -Volentieri!- rispose l'asinello. Sedette al suo fianco, mangiò e seppe comportarsi gentilmente e con cortesia. Dopo aver trascorso un certo periodo alla corte del re, la nobile bestiola pensò: "A che giova tutto ciò? Devi tornare a casa". Chinò tristemente il capo, si presentò al re e chiese commiato. Ma il re gli voleva bene e disse -Asinello, che cos'hai? Hai la faccia agra come l'aceto. Ti darò tutto ciò che desideri. Vuoi dell'oro?-. -No- rispose l'asinello, e scosse il capo. -Vuoi degli oggetti preziosi, dei gioielli?- -No.- -Vuoi metà del mio regno?- -Ah no!- -Se solo sapessi cosa ti può render felice! Vuoi la mia bella figlia in isposa?- -Ah, sì- disse l'asinello, e tornò d'un tratto allegro e di buon umore, poiché‚ era proprio quel che desiderava. Così si celebrarono le nozze con gran pompa. La sera, quando lo sposo e la sposa furono condotti nella loro cameretta, il re volle sapere se l'asinello si comportava sempre con grazia e a modo, e ordinò a un servo di nascondersi nella stanza. Quando furono entrati, lo sposo mise il catenaccio alla porta, si guardò attorno e, credendo di essere solo con la sposa, buttò via all'improvviso la sua pelle d'asino, e apparve come un bel giovane di sangue reale. -Vedi dunque chi son'io?- disse. -E che sono degno di te?- La sposa era felice, lo baciò e gli volle bene di cuore. Quando si fece mattino, però, egli balzò in piedi, indossò di nuovo la sua pelle d'asino e nessuno avrebbe mai immaginato chi vi fosse là sotto. Poco dopo arrivò anche il vecchio re -Ehi!- esclamò -l'asinello è già sveglio! Ti rende molto triste- disse alla figlia -non avere per marito un uomo?- -Ah no, caro babbo, l'amo come se fosse il più bello degli uomini e lo terrò per tutta la mia vita.- Il re si meravigliò; ma il servo, che si era nascosto nella camera, andò a rivelargli tutto. Disse il re: -Non ci crederò mai!-. -Vegliate voi stesso la prossima notte, e lo vedrete con i vostri occhi. E sapete, Maestà? Portategli via la pelle e gettatela nel fuoco, così sarà costretto a presentarsi con il suo vero aspetto.- -Il tuo consiglio mi piace- disse il re; e la sera, mentre dormivano, entrò di soppiatto nella camera, e, avvicinatosi al letto, vide al chiaro di luna uno splendido giovane addormentato; e la pelle d'asino giaceva a terra. Allora egli la portò via e fuori fece accendere un gran fuoco, vi fece buttare la pelle e rimase là davanti, finché‚ non fu ridotta in cenere. Ma siccome voleva vedere che cosa avrebbe fatto il derubato, vegliò tutta la notte, origliando. Quando il giovane si svegliò, alle prime luci dell'alba, si alzò e voleva indossare la pelle d'asino, ma non riusciva a trovarla. Allora si spaventò e disse, pieno di tristezza e di paura: -Ora devo cercare di fuggire-. Ma quando uscì, si trovò davanti il re, che disse: -Figlio mio, dove vai così di fretta? Resta qui! Sei così bello, non devi lasciarmi. Voglio darti metà del mio regno, e dopo la mia morte l'avrai tutto-. -Speriamo che tutto finisca bene com'è cominciato!- rispose il giovane -Resto con voi.- Allora il vecchio gli diede la metà del suo regno e l'anno dopo, alla sua morte, il giovane lo ereditò per intero. Inoltre, alla morte di suo padre, ebbe un altro regno ancora, e visse ricco e felice.
FINE





Il figlio ingrato
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 145



Un uomo e una donna se ne stavano seduti dinanzi all'uscio di casa; avevano davanti un pollo arrosto e volevano mangiarlo insieme. Ma l'uomo vide avvicinarsi il suo vecchio padre e, svelto, prese il pollo e lo nascose, perché‚ non voleva dargliene. Il vecchio venne, bevve un sorso e se ne andò. Il figlio volle riportare in tavola il pollo arrosto, ma quando fece per prenderlo, il pollo era diventato un grosso rospo, che gli saltò in faccia, vi si attaccò e non si mosse più; e se qualcuno voleva toglierlo, il rospo lo guardava invelenito, come se volesse saltare in faccia anche a lui, sicché‚ nessuno osava toccarlo. E il figlio ingrato dovette nutrire quel rospo tutti i giorni, altrimenti gli mangiava la faccia. E così egli andò errando per il mondo.
FINE





La rapa
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 146



C'erano una volta due fratelli che erano entrambi soldati, ma l'uno era ricco e l'altro povero. Il povero, per superare il disagio, lasciò l'uniforme e si mise a fare il contadino. Dissodò e zappò il suo pezzetto di terra, e seminò delle rape. La semente germogliò e crebbe una rapa che diventò grande e florida. Ingrossava a vista d'occhio e non finiva mai di crescere, sicché‚ la si sarebbe potuta chiamare principessa delle rape; perché‚ mai se n'era vista una simile, n‚ mai la si rivedrà. Finì coll'essere così grossa che occupava da sola un intero carro, e ci volevano due buoi per tirarla. E il contadino non sapeva che cosa farsene, n‚ sapeva se la rapa fosse la sua fortuna o la sua disgrazia. Infine pensò: "Se la vendi, cosa vuoi mai ricavarne? Se invece vuoi mangiartela, quelle piccole vanno bene lo stesso; la cosa migliore è portarla al re e fargliene omaggio". Così la caricò sul carro, attaccò i due buoi, la portò a corte e la regalò al re. -Che razza di stranezza è questa?- disse il re. -Di cose bizzarre ne ho viste tante, ma un simile mostro non lo avevo ancora mai trovato: da che seme può esser nata? Oppure riesce soltanto a te, e tu sei un favorito della fortuna?- -Ah no!- disse il contadino -non sono un favorito della fortuna; sono un povero soldato che, non potendo più campare, ha attaccato al chiodo l'uniforme e si è messo a coltivare la terra. Ho anche un fratello che è ricco, e voi, Maestà, lo conoscete bene; io invece, poiché‚ non possiedo nulla, sono dimenticato da tutti.- Allora il re s'impietosì e disse: -Ti toglierò dalla miseria e ti farò dei doni che ti metteranno alla pari del tuo ricco fratello-. Così gli regalò un mucchio d'oro, campi, prati e greggi, e lo fece così ricco, che la ricchezza del fratello non era nulla a paragone della sua. Quando questi venne a sapere quello che il fratello aveva guadagnato con una sola rapa, l'invidiò e si mise a rimuginare come potesse procurarsi anche lui una simile fortuna. Ma egli volle fare le cose con maggiore avvedutezza, prese oro e cavalli e li portò al re, convinto di riceverne in cambio un dono molto più grande. Infatti se suo fratello aveva ottenuto tanto per una rapa, cosa non sarebbe toccato a lui per quelle belle cose! Il re accettò il dono e disse che, in cambio, non avrebbe saputo dargli cosa più rara e preziosa della grossa rapa. Così il ricco dovette caricare sul carro la rapa del fratello e portarsela a casa. E qui non sapeva su chi sfogare la sua ira e la sua collera, finché‚ gli vennero dei pensieri cattivi e decise di uccidere il fratello. Assoldò dei sicari che fece appostare in agguato, poi andò dal fratello e gli disse: -Caro fratello, so di un tesoro nascosto: andiamo a prenderlo insieme e dividiamocelo-. All'altro l'idea piacque, e lo accompagnò senza sospettare nulla. Ma come uscirono gli assassini gli si precipitarono addosso, lo legarono e volevano impiccarlo a un albero. In quel mentre risuonò da lontano un canto e uno scalpitio, sicché‚ essi, spaventati, ficcarono in tutta fretta il loro prigioniero nel sacco, lo issarono su di un ramo e fuggirono. Egli invece là dentro si diede da fare finché‚ riuscì a bucare il sacco e a mettere fuori la testa. Ma il viandante non era altri che un giovane scolaro, che cavalcava nel bosco cantando allegramente la sua canzone. Quando l'uomo in cima all'albero si accorse che sotto stava passando qualcuno, gridò: -Salute, alla buon'ora!-. Lo scolaro si guardò attorno, senza sapere donde venisse la voce, e alla fine disse: -Chi mi chiama?-. E quello rispose dalla cima dell'albero: -Alza gli occhi! Sono quassù nel sacco della sapienza; in poco tempo ho imparato tali cose, che a confronto qualsiasi scuola non val nulla; fra un po' avrò imparato tutto, e allora scenderò e sarò più sapiente degli altri uomini. Conosco le costellazioni e i segni celesti, lo spirare di tutti i venti, la sabbia del mare, la cura delle malattie, le proprietà delle erbe, gli uccelli e le pietre. Se tu fossi qui dentro, sentiresti che meraviglia viene da questo sacco!-. All'udire tutto questo, lo scolaro si meravigliò e disse: -Benedetta sia l'ora in cui ti ho incontrato! Non potrei entrarci anch'io per un po'?-. Ma quello in cima rispose quasi controvoglia: -Pagando e pregando ti lascerò venirci un pochino, ma devi aspettare un'ora: c'è ancora un pezzo che devo imparare-. Dopo avere atteso un po', lo scolaro si annoiò e lo pregò di lasciarlo entrare nel sacco: la sua sete di sapienza era troppo grande. Allora quello in cima finse di cedere e disse: -Perché‚ io possa uscire dalla casa della sapienza, devi allentare la fune per far venire giù il sacco, così ci entrerai tu-. Lo scolaro lo fece scendere, slegò il sacco, lo liberò e poi gridò: -Adesso tirami su in fretta!- e voleva entrare nel sacco dritto in piedi. -Alt!- disse l'altro -così non va!- Lo prese per la testa, lo mise nel sacco a gambe in su, lo legò e, con la fune, issò sull'albero il discepolo della sapienza, facendolo penzolare per aria; poi disse: -Come va, camerata? Ecco che ti senti già venire la sapienza: è un'ottima esperienza. Sta' lì tranquillo, finché‚ diventi più furbo-. Poi montò sul cavallo dello scolaro e se ne andò.
FINE





Traduzioni:


Il fuoco che ringiovanisce
tempo: 4'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 147



Al tempo in cui Nostro Signore girava ancora sulla terra, una sera si fermò con san Pietro da un fabbro, e fu bene accolto. Ora avvenne che entrò in quella casa un povero mendicante, oppresso dalla vecchiaia e dai malanni, e chiese la carità al fabbro. San Pietro ne ebbe pietà e disse: -Signore e Maestro, se non ti spiace, guariscilo dal suo male, perché‚ possa guadagnarsi il pane da s‚-. Il Signore disse dolcemente: -Fabbro, imprestami la tua fucina, e mettici del carbone: voglio ringiovanire il vecchio infermo-. Il fabbro era pronto, san Pietro tirò il mantice, e quando le fiamme divamparono belle alte, Nostro Signore prese il vecchietto e lo spinse nella fucina in mezzo al fuoco rosso, sicché‚ egli ardeva come un rosaio e lodava Iddio a gran voce. Poi il Signore si avvicinò alla tinozza, vi mise dentro l'omino arroventato, in modo che l'acqua lo ricoprisse, e quando si fu freddato per bene, gli diede la sua benedizione. Subito l'omino saltò fuori agile, dritto e sano come se avesse vent'anni. Il fabbro, che aveva guardato tutto quanto con molta attenzione, li invitò tutti a cena. Egli aveva una vecchia suocera gobba e mezza cieca, che si rivolse al giovane e gli chiese con aria grave se il fuoco lo avesse scottato molto. Quello rispose che non era mai stato così bene: tra le fiamme era stato come nella fresca rugiada. Queste parole risuonarono alle orecchie della vecchia tutta la notte e di buon mattino, quando il Signore ebbe ripreso il suo cammino dopo aver ringraziato il fabbro, questi credette di poter anche lui ringiovanire la sua vecchia suocera, perché‚ aveva osservato tutto per bene, e poi si trattava di cose di sua competenza. Così domandò alla suocera se anche lei voleva saltare come una fanciulla di diciotto anni. -Di tutto cuore!- diss'ella, dato che all'altro era andata così bene. Allora il fabbro accese un gran fuoco e ci spinse la vecchia che si torse di qua e di là, mandando orribili grida. -Sta' tranquilla! perché‚ gridi e salti a quel modo? Adesso soffierò per bene!- E tirò nuovamente il mantice finché‚ le si bruciarono tutti i cenci. La vecchia si mise a gridare senza posa e il fabbro pensò: "Qui c'è qualcosa che non va!". La tirò fuori e la buttò nella tinozza. Allora ella gridò a squarciagola, che di sopra l'udirono la moglie del fabbro e sua nuora: corsero tutt'e due giù per le scale e videro la vecchia che urlava e strillava, tutta rattrappita nella tinozza, con il viso raggrinzito, pieno di rughe e stravolto. E siccome le due donne aspettavano entrambe un bambino, si spaventarono tanto che, quella stessa notte, partorirono due creature che non avevano l'aspetto di uomini, ma di scimmie; corsero nel bosco, e la razza delle scimmie discende da loro.
FINE





Le bestie del Signore e quelle del diavolo
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 148



Nostro Signore aveva creato tutti gli animali e aveva scelto i lupi che gli facessero da cani; aveva dimenticato soltanto la capra. Allora ci si mise il diavolo: anche lui voleva creare qualcosa, e fece le capre con le code lunghe e sottili. Quando andavano a pascolare nella brughiera, le code s'impigliavano sempre ai rovi, e il diavolo doveva andar là in mezzo e scioglierle con gran fatica. Alla fine perse la pazienza e con un morso staccò a tutte la coda, come si può vedere ancora oggi dai mozziconi. Ora le lasciava pascolare da sole, ma avvenne che Nostro Signore le vedesse mentre rosicchiavano un albero da frutta, o mentre danneggiavano le viti preziose, o mentre rovinavano altre piante delicate. Ciò gli spiacque, sicché‚, per bontà e misericordia, aizzò i suoi lupi che ben presto sbranarono le capre che passavano di là. Quando il diavolo lo venne a sapere, si presentò al Signore e disse: -Le tue creature hanno sbranato le mie-. Il Signore rispose: -Le avevi create per il male-. Il diavolo disse: -Naturalmente! Come il mio spirito tende al male, ciò che ho creato non poteva essere diverso; e tu me la pagherai cara-. -Te la pagherò appena cadono le foglie delle querce; allora vieni e troverai il denaro contato.- Quando le foglie delle querce furono cadute; il diavolo venne e pretese ciò che gli spettava. Ma il Signore disse: -Nella chiesa di Costantinopoli c'è un'alta quercia che ha ancora tutte le sue foglie-. Smaniando e bestemmiando, il diavolo corse a cercare la quercia; errò sei mesi nel deserto, prima di trovarla, e quando tornò tutte le altre querce si erano ricoperte di foglie verdi. Così dovette rinunciare al suo credito, e per la rabbia cavò gli occhi alle capre rimaste e li sostituì con i suoi. Per questo tutte le capre hanno gli occhi da diavolo e le code mozze; e il diavolo prende volentieri il loro aspetto.
FINE





La trave del gallo
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 149



C'era una volta un mago che compiva le sue stregonerie in mezzo a una gran folla. E fece venire avanti maestosamente un gallo, che sollevò una pesante trave e la portò come se fosse una piuma. Ma c'era una ragazza che aveva trovato un quadrifoglio, e per questo era diventata così saggia, che davanti a lei non c'era magia che tenesse; infatti vide che la trave non era altro che un filo di paglia. Allora gridò: -Gente, non vedete? E' solamente una pagliuzza, non è una trave quella che porta il gallo!-. Subito l'incanto cessò, la gente vide di che si trattava, e il mago fu cacciato in malo modo. Ma, pieno di rabbia, egli disse fra s‚: -Mi vendicherò-. Dopo qualche tempo la ragazza doveva sposarsi e, tutta ben vestita, se ne andava per i campi con un gran corteo, verso il villaggio dove si trovava la chiesa. D'un tratto si trovarono davanti a un ruscello molto ingrossato, e non vi era ponte n‚ passerella per attraversarlo. La sposa fu svelta: alzò le vesti è fece per guadarlo. Ma come fu in mezzo all'acqua, un uomo vicino a lei, ed era lo stregone, grida beffardo: -Ehi, dove hai gli occhi per credere che sia acqua?-. Allora gli occhi le si aprirono ed ella vide che se ne stava con le vesti rialzate in un campo azzurro di lino fiorito. Lo videro anche tutti gli altri, e la cacciarono via con risa e oltraggi.
FINE





La vecchia mendicante
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 150



C'era una volta una vecchia; hai già visto una vecchia che va a mendicare? Anche questa mendicava, e quando le davano qualcosa, diceva: -Dio vi ricompensi!-. La mendicante giunse a una porta e là, davanti al fuoco, c'era un simpatico monello che si scaldava. Il ragazzo disse gentilmente alla povera vecchia, che se ne stava sulla soglia tutta tremante: -Venite, nonnina, e scaldatevi-. Ella si avvicinò, ma si accostò troppo al fuoco, sicché‚ i suoi vecchi stracci presero ad ardere, senza ch'ella se ne accorgesse. Il ragazzo era là che guardava: non avrebbe forse dovuto spegnere? Vero che avrebbe dovuto spegnere? E se non avesse avuto acqua, avrebbe dovuto versare dagli occhi tutta l'acqua che aveva in corpo, così avrebbe avuto due bei ruscelletti per spegnere!
FINE





I tre pigri
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 151



Un re aveva tre figli che amava in egual maniera, e non sapeva chi dovesse nominare suo successore dopo la sua morte. Quando fu in punto di morte, li chiamò a s‚ e disse: -Cari figlioli, ho pensato una cosa che voglio dirvi: il più pigro di voi diventerà re alla mia morte-. Allora il maggiore disse: -Babbo, il regno spetta a me, perché‚ sono talmente pigro che, se mi stendo e voglio dormire, e mi cade una goccia negli occhi, non ho voglia di chiuderli per addormentarmi-. Il secondo disse: -Babbo, il regno spetta a me, perché‚ sono talmente pigro che, se mi siedo accanto al fuoco per scaldarmi, mi lascio bruciare le piante dei piedi, piuttosto che tirare indietro le gambe-. Il terzo disse: -Babbo, il regno spetta a me, perché‚ sono così pigro che, se dovessero impiccarmi e avessi già il capestro al collo, e uno mi desse in mano un coltello affilato con il quale poterlo tagliare, mi lascerei impiccare piuttosto che alzare la mano-. All'udirlo il padre disse: -Tu sarai il mio successore-.
FINE





Il pastorello
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 152



C’era una volta un pastorello, famoso ovunque per le risposte sagge che dava a qualsiasi domanda. Ne sentì parlare anche il re di quel paese, ma non ci credette e lo fece chiamare. Gli disse: “Se saprai rispondere a tre domande che ti farò, ti terrò come se fossi mio figlio e abiterai con me nel mio castello regale.” Disse il fanciullo: “Quali sono le tre domande?” Il re disse: “Questa è la prima: quante gocce d’acqua ci sono nel mare?” Il pastorello rispose: “Maestà, fate chiudere tutti i fiumi della terra, in modo che non ne venga neanche più una gocciolina ch’io non abbia già contata, e vi dirò quante gocce ci sono nel mare.” Disse il re: “Questa è la seconda domanda: quante stelle ci sono in cielo?” Il pastorello rispose: “Datemi un gran foglio di carta bianca.” Poi, con la penna, vi fece tanti puntini, che si potevano appena vedere, ma non si potevano contare; se li si guardava, facevano venire il capogiro. Poi disse: “In cielo ci sono tante stelle, quanti sono i punti su questo foglio; contateli!” Ma nessuno era in grado di farlo. Disse il re: “Questa è la terza domanda: quanti secondi ha l’eternità?” Il pastorello rispose: “Nella Pomerania orientale c’è il Monte di Diamante, che si estende un’ora in altezza, un’ora in larghezza e un’ora in profondità. Ogni cento anni un uccellino va là ad affilare il suo beccuccio; quando avrà consumato tutto il monte, sarà trascorso un secondo dell’eternità.”

Disse il re: “Hai risposto alle tre domande come un saggio, e d’ora in poi starai con me nella reggia e ti terrò come se fossi mio figlio.”
FINE

La pioggia di stelle
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 153



C'era una volta una bambina, che non aveva più nè babbo nè mamma, ed era tanto povera, non aveva neanche una stanza dove abitare nè un lettino dove dormire; insomma, non aveva che gli abiti indosso e in mano un pezzetto di pane, che un'anima pietosa le aveva donato. Ma era buona e brava e siccome era abbandonata da tutti, vagabondò qua e là per i campi fidando nel buon Dio.

Un giorno incontrò un povero, che disse: “Ah, dammi qualcosa da mangiare! Ho tanta fame!” Ella gli porse tutto il suo pezzetto di pane e disse: “Ti faccia bene!” e continuò la sua strada. Poi venne una bambina, che si lamentava e le disse: “Ho tanto freddo alla testa! Regalami qualcosa per coprirla.” Ella si tolse il berretto e glielo diede. Dopo un pò ne venne un'altra bambina, che non aveva indosso neanche un giubbetto e gelava; ella le diede il suo. E un pò più in là un'altra le chiese una gonnellina, ella le diede la sua. Alla fine giunse in un bosco e si era già fatto buio, arrivò un'altra bimba e le chiese una camicina; la buona fanciulla pensò: “E' notte fonda nessuno ti vede puoi ben dare la tua camicia.” Se la tolse e diede anche la camicia.

E mentre se ne stava là, senza più niente indosso, d'un tratto caddero le stelle dal cielo, ed erano tanti scudi lucenti e benchè avesse dato via la sua camicina ecco che ella ne aveva una nuova, che era di finissimo lino. Vi mise dentro gli scudi e fù ricca per tutta la vita.
FINE





Il centesimo rubato
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 154



Una volta, a mezzogiorno, un uomo sedeva a tavola con la moglie, i suoi bambini e un amico che era venuto a trovarli. Mentre se ne stavano là, allo scoccare delle dodici, l'ospite vide la porta aprirsi e entrare un bimbo molto pallido, tutto vestito di bianco. Il bimbo non si guardò attorno e non disse nulla, ma andò dritto filato nella stanza accanto. Poco dopo tornò indietro e uscì dalla porta, sempre in silenzio. Il secondo e il terzo giorno tornò di nuovo. Alla fine l'ospite domandò al padre di chi fosse quel bel bambino, che entrava sempre nella stanza a mezzogiorno. -Non l'ho visto- rispose il padre -e non saprei dire di chi sia.- Il giorno seguente, quando il bambino tornò, l'ospite lo mostrò al padre, che però non lo vide, n‚ lo videro la madre e i bambini. Allora l'ospite si alzò, andò alla porta della stanza, la socchiuse e vi guardò dentro. E vide il bambino, seduto per terra, che frugava e rovistava premurosamente con le dita nelle fessure del pavimento, ma quando scorse l'estraneo scomparve. Questi raccontò quel che aveva visto e descrisse il bambino con esattezza; allora la madre lo riconobbe e disse: -Ah, è il mio caro bambino, che è morto un mese fa!-. Scostarono le assi del pavimento, e trovarono due centesimi che una volta il bambino aveva avuto da sua madre, perché‚ li desse a un povero. Ma il bimbo aveva pensato: "Puoi comprarti invece un biscotto!" e si era tenuto i soldi nascondendoli nelle fessure del pavimento. Così non aveva pace nella tomba, e a mezzogiorno veniva sempre a cercarli. I genitori diedero quel denaro a un povero e da allora il bambino non si vide più.
FINE





La scelta della sposa
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 155



C'era una volta un giovane pastore che si sarebbe sposato volentieri, e conosceva tre sorelle, una più bella dell'altra, sicché‚ la scelta era difficile, ed egli non sapeva decidere a chi dare la preferenza. Allora domandò consiglio a sua madre, che disse: -Invitale tutt'e tre, offri loro del formaggio e guarda come lo tagliano-. E così fece; ma la prima inghiottì il formaggio con la crosta; la seconda tagliò via la crosta in gran furia, così di furia che vi lasciò attaccato del formaggio, e buttò via tutto insieme; la terza invece, levò la crosta per bene, n‚ troppo n‚ poco. Il pastore raccontò tutto a sua madre, che disse: -Sposa la terza-. Così egli fece, e visse con lei, felice e contento.
FINE





Gli scarti
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 156



C'era una volta una fanciulla che era bella, ma pigra e trascurata. Quando doveva filare, era così seccata che se il lino aveva un piccolo nodo, ne strappava subito un mucchio e lo buttava a terra, tutto ingarbugliato. Ora ella aveva una servetta laboriosa, che raccolse il lino scartato, lo pulì, lo filò sottile, e con esso si fece fare un bel vestito. Quando quella pigrona si sposò, e si stavano per celebrare le nozze, la fanciulla laboriosa danzava allegramente nel suo bel vestito, e la sposa disse:-Guarda, guarda, la ragazzina. Con ciò che scarto s'è fatta un vestito. Così agghindata è proprio carina, è bella a tempo, a menadito!-Lo sposo l'udì e le domandò che cosa volesse dire. Allora ella gli raccontò che la ragazza portava un vestito fatto con il lino che lei aveva scartato. All'udirla lo sposo si accorse della sua pigrizia e della laboriosità della servetta; perciò piantò la fidanzata, andò dall'altra e la prese in moglie.
FINE





Il passero e i suoi quattro figli
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 157



Un passero aveva quattro piccoli in un nido di rondine. Quando misero le penne, dei ragazzi cattivi sfasciarono il nido, ma tutti e quattro riuscirono fortunatamente a fuggire nel turbinio del vento. Ora il padre si duole che i suoi figli se ne vadano per il mondo prima che egli abbia potuto metterli in guardia contro tutti i pericoli, o dato loro buoni consigli. D'autunno molti passeri si radunano in un campo di grano, e il padre trova i suoi quattro figli e, pieno di gioia, li porta a casa con s‚. -Ah, miei cari figlioli, quante preoccupazioni mi avete dato quest'estate, quando ve ne siete andati nel vento senza i miei consigli! Ascoltate le mie parole, ubbidite a vostro padre e fate bene attenzione: gli uccellini piccoli corrono gravi rischi!- Poi domandò al maggiore dove fosse stato durante l'estate e come si fosse nutrito. -Mi sono fermato nei giardini a cercare bruchi e vermiciattoli, fin che sono maturate le ciliegie-. -Ah, figlio mio!- disse il padre -l'abbondanza va bene, ma è anche pericolosa; perciò d'ora in poi fa' bene attenzione soprattutto se nei giardini gira della gente con delle lunghe pertiche verdi, che sono vuote all'interno, ma con un forellino in cima.- -Sì, babbo; ma se sul forellino vi fosse attaccata con la cera una foglietta verde?- disse il figlio. -Dove l'hai visto?- -Nel giardino di un mercante- rispose l'uccellino. -Oh, figlio mio!- disse il padre -i mercanti: tutti lestofanti! Sei stato con uomini di mondo e hai imparato a essere avveduto: bada di fare buon uso, e non fidarti troppo di te stesso.- Poi domandò al secondo: -E tu dove sei stato?-. -A corte- rispose il figlio. -I passeri e gli uccellini sciocchi non stanno bene a corte, dove c'è tanto oro, velluto, sete, armi e corazze, sparvieri, civette e falchi; resta nella stalla dove si vaglia l'avena o dove si trebbia, e ti toccheranno in santa pace i tuoi granelli quotidiani.- -Sì, babbo- disse il figlio -ma se gli stallieri fanno delle trappole, nascondendo nella paglia reti e lacci, molti ci restano presi.- -Dove l'hai visto?- chiese il vecchio. -A corte, dal palafreniere.- -Oh, figlio mio, i cortigiani: falsi e ruffiani! Sei stato a corte, con i signori, e non ci hai lasciato neanche una penna, hai imparato a sufficienza e saprai cavartela al mondo. Tuttavia, guardati attorno e sta' attento: spesso i lupi mangiano anche i cagnolini giudiziosi.- Il padre chiamò anche il terzo a s‚: -Dove hai tentato la tua fortuna?-. -Ho messo l'argano sulle strade maestre e sulle carrozzabili, e a volte ho trovato un granello o un bruco.- -E' davvero un cibo fine- disse il padre -ma sta' bene attento e guardati spesso attorno, soprattutto se qualcuno si china a prendere un sasso, non ti conviene stare ad aspettarlo.- -E' vero- rispose il figlio -ma se uno avesse già una pietra in tasca o in seno?- -Dove l'hai visto?- -Dai minatori, caro babbo, quando escono con il carro, di solito portano delle pietre con s‚.- -Artigiani e minatori hanno menti superiori! Se sei stato con i minatori, hai visto e imparato qualcosa. Va' pure, ma bene in guardia devi stare: i minatori, passeri e coboldi sanno ammazzare!-Infine il padre arrivò al fratello minore: -Tu, mio caro diavoletto, sei sempre stato il più sciocco e il più debole; resta con me, il mondo ha troppi uccellacci cattivi, che hanno becchi adunchi e artigli affilati, e non fanno che insidiare i poveri uccellini per divorarli; rimani con i tuoi pari, e prendi i ragnetti e i bruchi degli alberi e delle casette, e sarai felice a lungo-. -Oh, caro babbo, chi vive senza procurare danno agli altri va lontano, e non c'è sparviero, avvoltoio, aquila o nibbio che possa nuocergli, soprattutto se ogni sera e ogni mattina raccomanda con devozione se stesso e il proprio onesto nutrimento al buon Dio, che è il creatore e sostenta tutti gli uccellini del bosco e del villaggio, e che ascolta anche le grida e le preghiere dei piccoli corvi; poiché‚, senza il suo volere, non cade n‚ un passero n‚ uno scricciolo.- -Dove l'hai imparato?- Il figlio rispose: -Quando quel gran vento mi strappò da te, giunsi in una chiesa; là, per tutta l'estate, levai mosche e ragni dalle finestre e sentii predicare quel detto; e il padre di tutti i passeri mi ha nutrito per tutta l'estate e protetto da ogni sventura e dagli uccelli malvagi-. -In fede mia! Mio caro figliolo, se voli nelle chiese e aiuti a fare piazza pulita dei ragni e delle mosche che ronzano, e pigoli a Dio come i piccoli corvi, e ti raccomandi all'eterno Creatore, ti troverai bene anche se il mondo fosse pieno di perfidi uccelli crudeli. Chi al buon Dio si vuol raccomandare sa tacere, soffrire, attendere, pregare, aver fede e la coscienza pulita conservare, e il Buon Dio lo vorrà aiutare!-.
FINE





La favola del paese di Cuccagna
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 158



Al tempo in cui c'era la Cuccagna, andando a spasso, vidi appesi a un filo di seta Roma e il Laterano, e un uomo senza piedi che sorpassava un cavallo veloce, poi una spada così tagliente che spaccava un ponte. E vidi un asinello con il naso d'argento che inseguiva due svelte lepri, e un tiglio, bello grande, sul quale crescevano le focacce calde. Poi vidi una vecchia capra rinsecchita che si portava addosso cento carri di strutto e sessanta carri di sale. Vi ho mentito abbastanza? Ebbene, ho visto un aratro che arava senza buoi n‚ cavallo, e un bambino di un anno buttare quattro macine di Ratisbona a Treviri e da Treviri fino a Strasburgo, e uno sparviero passava a nuoto il Po, e niente era più giusto. Poi ho sentito i pesci fare un chiasso che rimbombava fino in cielo, e un dolce miele che scorreva come acqua da una valle profonda su di un'alta montagna. Erano strane storie. E c'erano due cornacchie che falciavano un prato, e vidi due zanzare che costruivano un ponte, e due colombe che stritolavano un lupo, due caprettini figli di due bambini e due rane che battevano insieme il grano. Poi ho visto due topi consacrare un vescovo, e due gatti che avevano strappato la lingua a un orso. E venne una chiocciola di corsa ad ammazzare due feroci leoni. E c'era un barbiere che sbarbava una donna, e due lattanti che ordinavano alle madri di tacere. E vidi due levrieri portare via dal fiume un mulino, e una vecchia rozza lì vicino dire che facevano bene. E nell'aia c'erano quattro cavalli che trebbiavano il grano con tutte le loro forze, e due capre che accendevano il forno e una mucca rossa che infornava il pane. E una gallina cantò: chicchirichì, la favola è finita, chicchirichì.
FINE





Filastrocca di bugie
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 159



Voglio raccontarvi una storia. Ho visto due polli arrosto volare, volavano svelti con le pance rivolte al cielo e le schiene all'inferno; e un'incudine e una macina passavano a nuoto il Reno, piano piano, senza fretta; e una rana, a Pentecoste, se ne stava sul ghiaccio a mangiare un vomere. E c'erano tre tizi che inseguivano una lepre e andavano con le grucce e le stampelle; e il primo era sordo, il secondo cieco, e il terzo muto, e il quarto aveva i piedi rattrappiti. Volete sapere come andò? Il cieco vide per primo la lepre trottare per il campo, il muto chiamò lo storpio, e lo storpio l'acchiappò. Quei tali che volevano navigare per terra, spiegarono le vele al vento e navigarono sui campi spaziosi; poi navigarono su di un alto monte e dovettero affogare miseramente. Un gambero rincorreva una lepre, e in cima al tetto c'era una mucca che si era arrampicata fin lassù. E in quel paese le mosche sono grandi come le nostre capre.
FINE





Fiaba indovinello
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 160



Tre donne erano state trasformate in fiori in mezzo al campo, tuttavia una di loro poteva passare la notte a casa sua. Una volta, sul fare del giorno, quando doveva tornare dalle sue compagne nel campo per tramutarsi in fiore, ella disse al marito: “Se stamattina vieni a cogliermi, sarò libera e rimarrò sempre con te.” E così avvenne. Domanda: come ha potuto riconoscerla il marito, se i fiori erano tutti uguali e senza differenze?

Risposta: “Poiché‚ aveva trascorso la notte in casa sua, e non nel campo, la rugiada non l'aveva bagnata come le altre due. Così il marito la riconobbe.”
FINE





Biancaneve e Rosarossa
tempo: 17'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 161



C'era una volta una povera vedova, che viveva in una modesta casetta con le sue due bambine. Le aveva chiamate Biancarosa e Rosella perché erano simili ai boccioli rossi e bianchi dei rosai che crescevano davanti a casa sua: esse erano buone, pie, laboriose e gentili. Biancarosa era più tranquilla e remissiva, Rosella più spensierata e vivace. A Rosella piaceva correre e saltare per i prati, andare a caccia di farfalle e cogliere fiori campestri, mentre Biancarosa stava volentieri in casa ad aiutare la mamma nelle faccende, oppure le leggeva qualche libro mentre essa cuciva. Le due bambine si volevano molto bene e si tenevano per la mano quando andavano fuori insieme: dicevano che non si sarebbero mai separate e che avrebbero sempre diviso fraternamente ogni cosa. Spesso si addentravano parecchio nella foresta a cercare fragole e mirtilli, ma gli animali feroci non facevano loro alcun male. Le lepri venivano a mangiare le foglie di cavolo che le bimbe porgevano loro, i caprioli pascolavano senza timori, le capre saltellavano intorno giocando, e gli uccellini rimanevano a gorgheggiare sui cespugli senza fuggire al loro avvicinarsi. Non capitava loro mai niente di male e, se indugiavano nella foresta e la notte le sorprendeva, si sdraiavano sul muschio e dormivano tranquille fino alla mattina dopo. La mamma non aveva alcun timore, pur sapendole sole nel bosco.

Una volta, dopo aver così trascorso la notte nella foresta, quando l’alba le svegliò videro una bella fanciulla vestita di un bianco abbagliante che stava seduta vicino al loro giaciglio. Ella s’alzo guardandole con amore e, senza dir nulla, rientrò nella foresta. Quando le bimbe si guardarono intorno, si accorsero che il luogo dove avevano dormito era sull’orlo di un precipizio, nel quale sarebbero certo precipitate se nel buio avessero fatto due passi di più. La mamma disse che l’apparizione che avevano veduta era, senza dubbio, uno degli angeli che proteggono i bambini buoni da ogni pericolo. Biancarosa e Rosella tenevano la loro casetta così pulita che era un vero piacere entrarvi. Ogni mattina, nell’estate, Rosella metteva prima in ordine la casa e poi coglieva un mazzolino di fiori per la mamma, e ci metteva sempre un bocciolo bianco e uno rosso che prendeva da ciascuno dei due rosai. Ogni mattina, nell’inverno, Biancarosa accendeva il fuoco e vi poneva sopra, piena d’acqua, la caffettiera, che, benché fosse di rame, splendeva come l’oro tanto era ben lucidata. La sera, quando cadevano i fiocchi di neve, la mamma diceva: "Biancarosa, và a chiudere la porta con il catenaccio" e poi si sedevano intorno al camino e la mamma si metteva gli occhiali per leggere un grosso libro a voce alta, mentre le bambine filavano. Accanto a loro stava accucciato un agnellino domestico e dietro, appollaiato sopra una pertica, c’era un piccioncino bianco, che dormiva con la testa sotto l’ala.

Una sera, mentre sedevano così pacificamente, si sentì un colpo alla porta, come se qualcuno volesse entrare. "Presto, Rosella," esclamò la madre "presto, apri la porta, ci sarà qualche viaggiatore che ha bisogno di asilo." Rosella tirò il catenaccio e aprì la porta, aspettandosi di vedere un povero uomo; invece, fu un orso grosso e grasso che fece capolino. Rosella cacciò un grido e tornò indietro di corsa, l’agnellino belò, il piccione svolazzò sulla pertica e Biancarosa si nascose dietro il letto della mamma. L’orso, però, si mise a parlare e disse: "Non abbiate paura, non vi voglio fare del male, ma sono mezzo congelato e vorrei scaldarmi un poco." "Povero orso!" esclamò la mamma, "vieni dentro e sdraiati davanti al fuoco, ma stà attento a non bruciarti il pelo" e poi continuò: "Venite qui, Rosella e Biancarosa, non abbiate timore, l’orso non vi farà del male: vedete che le sue intenzioni sono buone." Così esse si avvicinarono e pian piano anche l’agnello e il piccione dominarono la loro paura e fecero buona accoglienza al rude visitatore. "Bambine," disse l’orso prima di entrare "venite a scuotermi di dosso la neve." Esse andarono a prendere le scope e gliela spazzarono via tutta. Allora l’orso si distese davanti al fuoco e fremeva dalla contentezza; a poco a poco le bambine presero tanta confidenza con lui da osare fargli degli scherzi: gli tiravano il pelo, gli mettevano i piedi sulla schiena, lo facevano rotolare avanti e indietro e arrivarono perfino a picchiarlo col battipanni, ridendo quando lui brontolava. L’orso sopportava serenamente tutti questi giochi e se picchiavano troppo forte esclamavano:

La vita a me lasciate, Biancarosa e Rosella, o mai vi maritate!

Quando venne l’ora di andare a letto e le bimbe si coricarono, la madre disse all’orso: "Puoi dormire qui davanti al camino, se vuoi; così starai al riparo dal freddo e dal cattivo tempo." Appena spuntò l’alba, le bambine fecero uscire l’orso che se ne trotterellò via sopra la neve: e ben presto prese l’abitudine di tornare alla capanna ogni sera alla stessa ora. Si sdraiava davanti al fuoco e lasciava che le bambine giocassero con lui finché volevano: a poco a poco esse si abituarono talmente alla sua presenza che non mettevano il catenaccio alla porta finché non era arrivato. Ma appena tornò la primavera e tutto era verde nella campagna, una mattina l’orso disse a Biancarosa che doveva lasciarla e non sarebbe tornato per tutta l’estate. "Dove vai, allora, caro orso?" chiese Biancarosa. "Sono costretto a stare nella foresta per custodire i miei tesori dai nani cattivi. Durante l’inverno, quando il gelo indurisce la terra, essi se ne devono stare rintanati nelle loro grotte e non possono uscire, ma ora che il sole ha riscaldata la terra e l’ha ammorbidita, i nani scavano lunghe gallerie e rubano tutto quello che trovano. Ciò che è passato nelle loro mani e che essi nascondono nelle loro grotte non si può riavere facilmente."

Biancarosa era molto triste per la partenza dell’orso, e gli aprì la porta così malvolentieri, che, quand’esso sgattaiolò dalla fessura, lasciò sulla maniglia un pezzetto di pelliccia: e nel buco prodottosi nel suo mantello parve a Biancarosa di intravedere un luccichio d’oro; ma non ne fu sicura. L’orso, pertanto, se n’andò in fretta, e fu presto nascosto dagli alberi. Poco tempo dopo, la mamma mandò le bimbe nel bosco a raccogliere legna e, mentre erano intente a cercare ramoscelli secchi sparsi sul terreno, s’imbatterono in un albero caduto attraverso al viottolo. Videro qualcosa tra l’erba che andava su e giù e non capirono dapprima che fosse: ma quando si furono avvicinate, videro un nano dalla faccia vecchia e grinzosa, e dalla candida barba lunga un metro. La punta di questa barba era incastrata in una fessura del tronco e l’omino saltava qua e là come un cane legato a catena, non sapendo come fare a liberarsi. Guardò le bambine con gli occhi fiammeggianti ed esclamò: "Che cosa fate lì senza muovervi? Non ve ne andrete senza aiutarmi, vero?" "Che cosa avete fatto, nonnino?" domandò Rosella. "Quanto sei sciocca e curiosa" esclamò quello, "volevo spaccare l’albero per fare legna per la mia cucina. Avevo messo il cuneo e tutto procedeva bene, quando esso è saltato via a un tratto e la spaccatura si è richiusa così presto che non ho fatto in tempo a tirare indietro la mia bella barba, e ora è presa lì dentro e non posso andarmene. Ecco! Non ridete, visi di cartapesta? Siete dunque rimaste incantate?" Le bambine riunirono i loro sforzi per tirare fuori la barba del nano, ma non vi riuscirono. "Corro a cercare aiuto" gridò Rosella alla fine. "Sei un cervello sciocco e una testa bacata" gridò il nano. "Che bisogno c’è di chiamare altra gente? Voi due siete anche di troppo per me; non potete trovare altro rimedio?" "Non vi spazientite," replicò Biancarosa "ho pensato a qualcosa" e, tirando fuori dalla tasca le sue forbicine, tagliò la punta della barba.

Appena il nano si sentì libero, afferrò il suo sacco, che era nascosto fra le radici dell’albero ed era pieno d’oro. Ma si guardò bene dal mostrarsi riconoscente: si gettò sulle spalle la bisaccia e se ne andò con aria corrucciata, brontolando e gridando: "Stupide, tagliare un pezzo della mia barba!" Un po’ di tempo dopo, Biancarosa e Rosella se n’andarono a pescare; quando si avvicinarono allo stagno, videro qualcosa che sembrava una grossa cavalletta e che saltellava sulla riva come se stesse per balzare nell’acqua. Corsero a vedere e riconobbero il nano. "Che cosa state facendo?" domandò Rosella. "Cadrete nell’acqua!" "Non sono tanto scemo," rispose il nano "ma non vedete che questo pesce mi ci tira dentro!" Il nano stava pescando e il vento aveva imbrogliato la sua barba col filo della lenza in modo che, quando un grosso pesce aveva abboccato all’amo, le forze del piccolo essere non erano più state sufficienti a tirarlo su e il pesce era sul punto di avere la meglio nella lotta. Il nano si aggrappava ai salici e ai cespugli che crescevano sulla riva, ma anche questo non serviva; il pesce lo tirava dove voleva e lo avrebbe portato ben presto nello stagno. Per fortuna le due fanciulle arrivarono in tempo e cercarono di liberare la barba del nano dal filo della lenza; ma essa si era talmente attorcigliata che non fu più possibile sciogliere quell’intrico. Biancarosa tirò fuori le forbici una volta ancora e tagliò un altro pezzo di barba. Quando il nano se ne accorse, montò su tutte le furie ed esclamò: "Sciocche! E’ questa la maniera di sfigurarmi? Non vi bastava tagliarmela una volta, ora dovete anche togliermene la parte migliore? Non avrò più il coraggio di farmi vedere dalla mia gente. Sarebbe stato meglio che vi fossero andate via le suole dalle scarpe prima di arrivare qui!" Ciò dicendo, sollevò un sacco di perle che stava fra i cespugli e, senza aggiungere parola, scivolò via e sparì dietro una pietra.

Non molto tempo dopo quest’avventura, la mamma di Rosella e Biancarosa ebbe bisogno di filo, aghi, spilli, merletti e nastri, e mandò le figliole a comprarli nella città più vicina. La strada passava per una zona dove numerosi massi erano disseminati qua e là, ed esse scorsero, proprio al disopra delle loro teste, un grande uccello che volava a spirale abbassandosi via via finché, a un tratto, piombò dietro a uno di quei massi. Udirono subito un grido lacerante e, correndo, videro con orrore che l’aquila aveva afferrato il loro vecchio conoscente, il nano, e cercava di portarlo via. Le bimbe compassionevoli lo afferrarono a loro volta e lo tennero forte finché l’uccello rinunciò a lottare e se ne volò via. Però, appena il nano si riebbe dalla paura, esclamò con la sua vocetta acuta: "Non potevate tenermi con più garbo? Avete afferrato la mia giacca marrone in modo tale che è tutta strappata e piena di buchi. Ficcanaso e pettegole che non siete altro!" Con queste parole si caricò sulle spalle un sacco pieno di pietre preziose e scivolò nella sua grotta fra le rocce. Le ragazze ormai erano abituate all’ingratitudine del nano e seguitarono la loro strada fino alla città, dove fecero le loro compere. Tornando a casa ripassarono da quella località e, senza accorgersene, attraversarono una radura sulla quale il nano, pensando d’essere solo, aveva sparso le pietre preziose del suo sacco. Il sole brillava e le pietre luccicavano rifrangendo i suoi raggi: c’era una tale varietà di colori che le bambine si fermarono ad ammirarli stupite. "Che cosa state a fare lì a bocca aperta?" domandò il nano, mentre il viso gli diventava paonazzo per la rabbia. Continuava a gridare improperi contro le povere fanciulle, quando si udì un ringhio e un grande orso nero venne fuori pesantemente dalla foresta. Il nano diede un balzo, terrorizzato, ma non fece in tempo a rientrare nel suo antro prima che l'orso lo raggiungesse. Allora gridò: "Risparmiami, caro signor orso, ti darò tutti i miei tesori, e anche queste pietre preziose. Concedimi la vita: che puoi temere da un piccolo essere come me? Non mi sentiresti nemmeno fra le tue zanne. Qui ci sono due bambine cattive, due teneri bocconcini, grasse come quaglie: mangia loro!"

L’orso però, senza darsi la pena di parlare, dette una zampata a quel nano senza cuore, che non si mosse più. Le bambine stavano per fuggire, ma l’orso le chiamò: "Biancarosa, Rosella, non temete, aspettatemi che vi accompagno!" Esse riconobbero allora la voce del loro amico e si fermarono rassicurate. Ma quando l’orso arrivò loro vicino, il suo mantello gli cadde di dosso e apparve uno splendido giovanetto, vestito tutto d'oro. "Sono il figlio di un re," disse, "ed ero stregato da quel nano cattivo che aveva rubato tutti i miei tesori, condannandomi a errare in questa foresta sotto forma di orso finché la sua morte non mi avesse liberato. Ora ha finalmente ricevuto il castigo che si meritava." Così se ne tornarono alla casetta: Biancarosa sposò il bel principe e Rosella il fratello di lui, e si divisero l’immenso tesoro che il nano aveva raccolto. La vecchia madre visse ancora felicemente per molti anni con le sue figliole; i rosai che stavano davanti alla casetta furono trapiantati davanti al palazzo, e ogni anno diedero delle bellissime rose rosse e delle rose bianche ancora più belle.
FINE





La guardiana delle oche alla fonte
tempo: 26'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 179



C'era una volta una donnetta vecchia, vecchissima, che viveva col suo branco di oche, in una radura fra i monti e là aveva una casetta. La radura era circondata da un gran bosco, ogni mattina la vecchia prendeva le stampelle e arrancava nel bosco. E la vecchia donna era molto occupata, molto di più di quanto competesse alla sua età: faceva erba per le sue oche, per sé coglieva frutta selvatica quella che si trovava a portata di mano, e portava a casa tutto sulla schiena. Si poteva pensare che quel gran peso potesse schiacciarla al suolo, invece lo portava a casa senza gran fatica. Se incontrava qualcuno lo salutava con molta gentilezza: "Buon giorno, compaesano, oggi il tempo è bello! Già, certo vi stupirete che mi tiri dietro quest'erba, ma ciascuno ha da prendersi il suo peso sulle spalle".

Ma la gente non la incontrava volentieri e preferiva allungar la strada, se un padre le passava accanto con il suo bambino, subito gli sussurrava: "Guardati da quella vecchia, è furba come il diavolo, è una strega". Una mattina veniva attraverso il bosco un bel giovane! Il sole splendeva alto, gli uccelli cantavano e fra gli alberi spirava una brezza fresca, ed egli era contento e felice. Non aveva ancora incontrato nessuno, quando d'un tratto scorse la vecchia strega inginocchiata che tagliava l'erba con la roncola. In un telo ne aveva già messo un bel pò, e lì accanto c'erano due cesti pieni di pere e di mele selvatiche. "Ma nonnina", disse egli, "come fai a portar via tutta questa roba?" "Debbo portarla, caro signore", rispose lei, "i figli dei ricchi non ne hanno bisogno. Ma presso i contadini si dice:

Non ti guardare attorno rimani gobbo tutto il giorno.

"Volete aiutarmi?", disse quando egli le si fermò accanto, "Voi avete la schiena bella dritta e le gambe giovani, per voi sarà facile. Poi la mia casa non è lontana: sta in una radura, là dietro quel monte. In due salti ci siete." Il giovane ebbe pietà della vecchia: "Veramente mio padre non è contadino", rispose, "è un conte e molto ricco, ma perché possiate vedere che non sono solo i contadini che sanno portar pesi, prenderò il vostro fastello". "Se volete provare", disse la vecchia, "mi farà di certo piacere! Certo c'è da camminare per un'ora, ma che vi importa! E dovete portarmi anche le mele e le pere." Il giovane conte si insospettì sentendo parlare di un'ora di cammino, ma la vecchia non lo lasciò più andare, gli cacciò il fieno sulla schiena e al braccio i due canestri. "Vedete, sono leggeri come la piuma", disse. "No, non sono per niente leggeri", rispose il conte con una smorfia di dolore, "il fascio d'erba pesa come se fosse di pietra, e le mele e le pere hanno un peso tale che paiono di piombo, quasi mi manca il fiato." Aveva voglia di piantar lì tutto, ma la vecchia non gli dava pace. "Guarda un pò", disse con voce beffarda, "il giovanotto non vuole portare quello che una vecchia come me si è tirata dietro tante volte. A dir belle parole son pronti tutti, ma se si fa sul serio se la vogliono svignare. "Cosa aspetta", proseguì, "dai si muova. Quel fagotto non glielo toglie più nessuno." Fino a che il giovane camminava sul piano, poteva ancora resistere, ma quando giunsero al monte e dovettero salire, e i sassi rotolavano sotto i piedi come se fossero vivi, allora non ce la fece più. Gocce di sudore gli bagnavano la fronte e gli scivolavano giù per la schiena, ora gelide ora cocenti. "Nonnina", disse, "non ce la faccio più debbo riposarmi un pò!" "Niente affatto", rispose la vecchia, "quando saremo arrivati potrete riposarvi, ma ora si va avanti. Chissà che non vi faccia bene." "Vecchia, sei veramente insolente", disse il giovane, e voleva gettare a terra il fardello, ma era tutto inutile, gli stava attaccato alla schiena come se l'erba avesse messo radici! Si girò e si scosse qua e là ma non riusciva a liberarsi. La vecchia rideva e saltava con la sua gruccia, tutta contenta. "Non arrabbiatevi, caro signore, diventate rosso in faccia come un tacchino", disse, "portate il fardello con pazienza e quando saremo a casa vi darò una buona mancia."

E lui cosa poteva fare? Dovette rassegnarsi al suo destino e trascinarsi con pazienza dietro alla vecchia. Questa pareva farsi sempre più contenta e giuliva e il carico sempre più pesante. D'un tratto ella fece un balzo, saltò sul fardello, vi ci si accomodò bene e, secca e magra com'era pesava più d'una bella contadinotta. Al giovane tremavano le ginocchia, ma se non proseguiva, la vecchia lo picchiava sulle gambe con una verga o con delle ortiche. Sempre lamentandosi, egli salì il monte e, alla fine, giunse alla casa della vecchia, proprio quando stava per stramazzare al suolo. Quando le oche videro la vecchia, alzarono le ali. allungarono il collo e le corsero incontro schiamazzando "qua qua". Dietro al branco, con una verga in mano, veniva una vecchia donna, grande e grossa e brutta come la notte. "Signora madre", disse questa alla vecchia "vi è capitato qualche cosa, siete stata via tanto!" "Tranquillizzati, figlia mia", rispose quella, "non mi è capitato niente di male, al contrario, questo buon signore ha portato il mio carico e, pensa, quando ero stanca, ha caricato anche me sulla sua schiena. La strada non ci è parsa affatto lunga, siamo stati in buona allegria e abbiamo scherzato assieme." Alla fine la vecchia scivolò giù fino per terra, gli tolse il fardello dalla schiena e i cesti dal braccio, lo guardò benevolmente e gli disse: "Adesso mettetevi sulla panca davanti all'uscio e riposate. Vi siete guadagnato il vostro compenso e lo avrete". Poi disse alla guardiana delle oche: "Tu va in casa, figlia mia, non va bene che rimani sola con un giovanotto, non si deve versar olio sul fuoco, potrebbe innamorarsi di te". Il conte non sapeva se piangere o ridere, "un tesoruccio come questo, anche se avesse trent'anni di meno, non toccherebbe certo il mio cuore".

Intanto la vecchia accarezzava e coccolava le sue oche come fossero bambini, poi entrò in casa con la figlia. Il giovane si sdraiò sulla panca sotto un melo selvatico. L'aria era dolce e tiepida, tutt'attorno si stendeva un bel prato verde. pieno di primule, timo selvatico e mille altri fiori, là in mezzo mormorava un ruscello limpido e sopra splendeva il sole, le tre oche bianche passeggiavano su e giù e si bagnavano nell'acqua. "E proprio bello qui", disse il giovane, "ma sono talmente stanco che non riesco a tener gli occhi aperti, dormirò per un pò. Basta che un colpo di vento non mi porti via le gambe, perché me le sento molli come la ricotta."

Dormiva da poco quando venne la vecchia e lo svegliò scrollandolo. "Alzati", disse, "non puoi restare qui. Ti ho tormentato. è vero, ma non ci hai poi rimesso la pelle. Ora avrai la tua ricompensa - denaro e beni non te ne servono, eccoti qualcosa d'altro." E gli mise in mano una scatoletta, ricavata da un unico smeraldo. "Conservala con cura", disse, "ti porterà fortuna." Il conte balzò in piedi e, sentendosi fresco e rinvigorito, ringraziò la vecchia del suo dono e si incamminò senza nemmeno voltarsi a rimirare la bella figlia. Aveva già fatto un bel pezzo di strada che ancora udiva l'allegro schiamazzare delle oche. In quella selvaggia radura il conte dovette vagare per tre giorni, prima di trovare la strada per uscire. Arrivò poi in una grande città e, siccome nessuno lo conosceva, lo condussero al castello reale, dove il re e la regina sedevano sul trono.

Il conte fece un inchino, trasse lo smeraldo di tasca e lo porse alla regina. Ma appena la regina l'aprì e vi guardò dentro, cadde a terra come morta. Il conte fu arrestato dai servitori del re e stavano proprio per portarlo in prigione, quando la regina riaprì gli occhi e gridò di lasciarlo libero e che tutti uscissero dalla sala perché voleva parlare da sola con lui. Quando furono soli, la regina scoppiò in lacrime e disse: "A cosa mi servono il lusso e gli onori che mi circondano se ogni mattina mi sveglio nell'ansia e nel dolore? Io ho avuto tre figlie, e la minore era talmente bella, che tutti ne rimanevano incantati! Era bianca come la neve, rosea come i fiori di melo e i suoi capelli brillavano come raggi di sole. Se piangeva, dai suoi occhi non cadevano lacrime, ma perle e pietre preziose! Quando ebbe quindici anni, il re fece comparire le figlie davanti a lui! Avreste dovuto vedere che occhi fece la gente quanto entrò la più piccola, pareva che sorgesse il sole". Il re disse: "Figlie mie, non so quando verrà il mio ultimo giorno e fino da ora voglio stabilire quello che ognuna di voi avrà dopo la mia morte! So che mi amate tutte e tre, ma quella che mi ama di più avrà la parte migliore". Ognuna disse che lo amava più delle altre. "Non sapetedirmi come mi amate?", rispose il re "così capirò il vostro pensiero." La maggiore disse: "Amo mio padre come il più dolce degli zuccheri". La seconda disse: "Amo mio padre come il vestito più bello". Ma la più piccola taceva. Allora il padre le chiese: "E tu mia carissima piccina, come mi ami?". "Non so, non so paragonare a nulla il mio amore", disse la più piccola. Ma il padre insisteva che nominasse qualche cosa. Alla fine ella disse: "Il miglior cibo non mi piace senza sale, così amo mio padre come il sale". All'udirla il re si indignò e disse: "Se mi ami come il sale, il tuo amore sarà ricompensato con il sale".

Divise il regno fra le due prime figlie e alla più piccola fece legare un sacco di sale sulla schiena e due servi dovettero condurla nel bosco selvaggio. "Tutti abbiamo pregato ed implorato per lei", disse la regina, "ma la collera del re fu implacabile! Come piangeva la povera piccola quando dovette lasciarci. Tutta la strada fu cosparsa dalle perle che sgorgavano dai suoi occhi. Ben presto il re si pentì della sua crudeltà e mandò a cercare la fanciulla per tutto il bosco, ma nessuno riuscì a trovarla. Quando penso che le bestie feroci l'avranno divorata sono fuori di me dal dolore, talvolta mi consolo e penso che sia ancora viva e che si sia nascosta in una grotta, o abbia trovato rifugio presso qualche anima buona. Ma pensate, quando ho aperto la vostra scatolina di smeraldo, dentro c'era una perla, proprio uguale a quelle che scorrevano dagli occhi di mia figlia. Potete immaginare come d mio cuore si sia commosso a quella vista. Ditemi ora da dove viene questa perla?"

Il conte raccontò che gliela aveva data la vecchia del bosco, e che gli era risultata strana, che probabilmente era una strega, ma la figlia della regina non l'aveva vista e non ne aveva sentito parlare. Il re e la regina vollero cercare la vecchia, pensavano che dove c'era la perla lì doveva esserci anche la loro figliola.

Fuori nella radura selvaggia sedeva la vecchia e filava. Era già buio e qualche pezzo di legna che ancora ardeva nel camino mandava una luce fioca. Fuori, d'un tratto ci fu un gran baccano. le oche tornavano dalla pastura e facevano delle grida roche. Poco dopo entrò anche la figlia. La vecchia rispose appena al suo saluto e crollò un poco la testa. La figlia sedette accanto a lei; prese l'arcolaio e si mise a filare, veloce come una fanciullina. Così continuarono per due ore senza scambiarsi parola. Alla fine si udì un fruscio alla finestra e guardarono dentro due grandi occhi di fuoco: era un vecchio gufo che per tre volte gridò "Uhu". La vecchia alzò appena gli occhi, poi disse: "ora è tempo, figliola, che tu esca a fare il tuo lavoro".

La figlia si alzò ed uscì. Ma dove andò? Attraverso i prati. giù giù fino alla valle, fino a che giunse ad una fonte dove c'erano tre vecchie querce. La luna era grande e tonda sopra la montagna ed era tanto chiaro che si sarebbe potuto trovare uno spillo. Ella si tolse una pelle che aveva sul viso, poi si chinò sulla fonte e cominciò a lavarsi. Quando ebbe finito immerse anche la pelle nell'acqua e la mise sul prato perché si imbiancasse e si asciugasse alla luce di quella luna. Ma come si era trasformata la ragazza! Una cosa del genere di certo non l'avete mai vista. Appena la treccia grigia cadde, ecco sgorgare i capelli d'oro come raggi di sole, e come un manto le ricoprirono tutta la persona. Non si vedevano che gli occhi, scintillanti come le stelle del cielo, e le guance ardevano di un tenue rosa, come fiori di melo. Ma la bella fanciulla era triste, sedette e pianse amaramente: una dopo l'altra le lacrime le scorrevano dagli occhi e rotolavano fra i lunghi capelli. Così stava e sarebbe rimasta a lungo, se non avesse udito uno scricchiolio e un fruscio fra i rami dell'albero vicino.

Balzò in piedi come un capriolo che sente lo sparo del cacciatore. Proprio in quel momento la luna fu coperta da una nuvola scura, in un attimo la fanciulla indossò la vecchia pelle e scomparve come una lampada spenta dal vento. Tremando come una foglia tornò a casa di corsa. La vecchia era sulla soglia e la fanciulla voleva narrarle quello che le era accaduto, ma la vecchia rise con benevolenza e disse: "So già tutto". La condusse nella stanza e buttò un altro legno sul fuoco. Ma non tornò a sedersi all'arcolaio, prese una scopa e si mise a spazzare e a strofinare. "Deve essere tutto lindo e pulito", disse alla fanciulla. "Ma madre, perché vi mettere al lavoro così tardi? Cosa volete fare?" "Sai che ore sono?", domandò la vecchia. "Non ancora mezzanotte", rispose la fanciulla, "ma le undici sono sicuramente passate" "Non ricordi?", proseguì la vecchia "oggi sono tre anni che sei venuta da me. Il tuo tempo è trascorso, non possiamo più rimanere assieme." La fanciulla si spaventò e disse: "Cara mamma, volete scacciarmi? Dove andrò mai? Non ho casa né amici a cui rivolgermi. Ho fatto tutto quello che mi avete ordinato, di me siete sempre stata contenta, non scacciatemi". La vecchia non voleva dirle quello che l'aspettava. "Io non posso più stare qui", le disse, "ma prima che me ne vada tutto deve essere pulito, perciò non trattenermi nel mio lavoro. Quanto a te, non preoccuparti, avrai un tetto sotto cui abitare e poi sarai contenta del compenso che ti darò." "Ma ditemi almeno cosa mi accadrà", disse ancora la fanciulla. "Ti ripeto, non disturbarmi nel lavoro. Non parlare più e vattene nella tua stanza, togliti la pelle dal viso e mettiti l'abito di seta che portavi quando sei venuta da me e poi aspetta fino a che ti chiamerò." Ma torniamo al re e alla regina, che erano partiti con il giovane conte e volevano ritrovare la vecchia della radura selvaggia. Di notte il conte li aveva preceduti nel bosco e poi perduti, così dovette proseguire da solo. Il giorno dopo gli era parso d'essere sulla strada giusta. Continuò a camminare finché si fece buio, e allora salì su di un albero per passarvi la notte perché temeva di smarrirsi di nuovo. Quando la luna illuminò il bosco, scorse una figura che scendeva dal monte. Non aveva in mano la verga, ma egli la riconobbe come la guardiana delle oche, che aveva visto presso la casa della vecchia. "Eccola", pensò, "se c'è una delle streghe non mi sfuggirà nemmeno l'altra." Ma rimase di sasso, quando ella si accostò alla fonte, si tolse la pelle, si lavò e le si sciolsero i capelli d'oro. Era così bella come mai ne aveva vista qualcuna al mondo. Egli osava appena respirare, ma allungò il collo fra le foglie più che gli era possibile, senza togliere gli occhi di dosso. O che si fosse sporto troppo, o per qualche altro mo¬tivo, d'un tratto il ramo scricchiolò, e subito la fanciulla si infilò la pelle e corse via come un capriolo. In quell'istante si coprì la luna ed egli non la vide più.

Appena fu sparita, il conte scese dall'albero e l'inseguì di corsa. Non aveva fatto molta strada, quando nella fioca luce scorse due figure che vagavano per il prato. Erano il re e la regina, che da lontano avevano scorto la luce nella casetta della vecchia, e là dirigevano i loro passi! Il conte narrò loro di quale meraviglia era stato spettatore alla fonte ed essi non dubitarono che quella fosse proprio la loro figliola perduta. Arrivarono pieni di gioia alla casetta, le oche stavano attorno alla casa con la testolina sotto l'ala e dormivano, e nessuna di loro si mosse. Essi guardarono dalla finestra. La vecchia sedeva in silenzio e filava. faceva solo un cenno di assenso con la testa, ma non si guardava mai attorno. Tutto nella stanza ora era pulitissimo, come se ci abitassero gli omini della nebbia, che mai hanno i piedi impolve¬rati. Ma non videro la loro figliola. Per un pò stettero a guardare ben bene, poi si fecero coraggio e bussarono piano piano alla finestra. Parve che la vecchia li aspettasse, si alzò e gridò allegramente: "Entrate pure, vi conosco già". Quando furono dentro. ella disse: "Avreste potuto risparmiarvi questo lungo cammino, se tre anni fa non aveste scacciato ingiustamente vostra figlia, che è tanto buona ed affettuosa. A lei non ho fatto alcun male. per tre anni ha dovuto custodir le oche, così non ha imparato nulla di male e ha mantenuto puro il suo cuore. Ma voi siete stati puniti abbastanza dall'angoscia nella quale siete vissuti". Poi si avvicinò alla stanza e chiamò: "Esci, piccina mia!". La porta si aprì e la principessa comparve nella sua veste di seta, coi suoi capelli d'oro e gli occhi come stelle, e parve che un angelo fosse sceso dal cielo.

Si accostò ai genitori, li abbracciò e baciò e tutti piansero di gioia. Il giovane conte era accanto a loro, e quando ella lo vide si fece rossa in viso come una rosa muschiata, e lei stessa non sapeva il perché. Il re disse: "Il mio regno lo ho donato, cara bambina, cosa devo darti?". "Non ha bisogno di nulla", disse la vecchia, "io le dono le lacrime che ha pianto per voi, sono perle, più belle di quelle che si trovano nel mare, e valgono più di tutto il vostro regno! E in compenso dei suoi servigi le lascio la mia casetta." Detto ciò la vecchia sparì. Si udì un lieve scricchiolio nelle pareti e, come si guardarono attorno, videro che la casetta si era trasformata in un meraviglioso palazzo, una tavola regale era già apparecchiata e i servitori correvano qua e là.

La storia continua, ma mia nonna che me la ha raccontata, aveva ormai poca memoria, e il resto se l'era dimenticato. Comunque immagino che la bella principessa abbia sposato il conte e che siano rimasti assieme al castello e che là abbiano vissuto, fino a che Dio lo ha permesso, in tutta felicità. Se poi le candide oche custodite vicino al castello fossero tutte fanciulle (nessuna se ne abbia a male) che la vecchia aveva tenuto con sé e che poi abbiano ripreso figura umana, e siano divenute ancelle della giovane regina, su ciò non so niente di preciso, ma credo proprio di sì.

Certo quella vecchia non era una strega, come la gente pensava, ma una vecchia saggia che faceva del bene. Probabilmente, alla nascita della principessa, era stato proprio suo il dono di pianger perle invece che lacrime. Oggi non succede più, altrimenti i poveri diverrebbero presto ricchi.
FINE





San Giuseppe nel bosco
tempo: 8'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 201



C'era una volta una madre che aveva tre figlie: la maggiore era scortese e cattiva, la seconda era già molto meglio, benché‚ avesse anche lei i suoi difetti, mentre la più giovane era una bimba buona e pia. Eppure la madre era così stravagante che prediligeva proprio la figlia maggiore e non poteva soffrire la minore. Per questo mandava sovente la povera bambina in un gran bosco, per levarsela di torno; pensava infatti che si sarebbe persa e che non sarebbe più tornata. Ma l'angelo custode, che ogni bimbo buono ha con s‚, non l'abbandonava e la riportava sempre sulla strada giusta. Tuttavia una volta la bimba non riuscì a trovare la strada per uscire dal bosco e l'angioletto finse di non esserci. Così ella continuò a camminare fino a sera; allora vide in lontananza ardere un lumicino, corse verso quella luce e arrivò davanti a una piccola capanna. Bussò, la porta si aprì ed ella giunse a una seconda porta, alla quale bussò di nuovo. Le aprì un vecchio che aveva la barba bianca e un aspetto venerando, e non era altri che san Giuseppe. Egli le disse benevolmente: -Vieni, bimba cara, siediti sulla mia seggiolina accanto al fuoco e scaldati; se hai sete andrò a prenderti un po' d'acqua limpida; da mangiare invece, qui nel bosco, non ho altro per te che qualche radichetta; e prima devi raschiarle e farle cuocere-. San Giuseppe le porse le radici; ella le raschiò ben bene, poi prese un pezzetto di frittata e il pane che le aveva dato la madre, mise tutto insieme in un pentolino sul fuoco e si fece una pappa. Quando la pappa fu pronta, san Giuseppe disse: -Ho tanta fame, dammi un po' della tua cena-. La bimba lo servì subito e gli diede di più di quello che tenne per s‚, ma con la benedizione di Dio si sfamò. Quand'ebbero finito di mangiare, san Giuseppe disse: -Adesso andiamo a dormire, però io ho un letto solo: vacci tu, io mi stenderò per terra sulla paglia-. -No- rispose la bimba -rimani pure nel tuo letto; per me la paglia è abbastanza morbida.- Ma san Giuseppe la prese in braccio e la portò nel lettino, e la bimba disse le sue preghiere e si addormentò. La mattina dopo, quando si svegliò, voleva dare il buon giorno a san Giuseppe, ma non lo vide. Si alzò, lo cercò, ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte; alla fine scorse dietro la porta un sacco con del denaro, ma così pieno che poteva appena portarlo; sopra c'era scritto che era per la bimba che aveva dormito là quella notte. Allora ella prese il sacco, corse via e arrivò felicemente da sua madre; e siccome le regalò tutto il denaro, la madre non poté‚ che essere contenta di lei. Il giorno seguente anche la seconda figlia ebbe voglia di andare nel bosco. La madre le diede un pezzo di frittata molto più grosso e del pane. Le cose andarono come per l'altra sorella. La sera giunse alla capannuccia di san Giuseppe, che le diede le radici per la pappa. Quando la pappa fu cotta, egli disse anche a lei: -Ho tanta fame, dammi un po' della tua cena-. La bimba rispose: -Mangia pure con me-. Poi, quando san Giuseppe le offrì il suo letto e volle coricarsi sulla paglia, ella rispose: -No, vieni anche tu nel letto: c'è posto per tutt'e due-. San Giuseppe la prese in braccio, la mise nel lettino e si coricò sulla paglia. La mattina, quando la bimba si svegliò e cercò san Giuseppe, egli era scomparso; ma dietro la porta ella trovò un sacchetto di denaro lungo un palmo, e c'era scritto che era per la bimba che aveva dormito là quella notte. Ella prese il sacchetto, corse a casa e lo portò a sua madre; però tenne per s‚ di nascosto un po' di denaro. Ora si era incuriosita la figlia maggiore, e il mattino dopo volle andare nel bosco anche lei. La madre le diede frittata a volontà, pane, e in più del formaggio. La sera, proprio come le altre due, ella trovò san Giuseppe nella sua capannuccia. Quando la pappa fu pronta e san Giuseppe disse: -Ho tanta fame, dammi un po' della tua cena- la fanciulla rispose: -Aspetta ch'io sia sazia: ti darò quel che avanzo-. E mangiò quasi tutto, sicché‚ san Giuseppe dovette raschiare la ciotolina. Poi il buon vecchio le offrì il suo letto e volle coricarsi sulla paglia; ella accettò senz'altro, si coricò nel lettino e lo lasciò sulla paglia dura. Il mattino dopo, quando si svegliò, san Giuseppe non c'era, ma ella non se ne curò; cercò invece il sacco del denaro dietro la porta. Le sembrò che ci fosse qualcosa per terra, tuttavia, poiché‚ non riusciva a capir bene cosa fosse, si piegò e ci urtò contro con il naso. E al naso le rimase attaccato e, quando si rialzò, vide con terrore che era un altro naso, saldamente appiccicato al suo. Incominciò a gridare e a lamentarsi, ma non servì a nulla: vedeva sempre quel naso, che stava così in fuori. Allora corse via urlando, finché‚ incontrò san Giuseppe; gli cadde ai piedi, e lo supplicò tanto che egli, impietosito, le tolse quel naso e le regalò ancora due centesimi. Quando giunse a casa, la madre l'aspettava sulla porta e le domandò: -Cos'hai ricevuto in regalo?-. La fanciulla mentì e disse: -Un grosso sacco pieno di denaro, ma l'ho perso per strada-. -Perso!- esclamò la madre. -Oh, lo ritroveremo!- La prese per mano e voleva cercarlo con lei. Dapprima la fanciulla si mise a piangere e non voleva andare, alla fine però si mosse; ma per strada furono assalite da tante lucertole e serpi, che non sapevano come porsi in salvo. La fanciulla cattiva fu così uccisa dai loro morsi, e la madre fu morsa in un piede, perché‚ non l'aveva educata meglio.
FINE





I dodici apostoli
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 202



Trecento anni prima della nascita di Cristo, viveva una madre che aveva dodici figli, ma era così povera e misera che non sapeva come tenerli in vita. Pregava il Signore ogni giorno di concederle che tutti i suoi figli vivessero sulla terra insieme al promesso Redentore. Dato che la loro miseria si faceva sempre più grande, li mandò uno dopo l'altro in giro per il mondo per guadagnarsi il pane. Il maggiore si chiamava Pietro: se ne andò e aveva già camminato per un intero giorno, quando capitò in un gran bosco. Cercò una via per uscirne, ma non la trovò e si addentrò sempre più, era così affamato che a stento si reggeva in piedi. Alla fine era tanto indebolito che dovette distendersi e credette di essere vicino a morire. D'un tratto gli fu accanto un bambino splendente, bello e gentile come un angelo. Il bimbo batté‚ le manine, sicché‚ egli dovette alzare gli occhi e guardarlo. Il bimbo disse: -Perché‚ te ne stai qui tutto triste?-. -Ah- rispose Pietro -vado in giro per il mondo a procurarmi il pane per poter vivere e riuscire a vedere il promesso Redentore: è il mio desiderio più grande.- Il bimbo disse: -Vieni come me e il tuo desiderio sarà esaudito-. Prese Pietro per mano e lo condusse in una caverna. Come entrarono tutto sfolgorava d'oro, d'argento e cristallo, e in mezzo c'erano dodici culle, l'una accanto all'altra. Allora l'angioletto disse: -Coricati nella prima e dormi un poco, io ti cullerò-. Pietro ubbidì e l'angioletto gli cantò la ninna nanna e lo cullò finché‚ non fu addormentato. E, mentre dormiva, arrivò il secondo fratello, condotto anche lui dal suo angelo custode, e anche lui fu cullato finché‚ si addormentò. E così arrivarono anche gli altri, l'uno dopo l'altro, fino a quando tutti e dodici giacquero dormendo nelle culle d'oro. Dormirono per trecento anni, fino alla notte in cui nacque il Redentore. Allora si svegliarono, vissero con lui sulla terra e furono chiamati i dodici apostoli.
FINE





La rosa
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 203



C'era una volta una povera donna che aveva due bambini. Il più piccolo doveva andare tutti i giorni nel bosco a fare legna. Una volta che si era spinto molto lontano a cercarla, gli si avvicinò un piccino, che era tutto bello, lo aiutò premurosamente a raccogliere la legna, e gliela portò anche fino a casa; ma poi in un batter d'occhio sparì. Il bambino lo raccontò a sua madre, ma ella non voleva crederci. Infine egli le portò una rosa e raccontò che gliel'aveva data il bel bambino, e gli aveva detto che sarebbe tornato quando la rosa fosse sbocciata. La madre mise la rosa nell'acqua. Una mattina il bimbo non si alzò, la madre si avvicinò al letto e lo trovò morto: ma là disteso era tutto bello. E proprio quel mattino la rosa era sbocciata.
FINE





Umiltà e povertà portano in cielo
tempo: 3'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 204



C'era una volta un principe che un giorno se ne andava per i campi, triste e pensieroso. Guardò il cielo, così limpido e azzurro, sospirò e disse: "Come si deve stare bene lassù!" In quel mentre scorse un vecchio mendicante che passava di là, gli rivolse la parola e domandò: "Come posso andare in cielo?" L'uomo rispose: -Con umiltà e povertà. Mettiti i miei stracci, erra sette anni per il mondo e impara a conoscerne la miseria; non prendere denaro, e quando hai fame prega le persone pietose di darti un pezzetto di pane, e ti avvicinerai al cielo-. Il principe si tolse l'abito lussuoso, indossò quello del mendicante e se ne andò per il mondo sopportando la più nera miseria. Accettava soltanto un po' di cibo, non parlava e pregava il Signore che volesse accoglierlo un giorno in cielo. Quando furono trascorsi i sette anni, tornò al castello di suo padre, ma nessuno lo riconobbe. Disse ai servi: -Andate, e dite ai miei genitori che sono tornato-. Ma i servi non gli credettero, risero e non gli badarono. Allora egli disse: -Andate, e dite ai miei fratelli di scendere: desidero tanto rivederli!-. I servi non volevano fare neppure questo, ma alla fine uno di loro andò e lo disse ai figli del re; ma questi non ci credettero e non se ne curarono. Allora egli scrisse una lettera a sua madre e le raccontò tutta la sua miseria, ma non le disse di esser suo figlio. La regina, impietosita, gli fece dare un posto nel sottoscala, e ogni giorno dei servi dovevano portargli da mangiare. Ma uno dei due era cattivo e diceva: -Che se ne fa il mendicante di questi cibi prelibati!- e se li teneva per s‚ o li dava ai cani; e al principe, debole e consunto, non portava che acqua. L'altro invece era onesto e gli portava quel che gli davano per lui. Era poco, e tuttavia poté‚ tenerlo in vita per qualche tempo. Egli sopportava tutto con pazienza, ma s'indeboliva sempre di più. Quando la malattia si aggravò, chiese di ricevere il Viatico. Durante la messa, tutte le campane della città e dei dintorni incominciarono a suonare. Dopo la messa, il sacerdote si recò dal povero nel sottoscala, ed egli giaceva morto, con una rosa in una mano e un giglio nell'altra; e accanto a lui c'era un foglio di carta, dov'era scritta la sua storia. Quando fu sepolto, su un lato della tomba crebbe una rosa, sull'altro un giglio.
FINE





Il cibo di Dio
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 205



C'erano una volta due sorelle: una non aveva figli ed era ricca, mentre l'altra aveva cinque figli, era vedova e cosi povera che non aveva neanche il pane per sfamare se stessa e i suoi bambini. Allora, in quegli stenti, andò dalla sorella e disse: -Io e i miei bambini patiamo la fame. Tu sei ricca, dammi un po' di pane-. Ma la riccona aveva anche il cuore di pietra e disse: -Anch'io non ho niente in casa-. E scacciò la povera in malo modo. Dopo un po', rincasò il marito della sorella ricca e voleva tagliarsi un pezzo di pane. Ma non appena vi affondò il coltello, ne uscì sangue vermiglio. A quella vista, la donna inorridì e raccontò quel che era successo. Egli allora corse dalla vedova per darle aiuto, ma entrando nella stanza la trovò che stava pregando: teneva in braccio i due bambini più piccoli, mentre i tre più grandi giacevano a terra morti. Egli le offrì del cibo, ma ella rispose: -Non abbiamo più bisogno di cibo terreno: Dio ne ha già saziati tre, e presto esaudirà anche le nostre preghiere-. Aveva appena pronunciato queste parole, che i due piccini resero l'ultimo respiro, e subito dopo si spezzò anche il suo cuore ed ella cadde morta.
FINE





I tre ramoscelli verdi
tempo: 7'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 206



C'era una volta un eremita che viveva in un bosco ai piedi di un monte e trascorreva il suo tempo in preghiera e opere pie; e ogni sera portava ancora due secchi d'acqua su per il monte, per amor di Dio. Quell'acqua dissetava molti animali e ristorava molte piante, perché‚ sulle cime soffia sempre un vento forte che prosciuga l'aria e la terra; e gli uccelli selvatici, che temono gli uomini, roteano su in alto nel cielo, cercando un po' d'acqua con l'occhio acuto. E poiché‚ l'eremita era tanto pio, un angelo del Signore, visibile al suo sguardo, lo accompagnava su per il monte, contava i suoi passi e gli portava da mangiare, quando egli aveva finito il suo lavoro; come quel profeta che per volere di Dio era nutrito dai corvi. Quando l'eremita, nella sua santità, era già arrivato a un'età venerabile, gli accadde un giorno di vedere da lontano un malfattore condotto alla forca. E disse fra sé: -Ha quel che si merita!-. La sera, quando portò l'acqua sul monte, l'angelo, che solitamente lo accompagnava, non apparve, n‚ gli portò da mangiare. Allora egli si spaventò, interrogò il suo cuore, pensando a quale colpa potesse avere commesso, dato che Dio era in collera; ma non lo sapeva. Non mangiò né‚ bevve, si gettò a terra e pregò giorno e notte. E una volta che piangeva amaramente nel bosco, udì il canto soave di un uccellino; allora si afflisse ancora di più ed esclamò: -Come canti felice! Il Signore non è in collera con te. Ah, se tu potessi dirmi come l'ho offeso, perché‚ ne faccia ammenda, e il mio cuore si rassereni!-. Allora l'uccellino si mise a parlare e disse: -Hai avuto torto nel condannare un povero peccatore condotto alla forca; per questo Iddio è in collera con te. Ma se vuoi fare ammenda e pentirti del tuo peccato, egli ti perdonerà-. Ed ecco gli apparve l'angelo con in mano un ramo secco e gli disse: -Devi portare questo ramo secco fino a quando ne spunteranno tre verdi ramoscelli; e di notte, quando vuoi dormire, lo metterai sotto il tuo capo. Mendicherai il tuo pane di porta in porta e non passerai due notti sotto lo stesso tetto. Questa è la penitenza che ti impone il Signore-. Allora l'eremita prese il pezzo di legno e tornò nel mondo, che non vedeva da tanto tempo. Non bevve e non mangiò nulla all'infuori di quello che gli davano di porta in porta. Ma molte preghiere non erano ascoltate e molte porte rimanevano chiuse, sicché‚ spesso per interi giorni egli non riceveva neanche una crosta di pane. Una volta era andato di porta in porta da mane a sera, nessuno gli aveva dato nulla, nessuno voleva accoglierlo per la notte; allora egli andò in un bosco e trovò finalmente un grotta da cui era stata ricavata una casa; e dentro c'era una vecchia. Egli disse: -Buona donna, ospitatemi in casa vostra per questa notte!-. Ma ella rispose: -No, non posso, anche se lo volessi. Ho tre figli che sono cattivi e crudeli: se tornano dalla loro scorreria e vi trovano, ci ammazzano tutt'e due-. L'eremita disse: -Lasciatemi restare! Non faranno nulla n‚ a voi n‚ a me-. E siccome la donna era caritatevole, si lasciò convincere. Cosi l'eremita si coricò sotto la scala e mise il pezzo di legno sotto il suo capo. A quella vista, la vecchia gliene domandò la ragione ed egli le raccontò che lo portava sempre con s‚ per penitenza e di notte lo usava come cuscino. Aveva offeso il Signore perché‚ vedendo un povero peccatore che andava al supplizio, aveva detto che se lo meritava. Allora la donna si mise a piangere e gridò: -Ah, se il Signore punisce solo per una parola, che sarà mai dei miei figli, quando compariranno a giudizio davanti a Lui?-. A mezzanotte tornarono a casa i briganti con strepito e fracasso. Accesero un fuoco, e quando le fiamme illuminarono la grotta, ed essi videro un uomo coricato sotto la scala, andarono su tutte le furie e gridarono alla madre: -Chi è quell'uomo? Non ti abbiamo forse ordinato di non accogliere nessuno?-. La madre disse: -Lasciatelo stare, è un povero peccatore che fa penitenza-. I briganti domandarono che cosa avesse fatto, e gridarono: -Vecchio, raccontaci i tuoi peccati!-. Il vecchio si alzò e narrò come, con un'unica parola, avesse tanto peccato che Dio si era adirato con lui, e ora egli doveva espiare questa colpa. I briganti furono così colpiti dal suo racconto, che ebbero orrore della loro vita passata, si ricredettero e, sinceramente pentiti, incominciarono a scontare la loro colpa. Dopo aver convertito i tre peccatori, l'eremita tornò a coricarsi sotto la scala. Ma al mattino lo trovarono morto; e dal legno secco, sul quale posava il capo, erano cresciuti tre ramoscelli verdi. Il Signore lo aveva di nuovo accolto nella sua grazia.
FINE




Il bicchierino della Madonna
tempo: 1'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 207



Una volta un carro con un pesante carico di vino si era impantanato sicché‚ il carrettiere, per quanti sforzi facesse, non riusciva a liberarlo. Proprio in quel momento la Madonna passava di là e, vedendo l'imbarazzo in cui si trovava quel pover'uomo, gli disse: -Sono stanca e assetata: dammi un bicchiere di vino e ti libererò il carro-. -Volentieri- rispose il carrettiere. -Ma non ho da darti il bicchiere per bere.- Allora la Madonna colse un fiorellino bianco striato di rosso che si chiama vento del campo e assomiglia a un bicchiere, e lo porse al carrettiere. Questi lo riempi di vino, la Madonna bevve, e in quello stesso istante il carro fu libero. Il fiorellino si chiama ancora oggi il bicchierino della Madonna.
FINE





La vecchierella
tempo: 2'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 208



In una grande città c'era una vecchierella che una sera se ne stava sola in camera sua; e pensava a come avesse perduto prima il marito, poi i due figli, uno dopo l'altro tutti i parenti e infine, quello stesso giorno, anche l'ultimo amico, e a come fosse ormai sola e abbandonata. Era profondamente afflitta, e ciò che soprattutto l'angustiava era la morte dei due figli, tanto che, nel suo dolore, ne rimproverò Dio. Così sedette a lungo, in silenzio, e tutta assorta in se stessa, quando d'un tratto udì suonare le campane della prima messa. Ella si meravigliò di aver vegliato tutta la notte in pena, accese la sua lanterna e andò in chiesa. Quando arrivò, la chiesa era già illuminata, ma non da candele, come al solito, bensì da una luce crepuscolare. Inoltre era già piena di gente, tutti i posti erano occupati, e quando la vecchierella giunse al suo, non era più libero neanche quello: tutto il banco era pieno. E quando ella guardò la gente, erano tutti i parenti morti che sedevano là, nei lori abiti fuori moda e pallidi in volto. Non parlavano né cantavano, ma la chiesa era attraversata da lievi soffi e sussurri. Ed ecco, una parente si alzò, si avvicinò alla vecchierella e le disse: -Guarda verso l'altare e vedrai i tuoi figli-. La vecchia guardò e li vide tutt'e due: l'uno pendeva dalla forca, mentre l'altro era legato alla ruota. Allora la parente disse: -Vedi, questa sarebbe stata la loro fine, se fossero rimasti in vita e Dio non li avesse chiamati a s‚, bambini innocenti-. La vecchia andò a casa tutta tremante e ringraziò Dio in ginocchio, per averla beneficata più di quello ch'ella non avesse capito. E tre giorni dopo si mise a letto e morì.
FINE





Le nozze celesti
tempo: 4'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 209



Una volta, in chiesa, un povero contadinello udì il parroco che diceva: -Chi vuole arrivare nel regno dei cieli, deve sempre andare diritto-. Allora egli si mise in cammino e andò sempre diritto, senza mai cambiare direzione, per monti e per valli. Alla fine la strada lo condusse in una gran città e in mezzo alla chiesa, dove si stava appunto celebrando la messa. Quando vide tutta quella magnificenza, egli credette di essere arrivato in cielo, si mise a sedere ed era tutto contento. Finita la messa, quando il sagrestano gli ordinò di uscire, egli rispose: -No, non voglio uscire, sono felice di essere finalmente in cielo-. Allora il sagrestano andò dal parroco e gli disse che in chiesa c'era un bambino che non voleva più uscire perché‚ credeva di essere nel regno dei Cieli. Il parroco disse: -Se lo crede, lascialo pure-. Poi andò dal ragazzo e gli chiese se aveva voglia di lavorare. Sì, rispose il bambino, a lavorare c'era abituato, ma dal cielo non voleva più andarsene. Così rimase in chiesa, e quando vide la gente che andava a inginocchiarsi e a pregare davanti all'immagine, scolpita in legno, della Madonna con Gesù Bambino, pensò che fosse il buon Dio e disse: -Senti un po', buon Dio, come sei magro! Sicuramente ti fanno patire la fame: ti porterò io, ogni giorno, metà del mio pasto-. Da allora in poi, ogni giorno, portava metà del suo pasto alla statua, e la statua si mise a mangiare. Dopo un paio di settimane, la gente si accorse che la statua si era fatta più grande e diventava forte e robusta, e si meravigliò. Anche il parroco non riusciva a capirci nulla, cosi rimase in chiesa, seguì il bambino e vide che divideva il suo pane con la Madonna, e questa l'accettava. Dopo qualche tempo il ragazzo s'ammalò e non pot‚ lasciare il letto per otto giorni; ma come si alzò, la prima cosa che fece fu portare il suo cibo alla Madonna. Il parroco lo seguì e sentì che diceva: -Buon Dio, non avertene a male se per tanto tempo non ti ho portato nulla: sono stato malato e non potevo alzarmi-. Allora la statua gli rispose: -Ho visto la tua buona volontà, e ciò mi basta. Domenica prossima verrai a nozze con me-. Il fanciullo si rallegrò e lo disse al parroco, e questi lo pregò di andare dalla statua e di domandarle se poteva andarci anche lui. -No- rispose la statua -tu solo.- Il parroco volle prepararlo e dargli la comunione e il ragazzo ne fu contento. La domenica seguente, quando ricevette l'ostia consacrata, cadde a terra morto: era alle nozze eterne.
FINE

*** NEMO PROFETA IN PATRIA ***

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